Copertina
Autore Marco Revelli
Titolo Sinistra Destra
SottotitoloL'identità smarrita
EdizioneLaterza, Roma, 2007, i Robinson , pag. 272, cop.fle., dim. 14x21x2,2 cm , Isbn 978-88-420-8325-2
LettoreRiccardo Terzi, 2008
Classe politica , destra-sinistra
PrimaPagina


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Indice


Introduzione. Tra passato e futuro                        V


Le ragioni dei 'dissolutori'. Ovvero cinque argomenti
per dire no alla destra e alla sinistra                   3

- L'argomento storico o empirico, p. 3
- L'argomento della 'spoliticizzazione' della società
  contemporanea: l'estinzione del conflitto, p. 7
- L'argomento 'catastrofico' o della politicizzazione
  totale: la radicalizzazione del conflitto, p. 11
- L'argomento 'spaziale': dalla dimensione assiale-lineare
  alla dimensione sferica dello spazio politico, p. 13
- L'argomento 'temporale': accelerazione del tempo e
  crisi dell'identità, p. 14
- In sintesi..., p. 20

Considerazioni sul metodo.
La natura concettuale dell'antitesi 'Destra/Sinistra'    22

- Destra e sinistra come categorie 'spaziali', p. 23
- Usi descrittivi, prescrittivi e valutativi dei termini
  destra e sinistra, p. 27
- Destra e sinistra come 'categorie cardinali'
  della modernità politica, p. 30

Le definizioni di destra e sinistra.
Un approccio multidisciplinare                           33

- Le prime definizioni 'scientifiche', p. 36
- Definizioni 'tecniche', p. 38
- Definizioni 'militanti' (di destra), p. 42
- Definizioni 'militanti' (di sinistra), p. 45
- Definizioni 'antropologico-culturali', p. 47
- Le definizioni 'psiconeurologiche', p. 52

Cinque criteri per identificare la destra e la sinistra  60

- Il criterio temporale: mutamento e stabilità, p. 62
- Il criterio spaziale: principio egualitario e
  principio gerarchico, p. 74
- Il criterio decisionale: autonomia ed eteronomia, p. 79
- Il criterio sociologico: élite del potere e
  classi subalterne, p. 93
- Il criterio gnoseologico: 'logos' e 'mythos', p. 96

'Destre' e 'sinistre'.
Dai paradigmi puri alle molteplicità storiche           101

- Le tre destre di Rémond, p. 101
- Le tre sinistre di Lefranc, p. 121

Destra e sinistra nell'epoca della globalizzazione      143

- Christopher Lasch: il 'paradiso (in terra)
  perduto', p. 145
- Ulrich Beck: la modernità rovesciata, p. 151
- Anthonv Giddens: «Oltre la destra e la sinistra», p. 158
- Vecchi e nuovi argomenti dei 'dissolutori', p. 170
- La rivoluzione spaziale di fine secolo, p. 178
- Uno 'spazio sociale' globale, p. 179
- Quattro 'rivoluzioni spaziali', p. 181
- Al di là della spazialità nazionale, p. 183
- Dis-orientamenti. Nel 'nuovo disordine' spaziale, p. 185
- Dentro un nuovo 'spazio pubblico', p. 186
- 'Spazio sociale' e 'presente sociale', p. 186
- Dalla fine della storia alla fine della geografia, p. 190
- L'eclissi della 'sfera pubblica', p. 195

Lo spazio perduto della politica                        204

- La fine dell'eguaglianza (politica) come destino, p. 205
- La dimensione oligarchica delle democrazie
  postmoderne, p. 210
- Crisi della rappresentanza come crisi del rapporto
  pubblico-privato, p. 213
- Lo spazio politico come spazio mediatico:
  la rappresentazione senza rappresentanza, p. 223

Note                                                    229

 

 

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Pagina V

Introduzione


Tra passato e futuro



La coppia 'Destra/Sinistra' è la valuta corrente essenziale dello scambio politico nelle democrazie occidentali, scrivevano, alla metà degli anni Novanta, John Huber e Ronald Inglehart, due dei principali scienziati politici contemporanei. Esattamente come il prezzo e la quantità nelle transazioni economiche, la collocazione 'a destra' o 'a sinistra' compare infatti, con irriducibile costanza, in ogni analisi della pratica politica e delle sue logiche. Ne costituisce, in buona misura, la principale condizione di razionalità: la base di un sia pur precario 'ordine del discorso dotato di una propria sintassi condivisa. E così come nel caso del mercato la crisi di fiducia nella moneta prelude a un qualche, imminente, crollo economico, allo stesso modo la perdita di operatività e di consenso delle tradizionali culture politiche strutturate sull'antitesi 'Destra/Sinistra' può essere letta come il sintomo, inquietante, di un'equivalente e incombente crisi sistemica in ambito politico.

È questo, in fondo, lo scenario in cui ci stiamo muovendo in questo passaggio di secolo. Negli stessi anni in cui Huber e Inglehart ne affermavano la centralità, il cleavage 'Destra/Sinistra' giungeva infatti al fondo di un travolgente ciclo negativo come principio di organizzazione del campo politico, facendo registrare il proprio minimo storico di consenso. Né le cose sono mutate significativamente nel decennio successivo: il Novecento sembrerebbe essersi chiuso con una fuga disordinata delle appartenenze politiche che ne avevano strutturato, nel bene o nel male, l'esperienza storica.

Se prendiamo in considerazione il paese in cui la distinzione tra destra e sinistra è nata, e in cui la politica ha assunto tradizionalmente carattere paradigmatico – la Francia, dove una rilevazione Tns Sofres per conto della Fondazione Jean Jaurés e del «Nouvel Observateur» copre ormai sistematicamente da un trentennio gli umori dell'elettorato su questo tema –, il fenomeno è particolarmente evidente. Qui, ancora all'inizio degli anni Ottanta, di fronte alla domanda sull'attualità delle nozioni di destra e sinistra, solo il 33 per cento degli intervistati affermava di ritenerle «superate», ma già nel 1984 essi erano saliti al 49 per cento. Alla fine del decennio (nel pieno del lungo ciclo mitterrandiano) la percentuale saliva al 56 per cento, per raggiungere il picco del 60 per cento nel 1992. Livello mantenutosi, con piccole variazioni, in tutto il successivo decennio (segnato da una doppia coabitazione), fino al 2002. Il che significa che, all'inizio del XXI secolo, solo poco più di un terzo dell'elettorato francese continuava a credere nel valore identificante di quell'antitesi. Il grosso ne aveva preso silenziosamente congedo, e non certo la parte più sprovveduta. Può essere interessante, a questo proposito, considerare il fatto che le percentuali più alte di giudizi negativi sulla validità della coppia 'Destra/Sinistra' si registrarono tra la parte di popolazione più colta (il 71 per cento dei laureati e diplomati si pronunciarono in tal senso) e tra i 'quadri' e le 'professioni intellettuali' (73 per cento): in quello che Paul Ginsborg definirebbe il «ceto medio riflessivo», il nucleo più sensibile, anche se meno organizzato, dell'opinione pubblica.

Ciò non significa tuttavia – come ognuno può quotidianamente constatare – che i termini 'destra' e 'sinistra' siano scomparsi dal nostro linguaggio pubblico. Che, caduti in discredito, siano anche caduti in disuso. Anzi. Nonostante le infinite dichiarazioni di morte presunta, continuiamo a ritrovarceli davanti, con insospettata vitalità, non appena si incominci a parlare di politica. A farne la 'cronaca'. Sui giornali, in primo luogo, dove ripudiati un'infinità di volte dagli opinion leaders nelle pagine culturali, o comunque là dove si fanno riflessioni 'alte', quegli «screditati residui dell' epoca delle ideologie e delle appartenenze» vengono poi frequentati sfacciatamente sulle prime pagine dai loro colleghi che debbono occuparsi, più prosaicamente, della 'cucina politica' di tutti i giorni, un po' come accade a quei preti spretati che pur non credendovi più continuano a invocare il loro dio, magari per bestemmiarlo. Ma anche negli atteggiamenti dell'elettore medio, quando si tratti di autorappresentarsi politicamente, la contraddizione si ripropone. Quegli stessi che nel sondaggio sulla validità del cleavage ne decretavano plebiscitariamente il superamento, poi, se richiesti, nello stesso questionario, di collocarsi su una scala orientata da sinistra a destra continuavano a farlo diligentemente. Con una certa difficoltà, certo (sono sempre più esigue le identità 'pure', posizionate agli estremi, cresce il 'centro' non politicizzato, espressione di una qualche difficoltà a identificare una propria collocazione netta), ma tutto sommato maggioritariamente (solo un terzo si sottrae rifiutando di autocollocarsi o ponendosi in quella che gli autori della ricerca definiscono «la palude»). Sintomo, verrebbe da dire, di un qualche disagio psichico della coscienza politica, di una sconnessione tra pensiero e azione, tra rappresentazione mentale e realtà, o, se si preferisce, di una distanza via via crescente tra il vissuto collettivo – l'esperienza quotidiana – e le forme, le figure, il lessico stesso e le categorie consolidate con cui la politica si rappresenta, quasi appartenessero a piani di realtà diversi e a differenti 'logiche del racconto'. Comunque un paradosso, da cui prende origine, a sua volta, un'intera serie di paradossi.

Un primo paradosso è costituito dall'immagine implacabilmente uniforme, monocroma e omogenea dello spazio pubblico che si otterrebbe se si applicasse rigorosamente agli schieramenti politici attuali nelle principali democrazie occidentali lo schema intrinsecamente dicotomico e polarizzato 'Destra/Sinistra', concepito all'opposto per panorami differenziati, policromi e disomogenei, e ad essi destinato. Si guardino, per averne un'impressionistica rappresentazione, le 'mappe' più recenti disegnate seguendo lo schema del political compass, il quale struttura cartesianamente lo spazio politico in quattro quadranti delimitati da un asse orizzontale orientato da sinistra a destra a seconda degli atteggiamenti più o meno 'interventisti' in campo economico e sociale e da uno verticale orientato dall'alto al basso a seconda degli atteggiamenti più o meno autoritari o libertari nel campo del costume. Si consideri, ad esempio, la cartografia politica dei candicati alle primarie americane di entrambi i partiti così ottenuta, la quale ce li mostra affollati, pressoché tutti, nel quadrante degli 'autoritari di destra', dove ritroviamo, in bizzarra convivenza, Hillary Clinton e Newt Gingrich (parecchio più in alto sull'asse dell'autoritarismo e un poco più a destra), John McCain e Barak Obama (leggermente più verso il centro rispetto alla Clinton, ma anche più 'autoritario'), John Edwards e Rudy Giuliani. Solo due figure minori – Dennis Kucinick e Mike Gravel – sfuggono a questo destino, rientrando, sia pur di poche lunghezze, nel quadrante dei 'libertari di sinistra'... Allo stesso modo per la collocazione dei governi europei, nel 2006: tutti concentrati nel quadrante in alto a destra, con la sola eccezione di Svezia, Finlandia, Danimarca e Olanda, pur sempre 'a destra' ma, contrariamente agli altri, di pochissimo al di sotto dell'asse che separa gli autoritari dai libertari. E fa, bisogna dirlo, un certo effetto – anche se una sua razionalità ce l'ha – vedere il Regno Unito del new labour Tony Blair quasi con le stesse coordinate spaziali della Grecia dell'ultraconservatore Costas Karamanlis e significativamente più a destra della Francia neogollista di Jacques Chirac...

Un secondo paradosso – per molti aspetti un paradosso nel paradosso – consiste nel fatto che questo appannamento (per usare un eufemismo) ed estenuazione della dicotomia 'Destra/Sinistra', questa sua perdita di 'corso legale' (per riprendere la metafora monetaria), si manifestino proprio nel momento in cui, su scala globale, lo scandalo della diseguaglianza esplode in tutta la sua evidenza. Nella fase storica in cui, cioè, la questione dell' 'eguaglianza' – che come ha ben dimostrato Norberto Bobbio costituisce il principale, se non l'unico, tema discriminante tra sinistra e destra – assume (o dovrebbe assumere) tutta la sua indilazionabile crucialità ai fini del confronto, politico per eccellenza, sull'elaborazione di un 'ordine condiviso'. Ora, il dover constatare che le distanze politiche tra destra e sinistra si vanno riducendo nell'immaginario collettivo, fin quasi a perdere di senso, mentre le distanze sociali tra i primi e gli ultimi sul piano planetario vanno crescendo o comunque rivelandosi in una dimensione fino a ieri ritenuta intollerabile, la dice lunga sul male oscuro che sembra minare oggi, nel profondo, la razionalità politica e, in generale, la sfera stessa del 'politico', così come la nostra modernità l'ha concepito.

Certo, i professionisti della rassicurazione vanno da tempo ripetendo che va bene così. Che questo attenuarsi del contrasto tra opposte identità collettive è normale. Di più: che è il segno della compiuta normalizzazione, di un auspicato e auspicabile passaggio della politica, finalmente, dallo stato adolescenziale a quello della maturità, dall'infatuazione ideologica a una conquistata dimensione pragmatica, in cui la ricerca comune delle soluzioni possibili prevale sull'enfatizzazione dei problemi insolubili. Dilagano, ma non convincono. Pur con la pervasiva forza mediatica del luogo comune, non riescono a dissipare del tutto la sensazione di un 'disordine nuovo' al di sotto di questa inedita commistione degli opposti. L'impressione che questa politica finalmente liberata dai propri consolidati 'riferimenti ideologici', più che pragmatica, sia caotica. Come un mercato dopo la 'morte della moneta' o un linguaggio privo di grammatica e sintassi. E che lungi dall'essersi arricchita di una maggior concretezza, la sfera politica sia al contrario minata da una accentuata vuotezza, da una crescente inconsistenza di forme e figure.

In fondo, le ragioni della 'famigerata' contrapposizione tra destra e sinistra – la materialità dei problemi e dei (potenziali) contrasti, la durezza e perentorietà delle alternative –, sono ancora tutte lì, sul tappeto 'globale', per certi versi potenziate e ingigantite dall'unificazione dello spazio planetario. Quello che manca, drammaticamente, sembrano essere, invece, le soluzioni e i soggetti politici disposti a farsene carico. Cosicché è difficile sottrasi alla sensazione che questo indifferenziato convergere di programmi e proposte su un repertorio ristretto di atteggiamenti condivisi – questa rinuncia a dividersi, se non sulle 'questioni ultime', per lo meno su quelle 'penultime' che possono offrire un senso e una direzione all'azione collettiva –, non derivi, in realtà, dall'approdo a uno stile di risposta razionale alle sfide del tempo, ma da una non dichiarata né dichiarabile impotenza, da un'obiettiva assenza di risposte possibili, all'interno dell'orizzonte politico contemporaneo, alle questioni vitali del nostro vivere in comune. Il che equivarrebbe – bisogna ammetterlo – al fallimento della politica in quello che costituisce, in senso proprio, il suo compito qualificante.

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Pagina IX

Il libro pone al centro della propria riflessione questo interrogativo. Sul carattere e sul destino della crisi d'identità delle tradizionali famiglie politiche: se si tratti, in qualche modo, di un appannamento contingente, di un fenomeno di assestamento e di riallineamento destinato a essere più o meno rapidamente superato, o se, al contrario, non si sia di fronte a una caduta strutturale, alla 'cronaca' di una morte più volte annunciata. Ma anche, più in generale, sul rapporto che lega l'estenuazione dell'antitesi 'Destra/Sinistra' alle sorti e alla crisi del 'politico' in quanto tale: se questa perdita di consistenza delle consolidate identità contrapposte, questo allentarsi della loro 'presa' sul reale, non rinvii, in realtà, come il sintomo rinvia alla malattia, a una parallela e più radicale perdita di contatto tra 'politica' e 'mondo', a una sua inedita 'inoperosità' che rivela a sua volta lo stato avanzato di decostruzione dei fondamenti stessi su cui essa si era fondata fino ad ora.

È dunque, prevalentemente, un lavoro di ricognizione all'interno degli smarrimenti contemporanei, condotto non sul livello dell'osservazione empirica – dove la perentorietà degli indicatori quantitativi ha la forza delle cose ma anche la loro opacità di superficie –, bensì su quello della riflessione concettuale, in cui la contraddittorietà dei processi, e la molteplice alternatività delle interpretazioni, hanno maggior spazio e si conservano, con una qualche persistenza, le tracce di un percorso (come si vedrà) accidentato e aperto, fitto di rotture e ripensamenti, di fini proclamate e di continuità riaffermate, come accade nelle epoche in cui, appunto, s'incontrano e sovrappongono temporalità diverse, e ciò che non ha ancora finito di finire si fonde con ciò che ha appena incominciato a cominciare.

Il primo capitolo, dedicato alle 'ragioni dei dissolutori', ricostruisce con una qualche aspirazione alla sistematicità il dibattito sviluppatosi tra la fine degli anni Settanta e la metà degli anni Novanta: un quindicennio decisivo per le sorti della coppia 'Destra/Sinistra' come principio ordinatore dell'universo politico. Quello degli 'assalti frontali' alle consolidate identità collettive, prima ancora che sul piano concettuale su quello – chiamiamolo così – antropologico-sociale: del costume, dell'immaginario collettivo, dello stile di vita e di pensiero, quando il Novecento, con furia iconoclasta, tentò di chiudersi negandosi, azzerando o rovesciando tutti i caratteri identificanti che ne avevano segnato l'aspra, travolgente e (soprattutto nella prima metà) sanguinosa vicenda politica, con il conclamato trionfo della figura ecumenica ed appagata del consumatore opulento su quella conflittuale e coriacea del produttore industriale, sul piano sociale. E con la damnatio memoriae di tutte le culture politiche forti nell'apologetica della 'morte delle ideologie', su quello politico-culturale, come se la caduta del muro di Berlino – l'evento simbolico che costituisce in senso proprio il baricentro di quella lunga fase di congedo – segnasse non solo la cancellazione della linea di demarcazione tra Est e Ovest ma anche la fine di ogni possibile scansione dello spazio pubblico in identità separate e potenzialmente contrapposte.

Le ragioni per un così frettoloso congedo, un paio di decenni in anticipo sulla scadenza cronologica del secolo, erano tante e tutte di grande rilievo, ben rappresentate da un ampio repertorio di 'fini': la 'fine del comunismo' sovietico, con l'implosione dell'esperienza storica che aveva inaugurato il Novecento e che ne aveva simbolizzato la natura ideologicamente polarizzata. La fine del lungo ciclo 'fordista', della produzione standardizzata di massa, del gigantismo industriale e delle grandi burocrazie pubbliche e private, e – più in generale – la decostruzione della tradizionale 'società di classe', strutturata intorno alla polarità capitale/lavoro, che era sembrata costituire l'orizzonte intrascendibile e stabile della civiltà industriale (intesa come 'civiltà del lavoro'), ciò che, con espressione equivoca (e spesso equivocata) è stato definito 'la fine del lavoro'. E, all'opposto, l'emergere di un mondo tendenzialmente unificato e uniformato dal mercato e dall'informazione, dalle merci e dai segni, in rapida transumanza, instabili come instabili sono i prezzi e le sostanze volatili. Un panorama, dunque, sempre più irriconoscibile.

Ma mentre i processi materiali che spingevano il secolo ad andare oltre se stesso erano radicati in profonde ed effettive innovazioni, i dispositivi argomentativi messi in campo per motivare l'esodo e abbattere i consolidati recinti (in particolare l'antitesi 'incapacitante' tra destra e sinistra, come allora venne qualificata) attingevano, visibilmente, al passato. Quasi che il Novecento non riuscisse a criticare se stesso se non con 'argomenti novecenteschi', rimettendo in circolo vecchie critiche, appartenenti in prevalenza (sia pur con qualche autorevole eccezione) al patrimonio tradizionale della destra non liberale, ora emancipate dai ghetti culturali in cui erano state chiuse per quasi quattro decenni e riproposte all'onor del mondo con la vernice della novità. Si pensi alle critiche mosse dal punto di vista del tradizionalismo (cattolico e neo-pagano) alla scissione politica e all'idea stessa del pluralismo e del conflitto in nome di una visione organicistica, verticale e gerarchica della società. O a quelle ispirate dal recupero dell'anti-intellettualismo classico, parte integrante della reazione antirazionalistica e anti-illuministica di quelle componenti vitalistiche, attivistiche e spiritualistiche che nel rifiuto di ogni principio ordinatore (normativo) del politico, quale appunto la dicotomia assiale 'Destra/Sinistra', esprimono l'idea della irriducibilità della 'vita' a criteri ordinatori e razionali. Della non ordinabilità dei fatti – in particolare di quelli attinenti alla volontà di potenza e all'esercizio del potere – secondo principi ('astratti') di ragione. O anche soltanto, più semplicemente, suggerite dal fastidio per l'eccesso di vincoli posti dai valori identificanti alla logica dello scambio e dell'occasionalismo politico, dal bisogno di nuove, più libere commistioni che scongelassero gli schieramenti costituitisi alla metà del secolo, nella lunga 'guerra civile europea', e permettessero più disinvolte alleanze.

Su buona parte di quelle argomentazioni disse una parola definitiva, alla metà degli anni Novanta, Norberto Bobbio, nel suo «fortunato libretto» (così egli lo definì) su Destra e sinistra, che ricordava come in un contesto naturalmente conflittuale quale quello politico, «che richiama continuamente il gioco delle parti e della contesa per sconfiggere l'avversario, dividere l'universo in due emisferi non è una semplificazione, ma una fedele rappresentazione della realtà» (specialmente in un sistema politico come quello democratico, che tanto più è perfetto quanto più accetta «come regola fondamentale del gioco [...] l'alternanza tra l'uno e l'altro polo»). E soprattutto impartiva un'autorevole lezione di metodo invitando i critici a non confondere tra un uso linguistico descrittivo dei termini 'sinistra' e 'destra' (destinato a offrire una rappresentazione sintetica e priva di giudizi di valore delle due parti in conflitto, e tuttora valido) e un uso assiologico (orientato a esprimere preferenze in senso positivo o negativo) o storico (inteso a segnare differenze tra diverse epoche o fatti distribuiti nel tempo), rispetto ai quali tutt'al più potrebbero essere mosse accuse di obsolescenza o anacronismo. Con ciò si può dire che (almeno apparentemente) il caso fu chiuso. Ma quel dibattito rimane, tuttora, la testimonianza di uno 'strappo' significativo, il primo, sia pur contraddittorio, segnale di una destabilizzazione categoriale (non dimentichiamo che esso costeggiò esattamente il periodo in cui più violenta fu la caduta di consenso nella 'diade', registrata nei sondaggi).

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Pagina XII

I capitoli centrali (dal secondo al quarto), poi, contengono un'ampia ricognizione concettuale all'interno del campo lessicale costituito dall'antitesi 'Destra/Sinistra'. Sulle questioni di metodo che essa solleva, in primo luogo, affrontate nel secondo capitolo, in cui è messa in evidenza la natura essenzialmente relazionale (dunque non sostantiva) della distinzione: il carattere spaziale dei due concetti, destinati a qualificare porzioni distinte dello spazio pubblico e non qualità intrinseche ai soggetti storici del gioco politico (i quali possono quindi spostarsi liberamente da una collocazione all'altra senza con questo destituire di significato la distinzione). In secondo luogo sulla definizione, anzi sulle molteplici definizioni dei concetti di destra e di sinistra, di cui si occupa il terzo capitolo, mostrando l'ampiezza davvero sconcertante dello spettro semantico dei due termini, il loro radicamento in una molteplicità di strati della coscienza e dell'esperienza umana, da quello più superficiale della scansione dello spazio, giù giù al piano del simbolico, dell'immaginario individuale e collettivo, oltre il livello delle scienze politiche e sociali, sconfinando nel campo dell'antropologia e più oltre, in quello delle neuroscienze. Nel quarto capitolo, infine, si tenta di 'smontare', per così dire, una struttura sintetica ma per sua natura complessa (multidimensionale, appunto) come quella rappresentata dai concetti di destra e di sinistra nei suoi elementi costitutivi, diversi a seconda del piano analitico selezionato: l'antitesi tra conservazione e progresso sul piano temporale, quella tra gerarchia ed eguaglianza su quello socio-spaziale, o tra eteronomia e autonomia per ciò che riguarda la dimensione decisionale, o ancora tra irrazionalità e razionalità dal punto di vista cognitivo. Per verificarne le rispettive interdipendenze, il grado di maggiore o minor coerenza, ed enuclearne, se possibile, una componente egemonica, un elemento qualificante o, meglio, una determinante di senso principale – la 'variabile indipendente', direbbe un metodologo – che 'spiega' le altre (costituita, lo si può anticipare, dall'antitesi tra eguaglianza e gerarchia, vera stella polare nelle pur molteplici vicende delle tante 'destre' e 'sinistre' storiche che si affollano lungo l'ormai bisecolare percorso della modernità politica).

Considerati nel loro insieme, questi tre capitoli ci dicono quanto in realtà sia 'pesante', la diade 'Destra/Sinistra', e ingombrante, piantata com'è negli strati profondi della nostra coscienza collettiva, al confine stesso tra conscio e inconscio, tra cultura e natura, un po' come i 'residui' paretiani, sorta di a priori istintivo per ogni atto che implichi un orientamento. E dunque quanto difficile sia — e per molti aspetti anche rischioso — sbarazzarsi di essa, nonostante tutto. Come il navigante che pensasse di semplificarsi il viaggio gettando a mare il sestante o bruciando le carte nautiche.

Ci si potrà lamentare che in quella mappa a due sole dimensioni finiscono per affastellarsi troppe cose alla rinfusa che dovrebbero invece restare distinte, con un eccesso di confusione (come tenere insieme, nella stessa 'famiglia politica', figure così diverse come Robespierre e Benjamin Constant, o come Lenin e Lord Beveridge, da una parte, o come Maistre e Guizot, o Hitler e Churchill, dall'altra?). O si potrà obiettare, all'opposto, che troppe ne risultano escluse, con un simmetrico eccesso di semplificazione (dove collocare tutti quelli, e sono indubbiamente tanti, che resistono a una classificazione precisa, i nomadi dello spazio politico, coloro che sono passati magari più volte da un campo all'altro, o che affollano il centro?). Ci si potrà, d'altra parte, convincere, con Francis Fukuyama, che la 'fine della storia' segni anche la fine di quella dicotomia che ne aveva determinato lo sviluppo e l'accelerazione più recenti, soprattutto osservando il campo 'di sinistra' ora desolantemente rarefatto, per non dire deserto. O che, al contrario, proprio la potenza trascinante della storia, il suo incessante movimento, finisca per affastellare ai due poli dell'antitesi identità così diverse nel tempo e nello spazio da risultare tra loro inconfrontabili e inclassificabili in contenitori comuni e con denominazioni stabili.

Ma è difficile sfuggire alla constatazione che non poteva trattarsi di un fatuo gioco dell'astratta ragione, né di un espediente ideologico contingente, se quelle categorie e quell'antitesi sono sopravvissute per oltre due secoli alle sfide del tempo, con alterne vicende, certo, ma ritornando ogni volta, tenacemente (e «dispettosamente», dice Bobbio), a dividere il campo politico. E se — come mostra il quinto capitolo —, pur nell'estrema varietà delle soggettività storiche e delle esperienze politiche, la vicenda otto-novecentesca ha finito per riproporre, nell'uno e nell'altro campo, tutto sommato un repertorio assai limitato di identità di fondo, una quantità di membri delle rispettive famiglie politiche riconducibili, a ben guardare, a pochi 'archetipi', formatisi in realtà tutti immediatamente a ridosso della frattura che ha dato origine alla diade, l'Ottantanove francese, i cui caratteri di fondo sono poi riconoscibili, come i tratti di un comune patrimonio genetico, nelle successive esperienze politiche: tre destre — si suggerisce qui —, l'una 'tradízionalista', l'altra 'orléanista', la terza 'bonapartista', secondo la nota classificazione di René Remond, strutturatesi tutte nella prima metà dell'Ottocento ma poi replicatesi e reincarnatesi fino a tutto il Novecento maturo. E tre sinistre, l'una 'liberale', la seconda 'democratica' e l'ultima 'socialista' o meglio sociale, costituitesi in forma per così dire 'istantanea' nei pochi anni che vanno dall'Assemblea nazionale al Termidoro e diventate 'matrici' di tutte le sinistre successive.

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Pagina XV

Gli ultimi due capitoli sono stati — devo ammetterlo — i più sofferti. Quelli in cui più spesso, come si suol dire, mi sono sorpreso a concepire idee che stento a condividere. Riguardano il dibattito più recente: quello che ha preso corpo nel corso degli anni Novanta giungendo poi a segnare il primo decennio del nuovo secolo. Un dibattito solo apparentemente in continuità con la discussione precedente (presentata nel primo capitolo), in realtà da quella profondamente diverso. In primo luogo per l'identità e la collocazione dei protagonisti: ora, perla prima volta, intellettuali provenienti in prevalenza dalla 'sinistra culturale', sia pure eterodossa, come Christopher Lasch, o Ulrich Beck e Anthony Giddens, o Zygmunt Bauman; e poi per gli argomenti utilizzati, non più tratti dalla tradizione irrazionalistica, o antirazionalistica, novecentesca, né riesumati dalle vecchie dispute, tutte 'ideologiche', sui vizi e i pericoli delle 'ideologie', ma fondati su uno sguardo disincantato (e radicalmente razionale) sulla fattualità del presente, dunque, proprio per questo, tanto più efficaci, e difficili da confutare.

In pressoché tutti i principali interventi di questa nuova fase del dibattito — lo si può notare facilmente — la messa in discussione della diade 'Destra/Sinistra' e della sua legittimità a 'organizzare' credibilmente il panorama politico attuale non trae più origine da un fastidio culturale 'preventivo' nei confronti delle categorie in questione né dall'ostilità verso una visione politica orientata a ideali. Al contrario, si alimenta piuttosto della presa d'atto — da parte di autori che a quel confronto tra idealità politiche contrapposte avevano partecipato attivamente, identificandovisi -, di una serie di trasformazioni dalla portata sconvolgente in campo non solo politico, ma anche tecnologico, economico, sociale e culturale. A cominciare da quella politicamente più clamorosa: dall'accelerato, fin troppo evidente processo di decomposizione e di collasso di uno dei due corni della diade, la 'sinistra', resosi clamorosamente evidente, e persino imbarazzante, proprio nel corso degli anni Novanta e proseguito, a ritmo sostenuto, nell'incipit del nuovo secolo.

Un fatto, si potrebbe ritenere, certo destabilizzante sul piano della contingenza storica, ma non tale, di per sé, da destituire di senso i fondamenti ideali della consolidata topografia politica; che però gli autori in questione riconnettono – con un movimento simile a quello che riconduce la sovrastruttura alla struttura – a fenomeni più profondi e dirompenti, a una vera e propria frattura storica, o meglio a una torsione violenta nel percorso della modernità industriale, tale da comportarne una sorta di rovesciamento di tutti i valori, un mutamento di segno valoriale di quegli stessi riferimenti ideali che avevano assunto carattere identificante delle contrapposte culture politiche: l'idea di progresso, in primo luogo, con i suoi corollari della crescita e dello sviluppo, fino a ieri sinonimi di democratizzazione e di possibile superamento delle diseguaglianze sociali (e cavallo di battaglia delle diverse sinistre), oggi intrinsecamente connessi all'idea di rischio e di minaccia e alla proliferazione di nuove diseguaglianze (spesso col sostegno di una destra indifferente alle ricadute ecologiche e sociali in nome di un utile mercantile insofferente a ogni limite). Ma anche l'organizzazione di massa dell'agire politico e l'apparatizzazione dei sistemi di produzione di servizi, nati come modelli di efficienza e rovesciatisi in oppressive macchine burocratiche. E lo stesso 'modello cibernetico' che sottostava al progetto socialista (per usare un'espressione di Giddens): l'idea che la sottomissione di processi complessi alla guida di una mente direttiva pubblica potesse favorire equità e ordine sociale, rivelatasi invece fonte di inefficienza, di disordine e infine di oppressione. Conseguenze, queste, non di un'interruzione nella marcia lineare della modernità, di un arresto determinato non da resistenze o volontà opposte, ma da una sua radicalizzazione. Da un compimento delle sue logiche intrinseche, portate tanto all'estremo da destrutturare i propri stessi presupposti iniziali (sistematizzato in forma assai convincente nel concetto di 'modernizzazione riflessiva' formulato da Beck e rappresentato in forma immaginifica nell'espressione 'modernità liquida' coniata da Bauman).

Sullo sfondo – come poteva mancare? – la globalizzazione, la forma compiuta del processo di modernizzazione. Per la verità l'argomento secondo cui con la globalizzazione «la vecchia distinzione [tra destra e sinistra] avrebbe perduto tutta la sua efficacia descrittiva» era già comparso nel 'vecchio' dibattito (lo troviamo ripreso con un certo rilievo, per respingerlo con nettezza, da Bobbio nella seconda replica ai propri critici). Ma il termine era usato allora ancora nella sua accezione prevalentemente, anzi esclusivamente, economica, secondo la vulgata dell'ideologia neoliberista per cui «la mercatizzazione totale dei rapporti umani [avrebbe rappresentato] la soluzione di tutti i problemi»; alla quale era tutto sommato facile replicare, come fece appunto Bobbio, che al contrario «quanto più il mercato si estende, tanto più aumentano i problemi che il mercato solleva o non riesce a risolvere». Ma ora, invece, il concetto compare in tutta la sua estensione, come fatto implicante la totalità delle relazioni umane: non solo la sfera economica, dunque (la prima ad aver colpito l'attenzione dei commentatori e tuttavia, in fondo, la più superficiale), ma anche – alla luce del moltiplicarsi delle riflessioni su un piano multidisciplinare –, l'intero sistema dei rapporti socio-culturali, sottoposto a una torsione violenta, a un vero e proprio sconvolgimento, sotto la spinta, potente, di una doppia rivoluzione tecnologica, nel campo dei trasporti e delle telecomunicazioni, che ha mutato nel profondo le coordinate fondamentali della relazionalità umana, il senso della distanza e della vicinanza, della presenza e dell'assenza, del tempo e dei luoghi.

È questa l'accezione in cui il concetto di globalizzazione entra in campo nella fase più recente del dibattito sul destino della diade 'Destra/Sinistra': una trasformazione non solo globale (nel senso dell'estensione quantitativa) ma anche totale (nel senso della profondità qualitativa, degli aspetti sociali, esistenziali, culturali coinvolti). Una rivoluzione, dunque, anzi, per essere più precisi, una 'rivoluzione spaziale': una trasformazione radicale della percezione sociale dello spazio, o se si preferisce una metamorfosi integrale dello 'spazio sociale', dell'habitat umano, della sfera di esperienza, cioè, entro la quale si percepisce che avvengono gli eventi suscettibili di influenzare direttamente e in tempo reale la nostra vita. Ed è chiaro che, così intesa, essa non può rimanere senza conseguenze per ciò che riguarda il destino, e le capacità di sopravvivenza, dei fondamenti identitari strutturati sull'antitesi 'Destra/Sinistra'. Due concetti, appunto, spaziali per la loro stessa natura, principi 'cardinali' di orientamento in uno spazio politico presupposto come stabile e ordinabile; minacciati mortalmente, se quello spazio si scompone e decostruisce, se si fa incerto e liquido, se viene meno, in sostanza, il supporto 'materiale' – come lo definisce Manuel Castells – che ne sorreggeva la razionalità funzionale.

Ed è questo l'argomento davvero decisivo – l' experimentum crucis – che rende le più recenti diagnosi (e le conseguenti prognosi, generalmente infauste) sullo stato di salute dell'antitesi 'Destra/Sinistra' così convincenti, o comunque così difficilmente oppugnabili, e anche così inquietanti per chi non vorrebbe arrendersi alla deriva di una politica senza principi né criteri di orientamento e coerenza, e ha tentato fino all'ultimo d'illudersi del carattere transitorio dell'eclissi. Quello infatti che emerge, sul grande schermo dello sguardo 'globalizzato', è un paesaggio sociale terremotato, sempre più solcato da flussi e sempre meno strutturato in luoghi, dunque mobile e incerto (senza più l'antica consistenza delle misure sicure), 'lavorato' dalle tecnologie della comunicazione istantanea fino a perdere il senso delle rispettive collocazioni, l'ordine garantito dalla distanza e dalla contiguità, sostituito dalla commistione tra i distanti, dalla compresenza degli altrove.

In un contesto siffatto – appare persino superfluo suggerirlo – diventa davvero impresa ardua, se non disperata, tener fermi i consolidati criteri di orientamento spaziali, o continuare a 'mantenere le proprie posizioni' e restare, in sostanza, 'se stessi'. E ciò non tanto per una consapevole disponibilità dei soggetti, individuali o collettivi, alla transumanza e al mimetismo (al 'tradimento delle proprie origini', si direbbe volgarmente), o per un'insufficienza della volontà sottomessa all'opportunità che impedirebbe di mantenere con coerenza 'il proprio posto' (certo anche per questo). Ma soprattutto perché in uno spazio non più 'euclideo' come quello attuale non ci sono più 'posti' certi e stabili in cui radicarsi. Dunque, per un'intrinseca, e universale, labilità dei 'luoghi' (e 'destra' e 'sinistra' sono appunto luoghi simbolici dello spazio politico, non dimentichiamolo), per la loro polisemicità e multiformità, in una spazialità (inedita) in cui è possibile essere contemporaneamente 'qui' e 'altrove' e in cui l'infinitamente lontano (geograficamente) può essere contemporaneamente infinitamente vicino (socialmente, affettivamente, culturalmente) e viceversa.

L'eclissi della diade 'Destra/Sinistra' si rivela, per questa via, parte del più generale spaesamento contemporaneo. È, per molti aspetti, l'effetto di un 'cedimento strutturale' del contesto stesso in cui quella contrapposizione aveva preso forma (la spazialità 'solida' dello Stato-nazione) e aveva catalizzato in sé buona parte dei fattori 'di senso' dell'agire politico: come tale difficilmente superabile grazie a un qualche 'scatto d'orgoglio' dei protagonisti politici, in forza di una tante volte auspicata quanto regolarmente rinviata autoriforma degli stili politici prevalenti. Sembra assai più probabile, al contrario, che la lunga agonia delle identità politiche 'forti' e della competizione saldamente strutturata intorno a universi di senso contrapposti continui, nell'estenuazione dei confini e nella commistione dei programmi all'interno di luoghi comuni mediaticamente prodotti ed enfatizzati. Che cioè l' 'inoperosità' (o quanto meno la neutralizzazione) dell'antitesi 'Destra/Sinistra' sia destinata a continuare, secondo i voti dei tanti fautori del 'superamento delle contrapposizioni ideologiche' e delle 'astratte' divisioni ideali, per una politica finalmente e pragmaticamente ridotta all'amministrazione dell'esistente, in cui sia la forza delle cose (e del mercato) a suggerire le soluzioni condivise. E tuttavia non son sicuro che vi siano ragioni per festeggiare, neppure da parte loro.

Perché destra e sinistra cadono, è vero. Ma non cadono da sole. Con loro 'va giù' anche buona parte della politica moderna o, meglio, della modernità politica, con la sua carica di negatività, più volte riconosciuta (l'affidamento alla risorsa della forza e al mito della potenza come strumenti di 'produzione' dell'ordine sociale, la vocazione al travalicamento e all'abolizione dei limiti, la minaccia subliminare del delirio implicito «nell'ideologia dell'onnipotenza dell'autocostituzione della prassi», il rischio permanente del nichilismo e del solipsismo). Ma anche con il suo patrimonio di positività: la distinzione visibile tra dimensione pubblica e dimensione privata, la sovranità della legge nell'ambito della parallela sovranità nazionale, la costruzione di uno 'spazio pubblico' regolato e controllato, il costituzionalismo, il principio di rappresentanza democratica, la tutela collettiva dei diritti, l'eguaglianza giuridica e politica e, insieme, quanto meno la promessa dell'eguaglianza sociale... Un patrimonio - occorre sottilenearlo - radicato in quella stessa spazialità che aveva trovato nell'articolazione lungo l'asse 'Destra/Sinistra' il proprio naturale principio di organizzazione e che ora, appunto, nella propria 'implosione', ne decreta e conferma la crisi.

Questo mi pare, nella sua sostanza, il messaggio più significativo che emerge dall'insieme delle analisi più recenti, condotte alle loro estreme, ma logiche, conseguenze: l'identificazione della malattia che ha finito per invalidare le tradizionali e contrapposte identità politiche tipiche della contemporaneità come il sintomo più evidente del male oscuro che corrode dall'interno quello che potremmo definire il 'paradigma politico della modernità', intendendo con questa espressione l'immagine, la forma, il sistema di mezzi e di fini che la politica si è data ed è venuta elaborando da quando, più di tre secoli or sono, emancipatasi dalla concezione naturalistica e organicistica della società, ha assunto il compito di elaborare un ordine sociale condiviso per via 'umana' (come 'artificio'). O, detto in altri termini, l'idea del 'politico' come esercizio di un potere pubblico regolato, in funzione di fini collettivamente definiti attraverso un 'agire razionale orientato a valori' tra loro in conflitto. Ed è anche, per certi aspetti, la conclusione cui giunge questa ricognizione condotta attraverso i meandri del significato e della sorte della diade che con la politica del 'moderno' è nata, e che con essa oggi sembra estinguersi. Conclusione contrastata, lo ripeto. E anche, in parte, inaspettata. Cui avevo sperato di non dover giungere quando, alla fine degli anni Ottanta, il percorso d'indagine era incominciato, non tanto, o comunque non solo, per la resistenza opposta da un'identità personale che mal sopporta le cesure o l' impasse, ma per le implicazioni che tutto ciò ha, per la difficoltà ad accettare l'immagine del vuoto che si apre nel momento in cui l'universo di senso organizzato intorno a quel 'paradigma politico' si decompone, in presenza di sfide globali, e mortali, che sembrano, all'opposto, non tollerare dilazioni e che invocherebbero, al contrario, forme adeguate del 'politico' in grado di far transitare la vecchia storia al livello imposto dalla nuova geografia.

È difficile dire quando nascerà un 'nuovo paradigma politico' capace – come fece il paradigma politico dei moderni nei confronti di quello degli 'antichi' più di tre secoli or sono – di riempire quel vuoto. E se esso nascerà. Attraverso quali protagonisti (soggetti sociali, culture, identità). E quali forme assumerà. Certo è che esso non potrà non misurarsi con le nuove dimensioni e le nuove qualità dello spazio succeduto a quello – tutto sommato rassicurante ma 'esploso' – della statualità nazionale. E anche con la nuova antropologia che in quella spazialità dovrà radicarsi, rispetto alla quale l' 'uomo della tribù' (per usare una felice espressione di Ernesto Balducci) appare 'antiquato' e si fa avanti, ancora incerta nel suo profilo, la figura dell' 'uomo planetario'.

Il che implica, inutile dirlo, una sorta di reconstructio ab imis dei fondamenti stessi del 'politico', un nuovo pactum e un nuovo 'codice' genetico che, come inevitabilmente avviene nella fase genetica di ogni nuovo 'paradigma', non potrà che fondarsi su degli 'universali', su un limitato, ma sostantivo, repertorio di valori capaci di tracciare l'orizzonte condiviso entro cui gli inevitabili contrasti e conflitti che di per sé la politica presuppone possano essere regolati consensualmente. E nello stesso tempo tali da segnare, con evidenza, la separazione dal precedente paradigma, da dare il segno – per dirla con Thomas Kuhn – della 'rivoluzione scientifica' (o comunque 'concettuale') compiuta. Potremmo chiamarli 'meta-valori', per sottolinearne il carattere di a priori rispetto al campo politico: la natura di principi costitutivi di esso più che di oggetti del confronto al suo interno. E tentarne anche un provvisorio, ancora embrionale e incerto repertorio sulla base delle frammentarie, ma anche significative, esperienze di questi pochi anni di convivenza tra il non-più e il non-ancora. Sapendo che la possibilità, per essi, di affermarsi come parti di una nuova dimensione del politico passa attraverso la risoluzione di alcuni nodi, la scelta tra alternative di fondo, che attualmente tagliano orizzontalmente gli schieramenti politici e le identità culturali.

La prima opzione, per molti versi preliminare, relativa alla questione dei 'mezzi' dell'azione politica – e anche quella che con maggior nettezza è destinata a influire sul nesso di continuità con il paradigma politico dei moderni –, riguarda senza dubbio l'alternativa tra violenza e nonviolenza. La disponibilità o meno a bandire - di fronte all'inedita fragilità del mondo umano unificato dalla potenza della tecnica e dall'universalità del rischio - l'impiego della forza fisica come 'mezzo spccitico' del potere politico (per usare la formula weberiana).

La seconda riguarda l'alternativa tra decisione e responsabilità, nei criteri di scelta dei 'fini': l'assunzione di un principio decisionistico nella determinazione degli obiettivi collettivamente impegnativi (in nome dell'efficienza immediata) o, al contrario, del 'principio responsabilità' — per dirla con Hans Jonas — in nome della sicurezza a lungo termine («Agisci in modo tale che gli effetti della tua azione siano compatibili con la permanenza di una vita autenticamente umana sulla terra»).

Una terza opzione si riferisce a quello che potremmo definire il 'contesto', chiamando in causa il principio di esclusione o di inclusione: se si vorrà, cioè, continuare a far riferimento allo spazio segmentato e 'confinato' all'interno del quale la definizione del 'noi' (gli 'inclusi') e degli 'altri' (gli 'esclusi') stava alla base della schmittiana coppia 'amico/nemico'; o se, al contrario, si sceglierà la via dell'inclusione dell'intera umanità come soggetto unificato all'interno di un'unica spazialità planetaria, reinventando su questa scala le nuove 'categorie del politico'. E, strettamente connessa a questa, come modalità del 'rapporto con l'Altro', l'alternativa tra reciprocità e autoreferenzialità: tra logica del riconoscimento (della reconnaissance, direbbe Ricoeur) e della reciprocità da una parte, e logica dell' identità separata e dell' autoaffermazione del Sé dall'altra.

Infine, per ciò che riguarda l'antropologia, chiamiamola così — le forme elementari della riproduzione e dello 'stile di vita', il rapporto tra uomo e natura (propria e ambientale) —, l'alternativa tra logica dello sviluppo e cultura del limite, tra la metafisica influente — o la 'superstizione tecnologica' — della potenziale inesauribilità delle risorse disponibili e dell'illimitata possibilità del loro sfruttamento (oltre che della 'naturale' desiderabilità da parte dell'uomo della crescita quantitativa dei beni a propria disposizione) e l'acquisita consapevolezza della finitezza (e finitudine) del mondo, del suo carattere 'limitato', e dunque dell'impraticabilità dell'idea di 'sviluppo' che ha dominato, fino a ieri, la lunga parabola della 'modernità industriale'.

Sono, quelle qui elencate, solo alcune delle possibili alternative relative ai 'meta-valori'. E l'elenco potrebbe essere allungato sulla base delle evidenze (e delle emergenze) che la quotidianità ci offre. Ma questa, appunto, è un'altra indagine. E un altro possibile programma di ricerca (forse un altro libro), ancora incerto tra utopia e praticabilità. Tra ciò che è lecito sperare e ciò che è possibile verificare. Non saprei dire, infatti, non dico con certezza, ma con un grado accettabile di plausibilità, se quegli accenni di alternativa — quei barlumi di alterità nella crisi dell'esistente — possano condensarsi anche solo in un embrione di 'nuova politica' e dare il segno di una svolta. Quello che però mi sento di sostenere fin da ora è che se questo non avverrà, se la crisi del 'politico' che accompagna l'eclissi delle sue principali identità storiche non troverà la propria risoluzione nell'emergere di un nuovo paradigma, prima che la portata delle sfide superi il limite di non ritorno, il mondo che abbiamo di fronte sarà assai peggiore di quello (non certo dolce) che abbiamo alle spalle.

Torino, agosto 2007

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