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| << | < | > | >> |Indice7 Prefazione di Giancarlo Bosetti ISLAM ALLA SFIDA DELLA LAICITÀ 13 Laicità e identità della Francia 33 La laicità francese e l'Islam: dove è l'eccezione? 33 La secolarizzazione non è la laicità 37 Laicità alla francese: un principio giuridico e politico 38 La laicità come filosofia 40 La laicità come effetto del diritto 41 La laicità come principio politico 48 L'impensato della laicità: la fascinazione teologica 57 La tentazione gallicana, un palliativo contro la comunitarizzazione 67 L'Islam e la secolarizzazione 67 La laicità è cristiana? 73 Il dogma musulmano è forse un ostacolo alla laicità? 78 Il riformismo in teologia 85 Le laicità di fatto: storia e società del mondo musulmano 91 La laicità figlia del divorzio tra Stato e Chiesa 94 L'immaginario politico dell'Islam: esiste una cultura politica musulmana? 103 La parentesi dello Stato islamico e l'istituzione di uno spazio di laicità 107 La crisi dello Stato laico e le nuove forme di religiosità 108 La secolarizzazione rafforza la specificità religiosa 110 La laicità orfana 118 Il fondamentalismo contemporaneo, agente della mondializzazione 123 Come gestire il neofondamentalismo? 126 Integralismo, comunitarismo e secolarismo 131 Dalla norma al valore 133 Il fantasma del comunitarismo 143 La secolarizzazione di fatto 147 La politica fa la laicità: il caso dell'Uoif 151 Laicità, secolarizzazione e teologia |
| << | < | > | >> |Pagina 7Se è vero quel che sostiene qui Olivier Roy, e cioè che attraverso l'Islam la Francia vive la crisi della propria identità, è vero che, attraverso l'Islam, l'Italia vive qualcosa di peggio di una crisi d'identità: una fase di regressione, una delle tappe del disfacimento di un discorso pubblico articolato, pertinente, competente. Anche sulla stampa più attrezzata circolano prese di posizione partigiane, enfatiche, violentemente polemiche nei confronti di fantasmi, culture e civiltà, senza che altre voci si levino, con la severità che sarebbe necessaria, a stigmatizzare fenomeni razzisti, manifestazioni di intolleranza, che vengono declassati pudicamente a folclore (i cortei con i maiali organizzati dai leader leghisti). La polarizzazione ottusa di ogni tema, interno e internazionale, solleva una cortina fumogena dietro la quale si intravedono i fantasmi dei soliti «amici» e «nemici», le accuse incrociate pro e contro Israele, pro e contro i palestinesi, pro e contro destra e sinistra, che dovrebbero fungere da insegne e guide per ogni presa di posizione. Il tema dell'immigrazione in Europa dai paesi musulmani non sfugge ovviamente al vizio. Alle risse verbali si alternano stereotipi e nonsense, fino al limite del comico: uno dei maggiori quotidiani italiani, per contribuire alla discussione sull'integrazione, ha consigliato qualche tempo fa agli immigrati musulmani di festeggiare il Natale. Non era arrivato a tanto neanche il pur celebre Lord Tebbitt, che aveva suggerito di applicare, come criterio guida per valutare l'integrazione degli immigrati, il cricket-test, vale a dire la verifica del tifo sportivo: sono dei «nostri» solo se tengono alla nazionale inglese contro quella del loro paese. Dove l'aspetto comico consiste nello scambiare quello che può essere, in qualche caso, un benigno punto di arrivo, con un precetto da eseguire all'istante. Il libro di Olivier Roy, che qui proponiamo in traduzione, viene a occupare un vuoto nella discussione italiana. È un'utile guida contro i fenomeni dell'essenzialismo (e nei casi più gravi del razzismo aperto) che affliggono l'intera discussione europea e largamente anche quella italiana. Non mancano anche in Italia studi seri ed equilibrati sulla religione e la cultura islamica, ma il grande studioso francese aggiunge la sua aggiornatissima capacità di guardare all'Islam contemporaneo come a un fenomeno in fieri. E se ai francesi sarà utile l'invito a smettere di leggere l'Islam attraverso le banlieues e le banlieues attraverso l'Islam, e a smettere di considerare la religione un fenomeno fuori dal tempo e dalla storia, così agli italiani sarà utile l'invito a guardare con appropriata severità, e senza le solite indulgenze, la rozzezza di casa nostra sulle questioni islamiche, quella che fa talvolta considerare la retorica antiaraba di qualche nostro commentatore come «sassi nello stagno», o peggio ancora «coraggiose denunce». Sbaglia chi affronta le sfide nuove imposte dalla globalizzazione credendo di trovarsi di fronte al conflitto con l'Islam, con la dogmatica del Corano o con un'immutabile essenza. Roy è l'autore che ci consente di capire, meglio di chiunque altro, come il fast-food hallal o la Mecca-Cola siano un prodotto della globalizzazione che confligge non solo con il bollito alla piemontese o il risotto alla milanese, ma anche con la cucina ottomana o marocchina della tradizione. Sono cose ben diverse, conseguenze non di essenze perenni ma di fenomeni sociali e culturali. Novità recenti come l'Islam globale dei fondamentalisti. Continua con il volume di Olivier Roy il viaggio di questa collana alla ricerca di una laicità per il nostro tempo, libera da faziosità e settarismi. | << | < | > | >> |Pagina 13Il dibattito sulla laicità è all'origine dell'attuale violentissima campagna che va ben oltre il dibattito delle idee e non esita più ad attaccare direttamente le persone. Alla legge contro il velo e all'espulsione di diversi imam si aggiunge la pubblicazione sulla stampa di centinaia di libere opinioni o di editoriali, oltre che di numerosi best seller, nei quali la denuncia del fondamentalismo si trasforma ben presto in un vero e proprio attacco ai musulmani e all'Islam in generale: il «pericolo islamico» trova sempre posto nelle prime pagine dei giornali. Questa violenza passionale, da alcuni recentemente battezzata «islamofobia», nasce in ambienti politici molto diversi e sta a indicare che nella Francia di oggi la questione dell'Islam è quasi di natura esistenziale: l'Islam sembra mettere in discussione l'identità stessa del paese, o per lo meno la natura delle sue istituzioni, suscitando una mobilitazione in difesa dei «valori repubblicani» e della «laicità». Ma per quale motivo il dibattito sull'identità francese si focalizza in questo modo sull'Islam? La laicità militante è una vecchia storia, nota per avere combattuto la scuola privata cattolica almeno dal 1905 (del resto ancora oggi non esistono vere e proprie scuole musulmane private). Le sette di obbedienza cristiana e i gruppi evangelici di ogni sorta imperversano oggi ben più dei baciapile cattolici. È davvero l'Islam la minaccia o non dobbiamo forse ritenere che sia l'identità francese a essere in crisi, tanto da farsi mettere in ginocchio da alcune centinaia di ragazze con il velo e da alcuni predicatori barbuti? Il dibattito dev'essere ricollocato nella storia della laicità francese, che ha trovato la sua massima espressione nella legge del 1905 sulla separazione della Chiesa e dello Stato. Allora il nemico era la Chiesa cattolica «(il clericalismo, ecco il nemico)», oggi l'Islam ha sostituito il cattolicesimo. Però la vera domanda è se vi sia continuità o rottura. Ma il dibattito sull'Islam verte essenzialmente sul posto che la religione deve occupare nella nostra società oppure — malgrado l'apparente continuità — è proprio l'Islam a essere percepito come una religione diversa, portatrice di una minaccia specifica? Se fosse vera la seconda ipotesi, dovremmo individuarne la causa nella specificità della teologia musulmana oppure, ben più prosaicamente, nel fatto che l'Islam è la religione degli immigrati? Tutto ciò fa aleggiare sul nostro paese l'ombra dei conflitti mediorientali. Si crea un'inevitabile confusione perché, dal punto di vista demografico, l'Islam in Occidente è la conseguenza di un'immigrazione recente, volontaria e massiccia proveniente dai paesi musulmani. L'attuale percezione del problema non cambierebbe in alcun modo anche se si riuscisse a dimostrare che vi è un'antica tradizione di presenza musulmana e di contatti con l'Islam. Ma se il vero problema è l'immigrazione o il Medio Oriente, occorre dirlo con chiarezza e smettere di farci ossessionare dai versetti del Corano. E se a essere in gioco è «solo» la religione musulmana, dobbiamo smettere di leggere l'Islam attraverso le banlieues e le banlieues attraverso l'Islam. Ma la questione va ben oltre. La campagna islamofobica alla quale stiamo oggi assistendo fa parte del processo di ricomposizione del contesto politico e intellettuale francese, nella misura in cui in essa si riconoscono diverse componenti che fino a ora le erano estranee. Molto ostili sia alla presenza degli immigrati che a quella dell'Islam sono ovviamente coloro i quali ritengono che l'eredità cristiana faccia parte dell'identità francese ed europea e quindi che l'Islam non sia integrabile, neppure sotto una forma «laica» (Oriana Fallaci, Alain Besançon, Alexandre Del Valle). È questa la posizione tradizionale della destra cristiana e dell'estrema destra (che vi aggiunge spesso una dimensione «etnica», per non dire «razzista», espressa con veemenza nel libro di Oriana Fallaci). A questa ostilità per così dire tradizionale nei confronti dell'Islam si aggiunge oggi quella degli ambienti che hanno come punto di riferimento la repubblica e la laicità, che non combattono gli immigrati, ma quello che viene percepito come un fondamentalismo ben più minaccioso di quanto non lo sia stato il suo omologo cristiano (ed è questo il significato degli attacchi lanciati contro Tariq Ramadan da autori come Caroline Fourest). In questa campagna, gestita soprattutto da gente di sinistra, si evidenziano due linee: i pessimisti, per i quali non esiste un Islam laico, e gli ottimisti, che intendono invece privilegiare, se non proprio stimolare, un Islam di questo genere, liberale, laico e molto francese. Molti uomini di sinistra si riconoscono in quest'ultima tendenza (Didier Motchane, Manuel Valls). Ma alcuni «repubblicani», che hanno preso le distanze dalla sinistra – di cui criticano da tempo l'attrazione fatale verso il Terzo mondo (Pierre-André Taguieff, Alain Finkielkraut) –, ritengono invece che il problema non stia solo nel fondamentalismo, ma nel suo rapporto con il terzomondismo, l'antisionismo, se non proprio l'antisemitismo, e con l'estrema destra (la cosiddetta alleanza rosso-verde-nera): gli appartenenti a questa tendenza ritengono che le banlieues si identifichino con i palestinesi e che il «comunitarismo» sia lo specchio di un conflitto planetario. Essi rimproverano al Forum economico e sociale di aver ricevuto Ramadan e alla famosa conferenza contro il razzismo organizzata dall'Onu a Durban nel 2001 di aver accusato Israele di razzismo. Qui il problema non è tanto l'Islam in quanto tale, quanto la dimensione «araba» – e quindi ritenuta propalestinese e antisraeliana – dell'immigrazione. Contrapponendosi a questa visione, una parte della sinistra e dell'estrema sinistra rimangono fedeli alla difesa del Terzo mondo e degli oppressi, sottolineando la dimensione sociale e neocoloniale dei conflitti in corso (Alain Gresh, François Burgat): questo filone, che stigmatizza qualsiasi mescolanza con l'estrema destra, ritiene che il divario sia in questo caso tra Sud e Nord, tra paesi sviluppati e Terzo mondo, tra esclusi e privilegiati. I dibattiti che hanno agitato il Mrap durante il suo congresso del dicembre 2004 illustrano chiaramente la problematica: è opportuno inserire la lotta contro l'islamofobia all'interno della lotta contro il razzismo? L'Islam è parte di un'identità etnica o è solo una religione? La denuncia del «fondamentalismo musulmano» nasconde quindi altri obiettivi e altre poste in gioco. L'etichetta di «fondamentalismo», molto pratica per la polemica, viene assegnata dall'esterno. Quando ai musulmani viene intimato di adottare un Islam riformato e liberale ci si aspetta che adottino lo schema analitico tracciato per loro, e non ci si interroga sul significato delle loro pratiche e delle loro scelte identitarie. È evidente che tutto ciò che attiene a un'affermazione visibile (ma non necessariamente ostentata) dell'Islam viene considerato come l'avvisaglia di un pericoloso fondamentalismo. Assistiamo quindi a una mescolanza disordinata delle posizioni tradizionali e a una santa alleanza laica tra correnti che in passato si contrapponevano. Coloro che all'inizio del XX secolo vedevano nell'Europa una terra cristiana rifiutavano gli «apolidi» ebrei e contrastavano anche la laicità repubblicana. Questi cristiani identitari rifiutano l'Islam, ma quando si oppongono al matrimonio tra omosessuali e criticano gli «eccessi» del femminismo si ritrovano insieme ai «fondamentalisti» musulmani, contro una sinistra liberale che difende le minoranze sessuali, ma comincia ormai a interrogarsi sul proprio rapporto con le minoranze religiose. Una parte della sinistra laica, che negli anni ottanta ha difeso i diritti degli immigrati contro il Fronte nazionale, oggi si indigna quando i figli di questi immigrati ostentano un'identità musulmana e assume a volte, suo malgrado, posizioni che furono del Fronte nazionale, pur esibendo la buona coscienza di chi continua a considerarsi antirazzista. In passato alcune pratiche religiose associate a una cultura degli immigrati venivano tollerate (la pecora uccisa davanti alle abitazioni alla fine del ramadan), ma diventano insopportabili quando si inseriscono definitivamente nel panorama della società francese come un'affermazione di fede staccata da qualsivoglia cultura straniera (il Franprix hallal d'Evry costretto alla chiusura a seguito di forti pressioni). L'universalismo della sinistra si è frantumato sull'Islam. Viceversa, un'altra parte della sinistra combatte l'islamofobia e difende il diritto di portare il velo a scuola (collettivo Ecoles pour tous et toutes e alcune femministe minoritarie come Françoise Gaspard). Tale posizione si ricollega al diritto degli individui più di quanto non costituisca un'apologia del multiculturalismo, il quale, malgrado quanto affermano i suoi detrattori, rimane assente dal contesto francese. Va tuttavia notato che un numero sempre maggiore di «assimilazionisti» di sinistra si ritrova oggi su posizioni molto di destra. Coloro che invece individuano nell'«islamo-progressismo» una nuova convergenza tra estrema sinistra ed estrema destra e considerano l'antisionismo un'espressione dell'antisemitismo faticano a difendere una laicità dura e pura, proprio quando un comunitarismo ebraico religioso e ortodosso si sviluppa in Francia e quando la società israeliana apre un dibattito sul rapporto tra cittadinanza, etnicità e religione. In ogni caso, coloro che hanno sempre ritenuto che il problema centrale fosse l'immigrazione, vale a dire la questione etnica (per non dire razziale), si incontrano ormai con coloro per i quali la religione è la questione centrale: è questo il tema (e la denuncia) della «comunitarizzazione» che unisce le due correnti. Immigrazione e collocazione dell'Islam sono unite, anche se questo legame è destinato a sciogliersi a poco a poco nella realtà, a mano a mano che le nuove generazioni uscite dall'immigrazione non si percepiranno più come depositarie di una cultura d'origine. Oggi, in Francia, alcuni musulmani hanno iniziato a parlare in quanto musulmani e questo costituisce una novità. L'immigrato degli anni settanta era silenzioso: altri parlavano per lui. Quando uscivano dalle loro banlieues, i giovani beurs degli anni ottanta rivendicavano il pensiero dominante sull'integrazione anziché difendere una differenza, almeno nel colore della pelle: essi erano innanzitutto antirazzisti, vale a dire contrari a ogni segno di alterità, rifiutavano qualsiasi forma di comunitarismo e non facevano riferimento all'Islam. Era questa la caratteristica essenziale della marcia dei beurs nel 1983 e tale rimane la linea dell'associazione sos-Racisme, nata dal movimento del 1983 ma ormai scarsamente presente nelle banlieues. Quello che è apparso dopo, negli anni novanta, è un pensiero islamico strutturato, incarnato da due figure: il predicatore barbuto salafista, con la tunica bianca e un forte accento, venuto dall'Oriente per aggirarsi nelle banlieues trasformate in riserve vietate, e l'intellettuale in ghingheri che parla perfettamente il francese e che, dal canto suo, fa l'apologia di una differenza fondamentale, quella di una credenza che si esibisce senza complessi. E a giudicare dagli scritti recenti, è proprio quest'ultima figura, incarnata da Tariq Ramadan, che suscita maggiori preoccupazioni. Il cliché del «doppio linguaggio», che viene costantemente rimproverato a Ramadan, tende con ogni evidenza a ricondurre la parola del secondo alle prediche del primo e a negare tutto quanto attiene all'elaborazione e alla trasformazione di un pensiero che, all'origine, è ovviamente salafista. Ma questo lavoro sul pensiero salafista, che è íl contributo di Ramadan, non lo si vuole sentire. Eppure una questione di fondo si pone: quella dell'irruzione in tutte le religioni monoteiste occidentali di nuove forme di religiosità, tutte comunitariste (ma di una comunità puramente religiosa), esclusive (una linea di separazione netta divide coloro che si salvano dai reietti) e totalizzanti (il credente deve porre tutti gli aspetti della propria vita sotto il segno della religione). Il fenomeno delle sette preoccupa la società francese e la tentazione di legiferare contro di esse è forte quanto quella nei confronti dell'Islam. Le reticenze verso l'Islam si inseriscono qui nella continuità di una diffidenza nei confronti delle religioni, accentuata dall'emergere di nuove comunità di credenti che non si sentono vincolate dai compromessi faticosamente elaborati da un secolo tra «cattolici» e «laici». Ma non ci si può neppure accontentare di paragonare il risveglio religioso musulmano ai movimenti evangelici protestanti e ai Testimoni di Geova. In considerazione dell'immigrazione e della situazione nel Medio Oriente vi è nell'Islam una dimensione politica di gran lunga più significativa. Infine, come sempre, i più attivi nel dibattito sono i militanti: la gran massa dei moderati, dei musulmani che hanno elaborato la loro laicità personale e che si sono ben inseriti nella società francese non partecipa al dibattito, purché non venga loro rinfacciata (a volte con durezza) un'appartenenza che non hanno mai vissuto come conflittuale o esclusiva. La polemica, male impostata, confusa, ingiusta, partigiana e passionale pone in ogni caso delle questioni di fondo che non si possono eludere e che vogliamo affrontare in questo libro. Tutto gira intorno a un punto: il problema è l'Islam in particolare o la religione in generale? In altri termini, possiamo affermare che il cristianesimo ha contribuito a fondare l'ordine laico e politico attuale, anche se la Chiesa viene tenuta ai margini, mentre l'Islam sarebbe invece intrinsecamente ribelle a qualsiasi forma di laicità, per non dire di secolarizzazione? Oppure stiamo forse vivendo oggi con l'Islam quello che abbiamo vissuto con il cattolicesimo un secolo fa: una semplice questione di formattazione, di vincoli giuridici e di negoziati, affinché emerga un Islam moderno, liberale ed europeo, in sintesi, addomesticato in tutti i sensi del termine? O ancora, è forse in crisi la configurazione che ha visto nascere la problematica della laicità (lo Stato sovrano incarnazione del corpo politico di fronte a una Chiesa che si afferma come universale), con la conseguente vanificazione dell'attuale tentativo di restaurare una laicità ormai mitica? Questo libro non si occupa del dogma religioso. Non si tratta di dare la buona spiegazione dei testi rivelati, qualunque sia la religione. Do per scontato che non si tratta in alcun modo di rimproverare all'Islam ciò che appartiene a ogni religione monoteista rivelata: esiste una verità che è al di sopra degli uomini, vi è una comunità di credenti, si chiami popolo eletto, Ummah, Chiesa o comunione dei santi, vi sono delle norme religiose la cui trasgressione provoca punizione nell'altro mondo. Ma questa certezza del credente non ci dice niente sulla collocazione della religione nella società. In questo libro saremo portati a utilizzare due concetti che non sono sinonimi: la secolarizzazione e la laicità. La secolarizzazione è un fenomeno sociale che non richiede alcuna attuazione politica: avviene quando l'elemento religioso cessa di essere al centro della vita degli uomini, anche se continuano a professarsi credenti; le pratiche degli uomini, insieme al significato che essi danno al mondo, non avvengono più sotto il segno della trascendenza e della religiosità. L'ultimo stadio della secolarizzazione è la scomparsa della religione, ma in dolcezza (nel corso del XIX secolo l'Europa ha in effetti registrato un declino della pratica religiosa). Ma la secolarizzazione non è antireligiosa o anticlericale: si cessa semplicemente di praticare o di parlarne, si tratta di un processo. La laicità è viceversa esplicita: è una scelta politica che definisce in modo autoritario e giuridico il posto da assegnare alla religione. La laicità è decretata dallo Stato, che organizza lo spazio pubblico (ma che non ricaccia necessariamente la religione nel privato, contrariamente a quanto afferma una leggenda quanto mai attuale; essa definisce piuttosto, e quindi limita in tutti i sensi del termine, la visibilità della religione nello spazio pubblico). Il problema della laicità è quello della separazione tra la sfera religiosa e quella politica, a livello della società. Il credente non è ovviamente in alcun modo obbligato a operare questa separazione: è la sua coscienza a dettare il posto da assegnare all'una o all'altra. Non è la religione che determina ciò che attiene all'ambito religioso: è compito della legge per quanto riguarda la laicità, e della società per quanto riguarda la secolarizzazione. Il problema è di sapere come la religione si ridefinisce di fronte a questo cambiamento dello spazio sociale e politico, come vi si adatta, vi si contrappone o crea il proprio spazio. Le risposte che suggeriamo sono ovviamente complesse. In effetti, è possibile rispondere in due modi. Si possono riprendere le tecniche classiche dell'apologetica: si smontano gli argomenti degli «avversari» evidenziando le loro contraddizioni interne e i presupposti sui quali si fondano. Si enumerano poi diversi esempi tratti dalla storia, dal dogma o da autori contemporanei per dimostrare che, ovviamente, l'Islam è compatibile con la modernità e la laicità. Ma questa polemica speculare, qualsiasi sia la posizione che si assume, ha il paradossale inconveniente di fondarsi su un presupposto comune, confortato ovviamente dal dibattito, vale a dire l'effettiva esistenza di una verità di ciò che l'Islam dice o non dice, e l'assunto secondo il quale la definizione di musulmano deriva da questa verità. Il protagonista viene sostituito da un testo. Possiamo anche andare oltre i limiti del dibattito e porre una domanda di fondo: qual è il funzionamento di una religione nel campo sociale e politico? Come può una religione determinare il comportamento dei suoi fedeli, soprattutto in assenza di un clero che fissi e diffonda la norma? Come riescono i credenti a ricostruire la loro religione, con o senza l'aiuto di teologi? Se vi è un assunto ormai acquisito da ogni buona sociologia religiosa da Max Weber ai giorni nostri, è che non vi sia rapporto causale tra un dogma e un comportamento. Il divieto di desiderare la donna del proprio vicino non ha mai messo fine all'adulterio in ambiente cristiano, pur avendo certamente contrassegnato la morale sessuale. Il legame tra protestantesimo ed etica del capitalismo, caro a Weber, non ha impedito a dei buonissimi cattolici di essere eccellenti dirigenti d'impresa. È quindi necessario studiare i soggetti e i dispositivi in base ai quali una religione ha un impatto sulla vita sociale e politica. Esistono due forme che rischiano di essere confuse. Da un lato la «cultura», vale a dire, in senso antropologico, l'insieme dei modi di pensare e di agire specifici di una società. La religione esiste solo attraverso una cultura che può essere percepita in quanto «etnica» («cultura araba»). Qui la religione ha effettivamente a che fare con l'etnia, i costumi, le tradizioni. Ma come si manifesta questa cultura nel comportamento di un individuo, soprattutto in un contesto deculturato come quello dell'immigrazione? Essa non è più in grado di spiegare i comportamenti concreti dei protagonisti, a meno che non li trasformi in un non meglio specificato invariante etnico. Dall'altro lato abbiamo il «fondamentalismo», cioè il punto nel quale la religione si distacca dalle culture di riferimento e definisce se stessa come una religione pura, in un sistema di codici espliciti (nella sua forma politica è quella che viene chiamata ideologia islamica, nella sua forma strettamente religiosa è il salafismo). Ed è proprio questa la forma che assume l'aspetto di una sfida alla laicità, allorquando è su questa laicità che (suo malgrado) si è costruita. Sarà proprio questa la dimensione al centro del nostro lavoro, perché è quella che pone maggiori problemi, rischiando di subire un'evidente distorsione: il fondamentalismo interessa solo una minoranza di credenti e molte persone sociologicamente definite musulmane non attuano alcuna pratica religiosa. Ma qui ci concentriamo deliberatamente su ciò che costituisce il problema. Dobbiamo quindi distinguere tra ciò che attiene all'immigrazione (vale a dire all'importazione di culture straniere, condannate a trasformarsi o a scomparire nel corso delle generazioni) e ciò che attiene al fondamentalismo (tentativo di definire una religione «pura» senza alcun legame con una cultura data, quindi adattabile all'Occidente, anche se ciò può alterare il significato comunemente attribuito al concetto di Occidente), per capire come si possano riformulare i legami tra Islam, democrazia e laicità. Orbene, il fondamentalismo viene sistematicamente associato all'importazione di una cultura, mentre esso è una delle conseguenze della crisi delle culture. Non si tratta quindi tanto di individuare ciò che è possibile apprendere del passato (storia del mondo musulmano), quanto di comprendere come l'Islam viene oggi ricostruito dai musulmani stessi. Tuttavia, questa ricostruzione non è opera di pensatori, teologi o filosofi, essa avviene nella pratica concreta dei musulmani immersi nella società occidentale, ma anche a opera di intellettuali organici come Tariq Ramadan, che forniscono le «parole per dirlo», cioè delle formulazioni che consentono di vivere concretamente e di mantenere al contempo l'identità di «vero credente» in un mondo secolarizzato. Discorsi di questo genere sono ambigui per definizione e non per malevolenza: il doppio linguaggio è appunto il riconoscimento di due spazi, quello della religione e quello dell'ordine del mondo, anche se avviene nella nostalgia dell'unicità. Non esiste un processo astratto di secolarizzazione: le modalità di uscita dalla religione sono effettivamente dettate dalla religione dalla quale si esce. Le forme e gli spazi della secolarizzazione sono stati definiti in rapporto a una religione data. Questi spazi sono il prodotto di una storia, e anche di una storia religiosa. La religione abita la società: essa l'ha formata e ritorna sia sotto forma laicizzata sia, agli antipodi, con accessi di fondamentalismo. È difficile capire la forza e il successo dei movimenti comunisti in Europa occidentale senza intravedere i fantasmi di un'escatologia e di una Chiesa assolutamente cristiane. A modo loro, la nostra laicità e la nostra secolarizzazione sono «cristiane», in quanto si sono costruite partendo dal cristianesimo: quanti grandi filosofi del Medioevo erano dei chierici, compresi quelli che, come Guglielmo di Ockham, hanno affermato la subordinazione del potere religioso all'autorità temporale. Numerosi apostoli della laicità, tra cui Emile Combes, hanno avuto una formazione profondamente religiosa. Ma peccheremmo di etnocentrismo se facessimo della laicità francese il modello di uscita dalla religione: questa laicità è stata in primo luogo l'affermazione di uno Stato forte, a sua volta sacralizzato. Essa non trova riscontro nei paesi anglofoni della common law, dove lo Stato, senza per questo essere debole, non è investito della missione di costruire e concepire la società. Ma anche questi paesi hanno conosciuto una secolarizzazione senza laicità. E questo è ancora più vero per le società musulmane che hanno prodotto le loro forme di secolarizzazione: niente è di per sé islamico nella modalità di funzionamento della politica, ma la legge e i costumi sono stati profondamente segnati dall'Islam. Nel mondo musulmano non ci si è quindi mai posti il problema della collocazione della Chiesa, bensì quello della shari'a; in effetti, la shari'a tende a spossessare lo Stato di una parte di quella che in Occidente viene considerata la sua prerogativa: il monopolio della legislazione (anche se negli Stati Uniti il crescente ruolo del potere giudiziario nella definizione del legame sociale e la quasi privatizzazione del diritto a opera della corporazione dei lawyers andrebbero in questa direzione). Non è dunque opportuno pensare alla laicità come a un semplice rapporto tra Stato e religione: essa riguarda il modo in cui la società si definisce politicamente. Le nostre società secolarizzate sono ossessionate dalla religione. Esistono quindi diverse storie di laicizzazione e di secolarizzazione e non è di nessuna utilità pensare a un modello definitivo. Quando all'aeroporto di Heathrow il viaggiatore francese viene accolto da una doganiera britannica velata, egli capisce immediatamente che non è lo stesso Islam a costituire problema per la democrazia britannica. Il problema nasce quando la mondializzazione introduce un divario tra società concrete, modelli culturali e strutture politiche, vale a dire quando un modello si allontana dalle condizioni storiche della sua produzione: e questo vale per lo Stato moderno, i diritti dell'uomo e la democrazia, che sono «esportabili», ma non vale ovviamente per la laicità, profondamente radicata nella storia della Francia moderna. Emerge quindi il problema della compatibilità di queste forme, ormai considerate universali, con delle religioni e delle culture percepite invece come particolaristiche, soprattutto nell'ottica dell'immigrazione musulmana. Ma quello che si percepisce meno è che anche la religione si allontana dalle condizioni storiche, sociali e culturali che l'hanno vista nascere e l'hanno radicata in culture relativamente stabili. Continuiamo così a pensare alla laicità e alla religione come l'espressione di culture politiche, senza vedere che la loro universalizzazione dipende appunto dalla loro deculturazione. Religione e laicità vengono oggi riproposte nel nome dell'identità e contrapposte in un reciproco rispecchiarsi. E tuttavia, esse si (ri)costruiscono nell'oblio delle loro radici storiche, diventando così paradossalmente meno incompatibili di quanto non si creda, perché sono fluttuanti, produttrici di spazi diversi e di logiche che si giustappongono più di quanto non si contrappongano. Il fattore religioso non è più portatore di un'alternativa politica, il conflitto non è un conflitto di legittimità tra religione e Stato, ma è il sintomo dell'emergere di nuovi spazi che sfuggono alle logiche di un territorio, di una società, di una nazione e di uno Stato. La religione contribuisce oggi, allo stesso titolo della costruzione europea, alla dissociazione degli spazi che hanno fatto lo Stato-nazione moderno. Possiamo dolercene, possiamo rallegrarcene o semplicemente trarne le conseguenze per riflettere in modo diverso sulla collocazione della religione. Continuiamo così a pensare alla laicità e alla religione come l'espressione di culture politiche senza vedere che la loro universalizzazione dipende appunto dalla loro deculturazione. | << | < | > | >> |Pagina 67L'uso improprio della laicità nel contesto francese non ci esime dall'affrontare la questione fondamentale dei rapporti tra il dogma, la storia religiosa e la secolarizzazione. Che vi sia una specificità cristiana nella storia della costruzione dello Stato e della secolarizzazione in Occidente è evidente. Si tratta però di sapere se un modello di questo genere è universalmente valido, se una vera secolarizzazione è possibile senza l'esperienza istituzionale vissuta dall'Occidente; ci dobbiamo poi chiedere se nell'Islam sono state sperimentate altre forme di accesso alla secolarizzazione; occorre infine sapere se, pur in assenza di una vera problematica della secolarizzazione, è possibile utilizzare modalità elaborate altrove o se la secolarizzazione richiede una riforma dell'Islam. Qual è la specificità dell'Islam e quali sono gli elementi che accomunano tutte le religioni, o per lo meno le grandi religioni monoteiste occidentali? Molte critiche rivolte all'Islam sono in realtà del tutto improprie. Non esiste alcuna religione laica, per lo meno non tra le grandi religioni monoteiste rivelate. Per definizione, una religione monoteista rivelata pretende di enunciare la verità e di avere voce sull'insieme degli atti e dei comportamenti dell'uomo. Come sostiene da sempre il cardinale Ratzinger, l'allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, la verità è in effetti una. Ogni credente pensa che la legge di Dio sia superiore a quella degli uomini e che una maggioranza parlamentare non abbia titolo per decidere su ciò che è vero: la Chiesa non ha mai accettato la legislazione che autorizza l'aborto. Da questo punto di vista, la laicità non propugna l'esistenza di valori comuni bensì, cosa ben diversa, l'accettazione di regole del gioco comuni; ciò significa che la Chiesa condanna le forme violente o illegali di opposizione a una legislazione che considera comunque inaccettabile. D'altro canto, benché la laicità sia accettata politicamente, i suoi limiti vengono sottolineati da numerosi dignitari religiosi cristiani ed ebrei: monsignor Lustiger, pastore di Clermont, e il grande rabbino Josef Sitruk hanno protestato contro la legge «sulla laicità» (divieto per le alunne di indossare il velo a scuola) e non nascondono il loro disagio di fronte all'esclusione sempre più frequente di simboli religiosi dallo spazio pubblico. L'idea che la religione non debba essere costretta in uno spazio privato è condivisa da tutte le grandi religioni. Tuttavia, chi vuole sottolineare la specificità dell'Islam insiste sul fatto che il cristianesimo accetta il principio di laicità (riferendosi alle parole di Gesù nel Vangelo, «Date a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio», Matteo 22, 15-22). Ed è qui che si commette quello che senza dubbio deve essere considerato l'errore metodologico più inquinante del dibattito: il passaggio ricorrente dal livello teologico a quello della pratica politica, o addirittura della pratica religiosa. Che un teologo o un papa tiri fuori il «15-22» nell'intento di benedire la laicità è tipico dello stile cattolico, ma l'esistenza di quel versetto non ha mai garantito né una pratica laica né una teologia della laicità. Il Sillabo scritto da papa Pio IX nel 1864 rifiuta totalmente la laicità come l'intendiamo oggi (proposta LV dichiarata falsa dal papa: «La Chiesa deve essere separata dallo Stato e lo Stato separato dalla Chiesa»). La Chiesa ha finito per accettare la repubblica laica non perché una commissione di teologi avesse riletto e studiato per anni il Vangelo, ma perché il Vaticano si è convinto dell'ineluttabilità della repubblica e vi si è adattato (le commissioni servono solo a individuare argomenti filosofici a sostegno di decisioni già prese per motivi politici). Il brindisi alla Repubblica di monsignor Lavigerie nel 1890 ad Algeri, che segna l'accettazione della repubblica da parte del Vaticano, non è l'opera di un teologo ma l'atto di un vero politico. È buona cosa che nel tempo, con la costruzione della Democrazia cristiana, la maggioranza dell'elettorato e del clero abbia fatto propria la dimensione della laicità, ma ciò è accaduto più per l'evoluzione sociale e la pratica politica dei credenti che non per il «15-22». L'accettazione della laicità ha avuto conseguenze in termini di inclusione politica dei cattolici (la Democrazia cristiana), di presenza della Chiesa nel mondo (i movimenti cattolici quali la gioventù operaia cristiana), di ecclesiologia (i preti operai, la natura del sacerdozio, il ruolo dei laici) e di teologia (teologia della liberazione, umanesimo ecc.). Il concilio Vaticano II è una conseguenza dei cambiamenti prodotti dalla secolarizzazione e dalla laicità, e rappresenta un tentativo di risposta positiva, coerente e globale, malgrado la reazione di segno conservatore che comunque non può indurre un ritorno al passato — fatta eccezione per gli integralisti di monsignor Lefèvre — ma solo porre uno sguardo diverso su di esso. Il collegamento tra i cambiamenti interni alla Chiesa e la secolarizzazione avviene in seconda battuta: la riforma teologica non è la condizione per l'accettazione della laicità. E la secolarizzazione va avanti comunque, malgrado venga costantemente deplorata. Ma questo ragionamento non è sufficiente a confutare nella stessa maniera l'Islam e il cristianesimo: significa semplicemente che non è stata la Chiesa a favorire la laicità, ma che la resistenza che le ha opposto aveva motivazioni politiche all'interno di un conflitto di potere legittimato dai suoi riferimenti teologici. Ora si tratta di sapere se la soluzione del conflitto tra la Chiesa e il mondo moderno debba prendere atto di una totale sconfitta del pensiero cattolico o se il cristianesimo non contenesse le premesse di una teologia che accetta il doppio registro: quello dei due regni, terrestre e celeste. La pressione politica potrebbe quindi aver riportato la Chiesa alla verità di un messaggio evangelico che l'attrazione per l'esercizio, se non proprio del potere secolare almeno del suo controllo, aveva fatto dimenticare. Potremmo forse affermare che il cristianesimo, suo malgrado, malgrado la Chiesa, ha contribuito a dare corpo al nostro attuale contesto di secolarizzazione e di laicità? Marcel Gauchet definisce il cristianesimo la «religione dell'uscita dalla religione», ritenendo con ciò non che la Chiesa abbia accettato, o addirittura accompagnato, il processo di secolarizzazione della società, ma che la matrice teologica del cristianesimo abbia consentito la secolarizzazione, costruendo un polo di potere trascendente, lo Stato, a partire dal quale la società può riconoscersi come non religiosa. La secolarizzazione non significa la fine della trascendenza, ma la definizione di una trascendenza non teologica, di una religione in un certo senso secolarizzata. Ed è attraverso la sacralizzazione dello Stato (sanzionata da Dio stesso) che un certo cristianesimo ha potuto contribuire a legittimare l'autonomia della politica. La separazione della Chiesa dallo Stato o la teorizzazione dell'autonomia della politica e il suo eventuale diritto di controllo sulla religione furono oggetto di riflessione da parte di autori cristiani in epoca medievale. Quando Guglielmo di Ockham (circa 1285-1349) giustifica il controllo dello Stato sulla Chiesa non lo fa da laico (è un monaco), ma perché vede nel sovrano l'espressione della volontà divina. Il diritto è in primo luogo una volontà: il diritto positivo, quello dello Stato, non deve rispecchiare nessuna morale naturale, esso è fondante, così come la volontà divina è creatrice. Non è quindi solo la teoria dei due regni che consente di emarginare il fattore religioso, ma anche il ricalco del regno terrestre su quello celeste, in quanto ciò che è stato secolarizzato è appunto il divino. Lo spazio politico dell'Occidente è nato da una matrice religiosa cristiana e la sua nuova autonomia nei confronti della Chiesa come istituzione è stata articolata da pensatori e uomini di cultura cristiani, come i giuristi che hanno pazientemente definito uno Stato di diritto partendo dallo Stato patrimoniale del sovrano di fatto, pescando anche nella tradizione del diritto romano. Il dibattito tra i due ordini è nato all'interno del pensiero cristiano. Malgrado la laicità vieti allo Stato di occuparsi del dogma, è comunque opportuno interrogarci sulle origini religiose della laicità che continuano a fare capolino. Il dibattito può anche spingersi oltre: la sacralizzazione dello Stato gli ha consentito di espellere la Chiesa dallo spazio politico. La sacralità dello Stato e del suo ordine giuridico rappresenterebbe la trasposizione a livello temporale di una trascendenza determinata dalla religione. Non vi è conseguentemente vera laicità senza uno Stato forte: la politica è al centro del processo di secolarizzazione. È quindi possibile affermare che la laicità si è costruita in contrapposizione alla Chiesa cattolica (e dal punto di vista storico ciò è lampante), ma anche che il cristianesimo ha consentito la nascita della laicità. Da questo punto di vista deve essere sottolineata la grande modernità del protestantesimo che, rifiutando il concetto di Chiesa istituzionalizzata, ha eliminato l'ostacolo «politico» alla secolarizzazione. Pur ammettendo le origini cristiane dello Stato moderno (e per quanto riguarda i paesi di diritto romano la cosa è pacifica), rimangono aperti diversi interrogativi: il passaggio attraverso uno Stato moderno e trascendente è forse una condizione necessaria per l'instaurazione di un ordine autonomo della politica? L'essere nato in un preciso contesto religioso e storico rappresenta forse una specificità per un modello e ne inibisce di conseguenza l'esportazione in altri spazi culturali? Come funziona il rapporto tra ordine religioso e ordine politico? | << | < | > | >> |Pagina 78Accanto a questi piccoli cambiamenti empirici sta prendendo corpo una nuova scuola realmente riformista, che rifiuta di entrare nella casistica degli ulema, moderati o fondamentalisti che siano. Questi nuovi teologi (in Iran si parla di kalam-i-no, o nuova teologia) assumono spesso posizioni di rottura con gli ulema tradizionali e raramente provengono dalle madrasa (molti di loro hanno fatto studi profani e spesso anche scientifici). Ciò che accomuna questi riformisti è l'idea che si debba separare il messaggio coranico dalla sua concreta incarnazione in una storia e in un luogo determinati. A loro parere, la giurisprudenza (fiqh) si è costruita su culture patriarcali e ha dato corpo a una shari'a originariamente molto più aperta e polisemica. L'Islam non deve essere adattato a una nuova cultura, deve viceversa essere deculturalizzato (gli iraniani non esitano a dire «dearabizzato»). È questa la posizione dei «nuovi teologi», Mohammed Arkoun, Abdolkarim Soroush, Mohsen Kadivar, Abou El Fadl, Nasr Abu Zayd... La shari'a è ritenuta la matrice di un significato che sarebbe stato successivamente fossilizzato in un diritto inflessibile (fiqh) dagli ulema tradizionali. Occorre quindi riaprire tale orizzonte di significato e diffidare sia delle culture particolari che delle captazioni da parte dei poteri costituiti. Il potere non è più considerato il difensore dell'Islam, bensì l'origine della sua fossilizzazione, nella misura in cui lo ha strumentalizzato per perpetuare l'ordine costituito: la democratizzazione va quindi di pari passo con l'apertura teologica. Il riformismo presuppone la separazione della politica dalla religione, non tanto per salvare la politica dalla religione (come in Francia), quanto per salvare la religione dalla politica, e ridare la libertà al teologo e al semplice cittadino. In questo caso la laicità non è né la conclusione di un ragionamento teologico, né l'affermazione della supremazia in diritto del potere secolare, ma un principio metodologico per meglio (ri)formulare la religione. L'Islam deve essere liberato dalla politica. L'iraniano Abdolkarim Soroush difende quindi la necessità di quella che chiama la «contrazione della religione» (qabz-e din), vale a dire un ripiegamento della religione fuori dalla politica ma anche fuori dalla società tradizionale, dove viene soprattutto utilizzata per giustificare il conservatorismo sociale. Occorre separare lo Stato dalla religione: questa è una posizione politicamente laica. Ma in questo caso la laicità precede il secolarismo. Soroush, come numerosi protestanti americani, difende la separazione della Chiesa dallo Stato, ma auspica che la società civile rimanga religiosa. Egli esita quindi a parlare di secolarizzazione: ritiene che la religione possa ancora svolgere un ruolo nella società, che definisce «società civile religiosa» (jame'e-yé madani-yé divi), interessante esempio di una laicità senza secolarizzazione, che ricorda il progetto dei puritani americani. Qui la religione appoggia la resistenza all'istituzionalizzazione del potere: non è lo Stato che libera il cittadino dalla religione, come nella tradizione laica francese, è la religione che libera il cittadino dall'onnipotenza dello Stato. In che modo è possibile conciliare la società civile religiosa e la democrazia, dato che il credente si fa forte della norma divina? Dobbiamo supporre che il cittadino agisca in quanto persona credente, ma lo faccia nel suo intimo, senza alcuna coercizione proveniente tanto dallo Stato quanto dalla società o dal clero, ma anche senza imporre all'altro ciò che egli considera la norma divina: l'assoluto della fede va di pari passo con il pluralismo delle opinioni; e questo significa che se i cittadini nella loro maggioranza cessano di comportarsi da credenti, allora la società è definitivamente secolarizzata, in quanto non vi è alcuna istanza che imponga la fede al cittadino.
Questa concezione può essere paragonata a quella
calvinista dei puritani, laddove la
polis
(una città-Stato, da Ginevra a Boston) è gestita nei fatti dall'insieme
dei cittadini, senza che un'istituzione specificamente
religiosa si appropri dello Stato. Questa assenza di istituzionalizzazione fa sì
che, quando interviene il processo di riflusso, non della fede ma dell'illusione
millenarista, ci si trovi di fatto in uno spazio democratico
secolarizzato (dove possono sopravvivere alcune leggi,
come quella della repressione dell'adulterio). Con una
sua logica, Soroush lotta per eliminare le barriere clericali presenti nella
Costituzione dell'Iran islamico (il concetto di
vilayat-i fagih,
vale a dire di «reggenza del dottore della legge», che fissa la posizione della
Guida della rivoluzione, oltre che del Consiglio dei guardiani, incaricato di
verificare l'islamità delle leggi e dei
candidati alle elezioni, cioè una censura della volontà
popolare). È interessante notare che questa è anche la
prospettiva nella quale si colloca la nebulosa chiamata «destra cristiana» negli
Stati Uniti che, per quanto dogmatica possa essere, considera l'urna elettorale
l'unica fonte di legittimità politica. Tale concezione religiosa, che può
appartenere a un liberale in Iran, ma anche a un conservatore negli Stati Uniti,
è indubbiamente agli antipodi della laicità filosofica francese, ed
evidenzia come quest'ultima non abbia il monopolio
della definizione di uno spazio democratico.
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