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| << | < | > | >> |IndiceVII Uscire dal Novecento Oltre il Novecento Parte prima. I deliri dell'«homo faber» 5 1. «Voici le temps des assassins» 6 2. La distruttività in cifre 10 3. Eterogenesi dei fini 14 4. Comunismo 18 5. Auschwitz 21 6. Hiroshima 25 7. Alle radici del «mostruoso» 33 8. Il Lavoro luogo della perdita 41 9. Jünger e Gramsci. Ovvero l'Operaio Totale 49 10. Céline. La vita biologica «messa al lavoro» 56 11. Bataille. La « Dépense » come lavoro 64 12. «Colpa metafisica» e caduta del legame sociale 69 13. Il doppio circuito della mercificazione 79 14. La breccia Parte seconda. I dilemmi dell'«uomo flessibile» 91 1. Una piccola, inutile scatola nera... 97 2. Sul rapporto tra rivolta (culturale) e rivoluzione (tecnologica) 110 3. Fordismo addio. La prima radice del post-fordismo 119 4. La seconda radice del post-fordismo 129 5. La terza radice. Il sesso dei lavoro 138 6. Verso un «politeismo dei lavori» 143 7. Uscita di sicurezza 149 8. Tecnologia della liberazione? 158 9. Fenomenologia dell'esodo 171 10. Spore 178 11. Nella «rete» del lavoro totale Parte terza. I peccati della politica e il futuro dell'uomo solidale 197 1. Le antinomie della militanza 204 2. Umanesimo e terrore 214 3. Il «lavoro della storia» e i suoi feticci 223 4. Il «peccato originale» del comunismo novecentesco 228 5. Il libro nero. Excursus sulla violenza comunista 237 6. La guerra del «politico» contro il «sociale» 246 7. Una «macchina per fare la storia» 257 8. Dalla «fabbrica come partito» al «partito come fabbrica» 269 9. La società come «opera» e il regno delle cose 276 10. Verso una conclusione... La danza immobile 282 11. Il ritorno dell'uomo solidale |
| << | < | > | >> |Pagina VIIUscire dal NovecentoIl secolo è finito. Piú di dieci anni or sono, dal punto di vista storico e politico. Pochi mesi or sono da quello formalmente temporale. E tuttavia la sensazione che questa fine comunica è quella di un falso movimento, d'un arresto, o di una inspiegabile difficoltà a procedere. Come nell' Angelo sterminatore di Buñuel, anche noi stiamo immobili al di qua d'una soglia già cronologicamente infranta, forse ormai fuori con le nostre fiammanti tecnologie e l'effimera mutevolezza delle nostre mode, ma mentalmente prigionieri d'un secolo che ci trattiene con la forza spenta delle sue antitesi non risolte. Con la potenza impalpabile dei suoi fantasmi non placati. E se anche si varca quella soglia, è difficile sfuggire all'impressione da trompe l'oeil - anch'essa intrinsecamente auto-contraddittoria, vero e proprio ossimoro spaziale - di un finto oltrepassamento: come dell'uscire in un interno. O del risalire precipitando. In realtà il Novecento finisce ripresentandoci - irrisolti - quasi tutti i nodi che, drammaticamente, con la potenza e la violenza, con le sue mobilitazioni totali e i suoi artifici mortali, aveva tentato di tagliare. Giano bifronte, esso ci trattiene tra le sue spire col gioco delle sue ambivalenze radicali, dei paradossi che l'hanno attraversato spingendolo ad essere, in senso proprio, il secolo degli opposti, sempre estremi, sempre assoluti - democrazia e dittatura, ricchezza e miseria, progresso e barbarie, potenza e impotenza... - mai capaci di una soluzione stabile, d'un equilibrio definitivo. A cominciare da quella che forse ne è stata l'ambivalenza piú devastante, il paradosso che ancor oggi ci paralizza: la clamorosa contraddizione tra l'onnipotenza dei mezzi tecnici che il secolo ha trovato a propria disposizione - senza dubbio superiore a quella mai raggiunta in ogni altra epoca storica -, e la drammatica incapacità da esso dimostrata di raggiungere, senza pagare un prezzo sproporzionato, pressoché tutti i propri fini (sociali, etici e politici). Il dislivello disperante tra l'ossessiva volontà di costruzione del mondo, che ne ha acceso la febbre del fare, e la fragile, incompleta e alla fine dissolta, capacità di controllo sulla distruttività delle proprie macchine e dei propri gesti. Il Novecento è stato - come negarlo? - il secolo dell' homo faber. Quello in cui, quasi con ferocia, l'uomo è stato ridotto alla sua funzione produttiva, ed il mondo a realtà fabbricata. Sulla centralità del fare è stata immaginata la sua antropologia, sulla pervasività della produzione è stata ridisegnata la sua società, sulla totalità del lavoro è stata rifondata la sua etica. Si può immaginare che, forse, nel gene dell' homo faber siano da ricercare anche le radici del male profondo che ha minato la biografia politica del secolo: i suoi deliri, la smisurata volontà di potenza che l'ha devastato, l'estensione che vi hanno avuto l'oppressione e la violenza, inestricabilmente intrecciate con la febbrile volontà di liberazione e di emancipazione. In sostanza, tutto ciò che fino ad ora eravamo soliti attribuire all'opposta patologia dell' homo ideologicus: alla sua arcaicità (al suo essere «fuori tempo»), alla sua irrazionalità, al suo rifiuto di accettare la logica delle cose; quando invece - questo è il tarlo che si vuole qui insinuare - proprio dalla logica delle cose ormai senza piú limiti né contrappesi, dallo scatenamento di un mondo ridotto a «mondo delle cose», sembrerebbe provenire la distruttività della politica novecentesca ogniqualvolta ha preteso di sollevarsi dal livello della pura amministrazione. E insieme quel desolante senso di fragilità e d'impotenza degli uomini che l'hanno incarnata: la loro patetica incapacità di controllare gli esiti di ciò che di volta in volta avevano posto in movimento ed evocato. Da questo punto di vista è senza dubbio Auschwitz il luogo estremo di caduta, dove letteralmente gli uomini, i loro corpi, la nuda vita furono ridotti a materia di lavoro, usati e distrutti come cose; e dove, occorre aggiungere, «quasi nessuno dei principi etici che il nostro tempo ha creduto di poter riconoscere come validi ha retto alla prova decisiva» (G. Agamben). Ma è piuttosto dentro la vicenda del comunismo novecentesco - la sua irresistibile ascesa e poi la sua caduta e fine, le sue promesse e i suoi esiti - che occorre guardare se si vuole, al di fuori della dimensione abbacinante del «male assoluto», gettare lo sguardo sulla natura profonda del secolo e sulle sue antinomie selvagge. Nato dal progetto prometeico di dare forma di potere al lavoro liberato - fino a farne principio generale di organizzazione della società - esso ha finito per porre in essere il piú potente, esteso e apparentemente irresistibile apparato politico di coercizione sulla dimensione sociale del lavoro. Espressione della libera aspirazione a riscattare l'uomo dalla natura di merce (di «cosa») ha finito per generare un universo interamente pietrificato nel suo profilo di società del lavoro totale: macchina composta da uomini ridotti alle loro funzioni produttive (a «uomini di marmo», appunto). Ne è testimone il destino stesso - la biografia fratta, l'Io diviso, la doppia dimensione - di coloro che ne furono i protagonisti: dei militanti che s'illusero di poter edificare la società giusta con la stessa artificialità con cui la produzione di massa andava trasformando il mondo, sicuri di aver finalmente ottenuto, dallo sviluppo della tecnica e dell'industria, i mezzi adeguati per potenza ed efficacia al piú ambizioso e smisurato dei fini. E dovettero invece sperimentare la progressiva erosione di quegli obiettivi, riassorbiti, sopravanzati e infine divorati - spesso insieme agli uomini che per essi si erano battuti - dagli stessi strumenti che avrebbero dovuto servire alla loro realizzazione (il Partito, l'Organizzazione, l'Apparato). Dai mezzi fattisi, in ragione della loro potenza, fini a se stessi. Percorsi. Il libro intende proporre (senza alcuna pretesa di sistematicità) nient'altro che percorsi all'interno di queste antinomie, dei punti piú evidenti di caduta, in una sorta di corpo a corpo con le patologie del secolo, ma soprattutto nel tentativo (parziale) di rivisitazione dei luoghi dello smarrimento. Degli snodi dove il senso del percorso sembra essersi perduto nel momento stesso in cui appariva piú sicuro. Attraversamenti, piú attenti a connettere ciò che può apparire separato, distante, intrinsecamente estraneo che non a tracciare la linea delle soluzioni. Non si indica, qui, la via d'uscita dal labirinto novecentesco. Ci si limita a tentar d'identificare alcuni degli angoli dietro cui può nascondersi il Minotauro, seguendo il filo contorto delle tracce piú profondamente incise nel paesaggio mentale del secolo. A cominciare da quella - in fondo unico denominatore comune in un'epoca altrimenti dominata dalla piú estrema eterogeneità - costituita dal lavoro. Dai suoi trionfi, dai suoi deliri, dalle sue metamorfosi. Dalla potenza e dall'impotenza che contiene e che genera, simbolo di tutti i mezzi rovesciatisi in fini, di tutte le promesse di liberazione trasformatesi in prigioni... La prima parte - intitolata appunto .cor I deliri dell'«homo faber» - racconta la lenta ma inesorabile marcia di conquista, da parte del lavoro, dell'intero universo sociale, nell'epoca che, con una semplificazione, possiamo chiamare fordista: la colonizzazione di ogni mondo vitale, la sottomissione di ogni sfera dell'esistenza da parte di una logica che ha ridotto gli uomini alle loro funzioni produttive e queste al «regime di fabbrica» (alla concatenazione razionale delle azioni utili in vista di un risultato economico). In una parola si pone, qui, al centro della riflessione sul «secolo breve» (e sulle sue perversioni o antinomie) l'avvento di quella che possiamo a buona ragione definire come la società del lavoro totale, nella quale il potere di disposizione dell'uomo organizzato sul proprio ambiente è parso raggiungere livelli mai prima immaginati e in cui, nel contempo, il tasso di socialità - la capacità di stabilire relazioni autonome, e dunque, in ultima istanza, di esercitare controllo sul proprio agire collettivo - è tuttavia precipitato ai propri minimi storici. La seconda parte - I dilemmi dell'uomo flessibile -, è costituita invece da un lungo détour attraverso le metamorfosi del lavoro tardo-novecentesco, segnate dalla frantumazione e dall'atomizzazione di quel modello apparentemente monolitico nel passaggio dalla produzione di massa standardizzata al cosiddetto post-fordismo. Cioè a una dimensione produttiva e sociale molecolare, reticolare, orizzontale, che sembra rovesciare radicalmente il paradigma precedente, ed aprire la via sia a una qualche possibilità di liberazione dalla presa mortale del lavoro totale, sia a una sua piú pervasiva, capillare penetrazione fin anche negli interstizi piú privati dell'esistenza umana. Di questa transizione - ancora incerta tra uscita dal secolo e sua rivincita postuma, tra emancipazione dai suoi vizi e loro riproposizione in scala - si offre da una parte una sorta di anamnesi. Di ricognizione delle radici: di quelle tecnologiche anzitutto, con una dettagliata ricostruzione dei protagonisti della cosiddetta rivoluzione micro-elettronica e dei loro trasgressivi metodi di lavoro, comunitari, informali, «movimentisti», esatta antitesi del formalismo burocratico della grande impresa fordista; ma anche di quelle - piú imprevedibili - di tipo culturale (il '68 - soprattutto americano -, i movimenti delle donne, l'ecologia e i limiti dello sviluppo...) Dall'altra parte, si propone un'analitica, forse talora pignola, rassegna del dibattito sui caratteri del post-fordismo, ma soprattutto sui suoi possibili sviluppi. Pagine che il lettore che ha fretta potrà anche aggirare, ma che servono a comprendere l'intrico e la molteplicità dei meandri in cui s'aggira chi vuole in qualche modo uscire dal Novecento. La terza parte, infine - I peccati della politica e il futuro dell'uomo solidale - riprende i problemi della prima nella loro curvatura soggettiva. Riconsidera cioè il profilo dell' homo faber nella sua variante di homo politicus, riflettendo in particolare sui comportamenti, i dilemmi, le laceranti antitesi che hanno caratterizzato e segnato, nella grandezza e nella rovina, quell'incarnazione estrema dell'attivismo, dell'artificialismo e del costruttivismo novecentesco che è stata la figura del «militante». In particolare del «militante rivoluzionario». Si deve alla sua passione la dimensione epica che la «questione sociale» ha assunto nel corso di questo secolo. Cosí come si deve alla sua ragione - al suo machiavellismo, talvolta, all'applicazione rigorosa fino alla spietatezza della razionalità calcolistica al tema della rivoluzione - il sacrificio imposto all'autonomia del «sociale» in nome di una logica politica spesso ad esso estranea e contrapposta. Figura spaccata - scissa, esattamente come lo spirito del secolo che ha incarnato -, il militante si è presentato, fin dall'origine, come la forma piú piena della soggettività ribelle contrapposta al mondo delle cose. Ed è andato, fin dall'origine, costruendo senza sosta, macchine, apparati, strutture organizzative, burocrazie, tecnologie del comando e della gestione degli uomini, in una parola «cose» che l'hanno avvolto come un involucro inerte, talvolta stritolandolo, piú spesso riducendolo a una delle tante funzioni della produzione che il Novecento ha generato. Difficilmente esso saprà varcare la sua soglia. E invece quella soglia va varcata se si vuole affrontare, al livello cui la sfida si pone, l'eredità che il «secolo breve», nella sua convulsa esperienza, ci ha lasciato. Eredità pesante, e tutta umana. Un mondo ormai interamente fabbricato secondo criteri di razionalità e di efficienza, e tuttavia intimamente incerto e pericoloso, in cui - questo sembra il tratto di radicale novità che caratterizza l'ultimo «tempo nuovo» - siamo circondati dai pericoli che noi stessi abbiamo prodotto nel tentativo di rendere piú sicure le nostre vite. Un universo sociale nel quale la socialità sembra disseccata, rifluita nei grandi apparati pensati per la sua salvaguardia e qui consumata; e la stessa ineguaglianza - contro cui la parte migliore del Novecento s'era accanita nel tentativo faustiano di ridurla drasticamente, se non di sradicarla - ritorna con dimensioni numeriche scandalose nelle forme estreme della morte per fame, della migrazione e della distanza incolmabile tra i primi e gli ultimi della terra. L'unica figura della ribellione e della solidarietà che, oltre la soglia, par di vedere, ancora confusa tra le ombre del futuro, alle prese con queste sfide è quella, fragile e incerta, ancora rarefatta e debole, del Volontario (cui alludono le ultime pagine). Figura aurorale, dal profilo sfumato, certamente diversa da quella - scolpita nella pietra e nel metallo - del militante novecentesco che l'ha preceduta, anzi si potrebbe dire a quella opposta per il suo carattere integralmente «civile» (estraneo a ogni aspetto militare dell'organizzazione e del conflitto); per l'uso che fa della propria debolezza come punto di forza e della propria disseminazione (refrattaria a ogni idea di centralizzazione) come forma di presenza; per il suo carattere irriducibilmente «impolitico». Assumerlo come riferimento per un «nuovo inizio» comporta - è bene esserne consapevoli - una buona dose di rischio e di iconoclastia. Significa rinunciare alla vecchia, cara alla sinistra - a tutte le sinistre - «teoria del soggetto»: all'idea che nella storia si diano forme collettive dell'essere portatrici in sé, nella propria stessa natura, di una carica antagonistica e delle soluzioni «avanzate» ai problemi che lo stesso sviluppo genera. E significa sacrificare il mito della possibile reductio ad unum di tutte le energie sociali votate alla trasformazione e del possibile, in qualche misura necessario, rovesciamento delle potenze del negativo in positività salvifica. Pensare a una comunità reticolare di Volontari impegnati in un fare che non sia riducibile a lavoro perché gratuito ed estraneo alla logica dell'utile, votato alla riproduzione qui ed ora di legame sociale e di relazioni umane, comporta anche l'accettazione di muoversi senza assicurazioni storiche, né il sostegno delle potenze materiali che lo sviluppo nella sua creazione distruttrice offre. Una scommessa, senza dubbio. Che forse val la pena tentare. Torino, dicembre 2000. | << | < | > | >> |Pagina 144. Comunismo.Il primo caso è costituito dalla vicenda del «comunismo novecentesco». Dall'esperienza politica, cioè, inaugurata dalla conquista bolscevica del potere in Russia, la quale viene qui assunta nella sua specifica particolarità: come prodotto di una netta cesura storica, e in qualche modo anche «ontologica», rispetto alle precedenti teorie e pratiche comuniste, e la cui parabola, durata dal 1917 al 1989-91 - esattamente quanto il «secolo breve» -, è stata da molti considerata come il suo tratto essenziale. Come la cifra identificante del tempo nuovo che abbiamo ormai alle spalle cui alludono, appunto, molte delle formule (o delle retoriche) utilizzate per sintetizzare il secolo: ovviamente la formula del «secolo del comunismo», di prevalente uso giornalistico"; ma anche quella del «secolo delle due guerre civili» - la «guerra civile europea» (Europäische Bürgerkrieg) della sua prima metà, e la «guerra civile mondiale» della seconda metà (Weltbürgerkrieg) - suggerita da Ernst Nolte; o, ancora, quella del «confronto mondiale tra est e ovest» proposta da Raymond Aron e del «tramonto di un'illusione» di Furet. Non era certo necessario attendere il Libro nero del comunismo curato da Stéphane Courtois, e la sua funebre «statistica storica» su quei crimini - 85 milioni di morti distribuiti tra la Rivoluzione d'Ottobre, la successiva guerra civile, la dittatura staliniana, la Rivoluzione cinese, la Cambogia di Pol Pot e la Cuba di Fidel Castro -, per formulare un giudizio in qualche modo «definitivo» sul rovesciamento e la caduta di quello che era nato come la piú radicale forma di umanesimo secolarizzato della storia. Altri critici e testimoni piú credibili, nonché storicamente e concettualmente attrezzati, erano già venuti, da tempo, ad aiutarci a capire. Testimoni partecipanti come l'Arthur Koestler di Buio a mezzogiorno o il Victor Serge di Memorie di un rivoluzionario - che pure avevano esplicitamente simpatizzato con la causa ideale della rivoluzione nel XX secolo -, ma anche il Bruno Rizzi de La bureaucratisation du monde e l'Orwell di Omaggio alla Catalogna. O le implacabili e lucide analisi di Castoriadis e, prima, del Merleau-Ponty di Umanesimo e terrore. O ancora le disincantate e atroci cronache della Kolyma di Salamov per l'Unione Sovietica, o la trilogia di Acheng sulla disumanizzazione nella Cina di Mao. Nessuno di essi nascondeva la dimensione smisurata dell'impresa, la portata dirompente delle contraddizioni etiche, l'estensione disumana dei compiti pratici in base ai quali formulare le possibili giustificazioni storiche. E tuttavia dalla loro lettura emerge, incontestabile, il fatto che il «"comunismo novecentesco" ha avuto un rapporto fondante, non episodico, sistematico e intrinseco con l'uso (e l'abuso) della violenza». Che esso, andato al potere in Russia con un impiego estremamente limitato (si può dire pressoché nullo) della violenza, vi ha fatto poi ricorso in modo continuo e incontrollato come instrumentum regni: come mezzo di esercizio e di mantenimento del potere stesso, non solo in quella realtà, ma - con mutevoli giustificazioni politiche e in condizioni storiche differenti - ovunque sia giunto al controllo del potere statale. E che deve in buona misura a ciò quello smarrimento «dell'anima» - del proprio senso ideale - che ne ha preceduto e in parte determinato la dissoluzione materiale (l'estinzione del «corpo» storico). In fondo non è di per sé decisiva, su questa linea di riflessione, la dimensione «contabile» del massacro: nulla muterebbe se il numero complessivo delle vittime si rivelasse anche di molte grandezze inferiore a quello cosí superficialmente contabilizzato dall'eterogeneo gruppo di storici francesi. Il cuore del problema, lo scandalo se cosí si può chiamare, è esattamente questo: che anche senza la truce ragionieristica del Libro nero, sulla base di una quantità sterminata di testimonianze, in gran parte interne a quell'esperienza stessa, è ormai evidente che tutto ciò contro cui quel movimento aveva identificato se stesso fino a fare della sua abolizione parte costitutiva del proprio fine - l'oppressione, la costrizione, il dominio poliziesco, l'uso incondizionato della forza, del carcere, della delazione... - è divenuto, sostitutivamente, mezzo normale nella sua realtà storica. È stato assunto come pratica legittima, strumentalmente giustificata, storicamente necessitata. E, per questa via, lentamente ma inesorabilmente, ne ha divorato il fine. Ne ha annientato ragioni e fondamenti; soprattutto ne ha inconsapevolmente ma irrimediabilmente consumato ogni credibilità. Caso esemplare di «eterogenesi dei fini», in cui, appunto, l'intollerabilità dei mezzi, ritenuti razionalmente adeguati alla grandezza del risultato voluto e dunque storicamente inevitabili (per la realizzazione del «bene assoluto» ogni prezzo da pagare poteva apparire adeguato), ha finito per retroagire e per devastare, cancellare e distruggere la nobiltà degli obiettivi stessi. Per renderli storicamente impraticabili e culturalmente improponibili. Cosí oggi - a conclusione del suo lungo ciclo storico - possiamo in qualche modo constatare come l'esperienza vissuta del socialismo reale (il «sistema di mezzi» che ne ha permesso il successo come macchina di governo e ne ha garantito l'esistenza storica tra le forme della politica piú significative del Novecento) abbia finito per decostruire, non sappiamo quanto provvisoriamente, l'identità stessa del comunismo ideale (il sistema di fini costitutivi del «paradigma formale» da cui quello avrebbe dovuto trarre origine) chiudendone l'orizzonte. Ponendolo, di fatto, nel campo dei progetti non solo praticamente non realizzabili, ma neppure teoricamente auspicabilí. | << | < | > | >> |Pagina 185. Auschwitz.Il secondo caso esemplare è la Shoah: lo scandalo di Auschwitz. L'altra piaga aperta del secolo, destinata anch'essa a qualificarne la natura. A segnarne con altrettanta forza l'identità malata tanto che, con buona ragione, si è potuto affermare recentemente che «Auschwitz è il Novecento». Ci troviamo, è facile vederlo, in un quadro concettuale esattamente opposto a quello precedente. Qui non c'è contraddizione tra distruttività dei mezzi e positività dei fini ma, al contrario, piena, assoluta identificazione tra strumenti impiegati e scopi dichiarati. Qui non si può parlare del carattere strumentale dell'azione emancipatosi e contrappostosi al suo valore finale ché, anzi, l'orrore di Auschwitz, potremmo dire la sua «unicità», - ciò che lo rende diverso da ogni altro evento storico, da ogni altro massacro e abominio, facendone un riferimento etico negativo assoluto -, sta proprio nel carattere finale dello sterminio. Nell'essere stato, appunto, fine a se stesso; nell'aver esaurito nell'atto stesso della distruzione dell'altro - nel suo annientamento - il proprio obiettivo esclusivo, senz'altra remunerazione che la scomparsa dell'oggetto odiato. | << | < | > | >> |Pagina 6913. Il doppio circuito della mercificazione[...] Abbiamo cosí l'esatta misura degli effetti prodotti dalla tenaglia tra Stato e Mercato sulla sfera autonoma della socialità. Dell'effetto dissolvente che - nel Novecento in forma catastrofica, incomparabile con ogni altro tempo - essi hanno determinato, sussumendo, decostruendo, neutralizzando ogni residuo di relazionalità autonoma, non determinata estrinsecamente dalla razionalità meccanica della fabbrica o da quella burocratica delle istituzioni statali. Rompendo sistematicamente i nessi che legavano, ancora nel secolo precedente, gli uomini ai propri prodotti, e i prodotti ai propri bisogni. De-socializzando - cioè consegnando all'isolamento e alla solitudine - tutto ciò che non si costituisce dentro gli unici circuiti di socializzazione concepibili: la fabbrica standardizzata (per la forma subalterna) e il partito massificato (per quella antagonistica); le due grandi machines della produzione artificiale di connessione sotto forma di «massa» che il Novecento scoprirà e da cui verrà dominato. Quella che emerge alla fine del percorso, all'apice della lunga fase di sviluppo regolato secondo i canoni del modello di accumulazione e di regolazione fordista, è dunque l'immagine di una società nella quale l'«intimità delle cose» è definitivamente perduta. In cui, cioè, le cose «non si aprono» piú: non svelano la relazione umana che le sottende - il fondamento relazionale della solidarietà e della coesione -, mostrando, al contrario, una propria autonomia tenace. Un'indipendenza dalle soggettività che pure sono «servite» a generarle tanto estesa e profonda, tanto implicata con i fondamenti dell'esistenza, da far impallidire il «feticismo delle merci» a suo tempo denunciato da Marx. In questa nuova società, all'ovest come all'est, nel regno del lavoro o in quello del mercato, non solo i manufatti, gli oggetti dell'industria, o i mezzi della produzione, ma anche le condizioni fondamentali dell'esistenza, la salute, la cura, la «securizzazione» del futuro e, in fondo, la stessa memoria e identità sono il risultato della «manipolazione di oggetti e soggetti secondo procedure formali, la cui finalità operativa rimane sconosciuta ed estranea al corpo sociale nel suo insieme» e agli stessi singoli individui e di cui tanto il produttore quanto l'utilizzatore finale, per cosí dire, finiscono per perdere il controllo. | << | < | > | >> |Pagina 7914. La breccia.[...] Gli anni Sessanta (prima in America, poi in Europa e nel mondo) aprirono una breccia nel muro compatto della società del lavoro totale. D'improvviso parve che la grande costruzione edificata sul dominio dell'utile e della strumentalità si sfaldasse dalle fondamenta, in un grande rito collettivo di liberazione dal dispotismo delle «cose». Una nuova generazione di studenti e di operai - di lavoratori intellettuali e manuali: l'ultima mutazione antropologica dell' Arbeiter delle origini, del «Lavoratore totale» - costituitasi interamente nell'orizzonte di società «fordizzate» e «welfarizzate», tentò se non il proprio «assalto al cielo» per lo meno una rabbiosa aggressione alle fondazioni di quell'edificío - ai pilastri di base su cui reggeva il «sistema delle cose» -, utilizzando, in qualche modo, come armi improprie, i materiali stessi di cui quello era composto. Rivolgendo, potremmo dire, contro lo spirito del secolo (e dell' homo faber che l'aveva ispirato) le sue creazioni piú tipiche (e terribili). I fiori del male, ch'esso aveva generato. Cosí gli studenti (che nel corso degli anni Sessanta erano stati i piú sensibili alle mobilitazioni contro «la Bomba») seppero utilizzare il piú orrifico dei prodotti tecnologici novecenteschi, il terrore atomico, per costruirsi un proprio «spazio mentale» generazionale: uno spazio globale, tanto esteso quanto era la minaccia nucleare la quale appunto, esattamente come quel nuovo movimento, travalicava i confini degli Stati, per certi versi li ridicolizzava, per investire l'intero pianeta. Per costituire, appunto, una dimensione planetaria, nella quale il nuovo movimento prese stabilmente dimora, costruí le proprie inedite solidarietà, affermò i propri valori in chiave «universale», fuori dai confini e dai «distinguo» delle politiche nazionali e dei loro strumenti organizzativi tradizionali. Un progetto nel quale persino la «memoria maledetta» del Novecento - il racconto dello sterminio e di Auschwitz, il lascito di Norimberga - poté essere ricuperata in positivo, al di là delle stesse intenzioni dei vincitori del '45, per elaborare una prassi reale dell'universalità dei diritti, un'idea pratica di «umanità» come soggetto storico, collocata al di sopra di ogni Ragion di Stato (di quello che era stato, ancora, il limite di quel Processo). E rivendicare, coerentemente, una Norimberga per ogni «crimine contro l'umanità», ovunque esso fosse consumato, a Saigon come a Mosca, a Praga come a Johannesburg. Allo stesso modo, gli operai incominciarono a utilizzare la fabbrica in cui erano stati rinchiusi come in medievali manieri - la fabbrica fordista, gigantesca, meccanizzata, standardizzata e l'effetto, certo non voluto, di aggregazione massificata, di coesione seriale e tuttavia attiva, ch'essa comportava -, per cosí dire alla rovescia: come spazio tecnologico privilegiato in cui produrre conflitto anziché profitto. E nel conflitto - nella sospensione antagonistica della funzione produttiva del lavoro, nei tempi morti conquistati con lo sciopero - ritrovare la propria identità collettiva non negoziabile: il nesso di socialità improduttivo, non riducibile a «valore di scambio», che nella società delle merci s'era perduto. Cosí fu nei giorni di maggio in cui la grève générale paralizzò la Francia, e nel silenzio delle macchine utensili, dei treni, degli uffici e del traffico gli uomini tornarono a far sentire le proprie voci, a parlarsi tra loro e a incontrarsi. Ma cosí fu, in forma piú lenticolare e diffusa, meno platealmente evidente ma pur tuttavia presente tra le pieghe di un conflitto per altri aspetti tradizionale, nelle migliaia di officine meccanizzate, sulle centinaia di chilometri di linee di montaggio che quell'inedito ciclo di lotte operaie percorse a Torino come a Detroit, a Wolfsburg come a Flins. Nelle cattedrali dello sviluppo fordista, dove gli operai lottavano non solo (e non tanto) per una diversa re-distribuzione del reddito, o per un maggiore controllo sui prodotti del proprio lavoro, ma - soprattutto in alcuni luoghi divenuti storici, in alcuni epicentri delimitati ma cruciali - per riconquistare il controllo sul proprio lavoro in quanto tale, sul proprio corpo al lavoro o il che è lo stesso, per «guadagnare tempo». Per sottrarre quote crescenti del proprio tempo di vita al dispotismo duro delle macchine e persino - può apparire assurdo di fronte alla centralità che il salario assunse in quella fase, ma a ben guardare dentro la soggettività dei punti di rottura è cosí - alla dittatura morbida del consumo totale, dell'isolamento tra le merci, della riduzione a «motore dello sviluppo». Per creare, dunque, in qualche modo, un proprio «tempo festivo» in cui reincontrarsi, riconoscersi come corpo sociale indipendente dall'ossatura meccanica che li aveva tenuti insieme nella produzione, trasformando la fabbrica in quello «spazio relazionale» che nell'universo delle cose s'era dissolto. | << | < | > | >> |Pagina 1194. La seconda radice del post-fordismo[...] E d'altra parte, lo stesso passaggio dalla lunga fase inflazionistica - inaugurata con le politiche keynesiane successive alla crisi del '29 - ad una nuova fase «disinflazionistica», che gli osservatori piú attenti dei fenomeni monetari pongono all'origine della svolta neo-liberista di fine anni Settanta, porta il segno del raffreddamento, del rallentamento e dell'arresto. Allude a un movimento di crescita surriscaldata che d'un tratto s'irrigidisce ed arretra, di fronte ad un limite. Uno studioso delle dinamiche macro-economiche affascinante e originale come Christian Marazzi giunge addirittura a identificare un luogo e una data della svolta, attribuendo alla decisione assunta il 6 di ottobre del 1979 (in corrispondenza con quello che a Wall Street viene ricordato come il Saturday Night Disaster) dall'allora presidente della Federal Reserve americana Paul Volker di portare al di sopra della soglia-limite del 20 per cento il tasso d'interesse, un valore storico periodizzante: il carattere, per cosí dire, di nuovo «spartiacque industriale». Con essa, infatti, si sarebbe definitivamente chiusa la lunga fase dominata dal trauma della disoccupazione (generato dalla «Grande crisi») e si sarebbe aperta quella dominata dal trauma dell'inflazione (prodotto dal sovrariscaldamento economico degli anni Settanta). Si sarebbe, cioè, esaurito il ciclo espansivo durato quasi ininterrottamente per oltre mezzo secolo, e si sarebbe ufficialmente entrati in un nuovo ciclo recessivo - o comunque caratterizzato da tassi di sviluppo incomparabilmente piú bassi e piú incerti -, presumibilmente altrettanto lungo. Soprattutto, con quella decisione si sarebbe rivelato un inedito, «rivoluzionario », orientamento all'interno dell'establishment economico-finanziario globale, determinato, d'ora in poi, a colpire i livelli di consumo della massa di lavoratori salariati «centrali», giudicati strutturalmente incompatibili con l'equilibrio economico. Di piú, ad attaccare alle radici la stessa centralità sociale del lavoro salariato: la «forma-salario», come la definisce Marazzi, alla cui prevedibilità del reddito (contrattualmente garantito) era attribuita, sulle orme di Milton Friedman, l'insostenibile propensione ai consumi che stava all'origine del disordine economico; e allo stesso tempo la composizione sociale che intorno alla «forma-salario» si era strutturata: il «popolo fordista» nel suo complesso, che era andato crescendo fino ad allora in progressione apparentemente irreversibile; che crescendo aveva aumentato e consolidato le proprie rivendicazioni e le proprie conquiste, i propri bisogni e la propria rigidità; e che ora doveva essere «de-costruito», scomposto, ridimensionato - risospinto sotto la soglia dell'incertezza e della precarietà del reddito e del futuro - se si voleva «traghettare l'economia fuori dal pantano delle abitudini consumistiche dei cittadini fordisti». Un modo, in fondo, anche questo - il piú feroce, e il piú «realistico» - per prendere atto dei limiti dello sviluppo, dell'insostenibilità di quella crescita illimitata e smisurata sulla quale il fordismo aveva fondato il proprio «regime di accumulazione»: la spirale senza fine tra salari, prezzi e profitti. L'illusione ultra-faustiana di un'infinita possibile rincorsa tra livelli crescenti della produttività del lavoro, livelli crescenti della redditività del salario, livelli crescenti della disponibilità al consumo. Da essa è nato il nuovo «modo di regolazione» per via monetaria, che caratterizza in forma silenziosa, apparentemente sotto misura, il post-fordismo sostanziandone il carattere ideologico neo-liberista e la forma economica iper-finanziarizzata e quell'inedita attribuzione di funzioni «politiche» al denaro (all'ultima, estrema risorsa che pare aver conservato, grazie alla propria immaterialità, la dimensione illimitata che il «mondo delle cose» sembra aver perduto) - quel clamoroso trasferimento di autorità dalle strutture «pesanti» e nazionalizzate del comando e della rappresentanza alle dinamiche «leggere» e cosmopolitiche dei mercati finanziari -, che costituisce, possiamo dirlo, il tratto piú inquietante della transizione in corso. | << | < | > | >> |Pagina 1295 - La terza radice. Il sesso del lavoro.[...] Quella fordista era, infatti, una concezione del lavoro ferocemente, unilateralmente maschile. Essa assumeva come «metafisica influente», - come statuto fondamentale del proprio ordinamento tecnico - quei principi tayloristici che fanno, appunto, della fungibilità, scomponibilità, perfetta misurabilità e formalizzabilità dei gesti lavorativi una condizione sine qua non per la loro codificabilità nell'universo del lavoro. Per il loro riconoscimento pubblico come «attività lavorativa». Tendeva dunque a declassare nella sfera dell'irrilevante - o comunque del marginale - ogni attività che non rispondesse a quei criteri. Ogni pratica umana che non possedesse i connotati della quantificabilità e della rappresentabilità in diagrammi. Ossessionato dal dogma della continuità e regolarità del flusso produttivo - dal bisogno di «chiudere ermeticamente il proprio nucleo tecnologico» isolandolo dalle possibili contingenze provenienti dall'ambiente «esterno» -, era istintivamente ostile a tutto ciò che d'irregolare, discontinuo, incerto residuasse nell'attività lavorativa e nel comportamento della forza lavoro. Cioè a ogni traccia di «soggettività», interpretata come ostacolo alla piena razionalizzazione del processo produttivo. Pensato per «uomini senza qualità», considerava un disturbo ogni istanza qualitativa resistente alla quantificazione, ogni componente del lavoro eccessivamente identificata nella persona del suo attore (troppo personalizzata, si potrebbe dire). Su questa base stabiliva con la figura femminile del lavoro un rapporto ambivalente. Una sorta di dialettica negativa. Per un verso la sua onnivoricità, il suo bisogno di incorporare nella sfera universale del lavoro ogni attività umana, lo spingeva ad abbattere ogni barriera all'accesso: a riclassificare come forza-lavoro potenziale ogni essere umano (genericamente umano), azzerando le differenze di genere. Applicando, dunque, un criterio «egualitario». Per altro verso, però, la sua concezione esclusiva e monistica del lavoro - la sua incapacità di «vedere» come lavoro anche le forme di vita activa non riducibili al suo statuto - lo portava a declassare il lavoro femminile. A riconoscerlo solo come forma debole, «inferiore», in qualche modo spuria (comunque scarsamente affidabile) di lavoro, degno di abitare gli strati gerarchicamente bassi della piramide dei lavori e dei valori. Dunque, sul terreno della produzione, egualizzava gerarchizzando. Universalizzava differenziando. | << | < | > | >> |Pagina 136[...] Il discorso qualitativamente nuovo condotto dal femminismo «liberazionista» e radicale sulla condizione della donna colpiva infatti al cuore la «macchina antropologica» fordista. O meglio: la faceva funzionare alla rovescia (piú o meno come, quasi negli stessi anni, il conflitto operaio faceva con la «macchina produttiva» fordista). Esso per un verso prendeva assolutamente sul serio la promessa egualizzante inscritta nella totalizzazione del lavoro novecentesca, contestando frontalmente la gerarchizzazione tra lavoro maschile e lavoro femminile, gli ingiustificati (nell'universo del lavoro semplice e indifferente) differenziali salariali, la sottoutilizzazione delle donne nei lavori qualificati o comunque socialmente riconosciuti, in nome di un radicale principio di eguaglianza nell'accesso al circuito del lavoro dipendente. Negava cioè il connotato di forza-lavoro debole alla componente femminile, denunciando come discriminazione ogni ostacolo posto al suo pieno impiego (compresa la legislazione formalmente protettiva frutto delle conquiste del primo movimento operaio). Per altro verso, tuttavia, non rinunciava alla propria differenza, anzi esasperava il tema della «separatezza». Della irriducibilità dell'attività (e dell'essenza) femminile ad un genus unificante: al lavoro genericamente inteso di un essere umano «qualunque». Non si limitava a combattere l'oppressione da parte dell'altro sesso in nome di una qualche parità? né tantomeno di una assimilazione nelle prerogative e nell'identità dell'«altro», ma al contrario rivendicava il rispetto della propria «alterità». Il riconoscimento di una diversità non commensurabile su una comune scala di misura e di valori. Dunque l'esistenza di propri tempi non riducibili a quelli delle macchine produttive o politiche (tempi «delle donne», scanditi su ritmi e durate inconfrontabili con quelli «tecnici» e performativi dell'universo maschile); di propri spazi (luoghi dell'incontro femminile, non identificabili con quelli della socialità maschile); di linguaggi, forme del sentire, sistemi di relazioni propri. In sostanza, esse declinavano il principio di eguaglianza non come reductio ad unum ma come «pari dignità» dei diversi e il principio di differenza non come gerarchia ma come identità. Egualizzavano de-gerarchizzando (rompendo il sistema dei dislivelli di potere misurati sul puro rendimento qualitativo), e differenziavano de-neutralizzando (rompendo il carattere «indifferente» della differenza sessuale ai fini della produzione d'identità).| << | < | > | >> |Pagina 17811. Nella «rete» del lavoro totale.Certo, manca qui quella «aristotelica» unità di tempo, spazio, situazione che nel fordismo permetteva di cogliere in termini sociali - collettivi - la dimensione individuale dello sfruttamento (e dunque di organizzare una resistenza ad esso o una negoziazione dei suoi termini). Manca perché lo spazio è esploso: non è piú lo spazio di fabbrica delimitato e definito dalla «mano visibile» dell'imprenditore, dalla sua struttura gerarchica e dal suo «capitale fisso» materialmente incorporato in macchine stabilmente localizzate, ma è ormai compiutamente spazio sociale indifferenziato dove chiunque, in qualunque momento, può essere invisibilmente e forse inconsapevolmente al lavoro. E perché il tempo è imploso intorno al suo nucleo invasivo di temporalità produttiva che colonizzando ogni aspetto dell'esistenza diviene, per questa via, non piú misurabile come «tempo di lavoro», né piú contabilizzabile secondo i termini e i confini della «giornata lavorativa». E tuttavia non per questo cessa la capacità di centralizzazione e di sottomissione (di appropriazione privata) delle forze della produzione disseminata da parte di un qualche vertice della «catena del valore»: del potere sociale che governa il nuovo sistema produttivo disseminato. Semplicemente esso opera ora in forma meno direttamente visibile e materiale (è anch'esso, come quasi tutti i poteri ormai, potere invisibile). Riconduce a sé e sottomette attraverso mezzi comunicativi e linguistici (più che attraverso catene di comando personale o strumenti meccanici). Attivando circuiti simbolici e normativi (piú che delimitando fisicamente spazi tecnici). Impiegando cioè strumenti fino a ieri appartenenti a sfere del tutto diverse da quelle dell'economia: alla politica, alla cultura, o alla produzione artistica, persino alla sfera del sacro. Strumenti che non sono piú tanto (o comunque non sono piú solo) riconducibili al possesso fisico dei mezzi di produzione, o alla facoltà di esercitare un potere di comando diretto dentro uno spazio delimitato e reso privato qual era appunto la fabbrica, ma sono costituiti dalla possibilità di presidiare nodi di rete, punti di connessione e d'intreccio tra flussi eterogenei di risorse e d'informazioni su scala territoriale ampia, governando almeno settori parziali del grande caleidoscopio comunicativo globale. Che si esprimono nel potere di stabilire gli standard, selezionando i linguaggi operativi e «decidendo» quali di essi sono - entrano cioè nel circuito della produzione sociale integrata - e quali non sono (Gates deve la propria fortuna esattamente a questo); o nella facoltà di dettare per via extra-istituzionale le regole valide erga omnes di una nuova lex mercatoria. Ma anche nella prerogativa di accreditare l'impresa come unico potere sociale legittimato a stabilire il valore delle cose e i limiti della loro commerciabilità: come unica autorità universalmente riconosciuta nel rango di soggetto di regolazíone sociale (una sorta di «sovranità diffusa»). E in quella - un tempo propria delle sole religioni - di stabilire le icone dotate di corso legale: di «decidere» delle immagini collettive in cui le potenze del sociale s'identificano e si rappresentano. | << | < | > | >> |Pagina 192Soprattutto questa lettura rivela il carattere né meccanico né automatico dell'emancipazione dai vizi del «secolo del lavoro». Al contrario. Se un'uscita e un'emancipazione ci sarà - essa ci dice, colpendo al cuore un altro dei punti focali di una concezione materialistica della storia - non sarà né opera né conseguenza dello spontaneo processo di evoluzione dell'economia e della tecnologia (dello «sviluppo delle forze produttive», direbbe un marxista), ma presupporrà, necessariamente, un'azione consapevole, fortemente voluta da una pluralità di soggetti determinati a riprendere attivamente il futuro della propria società nelle proprie mani. Richiederà, per cosí dire, una «mobilitazione totale», quasi che ad essere chiamato in campo come risorsa salvifica sia ancora una volta quell'artificialismo (forse non necessariamente politico), quella dimensione volontaristica del fare (forse non necessariamente prometeica), quel rifiuto di arrendersi alle derive oggettive della «storia materiale» che costituisce, per certi versi, uno dei frutti (forse non necessariamente avvelenato) del Novecento. Quello, comunque, su cui piú a fondo deve andare la riflessione critica di chi dai dilemmi dell'uomo flessibile intende in qualche modo uscire, smentendo la fosca profezia di Günther Anders. Il quale riflettendo quarant'anni fa sul «regno della macchina», sulla sua tendenza ad espandersi e a totalizzarsi nel «mondo di domani» fino ad assumere carattere e dimensioni «globali e senza lacune», concludeva domandandosi se gli orrori del secolo, in particolare quell'orrore assoluto che fu la macchina totale dello sterminio, non stiano, come un unicum, ormai alle nostre spalle ma minacciosamente «davanti a noi». E se quello che è avvenuto nel cuore d'Europa alla fine della prima metà del secolo, non sia stato, in realtà, che una macabra «prova generale in un teatro sperimentale di provincia».| << | < | > | >> |Pagina 1951. Le antinomia della militanza [...] Di questa ambivalenza - di questa doppia polarità dell'esperienza comunista, sempre oscillante tra generosità storica e ferocia burocratica, tra spirito libertario e spirito gregario, tra emancipazione collettiva e umiliazione dell'individualità -, parla d'altra parte un altro testo «commovente per la sua drammaticità e affascinante per la sua forma», scritto pochi anni piú tardi di Buio a mezzogiorno, tra il 1947 e il 1951, nella Polonia che si andava lentamente ma inesorabilmente sovietizzando, da un grande storico, Witold Kula, e pubblicato con l'enigmatico titolo Stregonerie. In esso Kula «inventa» un carteggio tra due colti patrizi romani, Lucio e Claudio, agli albori dell'era cristiana: due raffinati esponenti di una cultura laica e relativistica, problematica e acquietata, posti di fronte al tumultuoso irrompere di una religione assai simile - nei suoi aspetti esistenziali e nel suo ruolo storico, tanto da permetterne l'allegoria - al comunismo contemporaneo. E come quello destinata a sfidare a fondo l'universo morale dell' intelligencija, a lacerarne profondamente la coscienza, per il doppio volto che essa presentava, intreccio inestricabile di umanesimo e rozzezza, di ansia libertaria e di duro dogmatismo. | << | < | > | >> |Pagina 2234. Il «peccato originale» del comunismo novecentesco.Se scendiamo su questo terreno, se scandagliamo storicamente il sottofondo antropologico di quella tragica ambivalenza, dobbiamo constatare che questo nuovo «tipo umano» - nato col secolo, e forse con il secolo destinato a morire - era in realtà il prodotto assai specifico di almeno tre grandi eventi storici. Di tre cesure temporali che costituiscono in buona misura l'atto genetico del «secolo breve». In primo luogo della guerra. Della prima guerra mondiale, l'evento che farà una volta per tutte da carnefice del «lungo Ottocento» annunciando nella forma piú atroce, con il massacro di massa, che l'era delle masse era realmente incominciata. Il «militante rivoluzionario» novecentesco nasce qui - in uno scenario che ha per la prima volta in forma assoluta le masse come protagoniste e come vittime -; e nasce come soldato, avendo la guerra come orizzonte, con la stessa disciplina del soldato, la stessa volontà di vittoria, lo stesso spirito di «mobilitazione totale». Soldato di un esercito senza frontiere, universale, ma con uno Stato maggiore ben identificato e delimitato da confini stretti, da un'identità ideologicanettissima. Il suo linguaggio è militare. Le sue gerarchie sono militari. Persino la sua morale è militare, sempre sul filo delle questioni di vita o di morte. Sempre dominata dai demoni della logica «amico/nemico». Come tante altre figure di quel convulso dopoguerra, a lui mortalmente nemiche, come i lanzichenecchi di von Salomon, come gli ultranazionalisti rivoluzionario-conservatori della crisi di Weimar, come in fondo tutte le molteplici componenti di quella generazione che si mobilitarono prolungando le tensioni belliche nel tempo di pace, anch'egli può dire con Jünger «La Guerra è nostra madre. Essa ci ha martellato, bulinato e indurito, facendo di noi ciò che siamo. E sempre, finché la ruota vibrante della vita si volgerà in noi, questa guerra sarà l'asse intorno al quale essa stride». In secondo luogo la Rivoluzione. La Rivoluzione russa, la prima figlia illegittima della guerra. Il luogo storico in cui, di colpo - troppo di colpo - la rivolta delle masse si fece Stato, si condensò e congelò nelle forme rigide dello stato nazionale sovietico. E fece della grande rete dei militanti comunisti, di quel gruppo eterogeneo di sovversivi, d'improvviso, un grande corpo di «uomini di stato», titolari essi stessi degli arcana imperii che connotano, appunto, la sovranità statale, portatori della stessa «etica della responsabilità» che caratterizza gli uomini di governo, ognuno con l'anima spaccata tra sovversione e ordine, tra rivolta e comando, tra Piazza e Caserma. Ognuno un po' ribelle e un po' poliziotto, un po' apolide e un po' membro del corpo diplomatico. Ognuno costretto a mutar d'abito, a riconciliarsi - nel breve volgere dei «dieci giorni che sconvolsero il mondo» - con quella «forma-stato» che fino ad allora aveva incarnato l'immagine del nemico. Di piú: a identificarsi con essa, a farne l'alfa e l'omega della propria azione per il fatto che le antiche figure dell'antitesi assoluta - l'Operaio e lo Stato - si erano finalmente fuse in un nuovo ossimoro: in quello Stato Operaio che, è vero, sostantivava il primo termine e aggettivava il secondo, ma comunque costituiva il segno universale, ben visibile a tutti, del rovesciamento. Infine i fascismi, il vero evento che prolungò la Guerra nella Politica. Che fece della politica un campo di battaglia feroce, spietato, e della clandestinità, della separazione dalla sfera pubblica, una condizione di sopravvivenza, elevando, appunto, le tecniche di sopravvivenza (del singolo, ma soprattutto del collettivo, dell'organizzazione, dell'apparato) a presupposto ed essenza dell'azione politica. Già l'aggressione armata da parte dell'Intesa, nell'immediato primo dopoguerra, contro la repubblica dei Soviet - la partecipazione delle potenze democratiche, dell'Inghilterra in primo luogo, alla guerra civile russa, a fianco dei «bianchi» - aveva introdotto nella battaglia contro il comunismo un elemento specificamente militare che l'imbarbariva: aveva offerto l'immagine di un mondo in armi mobilitato contro «la patria del socialismo». E aveva costretto chi aveva trasformato la guerra in rivoluzione a percorrere rapidamente il cammino inverso: a trasformare la rivoluzione in guerra. A inventarsi un «comunismo di guerra» divenuto ben presto da stato d'eccezione normalità, e poi modello. Ad assumere come metodo e come orizzonte del proprio operare quello della guerra civile. La vittoria dei fascismi nel cuore d'Europa generalizzerà e assolutizzerà questa dimensione. Farà ovunque del confronto con il Comunismo una questione di persecuzione, tortura, carcere, delazione e morte. Porrà la questione comunista come questione mortale costringendo i comunisti, ovunque si trovassero, a identificare senza residui la sopravvivenza della propria identità e della propria presenza storica con la difesa a oltranza del proprio Stato - dell'unica entità dotata del livello di potenza adeguato a contrastare quel nemico assoluto -, sospendendone ogni valutazione critica, considerando crimine ogni divergenza d'opinione. E a fare del Partito - sotto la pressione di una clandestinità che ne lacerava ogni rapporto con la società circostante, ogni «legame» personale e famigliare -, l'unica, esclusiva «comunità» di riferimento. Non lo strumento per trasformare il mondo, ma il mondo stesso, separati dal quale non solo non si «fa» ma non si «è». | << | < | > | >> |Pagina 235Ed essa è, esattamente, la terribile, inescusabile, componente repressiva (e oppressiva) delle diverse manifestazioni storiche del comunismo novecentesco, denunciata da Rossana Rossanda in un commento a caldo sull'edizione italiana del Libro nero. Il fatto che «dovunque i comunisti siano andati al potere, il monopolio statale della violenza è stato piú alto e durevole che in qualsiasi democrazia» e che, spesso fin dall'origine, «la repressione ne sia diventata una struttura ordinativa». Il che significa, in questo contesto, che carcere, deportazione, tortura, delazione, campi di concentramento, spie e aguzzini - insomma tutto il repertorio dell'«oppressione dell'uomo sull'uomo», dell'arbitrio e della costrizione contro cui l'identità ideale del comunismo moderno si era costituita -, figurano, tragicamente, come strumenti normali della sua pratica di governo. Ne costellano e accompagnano l'esperienza storica, non come accidenti, o casi estremi (eccessi si diceva un tempo), ma come prassi ordinaria e condivisa dalla stragrande maggioranza dei suoi gruppi dirigenti (e per certi versi dei suoi stessi militanti). Una realtà che nessuna revisione dei conti - nessuna rincorsa del «negazionismo» sul suo terreno -, può occultare, né ridimensionare. E che, in termini crudi, può essere espressa cosí: con la constatazione che numerose generazioni di comunisti, in questo secolo, condussero la propria battaglia per un mondo e un'umanità radicalmente diversi, usando le armi degli altri (dei propri nemici, delle tradizionali classi dominanti, degli oppressori e dei tiranni). Per molti aspetti peggio degli altri: al di fuori di ogni procedura di garanzia, senza i limiti giuridici che per lo meno dall'età del costituzionalismo in poi incominciavano a vincolare le forme di governo liberali. O, se si preferisce, mutuando i metodi dei «peggiori tra gli altri» - dei propri avversari piú feroci, di coloro che appunto ritenevano che ogni metodo fosse buono per far fuori finanche la speranza del comunismo -, nella convinzione condivisa che la grandezza dei propri fini avrebbe comunque riscattato, o giustificato, o in qualche modo occultato la durezza dei mezzi. Che la storia sarebbe stata clemente, nel giudizio finale, nei confronti di chi ne aveva facilitato, o accelerato, il corso.È questo, in fondo, il capo delle tempeste che il Libro nero ci indica (e sottolineo «indica», non «costituisce»), ora che tutto è finito. Ora che quella parabola si è conclusa senza approdare a nessuna «nuova umanità», a nessun «uomo nuovo» né a nessuna nuova società capace di giustificare con la grandezza degli esiti la ferocia del percorso, cosicché nulla resta piú tra noi, chiamati a giudicare, e i nudi fatti di allora, a filtrare il giudizio. A occultare il nucleo duro del problema. Il quale rimane, appunto, quello della natura profondamente, sostanzialmente «eterogenetica» della pratica comunista della violenza, che ha portato i suoi artefici - gli uomini che piú di ogni altro, nella storia, ritenevano di produrre da se stessi il proprio destino - a mutare radicalmente il segno sociale e morale della propria azione senza averne alcuna percezione. E che costituisce tutt'ora - piaccia o non piaccia - il grande discrimine tra quell'esperienza e l'altra forma estrema con cui la violenza novecentesca si è manifestata, nell'epoca dei fascismi. | << | < | > | >> |Pagina 253Tutto ciò mostra da una parte l'aberrazione cui può giungere, in circostanze certo eccezionali, la costituzione (si potrebbe dire l'auto-proclamazione) di una classe politica in «ceto pedagogico»: in élite chiamata a guidare il proprio popolo sulla strada della virtú in nome di un sapere ritenuto superiore e salvifico in sé, tale da mettere fuori corso ogni altro sapere e tradizione e da legittimare ogni costrizione nei confronti degli inconsapevoli beneficiati. E rivela, dall'altra parte, quanto lo scontro di potere interno al Partito e allo Stato abbia finito per assorbire e dissolvere in sé l'intero universo sociale, come accade appunto quando un sotto-sistema, come quello politico, si assolutizza, e divora ogni altra sfera. Quando la politica, cioè, pretende di essere scienza assoluta della società, destinata a risolvere in sé ogni altro aspetto dell'esistenza individuale e collettiva.Due degenerazioni, queste, che nell'esperienza cinese si espressero - per ragioni storiche e culturali - con particolare evidenza, ma che in fondo appartengono allo stesso patrimonio genetico dell'intero comunismo novecentesco. Al suo «statuto mentale». La logica della lotta all'ultimo sangue nel Partito, lo scontro feroce, talora brutale, per il controllo degli organi del Partito, che ebbe il suo approdo piú mostruoso nella vicenda del Partito comunista sovietico e nelle Purghe staliniane, ma che dissemina tutta la storia dei partiti comunisti e ne costituisce un tema ricorrente, erano favoriti, per certi versi imposti, da una cultura politica che faceva appunto dell'apparato organizzativo - della «forma-partito» in quanto tale -, lo strumento assoluto ed esclusivo della trasformazione. Che drammatizzava, quindi, la questione del suo possesso - della possibilità di esercitarne il monopolio -, riclassificando tutte le altre questioni come secondarie. Retrocedendo tutti gli altri conflitti e gli altri interessi - tutti gli altri obiettivi, compresa la sicurezza e le condizioni materiali di vita delle proprie stesse classes guardées - a un rango marginale rispetto a quello capitale del controllo del partito considerato come la condizione stessa per la propria esistenza come «soggetto»: tecnologia politica che, sola, poteva mettere in grado l'avanguardia di agire per conto degli «altri», della massa degli inconsapevoli e dei disorganizzati. Di piú: di «agirli» nella direzione «giusta». Né la cosa dovrebbe stupire piú di tanto. Se si concepisce il proprio obiettivo storico come un'«opera»; se s'intende il comunismo come qualcosa da «fare» - fare ilcomunismo era appunto la formula universalmente impiegata -, da «edificare», in qualche modo da costruire dentro un processo di produzione di ampie dimensioni e di lunga durata, anziché da vivere e da praticare nella quotidianità delle relazioni sociali, è in qualche modo inevitabile che il «mezzo di produzione» assuma, nel corso del tempo, un'importanza crescente fino a prevalere sul prodotto stesso. Fino a costituirsi - come avviene regolarmente nel campo dell'economia - nella sua condizione di esistenza e, dunque, nella sua ragione. E che - allo stesso modo - la «proprietà dei mezzi di produzione» divenga la questione cruciale di tutto il processo: l'elemento che, in ultima istanza, attribuisce un senso sociale all'intero processo produttivo. Il che fu esattamente ciò che avvenne dentro la metamorfosi integrale del comunismo nella sua versione novecentesca, segnato fin dalla sua origine - fin dall'atto che partecipò in forma tanto pregnante alla genesi del secolo, l'Ottobre russo - da un'estrema capacità di sintetizzare in sé in forma brutalmente pura tutti gli umori attivistici e produttivistici del tempo, il suo immaginario dominato dal gigantismo tecnico, i suoi miti prometeici incarnati nella potenza della produzione di massa nazionalizzata, della grande fabbrica standardizzata, della trasformazione e riproduzione meccanica dell'universo. Se un tratto di novità è possibile ritrovare nella teoria e nella pratica bolscevica tale da spiegarne insieme lo straordinario successo e le insanabili contraddizioni - la sua apparentemente irresistibile efficacia e insieme la sua intrinseca incapacità di produrre una fuoriuscita reale dal «mondo delle cose» -, esso sta nel ruolo nuovo assunto dall'Organizzazione come fattore primario e strategico dell'azione rivoluzionaria. Dall' "organizzazione scientifica" come chiave della trasformazione sociale. È l'idea, interpretata in forma esemplare da Lenin e da Trockij, che esista una «macchina per fare la storia», capace di mettere al lavoro le leggi profonde della società trasformandole in energia rivoluzionaria. Idea, d'altra parte, del tutto simile a quella elaborata esattamente negli stessi anni da Taylor e da Ford che esista una «macchina per fare la società» - per produrre su scala di massa la materialità quotidiana -, capace di sfruttare in modo scientifico le leggi dell'ergonomia per trasformarle in energia produttiva. Essa si basava sulla convinzione che il mondo possa trovare una propria sintesi, un proprio punto di condensazione, in un «sistema organizzato», razionalmente strutturato per specializzazioni funzionali e gerarchizzato (il Partito, per gli uni, la Fabbrica per gli altri) dal quale la complessità dei processi potesse essere governata e diretta verso un fine condiviso, secondo sequenze prevedibili e predeterminabili. |
| << | < | > | >> |RiferimentiAA. VV., Il '68 senza Lenin. Ovvero la politica ridefinita. Testi e documenti, introduzione di Goffredo Fofi, Edizioni e/o, Roma 1998 AA. VV., Sul libro nero del comunismo. Una discussione sulla sinistra, Manifestolibri 1998 AA. VV., Il libro rosso del socialismo. Speranze, ideali, libertà, Prospettiva, Roma 1988 Acheng, La trilogia dei re, Theoria, Roma 1993 -, Il re degli alberi, Theoria, Roma 1990 Adorno, Theodor, Stichworte. Kritische Modelle, Suhrkamp, Frankfurt am Lain 1969 [trad. it. Parole chiave. Modelli critici, Sugarco, Milano 1974] Amin, Ash (a cura di), Post-Fordism. A Reader, Blackwell, Oxford UK Cambridge (Mass.) 1994 Anders, Günther, Die Antiquierheit des Menschen, II. Über die Zerstörung des Lebens im Zeitalter der dritten industriellen Revolution, Beck, München 1980 [trad. it. L'uomo è antiquato. 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