Autore Marco Revelli
Titolo Non ti riconosco
SottotitoloUn viaggio eretico nell'Italia che cambia
EdizioneEinaudi, Torino, 2016, Supercoralli , pag. 252, ill., cop.rig.sov., dim. 14,3x22x2,5 cm , Isbn 978-88-06-22944-3
LettoreFlo Bertelli, 2016
Classe paesi: Italia: 2010 , paesi: Italia: 2000 , economia , viaggi , storia sociale , citta': Torino












 

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Indice


  3      Introduzione

 21 I.   Torino. La città promessa e la città perduta

 71 II.  Fantasmi. Nel cuore della Brianza

 95 III. Verso il Nordest. Case, chiese, capannoni

134 IV.  Il distretto di Prato. La Lupa e il Dragone

179 V.   Cattedrali del Sud. Taranto, l'utopia capovolta

192 VI.  Cattedrali del Sud. Gioia Tauro, nell'orto degli ulivi

226      Epilogo. Lampedusa. Exit


249 Elenco delle illustrazioni


 

 

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Pagina 3

Introduzione


                                           Cuore, mio cuor, che cosa ti succede?
                                           Che cosa mai t'opprime cosí forte?
                                           Oh quale strana, quale nuova vita!
                                           Davvero non ti riconosco piú.
                                           Bandito tutto quel che prima amavi
                                           bandito ciò per cui ti rattristavi,
                                           pace, lavoro dileguàr d'incanto...
                                           Oh cuore, come sei venuto a tanto?

                                                         J. WOLFGANG VON GOETHE,
                                                        Neue Liebe, neues Leben.



«Un viaggio si fa o per fuggire da qualcosa, o per cercare qualcosa». L'ha detto Diego Osorno, forse il piú grande reporter-narratore messicano, nel tentativo di spiegare il suo particolare «giornalismo infra-realista». È una gran bella definizione. Che, sento, mi riguarda: «Da cosa fuggo, io?» in questo mio viaggio. E «che cosa vado cercando»?

Sicuramente mi spinge via il fastidio per i troppi «pesi falsi», un po' come il verificatore Eibenschütz del celebre romanzo di Joseph Roth. Questa bolla d'aria rarefatta e insieme inquinata che respiro subito fuori di casa - nella città che lentamente evapora - e che all'inizio sembra frizzante, dà un senso di leggerezza e persino di libertà, ma a poco a poco ti soffoca fino all'asfissia. Cosa cerco, invece, non lo so. Forse solo un qualche «punto di verità», nella grande finzione. O, magari, un'ennesima «verifica dei poteri», come Franco Fortini chiamava la rinnovata domanda di chi scrive sul (sempre piú incerto) «mandato sociale» che l'autorizza a farlo e lo impegna. E la possibilità di esprimere in prima persona - «in soggettiva», per cosí dire - la dimensione della trasformazione che il nostro Paese ha subito in questo «passaggio di secolo». O, piú banalmente, un motivo (una misura?) del senso di straniamento. E, se possibile, un'uscita di sicurezza...

Un primo indizio, appena una traccia, me l'aveva offerto Antonio, conosciuto da neanche un'ora:

«Non so piú chi sono, - mi aveva detto, attraverso il tavolo. - Forse nemmeno dove sono». E il suo sguardo era come venisse da una distanza infinita. Insuperabile.

La sua vita, ingegnere stimato, padre rispettato, ceto medio affluente, cittadino disciplinato, era ruotata d'improvviso sul suo asse ribaltandosi quando un giorno, presentatosi al lavoro, non aveva piú trovato l'azienda, migrata senza preavviso. Poco dopo è svanita la casa, pignorata dalla banca per via del mutuo inadempiuto. E con la casa la moglie, ritornata dai genitori insieme alla figlia adolescente. Cosí ora è qui, alla mensa gratuita tirata su in fretta dai ragazzi di Terra del fuoco, nella grande caserma di via Asti occupata - un «luogo» che d'identità e memoria ne ha tanta: nel '44 i fascisti vi torturavano e fucilavano i partigiani -, davanti a un tavolo che profuma di legno non stagionato, a raccontarmi la sua storia.

«È andata cosí... mi sono perduto», aveva detto, le braccia allargate, salutandomi. E io gli avevo risposto con piú empatia di quanto non mi sarei aspettato, perché, in fondo, anch'io - nonostante il lavoro, la famiglia, lo status, e tutto il resto - mi sento un po' cosí. Un po' «perduto»... E da qualche tempo provo la sgradevole sensazione che si appiccica addosso quando ci si trova a misurare l'irriconoscibilità dell'immediata prossimità. E di se stessi.

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Forse è per questo, per una sorta di bisogno interiore di trovare al mio smarrimento un registro piú alto, che mi ha a lungo accompagnato quel verso, baricentrico - «Davvero non ti riconosco piú» -, di una celebre composizione giovanile di Goethe, dell'epoca dello Sturm und Drang, intitolata Nuovo amore, nuova vita, in cui si mostra, fisicamente, la profondità - «fino al cuore», appunto - della discontinuità prodotta, in questo caso, dalla piú sublime delle passioni, con la trasformazione di sé in un altro, irriconoscibile. E sembrerebbe uno svolgimento a lieto fine: l'«irriconoscibilità» come via d'accesso all'estasi.

Ma poi Goethe pone la stessa espressione, resa piú cupa dal contesto, anche sulle labbra del suo Faust, in un momento chiave del dramma, quando il maturo contraente del patto col diavolo s'introduce nella stanza vuota dell'angelica Margherita, e affondato nella poltrona di cuoio accanto al letto verginale dell'adolescente, solo con se stesso, ha un momento di smarrimento: «Che cerchi tu qui? Perché il tuo cuore ti si è fatto cosí greve? Povero Faust, non ti conosco piú!» Ed è un'altra forma dell'irriconoscibilità, questa. Per effetto di una passione assai meno solare, piú distruttiva, e tuttavia altrettanto capace di svellere il presente da ogni altro sé precedente.

Angelico o infernale, sublime o abietto, sta di fatto che nel territorio dell'interiorità, del rapporto «tra sé e sé», l'atto del mancato riconoscimento - la perentorietà del «non ti riconosco!» - assume appieno tutto il proprio significato dissolvente, di metafora temporale della frattura. Tanto radicale da non permettere ai due frammenti dell'Io, che stanno sulle sponde opposte della faglia, di vedere i propri tratti di continuità e considerarsi ancora parti dello stesso tutto. Ma esso mantiene intera la propria potenza dirompente - e perturbante - anche nell'esteriorità, nel rapporto con l'Altro, quando una presenza consueta, che si credeva certa e conosciuta, muta aspetto e natura. Si presenta di colpo tanto diversa da apparire un estraneo. Un'«altra persona», appunto. Per effetto di una nuova passione (ancora l'amore), che sostituisce e cancella un consolidato rapporto e rende abissalmente distante chi prima era intimo. O per l'impatto di una diversa fortuna o sfortuna economica, che ha divelto l'Altro dal precedente piano di parità scagliandolo piú in basso, o piú in alto, e mutandone cosí lo status e lo stile di vita. O, ancora, per un rovesciamento di valori in etica, o una conversione religiosa, che spezza un intero universo di senso, o un passaggio di campo in politica... Ogni volta l'irriconoscibilità riproduce il perenne trauma di una piccola morte.


E poi ci sono le cose. I luoghi e il paesaggio. Il contesto che con la sua stabilità dovrebbe confermarci nel nostro consistere. E che invece diviene, a volte, anch'esso irriconoscibile. Ci muta intorno - ci «tradisce» - trascinandoci nel gorgo del dis-orientamento. Sradicandoci, nel senso piú letterale del termine, cioè lasciandoci fisicamente senza la terra in cui affondare le radici.

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Perdersi. Il futuro introvabile dell'Italia industriale.

Questo senso perturbante mi ha accompagnato per tutto il «viaggio». In ogni sua tappa, fin da quando mi sono avventurato al di fuori della cinta daziaria, nella città infinita che si estende verso est, tagliando dentro l'arcipelago frattale (groviglio inestricabile di capannoni, villette, palazzi tracce d'indistinguibili paesi, attrezzature sportive, centri commerciali, depositi a cielo aperto) che quasi senza soluzione di continuità costituisce il paesaggio di quelli che un tempo furono i «territori del consumo totale»: la fascia pedemontana lombarda, la Brianza già divorata dalla grande Milano, il Bergamasco e il Bresciano. Lí ho trovato Consonno, il villaggio delle meraviglie - quella che sarebbe dovuta essere, nei sogni del suo folle ideatore, la Las Vegas italiana - trasformatosi in incubo postmoderno, concrezione fisica di tutte le promesse non mantenute del delirio novecentesco, piantato alla confluenza di tre distretti che furono fiori all'occhiello del postfordismo italiano, prima di entrare in stallo nel grande freddo della lunga crisi. E anche quando ho proseguito verso il quadrante orientale - dentro il Nordest del grande balzo in avanti e del duro rinculo, degli schei, prima, e dei suicidi poi - fino alla famigerata Tangenziale di Mestre e al parco a tema veneziano, il senso di smarrimento non è diminuito, anzi, tanto brusche sono state le vertiginose crescite e le repentine cadute, i volumi crescenti dell'abbondanza e la carestia delle sofferenze (non solo bancarie), in un paesaggio umano e fisico stressato.

Né quella sensazione di straniamento si attenua se lo sguardo piega verso sud: il sud «vicino», della «terza Italia» - quella dei distretti, toscano e marchigiano, testimoni di antichi saperi artigiani sfidati da Oriente come per Prato che ha cambiato colore, anche della pelle, trasformandosi da miracolo italiano in sintomo di un malessere globale...

E il sud lontano, dell'area pugliese tarantina o calabrese, con le loro antiche cattedrali nel deserto, l'Ilva di Taranto, in primo luogo, salutata a suo tempo come strumento di emancipazione e di «risveglio» — proprio cosí: di risveglio! —, trasformate in sarcofaghi tossici, o in testimoni muti di un feroce rito di passaggio a una modernità pourrie, avariata... E su quell'asse meridionale che si può cogliere, davvero, l'immensa sconnessione tra le illusioni alimentate dal mito industriale — la sognata palingenesi proposta da un mondo del lavoro illuso della propria egemonia nel momento stesso in cui stava per misurare una propria storica sconfitta —, e l'esito di quei processi avviati or non è neppure mezzo secolo, rivelatisi tragicamente, anziché fattori di bonifica sociale e morale, terreni di coltura di piú forti, e feroci, metastasi parassitarie o criminali.

L'ultima tappa, arrivando fino al piú lontano «fondo», è insulare: Lampedusa, estrema porta d'entrata per speranze mal riposte. Il lembo di terra — una decina di chilometri appena — in cui il confine d'Europa si condensa in tutta la sua mortale durezza, come se rifluisse tutto lí perché la dimensione di Lampedusa, come il mare che la circonda — secondo le parole di Braudel —, «sfugge alle misure tradizionali». E il suo perimetro breve contiene in realtà tutta la speranza e tutta la tragedia del nostro tempo, con le sue grandi spiagge meravigliose e vuote e il suo piccolo cimitero pieno di salme anonime, il corteo immenso di morti prima di approdare alle sue coste e la generosità altrettanto vasta dei suoi abitanti, che con la mano tesa a chi annaspa nell'acqua sembrano riscattare, in un solo gesto, in un solo punto, la dimensione tutta del negativo dispiegato al di qua di quel confine.


Le vie sono sempre le stesse. La medesima rete autostradale tracciata negli anni in cui l'Italia si è fatta, da agricola (e stanziale) che era, Paese industriale (e mobile). L'A4, Torino-Venezia, nastro di 530 chilometri che taglia come una trincea tutta la Pianura padana da Settimo Torinese a Sistiana, i cui primi lavori risalgono all'aprile del 1930, quando tutto era incominciato con i primi, timidissimi embrioni di motorizzazione. E poi l'A1, la leggendaria Autostrada del Sole. L'«asse meridiano principale della rete autostradale italiana», com'è definita con i suoi 761 chilometri che vanno da Milano a Napoli, passando per Bologna e Firenze, inaugurata nel suo primo tratto l'8 dicembre 1958, alla vigilia del «miracolo economico», come simbolo delle «magnifiche sorti e progressive» che attendevano la nazione: i suoi lendemains qui chantent! Infine l'A14, l'Autostrada Adriatica — secondo asse meridiano — completata nei suoi 743 chilometri che collegano Bologna con Taranto nel 1975, esattamente nel punto di equilibrio tra la breve fase di sviluppo «fordista» giunta allora al suo culmine e il nascente «capitalismo molecolare» postfordista incentrato sulla struttura a rete dei distretti e poi alimentato dall'inaspettata «apertura a Est» prodotta dalla caduta del muro e dalla rigenerazione della «spina adriatica».

Cosí come in fondo sembrerebbe alla vista immutato il paesaggio rapido che sfila dai finestrini. La stessa sequenza di bassi edifici in cemento ed eternit che affiancano e sigillano il percorso nelle infinite periferie industriali. La foresta di brutti edifici tirati su in fretta e furia nell'epoca esplosiva del turismo di massa lungo le coste. I residui spazi verdi — la «campagna» — sospesi come pause in attesa di esser riempite, ma già segnati qua e là da un agglomerato di capannoni, una rotatoria in costruzione, lo scavo di una tangenziale o di uno svincolo... Ogni cosa apparentemente al suo posto. Ma è come se su tutto ciò si fosse stesa una seconda pelle, una patina polverosa che ne ripercorre esattamente il profilo, le linee e i volumi mutandone il contenuto o, in qualche modo, il significato.

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Seguendo questo percorso, dunque, collocato sul lembo terminale del moderno, saremmo condotti a concludere che nell'irriconoscibilità del nostro contesto interiore ed esteriore contemporaneo si manifesti una sorta di black out della conoscenza. Una sua sospensione, di fronte all'impossibilità di tornare a far combaciare ogni volta «l'impronta e la vista», l'immagine mentale del già stato e il profilo emergente del qui e ora. E forse addirittura il sospetto di una «resa al caos». Di una qualche forma di rassegnazione al non poter piú comprendere una verità che si è congedata dal mondo insieme alla sua perduta stabilità, là dove la Città Generica teorizzata da Rem Koolhaas - ex archistar convertito alla piú radicale critica dell'architettura - piega nel junkspace. Nello «spazio spazzatura» che, com'egli dice, «sta riscrivendo l'apocalisse». Potrebbe effettivamente essere questa la conclusione. E tuttavia...


... E tuttavia è possibile anche una lettura diametralmente rovesciata, che assegni all'irriconoscibilità un segno opposto a quello minaccioso e oscuro della profezia negativa del perdersi. Un signum prognosticum positivo, che alluda non alla «perdita di conoscenza» ma a un suo diverso uso. O a un suo qualche differente inizio. Persino a una liberazione.

Chi ha detto che nella fatidica esclamazione «Non ti riconosco piú!» ci sia solo la passività di chi vede il mondo andare altrove? Il piagnucoloso rancore dell'amante tradito. Lo stupore attonito di chi non è piú lui. Il disorientamento di chi si è perduto nei propri stessi luoghi d'infanzia... E che nel perdersi ci sia solo la cancellazione delle antiche mappe? Una vuota amnesia spaziale, e non al contrario la traccia di possibili altre mappe - di una diversa «verità» - solo che si sappia usare il proprio nuovo ruolo di flâneur postumo?

In fondo, se dalle altezze dell'ermeneutica piú raffinata ci precipitiamo giú, alle fonti grezze del racconto popolare - in cui piú che altrove si rivelano le strutture elementari dell'immaginario narrato -, scopriamo intanto che nell'atto del perdersi piú che una fine (infausta) è implicito spesso un inizio (promettente). Piú che un vuoto di conoscenza, la condizione di un nuovo approccio alla verità. E che la stessa materia del riconoscimento è segnata, a sua volta, dall'ambivalenza e dall'ambiguità, in cui «riconoscere» e «non riconoscere» si scambiano spesso il posto come condizioni del lieto fine.

[...]

Per questo non esco prostrato dal mio «non riconoscere». Nel corso di questo lungo viaggio erratico tra le pieghe di un Paese sospeso, ho incontrato un'infinità di tracce di una metamorfosi istantanea. Di pieni divenuti d'improvviso vuoti. Di futuri fattisi, istantaneamente, anteriori. Di promesse appena immaginate e già mancate. Di progetti iniziati e non terminati. Il profilo di una bolla cresciuta a dismisura lungo vettori creduti eterni. E i segni di mappe che non valgono piú. Ma non riesco a considerarli simboli di un paradiso perduto. Linee di un volto che si vorrebbe ritrovare, o di un cammino interrotto che si vorrebbe riprendere.

Vedo piuttosto nell'irriconoscibilità del nostro presente - come nei racconti di magia della tradizione popolare, o nel retromondo del romanzo gotico - l'occasione di una sorta di «smascheramento». Come se, appunto, l'immagine ricordata a cui non riusciamo a riconnettere la vista quotidiana piú che la realtà (e verità) smarrita fosse, in qualche modo, la maschera ora infranta, di cui i detriti che occupano lo junkspace contemporaneo costituiscono i frammenti caduti a terra. La prova di una falsificazione svelata. Il residuo di un «prestige» fallito.

C'è forse piú «verità» in quelle travi rugginose, nelle finestre spente dei capannoni dismessi, nell'erba incolta dei vuoti industriali, nelle terre di nessuno e nei mille abbandonati di oggi, che nei tronfi piani di sviluppo drogato di ieri. Nelle copertine patinate degli arroganti studi di fattibilità, nelle superfici scintillanti in vetrocemento dei centri direzionali senza direzione e dei centri commerciali pensati come giardini floreali per un consumo lanciato su linee di crescita esponenziale, che hanno deformato a lungo il nostro volto come, appunto, una maschera. E può darsi che sotto lo strato di polvere di cemento e di amianto che copre il nostro parterre, piccole piantine verdi crescano. In fondo, come è stato scritto, «considerarsi parte di una fine è già l'inizio di qualcosa» ( Daniel Libeskind , architetto).

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Mirafiori sta lí, sconfinata «fabbrica orizzontale», spalmata su oltre trecento ettari di superficie calpestabile - all'incirca il tre per cento del territorio del comune di Torino -, con i suoi capannoni rigorosamente a un piano allineati a perdita d'occhio l'uno dopo l'altro, in geometrica simmetria, al livello del suolo per non opporre ostacolo al cronometrico fluire della produzione razionalizzata, stazione dopo stazione, linea dopo linea, reparto dopo reparto. Solo la Palazzina uffici svetta, con i suoi cinque piani di altezza e i suoi duecento metri di lunghezza, ben visibile nel suo involucro di pietra bianca di Finale come la torre di comando di una portaerei, simbolo anch'essa del comando sull'esercito di manodopera generica che brulicava ai suoi piedi. Nei tempi migliori aveva ospitato quasi sessantamila operai, la popolazione di un capoluogo di provincia di media grandezza, impastati in piú di quaranta chilometri di catene di montaggio servite da 223 chilometri di convogliatori aerei, da una rete stradale interna di ventidue chilometri e da quaranta chilometri di ferrovia, con una centrale elettrica capace di illuminare una città come Trieste...

Ricordo che allora, passandole accanto nel traffico già rado di prima sera lungo corso Agnelli là dove gradualmente converge col quasi parallelo corso Unione Sovietica - ironia della toponomastica d'età industriale -, se ne poteva avvertire il sordo ronfare. Quasi un bramito sommesso proveniente dalle sue viscere produttive, come di una potenza ctonia che rassicurava e impauriva. Fascino dello smisurato. Orgoglio di Produttori e di Sovversivi. Simbolo dell'Ordine assoluto della Tecnica e insieme minaccia mortale per ogni ordine. Perché quando il controllo ferreo - in un certo senso «militare» - su quella sterminata massa di corpi al lavoro saltava, come per una molla troppo compressa, e la vita si liberava dalla presa metallica delle macchine, allora tutto il gigantesco apparato si trasformava in una grande cassa armonica, che dilatava i rumori di rivolta trasmettendoli alla città.

Cosí era avvenuto alla fine degli anni Sessanta, e poi a piú riprese per quasi tutti gli anni Settanta, al culmine del breve ma tumultuoso ciclo fordista italiano, quando lo spettacolo di un corteo operaio eruttato da un qualche cancello di Mirafiori non era diverso, per fragore, e calore, ed energia emanata, da quello offerto da una colata di fucina, o da una batteria di presse battenti. Come se le potenze elementari della produzione si separassero dagli impianti che le avevano evocate, e si rovesciassero fuori dalle mura, all'esterno, a dire a tutti, in città, che nessuna gerarchia è definitiva, nessun rapporto di comando e obbedienza deciso una volta per tutte. E che l'asse intorno a cui ruota il mondo a volte si rovescia.

Ora quel cratere è spento. Materia fredda. E silenziosa. Non si sentono piú vibrazioni, ronzii di macchine al lavoro, men che meno grida di rivolta. Né il tonfo cadenzato delle Grandi Presse, né il frastuono metallico dei fusti di olio industriale vuoti battuti ritmicamente a scandire la marcia dei cortei interni. Sbirciando dalle fessure della cinta qua e là sbrecciata, s'intravvedono ampi spazi di erbe incolte, come se la natura svogliatamente si riprendesse lo spazio che le era stato conteso dalla meccanica. I grandi finestroni dei reparti bui. Qualche pianta selvatica anche sui tetti piatti, a testimoniare l'incuria. Dai cancelli la folla di ieri in uscita tumultuosa è stata sostituita, al cambio turno, da esili rivoli, che si disperdono subito, come uno sbuffo di fumo, nel traffico della periferia.

I cinquemila sopravvissuti ancora formalmente considerati «direttamente produttivi» sono stati in fabbrica poco, nell'ultimo triennio. Tre giorni al mese in millecinquecento a rotazione sulle residue linee dell'Alfa MiTo, nel 2012, dopo l'estinzione della Musa e dell'Idea (decaduti modelli dell'un tempo nobile Lancia). E ancora per buona parte del 2013 quando dall'unica catena residua il flusso si è a poco a poco disseccato, e da allora ci si arrangia con produzioni di nicchia, qualche scocca della Maserati Gran Turismo, qualche componente di carrozzeria della Grancabrio...

Non gridano piú (a malapena parlano). Non marciano e non protestano. Dalla vita troppo saturata dal lavoro di prima sono passati a un tempo quasi vuoto. Ancora nel gennaio del 2011 avevano avuto uno scatto d'orgoglio, dicendo in duemilatrecentoventicinque - tanti, il 46 per cento - «No» all'ukase dell'Azienda che ne pretendeva l'anima e il corpo, in una resa senza condizioni. E fu un risultato inatteso e clamoroso. Poi si sono posti silenziosamente in attesa, di cosa è difficile dire: una decisione che placasse l'ansia sul futuro. L'apertura di una nuova linea di montaggio. L'attribuzione di un nuovo modello al proprio stabilimento. Una rassicurazione. Una notizia. Una decisione... Ma da dove?

Non piú da corso Marconi, sotto le cui monumentali facciate di marmo in stile Littorio si recavano, in un altro millennio, i cortei in tuta blu. Nemmeno dal Lingotto, dove si era ritirato il quartier generale Fiat, tra l'Auditorium di Renzo Piano e il centro commerciale, a fianco della mitica Eataly. Forse da Amsterdam, dove è stata collocata la sede legale del nuovo gruppo dopo la fusione con Chrysler (e dove una normativa che attribuisce voto doppio ai «soci stabili» mette gli eredi Agnelli in una botte di ferro). O da Londra, dove è la sede fiscale di Fca. O magari da Zugo, cantone svizzero di lingua tedesca dove invece ha il domicilio fiscale Sergio Marchionne. O ancora da New York, alla cui Borsa il nuovo gruppo è quotato. O, chissà, dal luogo imprecisato del globo in cui si riunisce il misterioso Gec - il Group Executive Council cui spetta il compito di stabilire le strategie complessive -, definito dall'onnipotente Amministratore Delegato «una banda di nomadi in viaggio tra tutte le regioni».

Privati di un reale ruolo produttivo, ridotti ormai solo, forse, a una funzione simbolica, i cinquemila residui umani a cui si è ridotto il gigante di ieri aspettano, frammento microscopico alla deriva in uno spazio cosmico sconosciuto e immenso, di cui è diventato quasi impossibile comprendere la mobile geografia. Dopo essere stati, per piú di mezzo secolo, al centro dell'universo produttivo, sperimentano l'angoscia del margine estremo. La vertigine del vuoto. «Immovibile», aveva definito nel 2009 il loro stabilimento Marchionne, nella traballante neolingua da manager globale, per dire appunto che un simbolo non si può dismettere come si smonta una linea di montaggio, perché bisogna pur dare ai politici di turno il modo di continuare a cantare «le magnifiche sorti e progressive» nascondendo i problemi. Ma in tempi difficili le parole dei manager hanno la stessa stabilità dei mercati. E la loro paradossale fantasia. Cosí la terra promessa ora si chiama «polo del lusso».

A quest'ultimo chiodo sono appese le speranze di quello che resta del distretto automotive torinese. Non solo dei cinquemila di Mirafiori, ma anche dei circa novantamila sparsi nelle quasi novecento imprese medie, piccole e piccolissime dell'indotto regionale.

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Invece, in via Agostino da Montefeltro, all'angolo con via Egeo, c'è Arduino. Visto cosí, dall'esterno, non gli daresti un centesimo bucato, infrattato com'è tra i muri di capannoni fatiscenti istoriati dai writers, al margine del trincerone ferroviario dell'Alta Velocità: un triangolo già occupato da vecchie fonderie, un tempo nobili (la principale, dove Arduino ha trovato casa, era la Ghia, industria d'eccellenza nel ciclo dell'auto) e ora rottami. Un frammento di brownfield salvatosi miracolosamente dalle ruspe ma non dalla ruggine, dove ti aspetteresti di trovare solo un passato decomposto. E dove invece occhieggia il futuro.

Arduino provvede, silenziosamente, ad annaffiare i vasi di piante pensili che fanno da ornamento ai locali del Toolbox Coworking del Laboratorio Torino, con un sistema a gocciolamento che permette di non sprecare neppure un millilitro d'acqua. Regola anche, diligentemente, il riscaldamento dei locali, adattandolo in tempo reale alla temperatura ambientale. E gestisce il sistema di sorveglianza dell'area, in modo discreto e rispettoso della privacy. Ma, volendo, sa fare anche molte altre cose. Può guidare un drone in spazi chiusi e ristretti, consegnando piccoli oggetti o messaggi all'interno di un ufficio. Può gestire un appartamento, riconoscendo il proprietario dalla voce per aprirgli la porta, o alzando e abbassando le tapparelle a un orario stabilito. Esegue docilmente ordini vocali, riconosce l'intensità della luce e adegua la luminosità delle lampadine, risponde al telefono e memorizza appuntamenti... È un compagno ideale.

Arduino, però, non è un uomo. È - come recita il suo identikit in rete - una «piattaforma hardware low cost programmabile». Potremmo chiamarlo «una scheda», in grado di utilizzare un repertorio amplissimo di sensori e di comandare un gran numero di meccanismi. È nato a Ivrea, nel 2005, dalla creatività di un ingegnere elettronico che anziché chiuderlo nella gabbia del business decise di renderlo open source, permettendo a tutti di perfezionarlo e di adattarlo alle proprie esigenze e idee. Oltre che di usare le ormai numerose «librerie» disponibili in rete per facilitarne l'uso e renderlo accessibile anche ai principianti. Per questo motivo è l'assistente perfetto dei makers che frequentano il Toolbox Coworking di cui è gradito ospite: 3500 metri quadri di creative park destinato in primo luogo alla cross innovation, cioè alla socializzazione dei saperi e delle pratiche innovative, con le trentacinque postazioni-ufficio per freelances, beginners nel campo delle libere professioni e delle imprese individuali, start uppers. L'open space, le sale riunioni, la cucina comune, il wi-fi a copertura totale. E, soprattutto, il Fablab, con le stampanti 3D e le macchine a taglio laser, con cui ognuno può produrre a costo quasi zero.

Lí si possono frequentare le frontiere avanzate del design digitale e della stampa 3D imparando, senza spesa, a usare Grasshopper, il «grillo sul Rinoceronte»: un plugin per Rhinoceros, uno dei software di modellazione piú sofisticati, in grado di sviluppare esempi di design computazionale e generativo dando vita a «forme organiche dettate da leggi matematiche ben precise». Lí, d'altra parte, se si ama lo skate, si può imparare in tre giorni a prodursi da sé la propria tavola «old school» personalizzata, sotto la guida del maker che ha ideato il progetto OhMyLong! Oppure ci si può unire al gruppo degli #AudioHackLab, «la community di smanettoni tutta dedicata alla scoperta della sperimentazione musicale tra smanettamenti elettronici e digitali». Ma l'elenco degli oggetti prodotti in quel laboratorio insieme underground e stellare è davvero lungo: va dalla geniale ruota di carrozzella per disabili alla serie di poltroncine da salotto generate scaricando il file da internet, dall'intera batteria di mobili da cucina autoprodotta con una spesa non superiore ai cento euro al robottino intelligente che conversa con il suo creatore...

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Sono tentato anch'io dallo sguardo in filigrana, mentre passo di paese in paese, uniti ormai tra loro senza soluzione di continuità in un unico, monotono conglomerato di asfalto e cemento, sovrapponendo però due mappe ben piú ravvicinate, distanti tra loro non due secoli ma due decenni. Quello della grande febbre del fare e quello del brusco risveglio. Due Brianze, l'una dentro l'altra come scatole cinesi, osservabili, visivamente, attraverso i cristalli delle vetrine ora spoglie, in qualche caso polverose, ma aperte su spazi che già furono affollati al tempo degli showroom, quando i lati della strada a Meda, a Lissone, a Giussano, ad Alzate erano una lunga esposizione di mobili visitata a ogni ora del giorno dalla folla variopinta degli acquirenti di prossimità e da quella, piú selettiva, dei committenti strategici, tedeschi, svizzeri, francesi, americani, giapponesi... O percepibili, materialmente, nei buchi aperti nella sequenza serrata dei capannoni - perturbante come il nero di un dente perduto in un sorriso fino a ieri smagliante -, nei cartelli «Affittasi» o «Vendesi» non frequenti come nell'area torinese, perché l'economia di distretto non va giú tutta d'un colpo come quella fordista, ma comunque disseminati in numero tale da far pensare a una malattia profonda, radicata nell'anima.

Sono i segni del «turbocapitalismo dal basso», che qui ha rombato per vent'anni e ora s'ingrippa, rallenta e in molti punti cade. O, se si preferisce, sono le tracce ormai stinte del «miracolo brianzolo», che aveva portato quella terra compresa tra la Grande Milano e i Laghi a essere il cuore pulsante del Baden-Württemberg italiano, sprofondando le radici indietro di un secolo. Forse addirittura di due, fino all'inizio dell'Ottocento, quando Stendhal poteva ascoltare di sera, a Oggiono, il rumore sommesso degli arcolai nelle case operose. E quando una terra avara aveva spinto al lavoro del legno i contadini, diventati artigiani grazie anche alla domanda di arredamenti di qualità da parte dei nobili che stabilivano lí le proprie ville, e poi via via specializzatisi. Raffinatisi, per generazioni. Innervati in un'economia di territorio molecolare ma nello stesso tempo capace di praticare i volumi produttivi della dimensione industriale, di cogliere le potenzialità del design di alto profilo e insieme della fabbricazione «su misura», della standardizzazione ma anche della qualità.

Grazie a questa combinazione, in un processo di lunga durata, quello brianzolo «del legno e dell'arredo» era diventato, all'inizio degli anni Novanta - quando era stata formalizzata la rete dei distretti italiani -, il primo per fatturato, prodotto lordo e capacità di esportazione. E la futura provincia di Monza e Brianza (con i suoi cinquantacinque comuni dispiegati su 405 chilometri quadrati) sarebbe risultata, al censimento di fine secolo, quella con la piú alta densità di popolazione (2095 abitanti per chilometro quadro contro una media di 415 per la Lombardia). Ma soprattutto con la maggior concentrazione di imprese 137 unità locali per chilometro quadro, a fronte di una media regionale di 28! - e di lavoratori (cinque volte la media regionale)...

Nemmeno l'onda lunga della globalizzazione, con la sua dinamica «di flusso» contrapposta alle «economie di luogo», era riuscita a diluire questo grumo denso, ad altissimo peso specifico, fatto d'un tessuto produttivo a maglie strettissime di piccole e piccolissime imprese tra loro interconnesse. E anche quando l'Italia era rinculata sul mercato globale, cedendo la prima posizione nel comparto del mobile e del legno tenuta saldamente fino alla metà degli anni Novanta, a favore della corazzata globale cinese, anche allora la Brianza aveva tenuto, accentuando la specializzazione, serrandosi intorno alle imprese di medie dimensioni in grado di andare nel mondo, giocando su qualità e innovazione. Grazie anche alla tenuta del mercato interno, aveva difeso, tra alti e bassi, bruschi abbassamenti e lenti recuperi, il consolidato volume di fatturato e, tutto sommato, i propri livelli occupazionali. Ma non aveva potuto evitare il secondo colpo. E la porta girevole della crisi di fine decennio l'aveva presa in piena faccia.

[...]

D'altra parte destino non migliore era toccato all'altro distretto brianzolo, quello che si arrampica anch'esso da Milano in direzione nord - Agrate, Vimercate, Cavenago, Ornago, Mezzago... - verso i laghi del Lecchese, solo qualche chilometro piú a est. E che trae la propria denominazione non piú, come quello del mobile, dall' old fashion ma dall' high tech. La Silicon Valley italiana, come fu chiamata enfaticamente, nata non a ridosso della prima rivoluzione industriale (quella del telaio e del legno) ma della terza (quella del digitale e del silicio). E non nel radicamento di luogo, ma sulle onde lunghe della rivoluzione microelettronica scoppiata sulla West Coast americana e fibrillata worldwide ormai al limite del Novecento, nel salto di paradigma che separa gli anni Settanta dai Novanta. I suoi «campioni» si chiamavano - e qualcuno si chiama ancora - Alcatel-Lucent, Micron, STMicroelectronics, Siemens, Celestica, Bames e Sem, colossi meticci, dalla nazionalità poliedrica e polimorfa...

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Oltre duecento anni piú tardi, alla metà del secondo decennio del XXI secolo, trascolorando dal classico allo stile libero, un altro scrittore, anch'egli «irriconoscibile» dietro lo pseudonimo, anch'egli in fuga dal proprio mondo, annuncia con altre parole, con altre immagini e aspettative, l'ingresso nella pianura veneta, «divorata dalla psoriasi del mattone e del cemento, sconquassata dopo il passaggio di quella che chiamavano la "locomotiva nordest"». Non cavalca una mula su uno sterrato di campagna ma guida, veloce, su un'autostrada intasata e puzzolente. Non ricerca la «sua Arcadia» come parte di una propria pienezza esistenziale, viaggia per esplorare i segni dell'apocalisse culturale - la guera granda, come la chiamano qui - che, esattamente cent'anni prima, quell'Arcadia l'aveva infranta per sempre. Si firma Wu Ming 1. Ma prima ancora d'incontrare i luoghi di una storia patria ormai appassita, incrocia le immagini - queste sí «fresche», appena stampate nel vivo della terra - di una nuova ondata di piena. Di un'altra vertiginosa accelerazione del tempo - quale è, appunto, ogni «apocalisse culturale» - leggibile nella metamorfosi del paesaggio, che in poco piú di un trentennio ha mutato il volto e forse anche l'anima della società veneta. «L'accelerazione è avvenuta senza aspettare la cultura, che è rimasta molto indietro», annota Wu Ming 1. E par di vederlo rimuginare al volante mentre sfilano i caselli di Verona sud, di Soave, di Montecchio... «La società veneta non aveva anticorpi né adeguati contrappesi alla forsennata hybris imprenditoriale, affaristica, cementizia. Oggi - descrive, in qualche modo "in diretta" - vedi il tumulto di capannoni, altri capannoni, ancora capannoni, ipermercati, parcheggi, altri ipermercati, capannoni, outlet, asfalto, capannoni. Il Veneto è la seconda regione piú cementificata d'Italia, e ancora si vuole costruire e asfaltare. I progetti hanno nomi altisonanti e grotteschi: Veneto City, Città della Moda, Polo logistico di Giare»...

Non c'è probabilmente luogo geometrico migliore di questo per «vedere» - «fisicamente», intendo - la discontinuità di spazio e di tempo che si consumò, in quel decennio-cerniera che sono gli anni Settanta, quando il baricentro del sistema economico e produttivo italiano si spostò di colpo dal Nordovest «fordista» al Nordest «dei distretti». E mentre la Fiat, nella declinante «capitale dell'auto», andava perdendo velocità e forza, fino all'emorragia traumatica dell'autunno '80 che ne decreterà l'inizio della fine come «motore industriale» del Paese, sul versante opposto dell'asse del Nord, nelle province della Marca orientale, tanti piccoli motori andavano salendo di giri, tutti insieme, per cosí dire «in rete», preparando quello che a molti sembrò, allora, un secondo «miracolo economico» italiano. Quello che si rivelerà, appunto, nel decennio successivo quando l'uno dietro l'altro, in rapida successione, esplosero fragorosamente - per fatturato, per export, per attivi di bilancio - i distretti del Nordest: il distretto calzaturiero veronese e quello orafo vicentino, quello della concia di Arzignago e quello dell'occhiale di Belluno, lo Sportsystem di Montebelluna, il mobile d'arte di Bassano e le scarpe della Riviera del Brenta...

Fu allora che il Veneto cessò di essere «il Sud del Nord» per diventare il «Giappone d'Europa» e la «locomotiva d'Italia», cambiando appunto i conti in banca e il paesaggio intorno. E che i veneti cessarono di essere «poareti», i «polentoni» e i «magnagatti», serve e balie per i signori della Lombardia e del Piemonte, i migranti di tutte le rotte, per le Americhe in cui sperare o per le Paludi pontine da bonificare o per le catene di montaggio di Torino e di Milano da alimentare, e diventarono «i primi». I protagonisti indiscussi di un «miracolo» fragile ma esplosivo, schei a palate e lavoro ossessivo, sguardo lontano oltre i confini, verso i mercati, e testa bassa nel capannone, a produrre anche di notte, anche nelle feste comandate, perché indistinguibile dalla casa.

Gian Antonio Stella l'ha raccontata, quell'epopea mercantile, nel suo Schei, proprio al culmine dalla parabola, nel '96, con il gusto dell'eccesso e insieme dell' understatement - iperbole e sobrietà - che è tipico di queste terre. Rivelando, in poche, velocissime pagine, l'alchimia per cui in un pugno di anni il mondo sociale si è rovesciato. E uno come Renzo Rosso, che alla metà degli anni Cinquanta sarebbe arrivato da Breganze (ottomila abitanti «alle falde dell'altopiano di Asiago») a New York da pezzente, a offrirsi per un posto da lavapiatti, alla metà degli anni Novanta vi sia sbarcato invece da signore, «a far la guerra alla Levi's in casa sua» aprendole in faccia, in Lexington Avenue 770, il proprio negozio Diesel. E come i fratelli Zamperla, da Altavilla Vicentina - dodicimila abitanti ai piedi dei colli Berici - si siano spinti fino all'hinterland di Parigi a costruire il settanta per cento delle giostre di Eurodisney, con la loro Amusement Rides Company... Ma soprattutto come ognuno degli abitanti di questa tripla regione, alla metà dell'ultimo decennio del Novecento, sia arrivato (almeno dal punto di vista statistico) a esportare piú di undici milioni di lire in merci (questo è l'export pro capite del Nordest nel 1995), il doppio della media nazionale, quasi sette volte di piú di quei meridionali a cui, fino a trent'anni prima, erano equiparati.

«Esplosione vitalistica, produttivistica, apparentemente imprevedibile, apparentemente inspiegabile» l'ha definita Giorgio Bocca, paragonandola a quella cui lui stesso aveva dato voce, un trentennio prima, negli anni del primo boom, quando era andato inseguendo sull'asse lombardo-piemontese «i giovani leoni del neocapitalismo» che stavano costruendo il «miracolo italiano». Solo che allora si trattava di narrare la genesi del «secondo capitalismo», quello trainato dalla motorizzazione di massa e dal primo affacciarsi della cosiddetta «società dei consumi»: l'applicazione nazionale di un paradigma universale, per cosí dire - il «paradigma fordista», appunto -, tutto razionalizzazione e ordine produttivo, collocato nel ciclo della grande crescita industriale all'insegna del piano Marshall e delle politiche keynesiane. Ora invece si doveva fare racconto del «terzo capitalismo», una forma assai piú «occasionale» e in ampia misura «locale», un'«anomalia» insomma, senza paragoni in Europa, anzi in Occidente, piú simile a qualche fenomeno asiatico di crescita iperbolica e concentrata, in cui un ruolo di grande rilievo, forse decisivo, deve averlo avuto il gioco delle circostanze in qualche modo fortuite. In primo luogo la catena di «svalutazioni competitive» che disseminano l'epoca pre-euro. E poi, decisiva, la «grande svalutazione» della prima metà degli anni Novanta, la vera Grande Occasione che apri autostrade alle merci italiane verso i paradisi mercantili del centro Europa e poi lungo le rotte a est e a ovest che furono un tempo della Serenissima. Ma per spiegare il quale la semplice Fortuna non basta.

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Ora ci arrivo anch'io, in questo cuore della Marca Trevigiana, vent'anni dopo l'autore di Schei, sulla scia di Wu Ming 1, alla ricerca di altre croci dalle sue, tracce di un'altra guerra, perché intanto il vento è cambiato, anche per quanto riguarda i simboli. E il Nordest non è piú interrogato nel mondo per via della sua esaltante euforia, ma della sua inattesa depressione. Non piú come simbolo del successo economico straripante, ma della «malaombra» che ha coperto come una muffa le sue villette a schiera con annessi capannoni, gli ufficetti posticci, i fienili trasformati in officine...

Incominciò proprio qui, a Rossano, l'epidemia, già nel 2009 quando ancora la crisi sembrava cosa degli americani, e U. B., trentaquattro anni, «artigiano nel settore metalmeccanico», in un giorno di primo settembre prese il fucile da caccia, camminò fino a un campo subito fuori dalla circonvallazione, e si sparò un colpo in petto. Preoccupazioni, si disse. Difficoltà in azienda. La cosa al momento non fece notizia.

[...]

Non è una tragedia solo veneta. O solo del Nordest. Dal 2009 i «suicidi per crisi economica» sono diventati una rilevanza statistica nazionale. Centinaia e centinaia di casi. L'unico studio focalizzato disponibile, relativo al solo triennio 2012-2014, parla di quasi cinquecento suicidi, equamente distribuiti tra «imprenditori» (quarantacinque per cento) e «dipendenti» (quarantadue per cento), in crescita costante e con un balzo di quasi il cinquanta per cento tra il 2012 e il 2013. Ma senza dubbio il Veneto è la regione piú colpita, con un trenta per cento circa del totale nazionale e una percentuale regionale abnorme, doppia rispetto alla Lombardia, piú che tripla rispetto a Piemonte, Lazio ed Emilia Romagna, quasi dieci volte la Calabria... Ed è davvero difficile non pensare che un rapporto debba pur esserci tra il suo travolgente passato prossimo e il suo durissimo presente continuo.

Rapporto «strutturale», scritto nei numeri, i quali ci dicono che «la crisi in Veneto ha bruciato 18 anni di crescita». Che tra il 2008 e il 2013 - l'ultimo anno per cui ci sono dati certi e confrontabili - qui si è perso qualcosa come quattordici punti percentuali di Pil. Che i posti di lavoro cancellati tra industria e costruzioni sono stati 184 000 (piú o meno come la popolazione delle città di Treviso e Vicenza sommate insieme). E che il reddito pro capite è ripiombato indietro, all'inizio degli anni Novanta, subito prima del boom. Ma anche rapporto, come dire?, «morfologico», relativo alla forma delle imprese, per loro natura leggere - «sottocapitalizzate» si dice in gergo tecnico -, che nella leggerezza trovavano il fattore della loro velocità di diffusione, dell'«infettività» del processo di genesi di quell'imprenditoria corsara, e che ora vi trovano il proprio peggior handicap. E rapporto «antropologico», connesso a quel «comunitarismo egoista» che aveva alimentato il processo di start up, quella prossimità assoluta, di paese, di borgata, di osteria, di vicinato sulla cui rete leggera ma densissima avevano viaggiato know-how e autostima insieme, marketing e status, competizione e cooperazione di prossimità intrecciate, e su cui ora viaggiano i sintomi di una catastrofe esistenziale di tipo diverso.

Di un fallimento - economico e morale insieme - imparagonabile con ogni altro fallimento, perché connesso non tanto al debito quanto principalmente al credito. In cui la colpa non sembra derivare da un «vizio» (l'indebitamento eccessivo di chi non lavora) ma al contrario da una «virtú» (il mancato incasso da parte di chi ha lavorato troppo). Perché qui, in questo Nordest euforico trasformatosi in un Far West triste, si assiste al paradosso per cui si fallisce appunto per troppi crediti (verso il committente insolvente, spessissimo verso la pubblica amministrazione inadempiente, o un vicino creduto affidabile...) che si trasformano, per maligna forza del sistema stesso a connessione stretta e ad autonomia breve, in debito incolpevole, ma crescente.

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Capitolo quarto

Il distretto di Prato. La Lupa e il Dragone


              Tutta a Prato, e tutta in stracci, va a finire la storia d'Italia.

                                      CURZIO MALAPARTE, Maledetti toscani, 1956.


                                         O Prato, o Prato, ombra dei dí perduti,
                                         chiusa città, forte nella memoria.

                               GABRIELE D'ANNUNZIO, Le città del silenzio, 1903.



L'ultimo l'hanno trovato a metà pomeriggio. Nemmeno un corpo, resti umani mescolati ai rottami del cartongesso e alla cenere del compensato del loculo in cui dormiva. Il primo, i pompieri se lo erano visto davanti verso le 9,30 del mattino, appena erano riusciti a entrare nel capannone maledetto della Teresa Moda, dopo due ore di lavoro, nel tentativo di spegnere il rogo divampato in via Toscana 63/5, Macrolotto 1 di Prato, all'alba del primo dicembre 2013. Era a piedi nudi, con ancora il pigiama addosso, fermato dal fumo e dal fuoco a qualche metro dal portone di ferro che cercava di raggiungere. D'altra parte che si trattasse di una tragedia l'avevano capito subito, i soccorritori, già da fuori, quando avevano visto quel braccio penzolare inerte dal finestrino a fianco del cancello, all'altezza del soppalco, infilato tra le sbarre che ne avevano bloccato la fuga, dopo aver lacerato il cellophane nero che oscurava la vista da fuori e rotto a pugni il vetro sempre chiuso che ne isolava i rumori...

Bisognerà però aspettare la mattina dopo, e il lavoro di tutta la notte a trascinar fuori con i muletti gli ammassi di tessuto acrilico e di cotone, mescolati agli scheletri delle macchine da cucire marca Juki e all'amianto del tetto in eternit, per avere il bilancio definitivo delle vittime di una delle piú gravi tragedie del lavoro del nuovo secolo. Sette, come nel caso della ThyssenKrupp - cinque uomini e due donne - cancellate nel luogo in cui consumavano tutta la loro vita, dove mangiavano, dormivano, soprattutto lavoravano, al piano di sotto, dodici, quattordici, anche sedici ore al giorno, la polvere del cotone respirata con l'aria stantia del locale sempre sigillato, che ricopriva tutto, macchine, cibi, suppellettili. E poi, quando le forze non tenevano piú, di sopra, arrampicati per la scala a pioli nel soppalco in cui erano ricavate le piccole celle - i «loculi», appunto - sufficienti appena per un materasso a terra, la bacinella per i bisogni corporali, negli angoli la poltiglia nera e appiccicosa per catturare gli scarafaggi. E altri giorni ci vorranno per sapere chi essi fossero. Che volto avessero, quand'erano vivi. Che nome portassero. Come se non avessero mai vissuto. Come se «non fossero».

Può apparire strano, ma i nomi di quei sette morti non compaiono praticamente mai. In nessuna delle cronache a caldo, ma neppure nelle tante rivisitazioni mediatiche delle settimane immediatamente successive... Dei «nostri», presenti sulla scena o sopraggiunti in tempi diversi, si sa tutto, nome, cognome, persino soprannome. Si sa che il primo italiano, quello che ha lanciato l'allarme, si chiama Leonardo Tuci, ed è fotografato con in testa il cappello dell'Associazione nazionale carabinieri in congedo. Che il capo della squadra dei vigili del fuoco subito intervenuti si chiama Vincenzo Bennardo mentre il portavoce ufficiale del corpo è Stefano Giannelli. Che l'assessore alla Sicurezza del Comune, subito piombato sul posto per dire che era una «morte annunciata» perché, è cosa nota, i cinesi sono cosí, è Aldo Milone, detto «lo sceriffo». Persino i nomi dei proprietari dell'immobile, i fratelli Giacomo e Massimo Pellegrini, italiani, pratesi, sono sulla bocca di tutti fin da subito. Ma i nomi dei corpi ridotti in cenere no, come per il Milite ignoto non danno suono, a segnare il vuoto di un cordoglio senza oggetto. La non-presenza di un popolo-fantasma. Ho impiegato giorni a spulciare la stampa nazionale e locale, e a navigare nel labirinto della rete alla loro ricerca, e alla fine - ma solo alla fine, e a fatica - li ho trovati. Ora so «chi erano». Come si chiamavano: le donne, Wang Chuntao 46 anni e Zheng Xiuping 50; gli uomini, Dong Wenqiu 45 anni, Su Qifu 43, Xue Xieqing 34, Rao Zhangjiang 42, Lin Guangxing 51. Venivano dallo Zhejiang e dal Fujian, due popolose province del sud-est della Cina, subito sotto Shangai, da cui proviene d'altra parte circa il novanta per cento dell'immigrazione cinese in Italia.

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La dimensione di quei «traffici», l'effetto «sistemico» di quel lavorio di frantumi operosi, li si poteva vedere non nei luoghi del lavoro, disseminati e separati l'uno dall'altro, ma nel tessuto urbano in cui erano immersi, nell'intensità e nella composizione del traffico della città strutturata in fabbrica, col moto perpetuo di un'infinità di mezzi di trasporto, i piú diversi e fantasiosi, tutti carichi di pezze, d'ogni foggia e peso e ampiezza, e balle di lana o di cenci, usciti da porte e cancelli, garage e androni, spinti, tirati, guidati da uomini e donne perennemente indaffarati come i cinesi del passage «Wehn Zhon» nel Macrolotto zero. A guardare dall'alto, ricordano il movimento frenetico di un formicaio e invece sono la forma assunta da uno dei piú potenti sistemi produttivi italiani del tempo: una «macchina» capace di produrre, al colmo della propria parabola ascendente, nella prima metà degli anni Ottanta (quando i fusi di cardato raggiungeranno la cifra record di 770000 e quelli di pettinato di 400000, al battito di 14400 telai), quasi mezzo milione di tonnellate di prodotto all'anno, tra filati, tessuti e maglieria con un fatturato di oltre ottomila miliardi di lire di cui quasi la metà (3500 miliardi) per l'esportazione.

Grazie alla polverizzazione non dissipativa delle sue infinite molecole produttive che gli garantiva una specializzazione flessibile straordinariamente adattabile ai repentini mutamenti del mercato e delle tecnologie, il distretto industriale pratese riuscirà infatti a moltiplicare il repertorio dei propri prodotti, dal cardato rigenerato dei suoi blocchi di partenza alla gamma ampia di tessuti, via via piú raffinati, come le lanerie leggere - «i velour, i bouclé, i neckerboker (i bicche bocche), i double face, le gabardine, le fantasie... » - rese realizzabili grazie all'uso «in mista» del nylon, o come si diceva qui, del «rinforzo». E poi, con una creativa rivisitazione dei prodotti tessili tradizionali e «una paziente opera di affinamento» capace di nobilitarne gli impieghi, passando a trattare, «dopo le lane piú belle, anche la seta e il lino» e infine il mohair, il cashmere, l'alpaca..., e arrivando a sviluppare ogni mese duemila nuovi filati e sessantamila nuovi disegni tessili, a disposizione di ogni tipo di mercato. Da quello di fascia bassa dei prodotti «poveri» nell'alveo della tradizione del cardato rigenerato, a quello di fascia media (di gran lunga prevalente) per il consumo di massa, su su, fino alla fascia alta e altissima per le griffe e l'alta moda, sulla scia di Faliero Sarti che con i suoi tessuti Chanel (un tweed aperto ottenuto con filati fiammati o stampati) e le crêpe di lana (con filati ad alta torsione) aveva incominciato ad alimentare la Rive Gauche di Yves Saint Laurent fin dalla metà degli anni Sessanta aprendo una via che avrebbe portato sotto il monumento al Datini uno stuolo di stilisti.

E dopo di lui tanti, come per esempio «il Carpini — la figura di artista del tessuto di cui parla Edoardo Nesi nella sua Storia della mia gente — che negli anni Settanta si era sentito in diritto di fare l'alchimista coi tessuti, e lavava nelle lavatrici industriali le tele del cashmere piú fine, cuoceva la seta, mischiava la lana con il lino e tesseva da sé certe clamorose fantasie di lino e di seta che tingeva dei suoi amati colori forti, in righe e quadri e armature e disegni che non s'erano mai visti prima e che poi avete visto mille volte addosso ad attrici bellissime, nei film di quegli anni fantastici». Sicché chi avesse visitato allora il distretto tessile pratese vi avrebbe potuto trovare davvero tutto il desiderabile, compresi i «tessuti medicali, a lento rilascio di farmaci», e quelli che si illuminano, i tessuti per l'aeronautica e i tessuti di carta... Cosa che farà dichiarare dal Censis di De Rita, Prato «capitale morale dell'arcipelago dei localismi vitali del nostro Paese».

La corsa di quella macchina non si fermerà nemmeno quando, alla metà degli anni Ottanta, la diffusione del riscaldamento nelle abitazioni, la preferenza per indumenti sintetici piú leggeri, forse anche i primi sintomi dell'effetto serra, manderanno in soffitta cappotti di lana, tailleur e maglioni producendo una brusca flessione della domanda tradizionale sul mercato interno e su quelli esteri. Anche allora il distretto pratese superò di slancio il ciclo basso, adattando prodotti e tecnologie, smagrendo in alcuni settori (soprattutto le prime fasi del cardato, la platea dei tessitori per conto terzi...), ampliandone altri (maglieria, tessili a impiego tecnico...), e ripartendo — complice anche la svalutazione della lira — in relativa salute nel corso degli anni Novanta. Ma andrà a sbattere, questa volta sí, e s'infranse definitivamente, contro il muro del Wto (l'organizzazione mondiale del commercio), quando, nel 2001, fu siglato il protocollo di ammissione della Cina.


Lo so che la cosa non piacerà affatto ai pratesi. E che l'espressione «Wenzhou model» non gli dirà assolutamente niente. Perché pochi sanno cosa sia Wenzhou. E men che meno in che senso sia un model, cioè un sistema replicabile in una molteplicità di luoghi e di tempi diversi. Ma dovrebbero invece rifletterci seriamente, perché il Wenzhou model è la copia, quasi fedele, del «sistema Prato» in quell'altro pianeta che è la Cina. O meglio è la replica, a partire dall'inizio degli anni Ottanta, di quello che era stato il «sistema Prato» a partire dalla fine degli anni Quaranta. Naturalmente su scala infinitamente maggiore, perché Wenzhou non è un ex borgo medievale con qualche decina di migliaia di abitanti chiusi nelle proprie mura, ma una città portuale di oltre tre milioni di abitanti (per la precisione 3 039 500 al censimento del 2010), dunque una città media per la scala cinese ma una grande metropoli per le nostre dimensioni, che attualmente amministra tre distretti e due città-contee per un totale di nove milioni di abitanti. E che, nonostante l'incomparabilità delle grandezze, rispetto a Prato presenta significative invarianze.

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«Sabato, alla fine dei funerali erano strazianti le grida e i pianti dei parenti delle vittime che correvano dietro le Mercedes argentate che si portavano via le bare con i poveri resti dei loro cari. Una madre cinese, mentre inseguiva l'auto che si allontanava con suo figlio morto, è caduta sull'asfalto: sembrava Anna Magnani nel film Roma città aperta. Si dibatteva per liberarsi da chi cercava di trattenerla e poi la disperazione della sua corsa, la caduta rovinosa, i vestiti che si scompongono mostrando senza pudore il corpo di una donna di mezza età. Una scena tragica. Una scena d'altri tempi».

Racconta cosí Shi Yang Shi, che vi aveva partecipato come «voce narrante» bilingue, l'ultimo atto del freddo rito funebre con cui in un'afosa giornata di giugno del 2014 - un intero semestre trascorso dal giorno della tragedia - era stato dato l'«estremo saluto» a sei delle sette vittime del rogo di via Toscana, in piazza Ebensee, «un lago di asfalto nero sotto il sole a picco, luogo impietosamente impudico per il dolore dei familiari delle vittime» dove - sono ancora sue parole - «l'assenza di italiani e cinesi splendeva» nella luce abbacinante dell'estate toscana. Intorno al gazebo sotto cui erano esposte le bare di legno chiaro e dove i parenti piangevano l'ultimo pianto, nella zona transennata riservata alle presenze ufficiali, il (nuovo) sindaco di Prato, il prefetto, il vescovo, assessori di Provincia e Regione, alti ufficiali in divisa, dirigenti sindacali e della Cna, per la parte italiana; il console generale cinese, il Tempio buddista, la Chiesa cristiana evangelica cinese, alcuni rappresentanti delle associazioni cinesi di Prato e di Milano per la parte delle vittime. «Fuori dalle transenne, una ventina di italiani a destra, una quarantina di cinesi a sinistra». Intorno, in via Cavour e in via Jean Monnet, il traffico del sabato di sempre, con i pratesi al mare, a distrarsi, e i cinesi nei capannoni, a lavorare. «Per i cinesi: discrezione? superstizione? Paura di riconoscere nel destino di quei connazionali un pericolo quotidiano per se stessi che bisogna ignorare per andare avanti?», si chiederà Shi Yang. «Per gli italiani: ostilità verso i cinesi? Indifferenza? Cinismo? Una cosa che in fondo riguarda i cinesi che pensano solo ad arricchirsi e che alla fin fine la tragedia se la vanno a cercare?», reitererà Yang Shi. «Per tutti: avvicinarsi al dolore degli altri, ma chi ce lo fa fare?»

Shi Yang Shi è una figura preziosa. È un bridge. Un «uomo ponte». Forse l'unico vero uomo-ponte in questa vicenda di distanze e di «irriconoscenza». Intanto perché parla perfettamente le due lingue (ha imparato testardamente ad arrotare la «erre»). E perché è un cinese diventato italiano senza smettere di essere cinese, anche se molti italiani continuano a considerarlo «un altro» in quanto cinese, e molti cinesi a fare lo stesso in quanto italiano («banana» lo chiamano scherzosamente, «giallo di fuori e bianco dentro»). Ma anche perché della vita ha conosciuto il basso e l'alto: nato a Jinan nel '79, arrivato qui a undici anni, trascinato da un padre ingegnere a cui la Cina stava stretta, ha fatto il lavapiatti in Calabria, il venditore di unguenti e massaggi cinesi sulle spiagge d'estate, uno dei cento vu cumprà a Cesenatico, prima di diventare interprete, traduttore simultaneo di «ministri, imprenditori e registi internazionali» e, infine, attore di teatro e cinema oltre che «inviato speciale» delle Iene in Tv. Primo della classe in Cina, dove era l'allievo che «portava la bandiera», poi l'umiliazione della bocciatura il primo anno di scuola in Italia perché non conosceva la lingua, l'orgoglio di risalire con lo studio e l'iscrizione alla Bocconi, abbandonata a quattro esami dalla laurea per iscriversi alla prestigiosa scuola del Teatro Arsenale e seguire la propria vocazione a stare sul palco anziché costruirlo per gli altri. E anche per compensare - e raccontare - le due case e le due pensioni lasciate dai genitori in Cina per diventare l'uno da ingegnere vu cumprà, l'altra da medico colf. Lo stesso suo nome, cosí come se lo è costruito ad arte, parla di una vita a «doppio taglio» - «vissuta due volte», appunto, come capita ai migranti -, con quel Shi (che sarebbe il cognome) messo sia davanti che dietro il nome Yang, perché in Cina il cognome precede il nome (e Shi Yang suona come «Pietra di sole») mentre in Italia si fa l'inverso (e Yang Shi significherebbe, in cinese, letteralmente «cacca di pecora»). Cosí Shi Yang Shi parla in entrambe le direzioni, facendosi intendere da ognuno nell'accezione migliore.

E stato lui, da buon Giano bifronte, che due settimane dopo il rogo, il 14 dicembre 2014, nel corso dello spettacolo L'ottavo viaggio - recitato in italiano e in cinese al teatro di Prato per la regia di Cristina Pezzoli - ha dato voce alle famiglie dei morti, leggendo il loro messaggio straziante:

«Siamo le madri, i fratelli, le sorelle, le mogli, i mariti e i figli di questi morti. Sono passate due settimane dalla tragedia e non abbiamo ancora potuto vederli. Vorremmo poter vedere i loro corpi presto per accompagnare in pace le loro anime nel viaggio verso l'eterno». E poi le ha assistite nei mesi successivi, quando, abbandonate da ogni autorità, sole, attendevano in un bivacco di fortuna di ottenere giustizia prima di dare il consenso ai funerali dei propri cari. È stato ancora lui, Yang, che a un anno dalla tragedia, il primo dicembre 2014, in via Toscana, ha letto a uno a uno i nomi delle sette vittime, restituendo loro, pubblicamente, l'identità. E infine, e soprattutto, ha portato sulle scene di tutta l'Italia il suo ultimo spettacolo, Tong Men-g - Porta di Bronzo: Stesso Sogno -, il primo «prodotto in Italia in doppia lingua con un protagonista autobiografico di origine cinese», in cui si mette in scena la «vita raddoppiata» del protagonista - la chiave della sua «ricchezza» -, nelle sue radici cinesi (la tradizione famigliare e nazionale) e nel suo percorso italiano (la sua «riprogrammazione culturale»), con la terza e ultima parte che inizia con un video dalla data crudele, primo dicembre 2013, perché sia chiaro di che si parla. E perché nel suo spettacolo si ride, c'è danza, e colori, ci si diverte e s'impara, ma resta pur sempre, in sospensione, la domanda che Yang si è posto nel giorno triste di piazza Ebensee, rivolta su entrambi i versanti a cui la doppia lama del suo nome apre: «Perché non ci siamo avvicinati al dolore degli altri?»

Perché non sappiamo piú farlo?

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A cinquecento metri esatti dalla collinetta da cui proveniamo, in posizione mediana nella I Zona industriale, spicca l'insegna verde della De Masi Costruzioni srl. Una delle poche dal nome non in inglese. Una delle pochissime ad aver dietro una sana vita produttiva. Ne ho viste tante, di fabbriche. Un buon numero l'ho anche visitato. Ma non mi era mai capitato, in vita mia, di entrare in uno stabilimento passando per un posto di blocco militare. A fianco del grande portone d'accesso, gli uomini in tuta mimetica - lo stesso modello, gli stessi colori che si vedono in televisione ad Herat o a Mosul - hanno i mitragliatori imbracciati, puntati ad altezza d'uomo verso la strada, il sergente si abbassa verso i finestrini, riconosce Michele e ci fa cenno di passare. Forse succede cosí in Afghanistan, forse in Iraq o in Libia, ma in Italia fabbriche presidiate dall'esercito in tenuta da combattimento credo non esistano in nessun altro luogo...

Dentro però lo scenario cambia totalmente. I reparti, ordinati, puliti, sono come un'oasi in un deserto, dove i dipendenti, con calma, lavorano a una serie di piccoli gioielli della tecnica perché i De Masi sono, soprattutto, degli inventori. L'impresa è nota in tutto il mondo per i suoi «kit applicativi su trattori di scuotitori e ombrelli intercettatori»: operazioni particolarmente delicate nel campo dell'olivocultura dove il rischio di scortecciare i tronchi è elevato e l'efficienza dei mezzi meccanici difficile da garantire. Le «applicazioni» della De Masi - le sue speciali «Testate» a forma concava, in grado di abbracciare tronchi di diametro diverso con delicatezza, grazie alla «chiusura monobraccio e sequenziale», i suoi ombrelli intercettatori dal diametro variabile, zeppi di brevetti prodotti lí, per cosí dire «in casa» - evitano questo rischio permettendo nel contempo, grazie a una serie di accorgimenti meccanici, il montaggio rapido su qualsiasi tipo di trattore da 30 cv in su. Ma la gamma delle invenzioni non si ferma al settore delle macchine agricole, in cui l'azienda è leader: il capofficina ci mostra, orgoglioso, in un angolo del capannone principale, un forno a legna di recente brevetto con cui è possibile cuocere una pizza senza che i fumi della combustione sfiorino il prodotto. E poco piú in là una sorta di cabina che funziona come cellula di protezione antisismica domestica, la «Safety Cell» detta anche «il guscio De Masi», capace, in caso di terremoto, di offrire un riparo resistente ai crolli di tetti, solette di cemento o travi fino a un peso di dieci tonnellate. La piú recente invenzione firmata De Masi è «il Pendolo a vento per generare energia elettrica dallo stormir delle foglie degli alberi»... a testimonianza del «furore creativo» che caratterizza l'impresa, riconosciuta appunto per «l'innovazione continua e l'alto tasso tecnologico».

Nino De Masi è dunque un imprenditore vero. Un imprenditore schumpeteriano, quale potrebbe comparire in un manuale di economia aziendale. Con tutte le virtú dell'imprenditore innovatore, le doti del demiurgo industriale classico. E un solo vizio, grave per chi vuol fare impresa qui, nella I Zona industriale di Gioia Tauro: l'intransigenza. Ereditata dalla nascita. Il braccio di ferro dei De Masi con la malavita locale e le famiglie mafiose del luogo incomincia presto, alla fine degli anni Settanta, quando il padre, Giuseppe - il fondatore del gruppo, nel '57, partendo dal cortile di casa in cui riparava con mano d'oro i trattori - si oppose per la prima volta alla richiesta del «pizzo». Con una lettera anonima gli avevano chiesto di «portare i soldi sotto la pietra del mulino»... «Mio padre lo fece, - ricorda Nino, - ma avvertendo prima i carabinieri che arrestarono gli estorsori con i soldi in mano». Da allora i De Masi divennero quelli «che dicono no», gli «infami», ribelli ai codici secolari dell'omertà e della sottomissione, estranei alla propria terra... E qualche anno piú tardi, nell'87 - la mafia non dimentica - dovettero subire un doppio attentato, due bombe che per poco non uccisero uno dei due figli di Giuseppe, facendogli pensare di piantar lí tutto, chiudere le imprese e pensare alla famiglia. Ma resistette alla tentazione, e Nino - il piú impegnato, fin da allora, in azienda - ne ha raccolto poi il testimone, mantenendo il medesimo rigore («Il pizzo è una privazione di libertà, è il marchio a fuoco che c'hai un padrone che fa di te quello che vuole, - ha detto una volta, in televisione. - Il rischio che io mi assumo è un rischio che io prendo consapevolmente sapendo bene che in discussione non sono i soldi ma la libertà mia e dei miei figli»). Per questo, la notte del 12 aprile 2012, alle 21,45, qualcuno gli ha sparato quarantaquattro colpi di kalashnikov contro il capannone della sua impresa principale, proprio li, sul fronte del porto, lasciando davanti al cancello due proiettili inesplosi, per ricordare che alla 'ndrangheta non si resiste. E lui è finito «sotto scorta» (anche la sua di «terzo livello», due agenti e un'auto blindata) con lo stabilimento circondato dall'esercito, proprio mentre le fabbriche, strangolate dalle banche, rischiavano a poco a poco l'asfissia.

Perché, in effetti, le banche sono cosí, generose fino all'ingenuità con i faccendieri di lungo corso ben appoggiati (i Rovelli, i Malvino...), con quelli che pagano regolarmente il «pizzo» e magari si prestano anche a qualche piccolo servizio di riciclaggio, ma severe con gli «irregolari» che non rispettano gli usi locali, che trasgrediscono i codici non scritti del comportamento conforme e, in fondo, si mettono nei guai. Ai De Masi fu addebitato il rischio assunto resistendo alla mafia, con tassi d'interesse crescenti - secondo appunto i parametri matematici del rischio - e quindi da usura: trenta, trentacinque, fino al quaranta per cento del valore dei mutui. Calcola Nino De Masi che «su delle linee di credito per circa dodici-tredici milioni di euro» garantitigli dalla legge sull'imprenditoria del Sud ma perennemente in ritardo e dunque anticipati dalle banche, dovette pagare «sei milioni di oneri finanziari». Ragion per cui, come aveva fatto con gli estorsori della 'ndrangheta, fece con i responsabili del sistema bancario, indirizzando alla procura della Repubblica un esposto, per usura, contro tre banche: Bnl, Capitalia e Antonveneta. E trascinandone in giudizio i tre presidenti: Abete, Geronzi e Marchirollo. La cosa gli costò cara, perché gli furono chiuse tutte le linee di credito - fatto che normalmente, per un'impresa, equivale a una raffica di kalashnikov, ovvero a una condanna a morte. Ma lui sopravvisse, fornendo i propri prodotti esclusivamente con pagamento anticipato e per contanti, anche questa apparentemente una follia, ma la qualità di ciò che offriva gli permise comunque di continuare a vendere le sue macchine scuotitrici in tutto il mondo, dal Portogallo fino a Israele, e poi in Asia - Iran, India - e in Australia...

Raggiungiamo Nino De Masi uscendo dal reparto di produzione e salendo nel suo ufficio, al primo piano della palazzina. Mentre attraversiamo il piazzale, Michele mi mostra i fori nel muro del capannone accanto lasciati dalla raffica di quella sera di luglio. «Dev'essere difficile - gli dico - vivere cosí, circondati». Lui mi guarda un momento, guarda i buchi nel muro azzurro, e risponde cupo: «Qui tutte le persone libere sono circondate». Poi saliamo la scala in cima alla quale, in una stanzetta che sembra la fureria della caserma di quando feci il servizio militare, seduti su due sedie, sono di piantone due sottufficiali dell'arma, le giacche appese agli schienali, le camicie slacciate al collo, ed è forse la prima volta in vita mia - quante prime volte in questa giornata! - che provo un senso di sollievo alla vista dei carabinieri. Poi entriamo nella stanza con al centro il grande tavolo ovale, e l'incontro è subito cordiale, con l'abbraccio a Michele, come tra due vecchi commilitoni - o due ospiti di un'istituzione totale -, e un sorriso d'intesa con Vito, come tra chi sa di cosa si parla.

Poi Nino apre la conversazione, senza neppure l'impulso della domanda. Mette bene in chiaro che cosa chiede lui, a noi: «Fare uscire, oltre il Pollino, questa realtà di Resistenza». Perché, dice: «Questo mio resistere non lo faccio solo per me e per la mia terra... La 'ndrangheta non sta solo qui. Sta a Milano. Sta a Lugano... Si impossesseranno di tutto e di tutti. Persino del nostro respiro»... E ancora: «Il futuro di questo Paese si gioca qui... Il problema non è la cattiva coscienza. È l'incoscienza. Della classe intellettuale italiana. La gente pensa che tutto sia fiction. Che tutto è romanzo. Diamo dignità alla gente, diamogli da mangiare, diamogli istruzione», continua, senza pause in mezzo, come se volesse mettere tutte le sue carte in tavola, presentarci per intero la sua filosofia morale: «Noi siamo qui, in territorio occupato. Noi abbiamo dato lavoro. Hanno capito che hanno diritti. Il lavoro gli fa capire la dignità di essere cittadini. Ma il lavoro, se non c'è legalità, non esiste...» E a sentirlo si capisce perché nelle sue imprese - caso forse unico in Italia - gli operai hanno scioperato per il loro padrone, quelli della Fiom in testa. E i segretari confederali hanno inaugurato, proprio lí, in quei capannoni, lo sciopero della fame quando, nel luglio del 2013, De Masi aveva ricevuto l'ennesimo rifiuto dal commissario straordinario del Governo per il coordinamento delle iniziative antiracket e antiusura, che gli negava ancora una volta la concessione di mutuo agevolato di dieci milioni che gli spettava per legge in quanto vittima di racket e di usura, diritto riconosciuto da ben quattordici sentenze favorevoli del Tar e del Consiglio di Stato. E aveva scritto ai suoi centouno dipendenti una breve lettera scoraggiata in cui diceva: «Grazie di cuore per tutto, è stato bello finché è durato ma dal 10 luglio tutti a casa. Chiudo baracca e burattini per crimini di Stato»...

Non chiuse, naturalmente, anche se lo Stato continuò a latitare, e ora è qui a dirci quanto sia difficile la vita per chi continua a dire no al racket.

[...]

Al caffè ci raggiunge il capitano dei carabinieri. La Compagnia che guida è in prima linea nella lotta alla 'ndrangheta, con compiti delicatissimi. Lui è giovanissimo, non ancora trentenne, fisico asciutto, non alto, scattante, capelli neri pettinati all'indietro, aderenti al capo come si usava negli anni Venti, un accenno di pizzo sul mento. Indossa abiti civili, una maglia girocollo nera sotto un giaccone beige... a guardarlo lo direi un volontario fiumano. Il maresciallo che lo accompagna, anche lui in borghese - capelli ribelli, una barba rossiccia ispida -, sembra invece uscito da un Centro sociale... Poi il capitano parla, di queste terre e di queste sfide. Cita Gaetano Salvemini, la «questione meridionale»... Annuisce quando Nino gli replica con Piero Gobetti. Dice che questa - di De Masi, di Albanese - è una «nuova Resistenza», che c'è stato un tempo in cui della gente ha messo in gioco la vita per la libertà, e che oggi loro sono come quelli. Che bisogna dirlo nel resto del Paese. Traccia, con precisione, il quadro dei problemi sociali di queste terre. Accenna al ruolo fondamentale delle donne di 'ndrangheta, all'importanza della loro dissociazione che può davvero colpire al cuore la piovra...

Io lo ascolto affascinato. Ascolto Nino e Michele che mi ripetono che la battaglia è, in primo luogo, culturale: rompere le narrazioni colluse. E battere la falsa cultura - cara anche a tanti «intellettuali» calabresi - secondo cui la denuncia del male, delle 'ndrine, dell'illegalità sarebbe un danno per il nome della propria terra. E di colpo mi rendo conto che la Calabria è veramente un «punto di verità». Per la vita nazionale. Per capire l'essenza nascosta dell'Italia. Ma anche per me. Per il mio viaggio «non sentimentale» nelle mie perdute certezze. Ed è come se mi cogliesse una sorta di vertigine temporale. Riaffiorano, tutti insieme, come i pezzi di un puzzle disfatto, i ritagli di giornali che avevo raccolto nel lavoro di ricerca preliminare, prima di volare a Lamezia Terme. Quello in cui si diceva che, quel 25 aprile '75 in cui tenne lo storico discorso per la «prima pietra», il ministro Andreotti, prima di recarsi in contrada Vota, si fermò all'Euromotel per un caffè con il nipote di don Mommo, Gioacchino Piromalli, che ne era il proprietario. O l'altro, in cui si racconta come quella sciagurata spartizione che fu alla base del «pacchetto Colombo» fosse stata disegnata, in origine, a un tavolo del ristorante romano La Vigna dei Cardinali, a Ponte Milvio, da tre figure di peso nell'universo politico di allora, leader di partiti e di correnti: Giacomo Mancini, Riccardo Misasi ed Ernesto Pucci... O, ancora, la fotografia, stinta, delle centinaia di giovani e di braccianti che sulla spiaggia di Eranova (sic!) levavano i cartelli con la scritta «Non basta la prima pietra, il quinto centro non ce lo leva nessuno», e segavano cosí il ramo su cui erano, sia pur precariamente, seduti...

Eppure non sono io che, ogni tanto, mi faccio prendere da una sorta di rimpianto per le perdute virtú della cosiddetta «prima Repubblica»? E che a lungo ho creduto nel ruolo «pedagogico» dei partiti politici - almeno quelli di «prima della fine» - cosí come immaginato dai Padri costituenti? E che pensavo veramente che «la classe operaia deve dirigere tutto» perché sta, lukacsianamente, «sul fronte avanzato del tempo»? Io, che come l'Italo Calvino rivolto alla «ragazza dalle guance d'aurora» ero convinto che «tutto il male avevamo di fronte, tutto il bene avevamo nel cuore»...

Ora sono qui, con un imprenditore coraggioso, un carabiniere colto, un giornalista dal passato democristiano e dal presente di combattente. Tra poco incontrerò un prete, don Pino De Masi (solo omonimo, non parente), referente di Libera nella Piana, dove dodici ragazzi gestiscono - circondati - i beni sottratti ai capi mafiosi. Sono loro - in quattro - quel che resta del mio Pantheon. Davanti a un piatto di «struncature», tanto abbondante che non riesco a finirlo.

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