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| << | < | > | >> |Indice9 Nota introduttiva di Mario Andrea Rigoni LA BREVITÀ FELICE 15 L'aforisma come forma filosofica di Theodor W Adorno 19 L'aforisma come genere letterario di Werner Helmich 51 Aforisma: un poco che sorregge il molto? di Giacoma Limentani 63 Psicologia del chiasmo di Ruggero Guarini 71 Le "forme brevi" nella tradizione greca di Renzo Tosi 89 Le "forme brevi" nella letteratura latina di Lorenzo Nosarti 121 Aforisma e medicina di Giorgio Cosmacini 127 Fortuna del Petrarca "sentenzioso" di Elena Strada 141 Guicciardini, Machiavelli e l'aforisma politico di Gian Mario Anselmi 149 Le teorie del motto nei trattati sugli emblemi e sulle imprese di Giovanni Baffetti 161 L'aforisma etico-politico nel Seicento (Tesauro, Rosa, Montecuccoli) di Denise Aricò 179 L'aforisma e la morale nella cultura francese di Maria Teresa Biason 197 Baltasar Graciàn e l'agudeza di Bertrand Levergeois 215 I Sudelbücher di Lichtenberg di Giulia Cantarutti 241 Il piacere dello spirito. Aforismi del Settecento italiano di Gino Ruozzi 267 I primi Pensieri di Winckelmann di Roberta Spada 277 I Pensieri sull'imitazione di Winckelmann: grecità e frammento di Francesca Favaro 289 Sui Pensieri di Leopardi di Cesare Galimberti 293 Leopardi, Nietzsche e la scrittura aforistica di Sebastian Neumeister 305 Multatuli e i neerlandesi di Giorgio Faggin 311 America aforistica di Massimo Bacigalupo 329 La scrittura breve di Carlo Dossi di Raoul Bruni 345 Intorno a Saba e a Sbarbaro di Lorenzo Potato 361 Aforistica libertaria. Le Meditations in Wall Street di Henry Stanley Haskins e le Cogitations di Albert Jay Nock di Paolo Bernardini 371 Il "pointillisme" aforistico di Gómez Dàvila di Franco Volpi 379 Indice dei nomi |
| << | < | > | >> |Pagina 15Alla gioia del maestro nel poter presentare l'opera prima del proprio allievo s'accompagna la tristezza di sapere che è anche l'ultima. Poche settimane dopo il conseguimento del dottorato Heinz Krüger è stato vinto da un male che doveva roderlo ormai da tempo e che egli volle eroicamente ignorare per portare a termine il lavoro iniziato, e il suo iter accademico. Gli Studi sull'aforisma come forma filosofica erano stati concepiti come momento preliminare a un'opera più ampia. Ma tale progetto è dovuto assurdamente naufragare. Se si vuole tentare di dire qualcosa sul pensiero del defunto, si deve senz'altro porre in risalto l'aspetto specifico di questa dissertazione. Non si tratta dell'aforisma come fenomeno linguistico o come genere letterario. Suoi connotati come la concisione, l'arguzia, l'antinomia e la brevità sono ormai noti a tutti. Krüger però ha voluto mostrare che l'aforisma intrattiene un legame essenziale con il pensare filosofico e che – sono parole sue – «rappresenta una forma di pensiero estremamente rigorosa e autonoma, che procede di pari passo accanto alle grandi sistemazioni della fede e della scienza, quasi come una buffoneria con cui la vita protesta, irriverente e guardinga al tempo stesso, per il travisamento infertole da quei sistemi religiosi e scientifici. Essendo un modo di filosofare, che affianca la filosofia in senso stretto, l'aforisma vive della discrepanza fra l'essere e il pensiero: non possono mai coincidere pienamente». Dopo aver esaminato la letteratura in merito, il testo di Krüger offre una panoramica sulle tipologie storiche dell'aforisma, da Ippocrate – al cui nome esso si lega – a Montaigne, Graciàn, Pascal e i moralisti francesi, sino al frammento romantico. Il pensiero frammentario, come quello propriamente aforistico, è sempre un «pensiero in frantumi», anche se il frammento romantico vive in armonia con il linguaggio, grazie al quale crede di poter evocare l'infinito nel finito, mentre nell'aforisma la critica coinvolge pure il linguaggio. Un pensiero che si spezza si vuole preservarlo, con mezzi linguistici, dalla non-verità, la quale è insita, per forza di cose, nella lingua stessa. «L'intenzione dell'aforisma è di rendere trasparente il linguaggio alla visione della verità, si direbbe quasi: negarlo senza però distruggere la funzione intermediaria del suo dire». Il lavoro di Krüger sviluppa esemplarmente il concetto di aforisma in riferimento a Nietzsche. Poiché l'aforisma, per presentarsi ed esporsi, è necessariamente assegnato al linguaggio, e tuttavia non rispetta in modo assoluto le categorie logiche e i principi sedimentati nella grammatica, esso procede all'uso «parodistico» della lingua e della logica. Proprio questo rappresenta per Krüger il modello del pensiero aforistico. L'aforisma usa il linguaggio e i principi della scienza non così come essi sono da intendersi di per sé: li rende impropri e li estrania. Dispiega il non-sapere, la qual cosa presuppone la riflessione estrema del sapere. Sicché esso assume regolarmente la forma dell'eccezione, di fronte alla quale la regola e la sistematica concettuale falliscono. L'eccezione funge da correlativo: l'aforisma «attinge qualcosa dall'orizzonte della coscienza», mette in discussione la visione levigata, eppure utile, dello stato di cose. Vuole risanare un po' di quella deformazione che lo spirito dominante impone al pensiero. Mira alla negazione del pensiero conchiuso; non sfocia nel giudizio, bensì nella concreta figura in cni si rappresenta il movimento del concetto affrancatosi dal sistema. Il pensiero aforistico è stato sempre anticonformista. Per questo è caduto in discredito nelle scienze e nella filosofia ufficiale; disimpegnato, irresponsabile, roba da feuilleton: con tali etichette lo si diffama. E così come è raro che la persecuzione migliori il perseguitato, allo stesso modo il pensiero aforistico, svincolato dalla responsabilità dello spirito e privato dell'autorità di un eloquio stringente, ha assunto per molti versi proprio quei tratti apocrifi che gli vengono rimproverati. Laddove Krüger, nell'intento di operare un «salvataggio» filosofico, dipana il senso filosofico di questa forma, rinvigorisce non solo l'opposizione alle forme tradizionali della coscienza, ma anche incita il pensiero aforistico e gli appronta il metro rigoroso del suo procedere. Il lavoro filosofico dell'Autore, che non è stato un filosofo di professione e che tuttavia, toccato dalla filosofia, da questa fu sospinto ben oltre la sua professione sino ad appropriarsi di un intendimento filosofico forte di un meditare autonomo, richiede un pensiero aperto e scevro da vincoli: evoca il principio di ciò che congeda ogni principio; offre ben più di un mero contributo scientifico: un pezzo di libertà vissuta. E merita perciò di essere eternamente ricordato, come pure l'uomo che non ha lasciato venir meno il calore e la forza che tale esperienza richiede. Francoforte sul Meno, febbraio 1956 | << | < | > | >> |Pagina 51In uno dei suoi racconti più spericolati e perciò tanto più avvincenti, Rabbi Nachman di Breslav pone il lettore di fronte a sette mendicanti che nel linguaggio odierno verrebbero definiti come variamente handicappati o, meglio, portatori ognuno di un diverso handicap. Il termine handicap è specifico di un occidente sportivo, che ben poco ha in comune con gli umori chassidici dai quali è scaturito e trae linfa Rabbi Nachman, nipote del santo Ba'al Shem Tov e narratore di mistiche favole tese a restaurare la turbata armonia dell'universo mondo. Malgrado il suo burocratico nonsenso, però, «portatore di handicap» stranamente si addice a questi magici mendicanti, che letteralmente portano ognuno su di sé la propria cecità, sordità, gobba, balbuzie e così via dicendo, come una sorta di limitazione sublimante o, meglio, come un'assunzione dei propri estremi limiti, che consente loro di spaziare oltre ogni limite noto. Ed ecco che il cieco ricorda di aver visto l'attimo della creazione e può quindi prevederne lo svolgersi nell'eternità; il sordo ne ha udito il canto, per cui gli è dato udire ogni altro canto creativo; il gobbo che fin dal primo giorno ne sostiene sulla schiena il peso, sa che sempre lo sosterrà fino alla fine dei giorni quale che sia il significato di questa espressione, e così via in un accavallarsi di metafore e immagini tese a far supporre che il poco di ogni limitata materia potrebbe comprendere in sé e insieme sorreggere l'infinito molto dell'eternità. Insisto sul tese a far supporre e sul potrebbe, perché non tutte le immagini usate da Nachman si offrono a letture inequivocabili. Molte anzi procedono di mistero in mistero, chiarendone ognuno solo per adombrare il seguente. Né d'altronde il poco che sorregge il molto è di suo conio. Nachman pesca questa immagine dal mare magno della tradizione orale ebraica, dove sta a indicare lo spazio delimitato dalle due stanghe del carro sul quale, nel deserto, veniva trasportata di tappa in tappa l'arca con le tavole della legge incise da Mosè sotto dettatura divina. Essendo il popolo ebraico nato in quanto tale con l'accettazione dell'eterna etica inscritta in quelle tavole, e con l'impegno di applicarla ovunque e all'infinito, ecco che nell'immagine rabbinica l'esiguo spazio compreso fra le stanghe di quel carro diventa il poco che comprende e sorregge il molto dell'intero popolo ebraico dalla sua nascita nel deserto all'oggi, al domani, e fino alla fine dei giorni quale che questa sia... e quali che siano diventati i singoli ebrei nel cuore dell'umanità. L'espressione biblica «il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe» non deve infatti far supporre che ognuno dei tre patriarchi onorasse un proprio specifico Dio, bensì che ognuno di essi coglieva l'eterna magnificenza divina per quanto le sue specifiche percezioni gli consentivano, e di conseguenza ne onorava la volontà. Con le azioni e prima ancora con le parole, così come ognuno dovrebbe fare tenendo sempre presente che ogni parola può anche sembrare un alito lieve, ma è sempre greve di conseguenze pesantissime. E ciò tanto più quando assurge a motto, sentenza, oppure aforisma. Ma preferisco procedere per esempi. Come fiore alla dedica dei suoi Minima moralia Adorno sceglie: «La vita non vive», citazione da Ferdinand Kurnburger, tanto succintamente elegante da poter essere annoverata fra gli aforismi. La colgo al volo perché in questo suo essere ridotta all'osso, scorgo un tipo di pochezza che mi consente di saltare subito a piè pari nel molto, e direi anzi nel moltissimo che il breve suono del sostantivo vita non può non evocare. Che la vita non sia in sé entità in grado di vivere pur essendo vivibile e quindi vissuta da ogni essere vivente, potrebbe però rivelarsi affermazione tale da mettere a dura prova la mia ebraica allergia per ogni enunciato che si definisca motto oppure aforisma. Se con la loro apodittica pregnanza indicano a perplessi e timidi una rassicurante via da percorrere, detti e aforismi rischiano però anche di trasformarsi in tic nervosi per quei prepotenti di scarsa fantasia, che tendono ad affermare il proprio ego ripetendoli con la perentorietà dei pappagalli. E per sincerarsene basti pensare agli slogans che nei periodi di crisi costellano le arringhe degli arruffapopoli e i muri delle città. Nel migliore dei casi questi slogans generano ipnosi e, nel peggiore, risentimenti oppure entusiasmi forieri di non sempre auspicabili impulsi ad agire. L'eleganza che caratterizza gli aforismi non fa che allargare il loro raggio d'azione a individui meno sprovveduti o, se preferite, più selezionati. Ciò ovviamente a meno che quanti ne restano incantati al punto di farli propri, non scorgano in essi quel poco che, come il ben calibrato titolo di un'opera vasta, ne lasci presumere e la genesi e i possibili sviluppi. Quando prima ho accennato alla mia allergia per qualsiasi espressione che rischi di venire cristallizzata in ripetitivo slogan, pensavo soprattutto all'ebraico divieto di recitare a memoria sia pure quelle preghiere che la ripetizione quotidiana imprime nella mente già dall'infanzia. Perfino quelle vanno ogni volta rilette, perché dalla osservazione della pagina scritta possono sempre venire incontro significati nuovi. Emozioni nuove e tali da sfaccettare in modi ogni volta diversi proprio quei brani che sembrano fatti apposta per venire estrapolati ed eletti a sapienziali sentenze. Ciò tanto più in quanto hitpallel, il corrispettivo ebraico di pregare, è il riflessivo della radicale palal, giudicare. Ne consegue che, lungi dal rimanere ancorata alla pagina scritta, sia pure partendo ogni volta da questa, la preghiera ebraica tende a snodarsi in un quotidiano, autogiudicante esame dei comportamenti dell'ieri, che induca a costruire un sempre più degno domani. Proprio come si potrebbe costruire una casa che dalla terra si voglia elevare verso il cielo, in modo da invogliare il cielo a scendere sulla terra. Ciò almeno a detta dei mistici, che, nelle formule scritte delle preghiere a tutti destinate, vedono e indicano il terreno di coltura di quegli sviluppi individuali che variegano l'umanità arricchendola. Quindi: un non indifferente poco destinato a sorreggere un ancor meno indifferente molto. A questo punto sarà chiaro che la mia allergia non è data dall'aforisma in sé, quanto dal maluso che troppo spesso viene fatto di qualsiasi formula sapienziale. Il modo aforistico di compendiare in brevi formule verbali il risultato di precedenti riflessioni, la sua tecnica tesa a renderne inscindibili forma e contenuto in un massimo di densità concettuale e un minimo di brevità formale che concilino la profondità del significato con la concisione del significante, sia particolare che generale, corrispondono a un letterario poco teso a sorreggere il molto di umane esperienze ogni volta diverse. Il tono facile poi, la levità gradevole quanto ingannevole che fa da supporto a contenuti in genere ponderosi, oltre a gratificare le mie preferenze stilistiche, ha non pochi aspetti in comune con l'umorismo ebraico. L'ebraico amore per la battuta parte però quasi sempre da un bisogno di autoironia che nell'aforisma resta ironia tout court. Quanto ai primi aforismi: le massime alle quali, fra il V e il IV secolo prima dell'era volgare, Ippocrate e la sua scuola affidarono i fondamenti della loro scienza medica, potrebbero trovare un'eco in analoghe massime con le quali, fra il XII e il XIII secolo, Maimonide rese testimonianza delle proprie esperienze insieme di clinico, di esegeta e di umanista. Eppure la differenza rimane profonda nella sua impalpabilità. Molti sono anche gli scrittori ebrei che in tempi ben più recenti hanno fatto ricorso all'aforisma come a un gioco non solo elegante: a un ammicco che consente di ridere perché i suoni del riso possono confondersi con quelli del pianto. L'eleganza che caratterizza qualsiasi aforisma degno di questo nome, impone inoltre un uso del raziocinio calibratissimo, e tale da tenere sotto controllo ogni improvvido sussulto. «La rivoluzione francese ha dimostrato che restano sconfitti quanti perdono la testa». Ce lo insegna un illuminante aforisma di Stanislav Jerzy de Tusch Letz, che non per caso scelse di pubblicare sotto il più breve pseudonimo di Stanislav Lec. E uno pseudonimo come Lec la dice lunga su colui che se l'è scelto, visto che il polacco Lec ha lo stesso suono dell'ebraico lez. Nato nel 1909 a Leopoli, fra il '29 e il '66, cioè fin quando ha vita, il nostro Lec pubblica con successo versi la cui vena lirica volge sempre più al satirico. Insieme con Leonid Pasternak fonda a Varsavia il Cabaret letterario e traduce Heine e Brecht, nel frattempo riuscendo a evadere da Auschwitz dopo due anni di internamento, per unirsi alla resistenza polacca e dare vita a ben due periodici clandestini. Dopo la guerra è per due anni addetto stampa dell'ambasciata polacca a Vienna e quindi, dopo un soggiorno di altri due anni in Israele, torna nella natia Polonia a sfornare scritti punteggiati da battute fulminanti, che a una malinconica saggezza da Rebbe chassidico fondono lo spirito graffiante di un lez. Siccome poi perfino i ritmi binari che scandiscono i momenti cruciali del suo vivere, insieme col duplice piano dei suoi umori letterari sembrano davvero apparentarlo a un lez, ci sarebbe da chiedersi cosa fosse un lez per lui. Purtroppo non ci è dato saperlo. In compenso si sa che nella demonologia come nel folklore dell'ebraismo esteuropeo, il lez è un diavoletto arguto che punge e pizzica e solletica le persone — soprattutto se pompose — suscitando involontari sussulti che ne mettono a nudo la vera natura. Nel costume sempre dell'ebraismo esteuropeo, il lez è invece il buffone che non può mancare negli spettacoli del Purim, il carnevale ebraico e, prima ancora e in special modo, è l'inquietante ospite che nelle cerimonie precedenti i matrimoni con smorfie, pantomime, sberleffi e giravolte, ma anche con ostentazione di pianti e fosche previsioni, si assume l'onere di rivelare alla sposa certe non evidenti caratteristiche della famiglia nella quale si accinge a entrare, e allo sposo le pecche familiari ereditarie che la sposa potrebbe portargli in casa. Un lagrimoso, profetico buffone insomma, che con le sue stravaganze dovrebbe dare agli aspiranti sposi la possibilità di aprire bene gli occhi, prima di convolare a nozze che potrebbero rivelarsi non giuste. | << | < | > | >> |Pagina 63Vorrei spiegare perché da molti anni la figura retorica del chiasmo non cessa di affascinarmi. Non sono esperto di retorica: è dunque da dilettante che mi accingo a parlarvene. Intanto, per dare la misura del carattere dilettantesco del mio interesse per questo argomento, mi affretterò a confessare che soltanto oggi mi sono reso conto, chiacchierando con due amici, Mario Andrea Rigoni e Umberto Silva, che per quanto riguarda l'etimologia del termine mi ero accontentato finora di un'interpretazione molto lacunosa. Mi sembrava infatti sufficiente sapere che essa proviene dalla lettera greca χ, che è una croce abbastanza curiosa, formata da un segmento di retta inclinato verso l'alto da sinistra a destra e tagliato nel bel mezzo da una specie di lunga «s» inclinata anch'essa verso l'alto nella direzione opposta: il che sembra autorizzarci a supporre che la χ con cui incomincia la parola «chiasmo» alluda appunto alla struttura di questa figura, che infatti è un incrocio di termini che tornano due volte, ma la seconda in ordine inverso alla prima. Già. Ma il resto della parola, quel che viene dopo il «chi» iniziale, quella finale in «asmo», da dove viene? Forse da asma o da spasmo? Perché questa terminazione? Ha una semplice funzione ornamentale oppure trascina con sé anche un piccolo elemento semantico che ci sfugge? Io tenderei a pensare che il nesso con l'asma c'è, perché in greco asma vuol dire affanno e, come vedremo al termine di questa chiacchierata, il chiasmo quasi sempre mette capo a qualcosa che ha a che vedere con l'affanno.
Varie e molto diverse fra loro sono le figure del chiasmo, ma in
tutte è ovviamente presente un unico elemento ricorrente: appunto
l'incrocio e l'inversione dei due termini che lo costituiscono. Non so
se sia corretto affermare che il chiasmo è una delle strutture fondamentali
dell'aforisma, ma è certo che molti eccellenti aforismi sono
per l'appunto "chiasmatici". Ecco alcuni esempi.
Il contenuto di una donna si coglie presto, ma prima di penetrare fino alla superficie...
(Dove il rapporto chiasmatico tra tutti i termini della frase – «contenuto»
«cogliere» «penetrare» e «superficie» – è abbastanza evidente).
Per essere perfetta, le mancava solo un difetto.
(Anche qui il rapporto fra i quattro poli concettuali dell'espressione –
«essere» e «mancare» da un lato, «perfezione» e «difetto» dall'altro – è
perfettamente chiasmatico).
Che cos'è un libertino? Uno che ha ancora dello spirito là dove altri hanno solo corpo.
(Ossia, proprio come nella formula di un'equazione: Libertino : spirito =
altri : corpo).
Lui voleva condannare la sua amata alla libertà. Ma questa è una cosa che loro non si lasciano proprio fare.
(Qui il chiasmo è un po' meno evidente ma sono sicuro che se ne sta
rannicchiato nella beffarda profondità dell'idea che ha suggerito questo
aforisma, e che può essere colta facilmente se si pensa all'illusione,
diffusissima ormai da un pezzo fra i fans di una supposta libertà sessuale, che
alle donne si faccia cosa grata esortandole a metterci le corna).
Le istituzioni umane dovrebbero essere talmente perfette da permetterci di riflettere indisturbati su quanto sono imperfette le istituzioni divine.
(Dove la coppia perfezione / imperfezione crea un chiasmo con la coppia
istituzioni umane / istituzioni divine).
Il segreto dell'agitatore è di rendersi stupido quanto i suoi ascoltatori, in modo che questi credano di essere intelligenti come lui.
(Qui qualsiasi demagogo riconoscerebbe un chiasmo micidiale come un cappio).
Un agitatore prende la parola; l'artista viene preso dalla parola.
(Qui invece il demagogo, non sapendo che cosa voglia dire esser presi
dalle parole, non capisce e aggrotta la fronte irritato).
I bambini giocano a fare i soldati. Ma perché i soldati giocano a fare i bambini?
(E i pacifisti senza se e senza ma a quale gioco giocano?).
Un tempo le scene erano di cartone e gli attori erano veri; oggi le scene sono al di là di ogni possibile dubbio e gli attori sono di cartone.
(Questo va spedito a Luca Ronconi).
L'erotismo fa di un nonostante un perché.
(Per chi il «nonostante» è soltanto un «nonostante» e per chi invece diventa
un «perché?». L'opposizione è ovviamente quella tra l'uomo erotico e
l'uomo non erotico).
Non so se ve ne siete accorti: tutti gli aforismi che ho riferito finora sono di Karl Kraus. A lui fra l'altro si deve anche questa micidiale definizione della psicanalisi:
La psicanalisi è quella malattia mentale di cui ritiene di essere la
terapia.
Definizione non meno beffarda che chiasmatica. Anzi beffarda
proprio perché chiasmatica. Giacché si direbbe che nessuna figura
retorica sia più beffarda del chiasmo. Non per nulla la promessa del
serpente – «eritis sicut deus» – altro in sostanza non è, se ci si pensa
bene, che una tacita inversione del rapporto fra uomo e dio.
Concludo con un aforisma di Freud, che nel suo celebre saggio sul motto di spirito dimostrò di saperne abbastanza anche sul chiasmo. L'aforisma che voglio citare si trova nel saggio in cui egli analizza il celebre caso del consigliere Schreiber. Avviandosi alla conclusione Freud dice:
Però alla fine non so se c'è più verità nella sua follia o più follia nella
mia verità.
Anche Kraus, che detestava la psicanalisi, avrebbe accolto con un applauso questo chiasmo meraviglioso. Ora però non posso sottrarmi al dovere di tentare di spiegare perché credo che il chiasmo sia una figura retorica molto più interessante di tutte le altre. Secondo me la ragione è semplicissima. Prendiamo la metafora, la figura retorica forse più nota. La metafora è contraddistinta dal fatto che i due termini del paragone restano l'uno esterno all'altro. Nel chiasmo c'è invece un rapporto decisamente equivoco tra i due termini del confronto, dato proprio dalla χ greca. Nella metafora i termini del confronto, A e B, restano affiancati l'uno all'altro in un rapporto di esteriorità. Nel chiasmo, invece, grazie a una torsione, succede che A e B si trovino a coincidere con B' e A'. In fondo è molto semplice: si tratta del rapporto fra i quattro punti estremi di una χ. Per essere più chiaro mi sono portato delle striscioline di carta. Immaginiamo un rettangolo attraversato da due diagonali. Allora ai quattro vertici avremo i punti A, B, A' e B'. Piego la striscia congiungendo i quattro punti in modo da ottenere un cilindro vuoto. Ora questo cilindro vuoto è caratterizzato dal fatto che io non posso passare dalla superficie esterna a quella interna e viceversa. Abbiamo un dentro e un fuori che si escludono a vicenda. E i vertici non s'invertono. Ma che cosa succede se invece li inverto? Avrò quella figura topologica che si chiama, dal nome del matematico che ne studiò le proprietà, striscia di Moebius. E qui non c'è più né dentro né il fuori, né il sopra né il sotto. Qui tutto vacilla e si rovescia. Se con la punta di una matita percorro questa striscia senza mai fermarmi la punta non ne uscirà mai fuori e non ci entrerà mai dentro, ma continuerà a scivolare lungo un continuum di punti di ognuno dei quali è assolutamente impossibile dire dove si trovi, se nel "recto" o nel "verso" della striscia. Naturalmente, se restituisco alla striscia la configurazione originaria, tutto torna al suo posto: il dentro nel dentro e il fuori nel fuori. Basta dunque imprimere alla striscia una piccola torsione (la mossa del serpente?) e il dentro e il fuori non ci sono più. Secondo me questa è la grande proprietà del chiasmo. Essa risiede nel fatto che il dentro e il fuori improvvisamente scompaiono – e noi precipitiamo in una dimensione in cui non ci è più permesso avere alcuna certezza circa il punto in cui siamo situati. Queste banalissime considerazioni sugli effetti di smarrimento che possono essere prodotti dalla più elementare di tutte le possibili figure topologiche sono interessanti da molti punti di vista: psicologico, cosmologico, metafisico, religioso e anche letterario. | << | < | > | >> |Pagina 311In a village of the indigenes, One would have still to discover. Among the dogs and dung, One would continue to contend with one's ideas. WALLACE STEVENS La letteratura americana offre una notevole messe di aforismi, anche se pochi autori hanno creato raccolte originali di pensieri e massime nate come tali. Nella Filadelfia del Settecento Benjamin Franklin pubblicò l' Almanacco del Povero Riccardo che, data la sua umile funzione e il suo intento educativo-commerciale, in effetti diluiva la saggezza in pillole e sentenze. Nella sua Autobiografia Franklin raccolse le massime con cui definiva le diverse virtù che l'autodidatta morale doveva imparare a praticare. D.H. Lawrence negli avventurosi Studies in Classic American Literature (editi in Italia col titolo Classici americani) fece dell'umorismo ammirato su questa amministrazione coscienziosa dei propri beni spirituali, pari a quella dei beni materiali. Nell'Ottocento il maggiore umorista americano, Mark Twain, offrì una parodia dell'almanacco di Franklin con le massime feroci del Calendario di Wilson lo Zuccone, massime poste a epigrafe dei capitoli del romanzo Pudd'nhead Wilson. Ma un certo spirito caustico è già in Franklin, e si potrebbe dire che il cinismo di Mark Twain non è che l'espressione di una generale tendenza amara dell'umorismo (e del discorrere aforistico) americano. È stato affermato, da Carlo Izzo e altri, che l'umorismo americano si distingue da quello inglese per il carattere più realistico: mentre il riso di Edward Lear e Lewis Carroll si nutre di assurdità che evadono dal mondo reale, il cupo ghigno della frontiera americana esagera grottescamente un malessere reale, e ha spesso argomenti violenti e scabrosi, nonché intenti di satira sociale. E le cose non cambieranno nel secolo XX, ad esempio con umoristi celeberrimi come James Thurber, vignettista del «New Yorker» che è fra gli inventori di un nuovo genere di freddura. Ciò che vale per l'umorismo sembra potersi dire anche dell'aforisma. Se Oscar Wilde si diletta di paradossi e di farse eleganti come The Importante of Being Ernest, dove tutto è un minuetto o una partita a scacchi di quelle care all'Alice di Lewis Carroll, il suo quasi coetaneo Ambrose Bierce, giornalista e poligrafo dell'Ovest, compone per le sue colonne Il dizionario del diavolo, che non è affatto una raccolta di deliziose assurdità ma smaschera la cattiva coscienza del lettore dicendo la verità taciuta. Ecco ad esempio le due definizioni di "Aborigeni" (Bierce lavorò a più riprese al suo Dizionario, e molte voci, dimenticate nelle vecchie annate dei giornali che le avevano pubblicate, furono solo raccolte postumamente): Aborigines, n. Persons of little worth found cumbering the soil of a newly discovered country. They soon cease to cumber, they fertilize.
Aborigines, n.
Considerate persons who will not trouble the lexicographer of the future to
describe them.
Aborigeni, s. Persone di scarso valore che ingombrano la terra di un paese recentemene scoperto. Presto cessano di ingombrare per fertilizzare.
Aborigeni,
s. Persone discrete che non disturberanno i lessicografi futuri
con la necessità di definirle.
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