|
|
| << | < | > | >> |Indice3 I. Populismo 2.0: malattia senile della democrazia 4 «A catch-all word»... 6 Post-democrazia... 8 Oclocrazia ovvero «Governo della plebe»? 11 II. Non basta la parola 12 Minimo comun denominatore 15 «Alto/basso» vs «destra/ sinistra» r6 Antipolitica 20 New Populism 23 Il caso italiano: neopopulismo di lotta e di governo 27 III. The original populists 28 Il People's Party 30 Radici 33 Il cuore populista americano... 39 IV. The apprentice 39 Lo shock 42 Mappe (antiche e nuove) 44 Due Americhe 50 La metamorfosi della working class 56 Hillbilly Elegy 62 Underdogs e fat cats 64 Populismo post-novecentesco 67 V. Europa infelix - Brexit 68 Il terremoto inglese 71 Ancora mappe. Ancora cleavages 75 Identikit simmetrici e polarizzati 83 Tra paura e paura 90 VI. Europa infelix/ 2 - Francia, Germania... e gli altri 92 Il «nuovo fronte» francese 96 Dalle fortezze nere alla Francia 104 Se Parigi piange, Berlino non ride... 1o6 AfD: un «populismo tedesco» 111 Un populismo per «popoli ricchi»? 116 L'alternativa berlinese all'alternativa tedesca 120 VII. I «tre populismi» italiani 122 Il «telepopulismo» berlusconiano 128 Il «cyberpopulismo» grillino 135 Il «populismo dall'alto» di Matteo Renzi 140 «Dies irae» 147 VIII. In conclusione: l'età del vuoto |
| << | < | > | >> |Pagina 3Capitolo primo
Populismo 2.0: malattia senile della democrazia
Democrazia e Populismo hanno la radice in comune. Demos in greco e populus in latino rinviano allo stesso soggetto: il popolo. E dunque a un destino in buona misura comune: quando il popolo «sta male» anche la democrazia soffre...
Per questo qui si discuterà del populismo in primo luogo come «sintomo» di
un male piú profondo,
anche se troppo spesso taciuto, della democrazia: la
manifestazione esterna di una malattia di quella forma
contemporanea della democrazia - l'unica affermatasi
nella modernità sulle rovine delle utopie partecipative - che è la Democrazia
rappresentativa. Ogni qualvolta una parte del «popolo» o un popolo tutto intero
non si sente rappresentato,
ritorna in un modo o nell'altro un qualche tipo di reazione cui si è dato il
nome di «populismo».
Come «malattia infantile della democrazia» all'inizio del ciclo democratico,
quando ancora la ristrettezza del suffragio e le barriere classiste tenevano
fuori
dal gioco una parte della cittadinanza (il populismo tardo-ottocentesco
e primonovecentesco era, in ampia misura, una «rivolta degli esclusi»). E come
«malattia senile della democrazia» oggi, quando l'estenuazione dei processi
democratici e il ritorno in forze di dinamiche oligarchiche nel cuore delle
democrazie mature rimettono ai margini o tradiscono il mandato di un popolo
rimasto «senza scettro» (il populismo post-novecentesco è, in qualche modo, una
«rivolta degli inclusi» messi ai margini). In entrambi i casi, la «sindrome
populista» - chiamiamola cosí - è il prodotto di un deficit di rappresentanza.
«A catch-all word»...
Inutile nascondercelo. Per come è usato oggi, nella polemica politica e nella cronaca giornalistica, populismo è un termine pressoché inutilizzabile, data l'indeterminatezza e l'enorme varietà di significati (tutti antipatizzanti) che gli vengono attribuiti. Come hanno scritto due autorevoli studiosi del fenomeno, quella del populismo è un po' come l'ironica definizione del poeta e drammaturgo gallese Dylan Thomas secondo cui un alcolista «è uno che beve tanto quanto te, ma non ti sta simpatico [you dont like]»... Potremmo anche definirla una catch-all word: una parola «pigliatutto», che tira dentro, come se appartenessero alla stessa natura, cose vecchie e cose nuove, manifestazioni di protesta radicale dell'altro ieri e forme di rivolta elettorale di oggi o forse di domani, i populisti russi dell'Ottocento e i qualunquisti italiani dei tardi anni Quaranta del Novecento, le suffragette inglesi dell'età vittoriana e gli elettori machisti di Donald Trump nell'epoca del declino americano, i costruttori di muri ungheresi al comando di Viktor Orbàn e i ricercatori di nuove vie per l'Europa come i greci di Alexis Tsipras o gli spagnoli di Pablo Iglesias... . Tutto quanto sta fuori e (ma non sempre) contro il cosiddetto establishment (altra parola pigliatutto dai confini incerti).
Si tratterà, dunque, in primo luogo di cercare di
mettere un po' di ordine nelle definizioni. E di tracciare confini concettuali e
cronologici, parlando a questo punto piú che di «populismo» al singolare di
populismi
al plurale, data la molteplicità di esperienze che stanno al di sotto del
termine, non riducibili a un'unica notte in cui tutte le vacche (o i loro
mandriani) sono nere. E distinguendo, oltre che tra
le differenti «esperienze populiste», anche tra i populismi che potremmo
chiamare classici, o tradizionali, su cui esiste ormai una sterminata
letteratura e alcune (non moltissime) ricostruzioni storiografiche
di alto livello; e il populismo emergente. Quello che
qui si chiama il «populismo 2.0», cioè un populismo
di nuova generazione — di seconda, anzi, forse meglio
«di terza generazione» —, per sottolinearne i caratteri inediti. O le modalità
del tutto inedite che alcuni
aspetti tradizionali sono venuti assumendo nelle convulsioni di questo ulteriore
passaggio di secolo. Un nuovo mondo solo parzialmente esplorato.
Post-democrazia...
Ma poi bisognerà mettere le mani direttamente nella materia viva del disagio. Nella crisi della democrazia (crisi di rappresentanza, crisi di legittimazione, crisi di sovranità), sicuramente molto piú grave di quanto solitamente non si voglia ammettere. Grave al punto che già da un po' si è incominciato a parlare di «post-democrazia», alludendo a una sorta di carattere terminale della patologia in atto: alla sempre piú marcata torsione oligarchica che la forma democratica va subendo, diventando sempre meno rappresentativa e sempre piú «esecutoria». E nella sottostante crisi sociale, vero e proprio ipocentro — punto di rottura profondo — del terremoto che sta facendo tremare il nostro ordine politico: nel modo con cui è venuta, velocemente, ridisegnando l'assetto delle classi e dei gruppi sociali, con il diffuso declassamento del ceto medio. Con lo sfarinamento del cosiddetto «mondo del lavoro» frammentato in un caleidoscopio di figure e di identità professionali incomunicanti tra loro.
Con l'impoverimento di strati fino a ieri ascendenti e l'ascesa vertiginosa
di piccoli gruppi di vecchi e nuovi privilegiati, segno inquietante di
un'improvvisa inversione di marcia del cosiddetto «ascensore sociale»... cui fa
riscontro un'altrettanto improvvisa e
inquietante lacerazione dell'involucro di «buone maniere», di relativa
tolleranza e di «incivilimento» del
conflitto politico, entro cui si era dispiegato il processo di
«cetomedizzazione» (termine orribile, ma difficile da sostituire) delle società
occidentali con il loro seguito di
politically correct,
di spirito di mediazione
e di parlamentarizzazione del dissenso. Un dispositivo apparentemente stabile, e
invece sostituito ora da tutto ciò che appare «scorretto» (e in quanto tale
sincero, opposto all'ipocrisia prevalente), aggressivo (e quindi diretto),
rapido e fattivo (in contrapposizione all'inconcludenza della
clase discutidora,
come i reazionari ottocenteschi chiamavano la nascente borghesia
liberal-parlamentare).
Oclocrazia ovvero «Governo della plebe»?
Plebe, si sarebbe tentati di qualificare questo nuovo, spesso strato di polvere sociale che si deposita sul fondo della piramide come effetto dello sgretolamento dei vecchi «blocchi» che avevano caratterizzato l'epopea industriale. E oclocrazia, «governo della plebe» - come Polibio chiamò la degenerazione della democrazia quando, smarrito il valore dell'eguaglianza, il popolo ambisce la vendetta - quello anticipato da questa sorta di «disaggregato sociale», portatore di tutta la carica di rancore, frustrazione, intolleranza, radicalità che il declassamento e la disgregazione comportano. Come se un nuovo popolo, d'imbarbariti sociali - il cattivo popolo della trasgressione populista odierna -, fosse di colpo emerso a fianco, anzi, al di sotto, del vecchio buon popolo delle retoriche democratiche di ieri, soppiantandolo e sommergendolo: sarebbero loro gli artefici della Brexit inglese - gli sconsiderati fautori del Leave di contro ai ponderati supporter del Remain per cui gli establishment di tutto il mondo tifavano; e loro i protagonisti dello sconcertante trionfo di Trump prima alle primarie americane che hanno ridotto in frantumi l'immagine e la leadership del Grand Old Party, il paludatissimo Partito repubblicano, e poi addirittura - horribile visu - alle presidenziali; loro gli spettri che si aggirano per l'Europa destabilizzando, da destra (di piú) o da sinistra, la leadership oligarchica della sua Commissione e degli apparati comunitari; loro il propellente del grillismo, del lepenismo, dell'indipendentismo antieuro, della rivolta anti-immigrati. Una sorta di nuova invasione degli Iksos non piú su scala nazionale, come era stato per l'Italia nella visione che Benedetto Croce aveva avuto sulle origini del fascismo, ma ora su scala globale. O quantomeno occidentale. Se non che questa rappresentazione di maniera del fenomeno si scontra con la constatazione che quell'apparentemente nuovo protagonista non è privo di storia. La moltitudine liquida che oggi spaventa con i suoi spostamenti repentini se ne stava, fino a ieri, relativamente ordinata (e comunque acquattata) dentro solidi contenitori, politici e soprattutto elettorali, collocata non al di là di un qualche margine esterno ma assai vicino al centro delle nostre compagini sociali. Essa è stata a lungo un fattore di stabilità delle cosiddette «democrazie occidentali»: pur nella dialettica delle culture politiche e degli interessi legittimi, ha condiviso a lungo un sostanziale consenso sul modello sociale prevalente. E ha contribuito, quantomeno con la propria passività, alla sua legittimazione. Cosicché piú che sulle forme, condivisibili o meno, dell'espressività di quel protagonista, o sulla fenomenologia dell'«uomo in rivolta» che esso ci offre, ciò su cui occorrerebbe concentrare il fuoco delle domande è il meccanismo di rottura che ha prodotto quella metamorfosi. La dissoluzione di quegli antichi contenitori (i partiti di massa novecenteschi, i canali della partecipazione politica tradizionale, le forme di aggregazione tardo-industriali). La trasformazione «antropologica» delle masse, nella transizione ormai compiuta da produttori-consumatori a consumatori tout court (o a «consumatori-consumati» per usare la felice espressione di Benjamin Barber ). Ma anche la mutazione culturale delle élite politiche, l'emergere di un loro inedito «spirito gregario», man mano che la loro reale autonomia decisionale si assottiglia: un mimetismo linguistico e comportamentale verso il basso e insieme una subalternità valoriale verso l'alto... Scopriremmo allora — per lo meno è quanto personalmente ho sperimentato, nell'elaborazione di questo libro — che quanto chiamiamo genericamente «populismo» non è un nuovo (o forse anche vecchio) «soggetto politico» in senso proprio. L'equivalente di un partito politico, un movimento, un «attore», con una propria identità strutturata, una propria matrice organizzativa, una propria «cultura politica» per detestabile e deprecabile che essa sia. Non è un «ismo» come gli altri che abbiamo disseminato nel corso storico della modernità: socialismo, comunismo, liberalismo, fascismo... E con cui ci siamo identificati (per appartenenza) o contro cui abbiamo combattuto (per contrapposizione). È un'entità molto piú impalpabile e meno identificabile entro specifici confini e involucri. È uno stato d'animo. Un mood. La forma informe che assumono il disagio e i conati di protesta nelle società sfarinate e lavorate dalla globalizzazione e dalla finanza totale — da ciò che Luciano Gallino ha chiamato il «finanzcapitalismo» — nell'epoca dell'assenza di voce e di organizzazione. Nel vuoto, cioè, prodotto dalla dissoluzione di quello che un tempo fu «la sinistra» e la sua capacità di articolare la protesta in proposta di mutamento e di alternativa allo stato di cose presente. | << | < | > | >> |Pagina 39Capitolo quarto
The apprentice
Può apparire bizzarro, e persino incredibile, ma è
la medesima geografia elettorale a riaffiorare, un secolo e un quarto piú tardi,
alla fine del 2016, in quello che è stato considerato come il piú sconcertante e
trasgressivo - imprevisto e imprevedibile - voto presidenziale americano.
Lo shock.
La sera dell'8 novembre, in quelle sei ore che sconvolsero il mondo in cui, preparandoci a guardare la superficie tranquilla di un lago, vi abbiamo invece visto emergere l'immagine sconvolgente del mostro di Loch Ness, abbiamo anche sperimentato il crollo di molti miti del nostro tempo. Quello dell'onnipotenza degli establishment. Quello dell'onniscienza dei sondaggisti e del giornalismo informato. Quello dell'incontrastata capacità di condizionamento da parte del sistema dei media. Ed è difficile dimenticare lo sguardo dei piú popolari anchormen delle principali reti televisive globali farsi vitreo e perdersi sconcertato nel vuoto, come quello dei broker delle Borse mondiali nei peggiori «martedí neri» della storia. L'agitazione incontrollata di John King, sulla Cnn, davanti al suo magico touch screen a parete quando i colori degli Stati assegnati hanno incominciato ad andare fuori controllo e ha dovuto ammettere sconsolato che nessuna delle notizie a cui i sondaggi l'avevano preparato si confermava. O le frasi disperate di Stephen Colbert, star della Cbs, quando alla fine di una serata sulla graticola, con Donald Trump ormai irraggiungibile, si è chiesto e ha chiesto all'America: «Ci sono mai stati momenti piú folli di quello che sta avvenendo proprio ora? O questo non è che l'ultimo frutto dell'albero della follia?», mentre il giornalista Mark Alperin che stava al suo fianco aggiungeva, apocalittico, che «al di fuori della Guerra civile, della Seconda guerra mondiale e includendo l'11 settembre, questo potrebbe essere il piú catastrofico evento che il Paese ha mai visto»... Era come se - cosí commenterà il «New York Times» - «un asteroide avesse colpito», studio dopo studio, l'intero sistema televisivo... . In un mondo stupefatto e costernato - «percosso e attonito» direbbe il poeta - sarà quello l'atteggiamento prevalente di tutti i principali quotidiani occidentali, come se appunto l'impossibile si fosse d'improvviso materializzato. E ci si trovasse a vivere in una realtà sconosciuta. L'inglese «Daily Mirror» aprirà con l'immagine a tutta pagina della Statua della Libertà, le mani sul viso in segno di orrore, e la frase: «Che cosa hanno fatto!» (Dear God, America what bave you done? è anche il titolo del «Telegraph», mentre sui social circola in forma virale l'immagine dei volti dei quattro presidenti del Mount Rushmore con un'espressione di assoluta angoscia). Il francese «Libération» titolerà Trumpocalypse e «Le Figaro» L'ouragan, mentre l'ambasciatore di Hollande a Washington, Gérard Araud, una star del web, emetterà un tweet assai poco diplomatico - «Après Brexit et cette élection, tout est désormais possible. Un monde s'effondre devant nos yeux. Un vertige» -, che circolerà per un po' prima di essere ritirato. Il «Daily Telegraph» si limiterà a un piú compassato, ma non meno inequivocabile, Trump's american revolution, ma il newyorkese «Daily News» sparerà in sovrimpressione all'immagine della Casa Bianca la scritta a caratteri cubitali House of Horrors! Segno che lo shock è stato grande. Almeno quanto la sorpresa. | << | < | > | >> |Pagina 42Mappe (antiche e nuove).Fin dalla notte dell'8 novembre un buon numero di network globali misero a disposizione dei navigatori del web mappe interattive, sulle quali era possibile vedere in tempo reale - come sul wall touch screen di John King e della Cnn - formarsi la geografia del voto. Il «Guardian», in particolare, ne offri una di straordinario interesse, dove era possibile non solo seguire l'assegnazione degli Stati, ma anche lo spoglio delle contee passando con un semplice colpo di zoom da uno sguardo lontano a uno piú ravvicinato, e osservando infine, a risultati acquisiti, lo spettacolo cromatico ai diversi livelli. Non poté sfuggire allora, fin dalle prime battute, la striscia irrimediabilmente rossa - d'un rosso vivo, senza screziature - che correva verticalmente, da sud a nord, dal Texas al North Dakota, là dove si stendono appunto i Great Plains, nelle stesse aree in cui molti, molti decenni prima - un intero eone potremmo dire - il People's Party aveva impresso il proprio colore. [...]
Ma il gioco della mutazione cromatica non vale
solo per i singoli Stati (o per i casi limite). Può essere
utilmente fatto anche sull'intero quadro nazionale,
operando sulla mappa interattiva nel suo insieme. Si
potrà allora assistere allo spettacolo, di per sé sconcertante, di una tavola di
colori ancora relativamente mossa, con significative porzioni di blu incastrate
qua e là, che d'improvviso s'arrossa man mano che diventano visibili, nel
dettaglio, i singoli tasselli «occupati dalle truppe di Trump», fino a farsi
apparentemente omogenea nelle grandi aree centrali, con solo le due
fasce costiere orientale e occidentale uniformemente
colorate di blu. E questo perché Trump si è aggiudicato - fatto di per sé
clamoroso - ben 2623 contee delle 3142 in palio (un record assoluto) mentre alla
Clinton non ne sono rimaste che 487. Cosa che è stata utilizzata in modo
truffaldino da parte della destra radicale
per accreditare la falsa idea che Trump avesse ottenuto una generale
landslide -
un plebiscito - nel voto popolare, occultando il fatto che le aree «di Trump»
erano quelle piú rarefatte come popolazione e quelle
«di Hillary» le piú densamente popolate, cosicché il
conteggio finale farà segnare un vantaggio di 65 844 610 voti a Hillary Clinton
contro 62 979 636.
Due Americhe.
Come che sia, liberato il campo dalle piú evidenti manipolazioni e dalle speculazioni interessate, resta comunque il fatto, di per sé stupefacente, dell'emergere prepotente, plastico, dal voto di novembre, di un Paese nettamente diviso. Per certi versi di due Paesi, o due Nazioni, anche territorialmente separate: le Two Americas, di cui parla il «New York Times», corredando anche in questo caso il proprio servizio di eloquenti mappe. La Trump's America, territorialmente immensa, distesa a occupare l'85% del territorio, tre milioni di miglia quadrate (in cui però abitano solo 146 milioni di persone, il 46% della popolazione totale degli Stati Uniti); e la Clinton's America, incredibilmente densa e concentrata, ristrettissima in termini spaziali, appena il 15% del territorio, 530 000 miglia quadrate, ma popolatissima (174 milioni di abitanti, quasi trenta milioni in piú rispetto all'altra, il 54% della popolazione americana). Due mondi antropologicamente, economicamente, socialmente e culturalmente estranei, la cui differenza sembra rianimare un cleavage - una linea di frattura - che i politologi avevano usato ampiamente nel descrivere il processo di State building (e in parte anche di Nation building), cioè di formazione dei moderni Stati nazionali, e che sembrava andato relativamente in disuso nella modernità matura: il cleavage Centro/periferia, o città/campagna. L'America di Trump è l'America rurale delle case sparse e delle farms perdute nelle praterie, quella dei villaggi semispopolati e delle cittadine di provincia sempre piú sconnesse dalle rispettive capitali, l'America delle periferie, di tutte le periferie perdute e sperdute rispetto ai propri centri. L'America di Hillary è invece l'America metropolitana, delle grandi e soprattutto grandissime città, anzi, dei distretti centrali delle metropoli. L'America del centro dei Centri, dove ha fatto segnare distacchi abissali, come nel district of Columbia, vinto 93% a 4% (con 89 punti di distacco), o nel Bronx (89 a 10) e a Manhattan (87 a 10) o, sulla costa opposta, a San Francisco (85 a 10) e a Los Angeles (71 a 23)... Le statistiche ci dicono che negli urban cores (68 contee in tutto, ma pesantissime) Hillary ha trionfato con un margine medio di distacco di 72 punti percentuali. All'opposto, Trump ha monopolizzato il voto rural (1299 contee) con un vantaggio medio di 86 punti e quello delle very small e delle small cities (637 e 356 contee) con vantaggi di 73 e di 70 punti, prendendosi anche le medium sized cities e i suburbs con distacchi intorno ai 50 punti. | << | < | > | >> |Pagina 67Capitolo quinto
Europa infelix - Brexit
Il Big Bang che ha ridisegnato il profilo politico,
sociale e culturale del Paese guida dell'Occidente era
stato preceduto da potenti scricchiolii sul versante
opposto dell'Atlantico, nel continente europeo, non
solo negli Stati di recente ritorno (o, meglio, di primo
approdo) alla democrazia come l'Ungheria e la Polonia, ma nel triangolo
«originario» dell'Europa unita:
Francia-Germania-Italia. E da un vero e proprio cedimento strutturale nell'
alter ego
dell'America su questa sponda: in quel Regno Unito dove la politica moderna era
nata. E dove si è materializzata, anche lí, una
«geografia politica» inaspettata, rimasta per cosí dire
latente sotto la maschera ormai logora del tradizionale
bipartitismo inglese ed emersa con un plateale
coup de théâtre,
in una notte di mezza estate, con tutta la forza dirompente del nuovo populismo.
Con i suoi tratti ibridi e il suo linguaggio non convenzionale: le sue
collisioni temporali (l'intreccio tra nostalgia e ansia di mutamento) e le sue
convulsioni morali (la combinazione di orgoglio e paura, o di comunitarismo e
avarizia). Soprattutto la sua viscerale contrapposizione tra
basso e alto, che ha tagliato orizzontalmente, come la
lama della «livella», i due partiti politici che avevano da tempo immemorabile
monopolizzato lo spazio politico e che ne sono usciti sventrati.
Il terremoto inglese.
Aveva piovuto come poche volte prima a memoria d'uomo la notte alla vigilia del voto su Londra e il South East England. E ancora per tutta la giornata del 23 giugno il tempo si era mantenuto cattivo, mentre tutti i sondaggi convergevano nel confermare una stabile maggioranza di No e i bookmaker quotavano il Remain 1,14 a 5 sul Leave, segno di una pressoché assoluta probabilità di vittoria del primo sul secondo. Anche la serata, con lo spoglio, si era aperta in modo rassicurante, e chi era andato a letto a mezzanotte poteva immaginare ancora un Regno Unito ventottesimo membro dell'Unione. Ma nella notte tempo e voto erano cambiati, e la mattina del 24, davanti al numero 10 di Downing Street, sotto un sole smagliante, un contrito David Cameron aveva dovuto comunicare sconfitta e dimissioni, con il Remain fermo al 48,1% e il Leave vincente al 51,9%. Era andata alle urne una percentuale altissima di aventi diritto - stupefacente per una scadenza referendaria, addirittura superiore di 6 punti a quella delle ultime elezioni politiche -: il 72,2% ovvero 33 milioni e mezzo di cittadini, e quelli favorevoli alla Brexit avevano prevalso per 1 269 501 voti. Ma i dati aggregati dicono ancora poco. Parlano meglio le carte, anche in questo caso. Le mappe, e i loro colori. Che qui, a differenza degli Stati Uniti, sono l'arancione e il blu anziché il rosso e l'azzurro, ma parlano lo stesso linguaggio. E mostrano in fondo lo stesso fenomeno: un voto «geografico», per cosí dire, prima che politico. Cioè territorialmente piú che non ideologicamente determinato. Lo si coglie a colpo d'occhio, con in alto la Scozia tutta uniformemente arancione (colore del Remain) e a sinistra l'Irlanda quasi altrettanto, mentre in basso l'Inghilterra è ampiamente blu (prevalenza del Leave), con solo la macchia diversa della Greater London e qua e là qualche isolotto in corrispondenza di alcune città. Infatti in Inghilterra il distacco del Leave è molto piú ampio rispetto al dato aggregato dello United Kingdom, oltre sei punti percentuali (53,3% a 46,7%), mentre in Scozia il vantaggio del Remain è abissale (62% a 38%) e in Irlanda netto (55,8% a 44,2). Il che ci dice che non solo il Regno Unito si considera, sia pur di misura, fuori dall'Unione Europea, ma che non è neppure piú tanto unito... Un mutamento di scenario - una «mutazione genetica», si potrebbe dire -, in quella che è considerata la democrazia piú stabile del mondo, che non può certo essere relegato nell'ordinaria amministrazione o nell'ambito degli incidenti di percorso. | << | < | > | >> |Pagina 86[...] Allo stesso modo Nigel Farage - che non perde occasione per marcare la propria distanza e differenza da Johnson - stigmatizza ferocemente la «società del denaro» e il predominio della finanza, ma ha fatto fortuna come agente di cambio alla City, lavorando per potenti operatori come Crédit Lyonnais, Refco e Natexis Metals. E ha iniziato la sua esperienza politica nel Conservative Party.Dei due, è comunque lui quello che incarna con maggior precisione e adeguatezza la figura del populista del XXI secolo. È Farage che il 28 giugno, a cinque giorni dal voto che ha segnato la sua carriera e lo spartiacque nella vicenda europea, ha affrontato con sfrontata irrisione l'aula del Parlamento di Bruxelles, con uno speech di alta efficacia in cui ha ricordato ai suoi attoniti colleghi degli altri 27 Paesi che un eventuale fallimento nel percorso di «uscita» del Regno Unito dall'Unione avrebbe fatto «più male a voi che a noi». E poi, facendo scorrere lo sguardo sul semicerchio dell'aula, gli ha rinfacciato che «virtualmente non uno di voi ha fatto un "vero lavoro" [a proper job] nella sua vita». Ed è stato sempre lui, per tutti i diciassette anni della sua presenza parlamentare, ad aver attaccato frontalmente, personalmente, i diversi rappresentanti delle istituzioni europee come burocrati, oligarchi, falliti, irresponsabili e disumani. Al conte Herman Achille Van Rompuy, quand'era presidente del Consiglio Europeo, disse un giorno, guardandolo dritto negli occhi, che aveva «il carisma di uno straccio umido e la presenza di un impiegato di banca di basso grado». Contro il Presidente della Commissione europea Barroso mosse un attacco frontale per aver intrattenuto rapporti di amicizia con il miliardario greco Spiros Latzis, ampiamente finanziato con fondi pubblici con il beneplacito dell'Unione, e aver goduto di una dorata vacanza sul suo yacht. E lo stesso fece contro il commissario francese Jacques Barrot, colpevole di aver dirottato soldi pubblici nelle casse del proprio partito. In perfetto stile giustizialista. Quando nel luglio del 2015 l'Eurogruppo e la Commissione europea perpetrarono sulla Grecia, colpevole di opporsi alla suicida politica di austerità impostale e di aver celebrato un Referendum per dire No a quelle pretese, una delle piú feroci e ottuse vendette, fu comunque Farage a pronunciare davanti a un Parlamento europeo impotente e supino il piú duro j'accuse in nome del rispetto della volontà democraticamente espressa e della dignità del popolo greco. L'accordo - in realtà il Diktat - imposto allora, disse, dimostra che «la democrazia nazionale e l'appartenenza all'Eurozona sono inconciliabili». Ricordò che: Quando Papandreu decise di chiedere un referendum, lei, signor Rehn, parlò di «violazione della fiducia», e i suoi amici si sono riuniti qui come un branco di iene, hanno circondato Papandreu, lo hanno cacciato via e rimpiazzato con un governo fantoccio. Che spettacolo disgustoso! E prosegui: Noi dobbiamo riconoscere il terribile errore che abbiamo commesso, dobbiamo rimediare, dobbiamo ridare speranza alla gente, perché quello che abbiamo oggi è solo una profonda disperazione. Tutti noi ci ricordiamo dell'ex farmacista di settantasette anni che si è suicidato davanti al Parlamento greco, ma è solo una persona di fronte a una catastrofe umanitaria che si sta espandendo. C'è un grande aumento dei suicidi in Italia e in Grecia, particolarmente tra le persone che hanno piccole aziende e tra coloro che non sanno come uscire dai loro problemi. Un numero sempre piú grande di bambini abbandonati davanti alle chiese perché i genitori non possono nutrirli. I nostri dirigenti sono troppo poco sensibili per ascoltare questi discorsi e prestare la dovuta attenzione. Nessuno dei rappresentanti dei due principali gruppi parlamentari europei, non quelli del centrista Ppe ma nemmeno i loro colleghi delle socialdemocrazie riunite nel Pse, levò una parola di dissenso verso quell'operazione di vero e proprio «sadismo sociale». Nessuno, nell'establishment politico dell'Unione, lo prevedeva, ma l'immagine disumana offerta allora dalle «oligarchie europee» dovette pesare non poco sui sentimenti di distacco e di vera ostilità popolare nei confronti delle istituzioni comunitarie, espressisi anche nell'esito del referendum britannico. Coglie nel segno Marco D'Eramo quando scrive che «non è la Brexit a mettere in crisi l'Unione Europea, ma è la crisi dell'Unione Europea a provocare le spinte all'uscita». E a citare, a supporto, una severa lettera pubblicata sulla «London Review of Books» (rivista nettamente schierata a sinistra) il 31 marzo del 2016, in piena campagna per il referendum inglese, in cui fra l'altro si legge: La Ue di cui la Gran Bretagna è membro è la stessa Ue che ha brutalizzato il popolo greco. È la stessa Ue che attualmente, con un piccolo aiuto della Nato, cerca di respingere i disperati rifugiati dalla Siria, dall'Afghanistan, dall'Eritrea e da altrove. È la stessa Ue che sta conducendo trattative segrete sul Ttip (il trattato commerciale transatlantico), sul Ceta (Ue-Canada Comprehensive Economic and Trade Agreement) e Tisa (Trade in Services Agreement), trattati che mirano a rafforzare il ruolo delle corporations multinazionali e a scalzare le regole che proteggono le persone da esse. I socialisti non dovrebbero scusarsi per lanciare una campagna indipendente e internazionalista contro l'Ue. | << | < | > | >> |Pagina 111Un populismo per «popoli ricchi»?Eppure la Germania è un Paese economicamente forte. Fortissimo: è prima in Europa per potere d'acquisto. Ha il quarto Pil nominale nel mondo (dopo Usa, Cina e Giappone). È il terzo su scala globale per import-export, con un surplus commerciale pari all'8,4% del prodotto interno lordo. Ha il tasso di occupazione piú alto, al 70,9% (sei punti in piú della media europea) e l'indice di disoccupazione piú basso, al 4,2% (7,1% quello giovanile, che da noi sfiora il 40%). La sua economia è cresciuta del 10% nel periodo piú nero della crisi, tra il 2009 e il 2014. Il suo rapporto debito-Pil sta al 73% e il governo prevede di ridurlo al 60% entro il 2020. Verrebbe da dire che il suo è un «populismo da ricchi», diverso in ciò dal «populismo da deprivazione» di quei Paesi e di quelle società segnati da ampie macchie di declino, nei quali appunto la globalizzazione si presenta piú apertamente nella forma della delocalizzazione, della deindustrializzazione e dell'impoverimento. Quasi che qui la sindrome populista - o il «riflesso» populista - avesse il carattere della reazione preventiva, o del timore/previsione di una minaccia proveniente dall'esterno, nei confronti di un «fuori» indistinto, popolato da migranti musulmani e spendaccioni greci, fuggitivi siriani e magliari italiani, pronti a sfruttare il laborioso, sobrio e rigoroso popolo tedesco, rispetto ai quali difendersi con nuovi muri. Dunque, piú una difesa di posizioni acquisite che la reazione a una perdita subita. In realtà però... In realtà, se si scava appena un po' sotto la superficie dei dati ripetuti all'infinito dall'informazione mainstream e dalle agenzie globali di sistema, si scopre che non è «solo» cosí. Che anche la Germania felix ha le sue zone d'ombra. E le sue aree sociali malate. Essa è oggi tra i Paesi piú diseguali in Europa. Mentre dal 2010 l'economia nel suo complesso cresceva al ritmo del 2% all'anno, parallelamente aumentava la distanza tra le fasce sociali piú ricche e quelle piú povere (oggi i poveri sono 12 milioni e mezzo, la cifra piú elevata dall'anno della riunificazione). L'indice di Gini - che misura appunto il tasso di diseguaglianza - ha raggiunto il livello record di 0,76 per quanto riguarda la distribuzione del capitale privato (un indice pari a zero significherebbe uguaglianza perfetta, un indice pari a uno diseguaglianza totale con tutta la ricchezza concentrata in uno solo) contro una media europea di 0,67 (già di per sé cresciuta rispetto al passato). Lo spiega assai bene un recente libro dal titolo significativo: Lotta per la distribuzione. Perché la Germania è sempre piú diseguale?, di uno dei piú interessanti economisti tedeschi, tra i pochi con sensibilità sociale, Marcel Fratzscher, professore alla Humboldt-Universität di Berlino e Senior Economist della Bce. Ci dice che nonostante il mito degli «alti salari» tedeschi, il salario reale medio oggi in Germania è piú basso di quello di venticinque anni fa. E che mentre il reddito da capitale dal 2000 a oggi è cresciuto del 30% circa, quello da lavoro si ferma a un debole +6% in termini monetari. Un processo, questo, che non ha solo approfondito la frattura tra capitale e lavoro, ma che ha spaccato lo stesso mondo del lavoro salariato, con i lavoratori di fascia alta che hanno visto crescere il proprio reddito e quelli di fascia bassa che l'hanno visto diminuire. Cosicché il «rischio di povertà» è andato crescendo, nel quindicennio successivo al 2000, anche per fasce consistenti della parte attiva della forza lavoro, generando un buon numero di working poors, persone che nonostante lavorino e figurino tra gli «occupati», stanno sulla (o sotto la) soglia di povertà. Il fatto è che nemmeno il dato sul livello dell'occupazione - punto di forza della «superiorità tedesca» - sembra al riparo dalla minaccia delle ombre. Sette milioni e mezzo di quei 43 milioni «di unità» che le statistiche presentano come «attive» e titolari di un posto di lavoro sono impiegati nel circuito del mercato del lavoro di «serie B», classificato come «lavoro a bassa retribuzione», quello piú precario e sottopagato. In particolare nei famigerati minijob la figura introdotta dal governo socialdemocratico di Gerhard Schröder con la cosiddetta Riforma Hartz che nel 2003 introdusse una nuova «figura contrattuale», collocata sulla soglia della sopravvivenza e pensata per periodi lavorativi di breve durata e per occupazioni marginali, precedentemente svolte in nero (collaboratrici domestiche, babysitter e badanti, venditori di giornali e camerieri...) Si prevedeva un salario massimo di 450 euro mensili, per 15 ore settimanali al costo orario oscillante tra i 5 e i 7 euro e un 30% aggiuntivo a carico del datore di lavoro pari a 135 euro, niente ferie né trattamento di fine lavoro. Oltre a una previsione di pensione pressoché nulla. | << | < | > | >> |Pagina 116L'alternativa berlinese all'alternativa tedesca.Dai risultati delle elezioni amministrative a Berlino - tenutesi poco dopo quelle in Pomerania e attese con ansia come possibile conferma della «irresistibile ascesa» di AfD -, è venuto, per esempio, un messaggio diverso. Non - certo - per i due principali partiti che reggono il governo nazionale di Grosse Koalition e che avevano insieme retto la città: la Cdu della Merkel conferma la sua frana perdendo piú di 60 000 dei 341 000 voti della tornata precedente e precipitando a un umiliante 17,1%. L'Spd fa ancora peggio, scendendo dal 28% al 21% e cedendo ben 20 000 voti addirittura ad Alternative für Deutschland, la quale tuttavia si ferma al 14,1%. Un risultato definito «mostruoso per una città tradizionalmente rossa come Berlino», ma che la colloca comunque solo al quinto posto, dietro anche ai Verdi e alla Linke (15,6%). La quale costituisce in qualche modo la sorpresa della tornata raddoppiando i propri voti (255 740) e strappandoli un po' a tutti grazie a una campagna elettorale condotta all'attacco su tutti i temi sensibili, a cominciare da quello - socialmente cruciale - dell'«abitare» e della solidarietà, scontrandosi frontalmente con il sindaco socialdemocratico uscente per le sue politiche moderate, e non cedendo neppure di un millimetro sulla questione dell'accoglienza e dei migranti. Entrerà a far parte della nuova coalizione rosso-verde che guiderà la capitale tedesca. Il fatto è significativo. Il capolista della Linke aveva partecipato, come evento centrale nella sua campagna, a un incontro con Yanis Varoufakis. La Linke, d'altra parte, alle elezioni europee si era presentata sostenendo alla presidenza dell'Ue il leader greco di Syriza Alexis Tsipras. Aveva cioè sfidato un tabú tedesco, schierandosi apertamente per una politica di contrapposizione al sistema di governance europeo imposto dalla Germania e di solidarietà militante con i Paesi piú fragili economicamente, sacrificati da quelle politiche. E aveva vinto la scommessa. La composizione geografica e sociale del voto ne è testimone: raccoglie forti consensi all'Est (dove era il suo insediamento principale originario) raggiungendo il 23% dei voti, ma anche all'Ovest (10%) dove tradizionalmente restava sotto il 5%, un elettorato dunque relativamente nuovo. Ottiene il 16% tra i lavoratori dipendenti, ma si colloca bene anche tra gli autonomi (13%), al 17% tra i pensionati e al 14% tra i disoccupati. È la dimostrazione che - è bene notarlo - dove è in campo una sinistra che non abdica al proprio sistema di valori fondante, e non assume il punto di vista dell'ideologia monopolisticamente prevalente, la spinta propulsiva degli «etnopopulismi» di destra può essere neutralizzata o quantomeno contenuta. Cosí è avvenuto, d'altra parte, sull'asse mediterraneo - nell'area piú segnata dagli effetti della crisi - dalla Grecia alla Spagna al Portogallo, dove forze come Alba Dorata o España en marcha hanno visto il loro potenziale bacino d'espansione bloccato da formazioni politiche nettamente e radicalmente democratiche come Syriza e Podemos, schierate in forma radicalmente critica contro le politiche europee ma non su posizioni «sovraniste». Con un discorso politico «popolare» ma non «populista»: capace di parlare direttamente a un «popolo» orfano delle tradizionali rappresentanze istituzionali, ma senza indulgere al linguaggio del rancore indiscriminato o alla tecnica di costruzione dell'identità per contrapposizione ed esclusione. Mentre in Portogallo il Partido Nacional Renovador di Alberto João Jardim - un rechts-populismus piú di destra che populista - non è riuscito neppure a rendersi visibile sullo scenario politico. Sono, si potrebbe dire, le «democrazie tardive» europee - quelle riemerse alla vita democratica dopo lunghe parentesi dittatoriali di segno fascistoide o comunque reazionario - che mostrano una sorta di anticorpi nei confronti di un possibile contagio nazional-populista. Mentre, sul fronte opposto, stanno i late comers dell'Europa orientale: i tardivi membri dell'Unione Europea giuntivi dopo l'uscita dal dominio sovietico in cui erano rimasti ibernati e (quasi) subito caduti in preda a convulsioni neoautoritarie e tardo-nazionaliste. Orbán in Ungheria, con la sua Alleanza Civica, che alle europee del 2014 aveva preso il 51%; Jarek Kaczynski di Legge e Giustizia e Andrzej Duda, eletto presidente della Polonia con il 53% dei voti (60% tra i giovani) nel maggio del 2015 tra l'orrore del mondo. Sono i «ribelli» del Gruppo di Visegrád, i costruttori o ricostruttori di muri. Nostalgici di un populismo centronovecentesco, ancora diverso da quello piú «moderno» emerso nel cuore mobile dell'Occidente. In mezzo, come spesso accade, l'Italia. | << | < | > | >> |Pagina 120Capitolo settimo
I «tre populismi» italiani
L'Italia costituisce, in questo quadro, per molti versi un'anomalia. E, per altri, un laboratorio privilegiato. Una sorta di possibile case study, in cui quello che va sotto il nome di «neopopulismo» si è presentato in forma precoce e polimorfa. Non in una, ma addirittura in tre varianti, fra loro ordinate in (relativamente rapida) successione. Tre «forme» e tre «figure» che potremmo chiamare rispettivamente, dai nomi dei loro «eroi eponimi», berlusconismo, grillismo e renzismo. Tre fenomeni tra loro diversi per tempi di «emersione» e di «egemonia» oltre che per cultura politica - se si può usare nei loro confronti questa categoria impegnativa -, ma accomunati da alcuni tratti non solo formali. Sono infatti tutte e tre esperienze politiche segnate da una forte personalizzazione. Come dice la stessa denominazione utilizzata, inseparabili dalla persona che le ha per cosí dire «inventate» e «agite» (nel senso dell'attore teatrale) sul palcoscenico della politica nazionale. Tutte e tre, d'altra parte, hanno messo in atto un qualche, sia pur diverso, «meccanismo di dis-intermediazione»: uno stile di comunicazione e di azione basato sul rapporto diretto con un pubblico tendenzialmente indeterminato, piú ampio dei tradizionali insediamenti politicamente e culturalmente delimitati delle precedenti forze politiche. Un qualcosa che potrebbe somigliare al «popolo», se non altro perché destinatario di uno stile comunicativo popolare (o, forse meglio, «pop», come la musica). Tutti e tre i protagonisti, infine, tendono a presentare se stessi - e i propri rispettivi movimenti o partiti o segmenti di questi - sotto il segno della rottura, della diversità e del nuovo inizio. Cioè del distanziamento - della presa di distanza - rispetto a un passato o un presente stigmatizzato all'insegna del «male», utilizzando nel contempo iperboli o «promesse non realizzabili». In tutti e tre questi «stili politici» sarebbero sicuramente integrati i caratteri che sono stati indicati per il «neopopulismo» cosí come esso è stato letto (e definito), nel dibattito pubblico, da columnists e commentatori televisivi; il populismo nel discorso «massmediatico», potremmo dire, seguendo la distinzione proposta da Diego Ceccobelli, che lo distingue dal populismo delle definizioni «scientifiche»: «politica pop», «demagogia» e «novità». Ma a tutti e tre, come vedremo, si attaglierebbe, pur con qualche spigolo e alla luce di un'indagine non formale, anche la concezione del populismo cosí come è emersa nel «dibattito scientifico». | << | < | > | >> |Pagina 150[...] Come avevano dimostrato, d'altra parte, già nel 2007 - prima che il ciclo involutivo descritto da McKinsey incominciasse - due ricercatrici della Bank for International Settlements in uno studio dedicato ai progressivi spostamenti del rapporto tra profitti e salari nella composizione del Pil dei principali Paesi industrializzati tra l'inizio degli anni Ottanta e la metà del primo decennio del nuovo secolo.Da esso risultava che, in circa un ventennio, una quantità oscillante tra gli otto e i dieci punti percentuali di Pil si era spostata dal «monte salari» al «monte profitti»: una cifra enorme, che per l'Italia equivale a circa 120 miliardi di euro annui, non piú presenti nelle buste paga dei lavoratori (come sarebbe avvenuto se la ripartizione fosse rimasta quella originaria) e passati nella disponibilità delle imprese (che spesso li hanno impiegati nel circuito finanziario piú che per investimenti produttivi). Altri studi, successivi, hanno corretto (in peggio per il lavoro salariato) la proporzione, man mano che cresceva nelle diverse società il peso della finanziarizzazione e della «produzione di denaro per mezzo di denaro», portando - nel caso italiano - fino alla soglia dei 200 miliardi di euro all'anno la dimensione del «deficit» del lavoro e della sua emarginazione sociale. È l'indicatore di una «sconfitta storica» da esso subita, in forma spesso silenziosa, senza elaborazione o autoriflessione da parte delle stesse forze politiche e sociali che nel Novecento si erano assunte la guida e la rappresentanza del lavoro. E tuttavia destinata a pesare sui comportamenti di massa, e sui «riallineamenti politici», offrendoci un ulteriore tassello nel tentativo di interpretazione e riclassificazione delle forme della protesta sociale, inclusa quella spesso liquidata (o esorcizzata) come «populista». Qualche anno fa Luciano Gallino pubblicò un agile libro intervista intitolato La lotta di classe dopo la lotta di classe. Intendeva riferirsi alla «guerra» dichiarata dall'alto - dal capitale - contro il basso, il lavoro (per questo il riferimento a un «dopo» e a un'inversione di direzione), per riprendersi, con gli interessi potremmo dire, quanto era stato conquistato, in termini di reddito e di diritti, nel ciclo industriale e conflittuale precedente, nel «Novecento sociale». Quella lotta, sosteneva da sociologo attento ai numeri e al loro significato, era stata vinta da chi stava di sopra, anche grazie a una mutazione genetica del proprio assetto, a favore della dimensione astratta del capitale, cioè alla sua dimensione monetaria, di «denaro». E la cosa è incontestabile, confermata anno dopo anno dalle statistiche e dalle cronache. Ma mentre quasi tutti noi, che fummo convinti fin dall'origine di quella diagnosi, concentrammo l'attenzione prevalente su quanto ne conseguiva «in alto»: sulla formazione delle nuove oligarchie, sulla distruttività del capitale finanziario e sulle sue mutevoli gerarchie globali, sul modus operandi dei robber barons post-moderni, sull'uso socialmente distruttivo delle politiche monetarie e di austerità; assai meno si è riflettuto su quanto accadeva «in basso». Sulle ricadute di quella «sconfitta storica» nel ventre delle metropoli e negli ex distretti industriali dove si era concentrata la forza del movimento operaio novecentesco. Come se quei pezzi di composizione sociale, crocianamente, usciti dalla Storia tornassero a essere Natura. Non chiedendoci quale «soggettività» si venisse formando, in quel «basso globale». Ora lo vediamo. Quell'ex protagonista storico che aveva alimentato il simbolismo e l'immaginario oltre al consenso elettorale e all'apparato organizzativo di tutte le articolate sinistre del «secolo del lavoro» è ora un'ampia componente del nucleo duro, forse non maggioritaria ma sicuramente coriacea, dell'estesa galassia in cui si esprime l'insorgenza neopopulista attuale. Ad esso si è aggiunta negli ultimi anni la massa eterogenea di quello che invece tradizionalmente fu il principale fattore di equilibrio, di stabilità e di «moderazione» delle società occidentali: la «guardia bianca» delle democrazie rappresentative. Impoverita, questa, ferita e declassata, non tanto dai tagli salariali e dalla marginalizzazione del lavoro (in parte anche da questo) ma soprattutto dall'inversione di segno che hanno avuto nella crisi le rendite finanziarie. Quelle che il finanzcapitalismo aveva nella sua fase ascendente offerto come compensazione allo stallo dei redditi da lavoro: la crescita illimitata di Wall Street, l'uso dei mutui e della compravendita delle case come leva monetaria delle stesse famiglie, le quote in hedge funds di cui si ignorava tutto... E che dal 2008 hanno incominciato a divorare i propri padroni (quelli piccoli, inesperti, tagliati fuori dall' insider trading, che si erano fidati del proprio broker e della propria banca). Formano, tutti insieme, una moltitudine di insoddisfatti e di arrabbiati - di «traditi», soprattutto, o di autopercepiti tali -, trasversalmente distribuiti nelle società occidentali, estranei alle tradizionali culture politiche perché nessuna di esse riflette piú la loro nuova condizione. Spaesati essi stessi rispetto alla propria inedita condizione di homeless della politica. Umiliati dalla distanza che vedono crescere nei confronti dei pochi che stanno sulla cuspide della piramide (pochi, ma gli unici visibili nello spazio mediatico che ha sostituito tutti i precedenti spazi pubblici). Privi di un linguaggio adeguato a comunicare il proprio racconto, persino a strutturare un racconto di sé, e per questo consegnati al risentimento e al rancore. Sono il «popolo di vittime» di cui parla, in termini filosofici, Slavoj Zizek , che alimentano il sentimento diffuso di rabbia, insofferenza e diffidenza rovesciatosi nelle società sempre piú liquide e irrequiete dopo che sono finite in default quelle straordinarie «banche dell'ira» (cosí le ha chiamate Peter Sloterdijk , un altro filosofo) che erano stati i vecchi partiti della sinistra e, insieme, le chiese: gli strumenti «nobili» che permettevano di stoccare i sentimenti di vendetta e di rivalsa per le ingiustizie (sociali) subite promettendone una soddisfazione differita. Ora, in un mondo fattosi abissalmente e universalmente diseguale, nel quale 8 (otto!) super ricchi possiedono l'equivalente delle risorse di metà dell'umanità, e in cui - come denuncia l'ultimo rapporto Oxfam - si aspetta l'avvento del primo trillionaire (uno che possegga mille miliardi di dollari) -, non si trova nessun protagonista politico, nessun candidato alla rappresentanza di questi «perdenti della new economy», in grado di proporsi, credibilmente, come strumento di una battaglia egualitaria. La casella delle politiche egualitarie è, nella maggior parte dei Paesi, vuota. E accade allora che l'esercito dei perdenti si affidi a un vincente, quello che trovano, purché capace di dar voce alla loro rabbia e offrire un'immagine di diversità. A un miliardario, purché rozzo ed esteticamente diverso dall'élite come Trump. A un demagogo di successo ai piani alti londinesi ma capace di toni plebei in televisione come Boris Johnson. O alla stessa signora Teresa May, se pare dar voce a un revanscismo post-imperiale venato di rivendicazione sociale. Quasi ovunque l'agitazione neopopulista in basso viene utilizzata apertamente da chi sta in alto, senza apparente contraddizione. E forse questo spiega il motivo per cui le élite governanti d'Europa, e con esse la maggior parte del «sistema dell'informazione di sistema», pur fingendo indignazione e timore nei confronti di queste insorgenze, e stigmatizzandole con anatemi che, per il pulpito da cui vengono, non fanno che rafforzarne il seguito, poi in realtà si dedichino, con ben maggior energia ed efficacia, a combattere e destabilizzare le uniche esperienze che si sono dimostrate un convincente e credibile fattore di contrasto a quel tipo di contagio. Si pensi al trattamento indecente imposto dai vertici europei alla Grecia, feroce nei contenuti e nelle forme, ben diverso da quello riservato a figure come quella del «nazionalpopulista» Orbán e all'Ungheria del filo spinato, o del liberticida Erdogan e alla sua Turchia. O ai tentativi di isolamento dell'esperienza di Podemos in Spagna, con lo spostamento delle declinanti socialdemocrazie europee verso un centro conservatore e subalterno alle politiche restrittive volute da Berlino e Bruxelles. Eppure basterebbero forse dei segnali chiari (si veda il capitolo sulla Brexit) per disinnescare almeno in parte quelle mine vaganti nella post-democrazia incombente: politiche tendenzialmente redistributive, servizi sociali accessibili, un sistema sanitario non massacrato, una dinamica salariale meno punitiva, politiche meno chiuse nel dogma dell'austerità... Quello che un tempo si chiamava «riformismo» e che oggi appare «rivoluzionario»...
Ma, si sa, «dio acceca coloro che vuol perdere».
|