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| << | < | > | >> |IndicePremessa 5 Come una introduzione 7 Anno Duemila 9 Un bimbo radioattivo 13 Le cronache del futuro ricostruite secondo il progetto del 1938 21 Prefazione. Modo indicativo, tempo presente 23 Il dinosauro di Roccacannuccia. Fiaba del futuro 24 L'energia volitiva. Fiaba del tempo futuro 30 L'arte fatta a macchina. Fiaba del Duemila 34 Il mondo senza bacilli. Fiaba del 2000 40 L'Atlantide esiste! Fiaba del futuro 46 La fine delle vitamine. Fiaba del futuro 51 La febbre della velocità. Fiaba del futuro 56 Il nòcciolo della Terra. Fiaba del futuro 62 La caduta della Luna. Fiaba del futuro 67 Il mondo senza la Luna. Le cronache del futuro 72 La sconfitta delle termiti guerriere 77 Una guerra nel 3000 83 Altre cronache del futuro 89 Un cataclisma pubblicitario 91 Le meraviglie del 2000 99 L'Astrorazzo 105 Natale 2023 127 Appendice storica e filologica 129 Rubino, la fantascienza e "Le cronache del futuro" 131 Note ai testi e alle illustrazioni 148 |
| << | < | > | >> |Pagina 5Molto noto e apprezzato come illustratore e autore di narrativa grafica, Antonio Rubino (1880-1964) è decisamente sottovalutato come scrittore. Certamente ha giocato a suo sfavore il fatto di essere un autore di "letteratura per l'infanzia", ma anche nell'ambito degli studi su questo settore della letteratura italiana è stato stranamente trascurato. Eppure il libro che il lettore ha tra le mani ne è la dimostrazione le «Fiabe del futuro» che tra il 1932 e 1934 pubblicò nel «Corriere dei piccoli» sono davvero straordinarie per inventiva linguistica e narrativa. Nel 1938 Rubino avrebbe voluto riunirle in un libro intitolato Le cronache del futuro, che però non riuscì a pubblicare, e se la prima parte del presente volume, che di quel libro offre una ricostruzione, è la tardiva realizzazione di un suo desiderio, queste storie, sulle quali il tempo ha lasciato solo una patina leggera che ne esalta i pregi, avrebbero meritato comunque di essere dissepolte da quelle tre annate ingiallite di vecchi "Corrierini". Esse appaiono un'applicazione ante litteram di quella «grammatica della fantasia» che Gianni Rodari avrebbe teorizzato molti anni dopo, e viene da chiedersi se questa impressione non derivi da un'effettiva influenza di Rubino su Rodari. Rubino non ha nessuno dei difetti della gran parte degli scrittori italiani per l'infanzia a lui contemporanei. Soprattutto, non cede al facile moralismo imperante in quegli anni e, anche se in un racconto della serie pubblicato più tardi su «Topolino» paga pegno all'ideologia fascista alla quale aderì, non è quasi mai "retorico" nel senso deteriore del termine. Lo è, al contrario, in senso buono (e tecnico), e la sua è una retorica scintillante, dove l'umorismo è tutt'uno con l'intelligenza e con un impegno etico che compensa il suo fascismo. Non è neppure provinciale, e anzi la sua produzione letteraria ha un respiro internazionale. Le sue poesie, molte delle quali pure furono pubblicate nel «Corriere dei piccoli», non sfigurano per esempio di fronte alla grande tradizione del nonsense anglosassone, con la quale intrattengono un rapporto piuttosto stretto. Bisognerà prima o poi ripescare anche quelle: per cominciare, qui se ne troverà una affine tematicamente alle Cronache, premessa a mo' di introduzione alla ricostruzione del libro insieme al primo racconto fantascientifico di Rubino che ne era restato escluso. Analogamente, la fantascienza rubiniana, spesso ispirata a Wells, sfugge all'approccio verniano della fantascienza italiana dell'epoca, e anticipa nei contenuti filosofici e sociologici, mai banalmente tecnico-scientifici, e nell'ironia che la contraddistingue, gli esiti migliori della fantascienza anglosassone degli anni Cinquanta e Sessanta. Le «Fiabe del Futuro» costituiscono inoltre una documentazione rilevante sulle relazioni tra Rubino e il Futurismo, non soltanto per quanto riguarda le loro illustrazioni, che più che mai ripropongono la questione, spesso posta dalla critica, del parallelismo tra l'opera rubiniana e quella di Fortunato Depero, ma anche per i loro testi, in cui il "mito della velocità" e i possibili sviluppi dell'arte del futuro sono, con intenti prevalentemente satirici, esplicitamente tematizzati. Dopo il rifiuto dell'editore al quale aveva proposto Le cronache del futuro, Rubino non abbandonò il progetto e scrisse altri racconti per il libro. Ritrovati nell'archivio di famiglia (ARA Archivio Rubino Antonio) curato dalla nipote Antonietta Rubino, che ringraziamo per la collaborazione, questi testi sono presentati nella seconda parte del volume, che nel suo insieme è la raccolta integrale, completata in appendice da un commento storico-filologico, della narrativa fantascientifica dell'artista. | << | < | > | >> |Pagina 9gra 999 Tutti ripetono: «Sarà il Duemila un anno-bòlide, un anno-pila in cui la tecnica consentirà le più fantastiche velocità. Basterà un àtomo disintegrato a far percorrere mezzo il creato: mille chilometri, duemila orari saran bazzécole da sedentari! La nave aerea, il razzo astrale sfregheran l'aria con forza tale che diverranno fosforescenti e tracceranno scie risplendenti.» Anno Duemila! Che aspetti mai? Anno Duemila! Che cosa fai? S'io fossi celere come tu sei, con grande anticipo giunger vorrei! | << | < | > | >> |Pagina 13Quando, nel 1919, si sparse la notizia di alcuni misteriosi segnali registrati dalle stazioni radio e provenienti dall'ultraterra, i giornali commentarono il fatto con graziosi trafiletti umoristici e il mondo scientifico si mostrò incredulo. L'unico a interessarsi della cosa fu il professor Polibio Kappa, bizzarro tipo di astronomo che da anni sosteneva la teoria dell'abitabilità dei pianeti. Questo professor Polibio impiantò immediatamente una stazione ultrapotente sul terrazzo di casa sua, con la speranza di poter decifrare il mistero della vita planetaria. Ma la cosa non era facile. Le onde eteree venivano continuamente disturbate da scariche e da interferenze, e i messaggi planetari erano sempre interrotti da qualche conferenziere svedese o da qualche violinista polacco. Dopo lunghi anni di tentativi inutili, Polibio trovò finalmente il rimedio: chiuse l'apparato ricevente e trasmittente in una cupola di celluloide munita di un selettore a imbuto mobile che, rivolto all'insù, riceveva unicamente le onde provenienti dal cielo. Puntando allora l'imbuto nella esatta direzione del pianeta Marte, il professor Polibio riuscì a intercettare numerosi messaggi planetari. Senonché tali messaggi erano assolutamente indecifrabili, perché composti di onde di diversa lunghezza mescolate assieme. Dovete sapere che il professor Polibio aveva un figlio di otto anni, di nome Cicci. Quel bimbo era estremamente nervoso e impressionabile. Un giorno Cicci, mentre il babbo era assente e mentre la mamma stava badando alla cucina, salì sulla terrazza, montò sull'apparecchio radio e si mise a toccarne i congegni. Immediatamente provò per tutto il corpo una sensazione piacevolissima: sembrava che una specie di solletico gli corresse dalla punta dei capelli alla punta dei piedi. Socchiuse gli occhi e vide distintamente strane immagini che si muovevano; si turò le orecchie e intese distintamente una voce ripetere: «Mirà sciamì». Un'ora dopo il babbo lo trovò ancora a cavalcioni sull'apparecchio con gli occhi socchiusi e le orecchie turate, tutto intento a osservare le immagini e ad ascoltare le voci che fiorivano nella sua mente. Una tenue luce argentea emanava dal suo viso. Il professore capì al volo. Il suo bimbo "televedeva" e "telesentiva". Dotato di un sistema nervoso estremamente radioattivo, reso più radioattivo ancora dal contatto con l'apparecchio, Cicci riceveva direttamente le onde eteree sotto forma di sensazioni visive e acustiche. Evidentemente le onde provenienti da Marte non erano onde sprigionate da una macchina, ma onde emesse direttamente dal cervello potentissimo degli abitanti del pianeta. Quello che il professore aveva di colpo intuito, fu pienamente confermato da Cicci. Mi pareva di sognare! disse il piccino. Sentivo voci ripetere «mirà sciamì» e vedevo ometti grandi come bambini saltellare su di una gamba sola. Erano bellissimi, ma avevano un brutto difetto: quello di portare sulla testa una specie di corno. Le antenne della radio! esclamò il babbo, al colmo della felicità. Lo scienziato non stava più nella pelle. Aveva finalmente trovato lo strumento delicatissimo col quale avrebbe potuto stabilire un diretto contatto tra la terra e i pianeti abitati! Non voleva però stancare e sovreccitare troppo il bimbo, già così delicato. Ideò allora un sistema ingegnosissimo. Collocò sotto la cupola isolante il lettino di Cicci, distese in alto, a mo' di zanzariera, un aereo di presa, sostituì i quattro pomi del letto con altrettante valvole ultraviolette e nascose le batterie e i dispositivi nell'interno del materasso. Bastava che Cicci andasse a letto e dormisse, per metterlo in diretta comunicazione con Marte. La prima notte Cicci dormì saporitissimamente, vegliato sempre dal babbo che moriva dall'impazienza di avere altri particolari sul pianeta Marte e sui suoi abitanti. Appena il bimbo si svegliò, la mattina dopo, Polibio lo assediò subito di domande. Ho sognato, raccontò Cicci, di essere in un gran bosco; però le piante di quel bosco non erano alberi, ma fiori alti come case. I gambi di quei fiori erano muniti di foglie disposte come i gradini di una scala a chiocciola. Pioveva forte, ma, non so perché, la pioggia non mi bagnava. A un tratto la pioggia è cessata, i fiori si sono aperti, e da ogni fiore è spuntata una testa, sormontata da un cornetto che si muoveva e lanciava scintille. Quegli omini ridicoli e bellissimi sono discesi a terra e si sono messi a cantare. Avevano tre occhi e una gamba sola. Mentre cantavano, guardavano in su, come se aspettassero qualcosa di bello. Infatti le nuvole si sono rotte ed è spuntato fuori un sole magnifico, grosso tre volte più del nostro, con certi raggi gialli, rossi e turchini da far rimanere a bocca aperta. Allora gli omini si sono messi a far salti, dirigendosi verso alcuni immensi canali... - I canali di Marte! L'avrei giurato! Si tratta proprio di Marte! osservò il babbo, tutto gongolante ed estatico. Non so chi sia questo Marte di cui parli. So solamente che ho sentito fischiare e ho visto arrivare moltissimi cigni che parevano barchette. Sulla schiena di ogni cigno ha preso posto un omino, e tutte quelle imbarcazioni si sono allontanate, trasportate in giù dalla corrente. [..] | << | < | > | >> |Pagina 24La famosa faccenda del mostro preistorico segnalato nelle acque del lago di Loch Ness, in Scozia, terrà occupata l'attenzione del mondo per molto tempo ancora. Ma un bel giorno il mostro preistorico verrà realmente catturato, e la cosa perderà tutto il suo fascino: il pubblico, deluso, si meraviglierà di aver perduto il proprio tempo a occuparsi di una bestia così poco interessante. Ad ogni modo per la cittadina di Inverness e per i pochi villaggi che si specchiano nel Loch Ness, la faccenda del mostro avrà rappresentato, a conti fatti, un ottimo affare. Per due anni interi i giornali di tutto il mondo avranno fatto alla località una pubblicità gratuita: per due anni interi innumerevoli carovane di turisti e di curiosi saranno affluite sul posto; per due anni interi gli albergatori e i negozianti di mostriciattoli-ricordo avranno fatto affari d'oro. Questi risultati pratici non sfuggiranno all'attenzione del signor Pio Poi, titolare di un avviatissimo ufficio di tecnica pubblicitaria, il quale nel 1936 costituirà una grande società anonima per lo sfruttamento dei Mostri Antidiluviani Pubblicitarii, che si chiamerà appunto MAP. I primi mostri faranno la loro apparizione nelle pubbliche piazze e ai crocevia delle autostrade nel 1937 e susciteranno, nei primi giorni, fantastiche scene di panico.
Tra questi mostri ve ne saranno di meravigliosi, come il mastodonte
sbadigliante dell'Aperitivo A, lo pterodattilo volante del Servizio Aereo B, il
mammut luminoso del Dentifricio C, e moltissimi altri, che otterranno un
grande successo sia per la naturalezza dei movimenti sia per i tremendi
muggiti. E gli affari della MAP andranno a gonfie vele.
Il signor Pio Poi, gerente della MAP, avrà due figli intelligenti e studiosi: Dino e Dina. Per premiare questi due amori di bimbi degli ottimi punti che riporteranno a scuola, il babbo farà loro dei bellissimi regali consistenti quasi sempre in mostricini antidiluviani di gomma, gonfiabili e sgonfiabili a volontà, come gli pneumatici delle automobili. Ve ne saranno di ingegnosissimi: alcuni cambieranno colore a seconda del tempo, altri manderanno fumo dagli occhi, altri racconteranno preistorielle divertentissime per mezzo di un fonografino che avranno dentro. Ma il regalo più bello di tutti sarà quello che Dino e Dina riceveranno in occasione del Natale del 1943, e consistente in un "dinoscafo" a motore interno, cioè in un grosso dinosauro galleggiante la cui coda funzionerà da timone e i cui quattro piedi funzioneranno da propulsori. Dovete sapere che il signor Pio Poi possederà in riva al Laghetto di Roccacannuccia una villa magnifica. La prima domenica del gennaio 1944 Dino e Dina scenderanno a riva, gonfieranno d'aria il mostro e, a cavalcioni della sua cresta, si spingeranno al largo, a pieno motore. Il dinosauro scivolerà sull'acqua con una grazia veramente meravigliosa. Gira di qua, gira di là, dopo aver fatto tre o quattro volte il giro del lago, i bimbi scorgeranno sulla riva uno strano oggetto. Visto da lontano, quell'oggetto, benché immobile, avrà tutto l'aspetto di un grosso animale disteso sull'erba, tra i canneti. Per vedere meglio, Dino e Dina si avvicineranno alla riva, scenderanno a terra e scopriranno, con grandissimo stupore, che il misterioso oggetto sarà appunto un animale e che razza di animale! Ma questo è un dinosauro! esclamerà Dino. Un dinosauro che dorme e che russa! Come è ben imitato! Sembra vero! commenterà Dina. Se provassimo a cavalcarlo? dirà Dino, avvicinandosi al mostro senza paura alcuna. Si arrampicherà su quella schiena scagliosa e aiuterà Dina a prender posto con lui sulla cresta. Chi sa quale bottone bisogna schiacciare per farlo muovere! dirà, toccando i bitorzoli che adorneranno quell'enorme groppone. Come è ben fabbricato! osserverà Dina con ammirazione. Sembra quasi che respiri davvero!
In quella il mostro (che sarà vivo e vero) si sveglierà di soprassalto,
drizzerà la testa, e via!
Non appena il dinosauro avrà spiccato i primi salti, un atroce sospetto si farà strada nel cervello dei bimbi. Ho una gran paura che sia vivo davvero! sussurrerà Dina con un tremito nella voce. Non dire sciocchezze! risponderà Dino nascondendo il proprio spavento. I mostri son tutti finti! Non senti come soffia? Sarà destinato alla pubblicità di qualche sciroppo contro l'asma. Per questo soffia così.
Non avrà finito di dir ciò, che il dinosauro, infilato lo stradone che
conduce all'abitato di Roccacannuccia, si lancerà a corsa pazza facendo fare ai
due piccoli, aggrappati alla sua cresta, la più fantastica delle cavalcate. Dino
e Dina, incapaci di resistere agli scossoni, finiranno per scivolare lungo la
schiena del mostro e ruzzoleranno a terra. E sarà una vera fortuna. Infatti,
pochi metri più in là, il dinosauro andrà a picchiare con la testa nei fili di
una linea elettrica e piomberà fulminato al suolo.
I primi ad accorrere alle invocazioni di aiuto di Dino e di Dina saranno il messo comunale, la guardia campestre, il campanaro e il veterinario di Roccacannuccia i quali si avvicineranno al mostro con infinita prudenza e tireranno un lunghissimo respiro, quando ne avranno constatato la morte. Il mostro, carico di catene, verrà allora trainato sulla piazza principale del paese tra le grida di ammirazione, gli applausi e i commenti dell'intera popolazione. Dino e Dina, dopo aver bevuto due grandi tazze di camomilla, verranno introdotti nel salottino del podestà che, assistito da un segretario, starà redigendo il verbale. Senonché, appena i due piccoli protagonisti della grande avventura avranno terminato il loro racconto, si sentirà un'automobile fermarsi di schianto davanti al portone del Municipio, e uno strano signore, coi capelli al vento e con un paio di occhiali tondi sul naso, irromperà come un bolide nel salottino, urlando: Il dinosauro è mio! Il dinosauro non può essere suo! ribatterà Dino punto sul vivo. Siamo stati io e mia sorella a pigliarlo! Il dinosauro è mio, perché l'ho fabbricato con le mie stesse mani! replicherà lo strano individuo. Non racconti storie! dirà Dina, a sua volta. Se si trattasse di un dinosauro meccanico, potrei forse crederle; ma questo, prima di essere un dinosauro morto, era un dinosauro vivo, e i dinosauri vivi non si fabbricano tanto facilmente! Permettete che mi spieghi, risponderà allora lo strano signore con più calma. La mia specialità è quella di fabbricare i dinosauri vivi! Ma lei, chi è? domanderanno il podestà e il segretario, ad una voce. Sono il professor Cervellotti, chirurgo e biologo. Sto, con le mie esperienze, rivoluzionando la scienza dei trapianti organici. Ho operato sugli animali interessantissimi trapianti che spero col tempo di poter operare anche sugli uomini, sostituendo braccia, gambe, teste. Ecco come ho fatto per fabbricare il dinosauro vivo. Ho preso un grosso coccodrillo del Nilo e gli ho applicato, al posto delle sue, quattro gambe d'elefante, che hanno attecchito benissimo. L'applicazione della cresta sulla schiena è stata facilissima. L'unica difficoltà seria era quella di sostituire la testa di coccodrillo con una testa di iguana, senza provocare la morte del soggetto. Ebbene, o signori, ci sono riuscito! Ho l'onore di comunicarvi che ho provato con pieno successo un sistema nuovo per la sutura istantanea del midollo spinale, delle arterie, delle vene, dell'esofago e della trachea. Terminata l'operazione, che è durata due minuti al massimo, sono bastate due iniezioni di adrenalina per richiamare in vita il paziente. Il podestà darà un balzo: Per carità, professore, non racconti questo ad anima viva! Prima di tutto nessuno le crederebbe. In secondo luogo lei rovinerebbe Roccacannuccia. Oggi Roccacannuccia possiede le spoglie del più moderno animale preistorico esistente nel mondo: domani tutti i giornali del mondo parleranno di Roccacannuccia: dopodomani Roccacannuccia rigurgiterà di forestieri. Se lei parla, rovina tutto! Chieda qualunque somma, ma non parli per carità! Io lavoro per la scienza, non per denaro! risponderà il professore. Tacerò, ma non accetto compensi!
Dino e Dina, dopo aver giurato di conservare il segreto anche loro,
torneranno a casa di cattivissimo umore e per prima cosa distruggeranno il loro
dinoscafo e i loro mostri-giocattoli per non vederseli più davanti agli occhi.
Roccannuccia diventerà in pochi giorni il principale centro turistico del mondo. Davanti al suo dinosauro imbalsamato sfileranno milioni di visitatori. Sulle rive del lago sorgeranno mastodontici alberghi e uno speciale corpo di guardie presterà giorno e notte servizio per segnalare l'eventuale apparizione di nuovi mostri. Naturalmente il gran rumore che si farà intorno al dinosauro di Roccacannuccia nuocerà grandemente agli affari della MAP che, per evitare il fallimento, si dedicherà alla fabbricazione dei cagnolini di stoffa e dei cavallucci a dondolo, con grande soddisfazione di Dino e Dina, che, dopo la loro terribile avventura, nutriranno una grandissima antipatia per gli animali antidiluviani. Quanto al professor Cervellotti, egli morrà senza aver rivelato ad alcuno il segreto delle sue esperienze. Quando l'autorità giudiziaria farà nel suo laboratorio il sopralluogo d'uso, si troverà di fronte alla più strana accozzaglia di bestie imbalsamate che si possa immaginare: serpenti con tre teste, tartarughe con testa d'uccello, scimmie con le ali di pipistrello, foche con le orecchie di somaro. Tutto questo materiale verrà acquistato dal museo di Roccacannuccia per servire, assieme col famoso vitello a due teste, da contorno al dinosauro. | << | < | > | >> |Pagina 30La mattina del primo gennaio dell'anno 2000 il professor Geo Gei si alzò da letto prestissimo. Cesira! disse alla moglie. Per inaugurare il nuovo millennio, voglio fare un'invenzione sensazionale! Sarebbe ora! rispose Cesira con un sospiro. Sono venti anni che fai l'inventore senza inventare! Lo scienziato, punto sul vivo, non rispose. Appoggiò i gomiti sul tavolo, si prese la testa fra le mani e si mise a pensare. «Volere è potere! Volere è potere!» ripeteva macchinalmente. In capo a un minuto sentì al palmo delle mani un pizzicorino analogo a quello d'una scossa elettrica leggera. Sembrava che una debole corrente gli si sprigionasse dalla tempia e gli percorresse le mani. Geo Gei ragionò così: «Volere è potere; dunque la VOLONTΐ Θ POTENZA. Questa potenza, o meglio, ENERGIA VOLITIVA, è prodotta da una PILA che è il cervello. Come tutte le pile, anche il cervello ha un POLO NEGATIVO e un POLO POSITIVO. Mettendo in contatto i due POLI, la pila si scarica. Ecco perché, se io porto le mani alle tempie, sento il pizzicorino.» In poche parole, il professor Geo Gei aveva scoperto il principio scientifico dell'ENERGIA VOLITIVA POLARIZZATA. L'illustre inventore costruì una specie di accumulatore a doppio uso. In un primo tempo esso immagazzinava forti quantitativi di energia volitiva: in un secondo tempo invece scaricava l'energia stessa in dosi regolabili. Mediante tale macchinetta, consistente in uno zaino e in una cuffia, il secolare problema dell'uguaglianza umana era risolto. Gli individui energici avevano la possibilità di rifornire di buona volontà i cervelli dei poltroni.
La macchinetta dava inoltre la possibilità di decuplicare, centuplicare
l'energia lavorativa in modo da far produrre a chiunque, in dieci minuti, il
lavoro di tutta una settimana.
Più di mille volonterosi gentilmente si offersero di fornire l'energia volitiva necessaria, che venne dal professore immagazzinata nell'accumulatore fino alla portata massima di 1.000 Kilovolontà-ora. Il difficile era trovare un poltrone che volonterosamente si prestasse. Le inserzioni a pagamento sui giornali, i manifesti murali, la pubblicità per mezzo della radio, tutto fu inutile. I poltroni stavano bene e non si muovevano. Geo disse allora: Se i poltroni non vengono a me, andrò io dai poltroni! L'essere più pigro di tutto il paese era un ragazzotto di nome Già. Se gli domandavano: «Perché non lavori?», rispondeva: «La terra è bassa!» Se gli domandavano: «Perché non vai a scuola?», rispondeva: «Le parole son troppo piccole!» L'unica fatica che facesse era quella di mangiare, ma sapeva evitare anche quella, mandando giù i bocconi intieri. Il professore lo trovò addormentato in mezzo all'aia e lo scosse per mezz'ora. Il ragazzo aperse un occhio solo e coll'altro seguitò a dormire. Quanto vuoi per lasciarti mettere questa cuffia e questo zaino? gli chiese lo scienziato. Già non rispose neppure. Ti dò cento lire! Te ne dò duecento! insisté il professore. Mille o niente! disse Già. Prendi! concluse il professore, un po' seccato. Ma Già, invece di allungare la mano, si fece mettere il biglietto da mille in tasca, poi si voltò, sbadigliando, dall'altra parte. L'inventore dovette mettergli la cuffia e assicurargli lo zaino sulla schiena colle proprie mani, cosa che gli costò non poca fatica. Ma quando tutto fu a posto e l'accumulatore cominciò a funzionare, la scena mutò all'improvviso. Già scattò come una molla e cominciò a fare dei salti spettacolosi, piroettando per aria come un fuso. Ho mille lire in tasca e me le voglio godere! ripeteva a gran voce. Nell'impeto della gioia dava dei formidabili calci, facendo volare i ciottoli a un chilometro o due di distanza. Come mi sento leggero! Mi par di volare! esclamava ogni tanto. Tra lo spavento dei presenti raggiunse con un salto il terrazzo d'un cascinale, staccò le due imposte da una finestra, se le legò alle braccia e si lanciò nel vuoto. Miracolo! Invece di precipitare al suolo, riuscì a sostenersi nell'aria. L'energia si sprigionava dall'accumulatore in ragione di 17 Kilovolontà al minuto, forza sufficiente a sostenere per aria un uomo. Proporzionalmente al peso del corpo, la forza dell'uomo è infatti 17 volte inferiore a quella degli uccelli.
Mi sembra d'essere un merlo! gridava Già dall'alto e zufolava, contento.
Sempre imitando il canto del merlo il ragazzo sorvolò alcune collinette aride e si diresse verso una montagna. Senonché, a poca distanza dalla cima, la corda che tratteneva l'imposta di destra si ruppe nello sforzo, e Già cadde in una fitta pineta. Le imposte volarono in pezzi, ma il ragazzo rimase intero. La prima cosa che fece fu di togliersi la cuffia e di far zaino a terra. Subito l'azione della corrente volitiva cessò, e una stanchezza mortale s'impadronì di lui. Si svegliò il giorno dopo con una fame tremenda e scorse poco lontano un boscaiolo e un asino. Tra uno sbadiglio e l'altro, disse all'uomo: Vendimi un pane e un asino, te li pago mille lire!
L'uomo non se lo fece dire due volte, diede a Già un pane, gli consegnò
l'asino, caricò sull'asino lo zaino e mise in testa all'animale anche la cuffia,
per ripararlo dal sole.
Accadde allora una cosa straordinaria. L'asino si rizzò sui piedi posteriori e si mise a parlare. Bestie che siete! urlò rivolto a Già e al boscaiolo. Sono dieci anni che porto pazienza e che sto zitto, ma ora basta! Avete sempre parlato voi, ma adesso parlo io, e, se non saranno sufficienti le parole, mi servirò anche delle gambe di dietro. Mi sento un uomo al pari di voi e più di voi! Quanto poi a questo signore che si vanta di avermi comprato e pretende di ritornare a casa sulle mie spalle, lo prego di prendere sulle spalle me e di portarmi dove voglio io! Una volta per uno a cavallo all'asino! In così dire l'asino salì sulle spalle di Già che, grande e grosso com'era, poteva portarlo benissimo. Appena si fermava, l'asino lo sferzava a sangue colla coda. Fecero il loro ingresso in paese tra la grande ilarità di tutti. L'asino parlante tenne subito una conferenza in piazza, suscitando le acclamazioni della folla che si divertiva un mondo a sentire le asinerie che diceva. Appena l'energia dell'accumulatore si fu esaurita, l'asino ritornò ad essere asino come prima, ma rimase celebre fin che visse. Il professor Geo Gei recuperò lo zaino e la cuffia, ma li distrusse. La celebrità acquistata da un asino in poche ore gli aveva fatto comprendere che la sua macchinetta ad altro non avrebbe servito se non alla creazione di molti asini illustri a danno degli uomini di vero merito, come lui. | << | < | > | >> |Pagina 34Quando spunterà l'alba dell'anno duemila, non esisteranno più artisti di nessun genere, perché l'arte si farà tutta a macchina, automaticamente. Quello dell'arte sarà un problema esclusivamente meccanico, e il sistema di disegnare, dipingere, scolpire a mano sarà completamente abbandonato come una cosa stupida, complicata e fuori moda, paragonabile al camminare a piedi e allo schiacciare le nocciole coi denti. Non soltanto esisteranno macchine brevettate per la pittura e per la scultura, ma anche un analfabeta potrà, per mezzo di calcolatrici speciali, scrivere in musica ed in poesia.
Una società anonima mondiale, la F.R.A.M. (Fabbriche Riunite Arte
Meccanica), sopperirà largamente al fabbisogno artistico di tutto il mondo,
fornendo opere perfette a prezzi di assoluta concorrenza.
Proprietario e direttore di questa grossissima azienda sarà un certo signor Fulmine che, prima di dedicarsi all'industria, avrà fatto di professione il pittore cubista. Questo signore, malgrado i suoi cent'anni d'età e malgrado la podagra che l'affliggerà, sarà Fulmine di nome e Fulmine di fatto. Ogni mattina, tra un colpetto di tosse e una presa di tabacco, egli farà un'invenzione che abilissimi ingegneri specializzati metteranno immediatamente in pratica. Infinite saranno le trovate di Fulmine. Inventerà il sistema di dipingere con la mitragliatrice carica di tubetti di colore, inventerà il sistema di deformare le statue allungandole o spiaccicandole, inventerà il bussolotto fisarmonico per estrarre a sorte le note musicali del "jazz", inventerà i quadri fluorescenti da guardarsi di notte allo scuro, inventerà la pietrificazione diretta delle nature morte, la poesia senza parole, i disegni mobili ottenuti con la limatura di ferro per mezzo della corrente elettrica, la fotopittura deformante concava e convessa, le esposizioni girevoli montate su perno, le case pneumatiche gonfiabili e sgonfiabili a volontà, la rumorosità dei colori, i bassorilievi ambulanti, le assicelle che, esposte al sole, diventano quadri, eccetera, eccetera, eccetera. Tutti i giorni la FRAM lancerà qualche novità nuova: una volta sarà un libro di alluminio che, appena aperto, sprigionerà un gas esilarante, spiritosissimo; un'altra volta sarà una casa razionale che si aprirà e si chiuderà come le scatole dei fiammiferi; un'altra volta ancora sarà un intonaco cristallizzante che, inumidito, farà sulle pareti gli affreschi da solo. In mezzo a tanta abbondanza nessuno avrà più volontà di fare l'artista, allo stesso modo che nessuno, al giorno d'oggi, si mette in mente di farsi una bicicletta, ma preferisce comprarsela già fatta. L'arte fatta a macchina andrà a ruba, e le opere d'arte fatte a mano verranno considerate un vecchiume di cui tutti si sbarazzeranno con orrore: tutto questo materiale di rifiuto verrà acquistato dalla FRAM a un soldo al pezzo e distrutto sistematicamente. Uniche a sopravvivere saranno le opere custodite nei musei, ma di esse il pubblico, troppo affaccendato, non avrà il tempo di occuparsi. Fulmine avrà un unico nipotino di nome Lampo. Questo bimbo, bello e intelligente, avrà però un grossissimo difetto: quello di annoiarsi sempre di tutto e di tutti. I giocattoli meccanici più bizzarri, i pupazzi automatici più perfezionati, invece di divertirlo, lo irriteranno. Quelli che più di tutto gli urteranno i nervi saranno i quadri e le sculture della ditta FRAM. Perché questa signora ha la faccia verde? chiederà Lampo a nonno Fulmine. Perché l'ultima maniera è quella li, risponderà il vecchio. Che cosa significa questo pesce giallo con i piedi rossi? Non significa niente, ed è bello appunto per questo! [...] | << | < | > | >> |Pagina 72Siamo nel 2721, Anno DCCCI dell'Era Fascista. L'altopiano etiopico, magnificamente sistemato a terrazze, è tutto un'immensa città-giardino intramezzata da opulente coltivazioni e popolata da 75 milioni di abitanti. Le strade di comunicazione si muovono automaticamente come tappeti scorrevoli, trasportando persone e merci alla velocità oraria di chilometri 400. Sulla vetta più alta, cioè sul Ras Dascian, funziona un osservatorio ultrapotente, con apposito impianto per la formazione delle nuvole e per la normalizzazione delle precipitazioni acquee. Direttore dell'Osservatorio del Ras Dascian è Sua Eccellenza Vir, Accademico dell'Impero. La mezzanotte che precede il 21 di giugno è scoccata da un pezzo, e nella specula dell'Osservatorio regna il massimo silenzio. In sommità della cupola, un uomo di vedetta sorveglia il firmamento, pronto a segnalare il verificarsi di fenomeni celesti. D'improvviso, all'una in punto, tutti gli strumenti si mettono a lanciare potenti scariche, tutti gli allarmi si mettono di colpo a suonare. Pochi minuti dopo, e precisamente alle ore 1.5', l'uomo di vedetta lancia un grido: La Luna si muove! Il prof. Vir non ha affatto l'aria di scompaginarsi. Bella novità! esclama ridendo. Sono milioni e milioni di anni che questo succede: non è la prima volta che la Luna si muove! Così dicendo mette l'occhio al telescopio. Ma... perbacco!... sta cadendo davvero! Presto! una macchina calcolatrice e un segretario automatico, grida rivolto all'assistente Robur. Mentre Vir segue il movimento della Luna e calcola la traiettoria della sua caduta, dettando al segretario i risultati ottenuti, l'assistente, a intervalli regolari, ritira il disco che la radio trasmette a tutte le stazioni del mondo. Malgrado i continui disturbi e le molte interferenze, le radio-trasmissioni si succedono a ritmo incalzante. La Luna, spostandosi sempre più rapidamente e divenendo sempre più grande, scompare dietro l'orizzonte, a levante. Ma Vir ne ha già esattamente calcolata la parabola: risulta dai suoi calcoli che la Luna urterà contro la terra alle 14.17 precise (ora di Roma), nella zona compresa tra il Golfo del Messico e le Antille. Una formidabile attività pervade in un attimo l'Osservatorio: è necessario che le poche ore disponibili prima della catastrofe vengano utilmente impiegate. Le stazioni radio diffondono l'allarme in tutto il mondo, invitando le popolazioni, specialmente quelle dei territori prospicienti l'Atlantico, a raggiungere con qualsiasi mezzo le montagne. Si calcola che la massa lunare, urtando sulla superficie dell'Oceano, solleverà onde di almeno mille metri di altezza. Alle ore 13.10 cominciano a giungere le prime notizie rassicuranti: la popolazione di Roma si è trasferita in massa sulla Majella, le popolazioni di Milano e Torino hanno organizzato vasti bivacchi sul Gran Paradiso e sul Monte Rosa. Tutto fa prevedere che il tempestivo allarme lanciato da Vir possa diminuire di molto l'entità del disastro. Sono le 14; il nervosismo comincia a impadronirsi di tutti: si contano i minuti. Sono le 14.16. Gli altoparlanti danno il segnale dell'urto: Meno trenta... meno venti... meno dieci... meno cinque... quattro... tre... due... uno...!!!! Una scossa formidabile fa sussultare il suolo. Ad essa fa seguito uno spostamento d'aria, simile ad uno spaventevole uragano. Tutti, buttati a terra, attendono di sentire il rumore dell'urto, ma questo non giungerà che 24 ore più tardi. Tale rombo, per quanto formidabile, non presenterà pericolo alcuno: unico, preoccupante pericolo sarà invece la prima ondata di acqua marina che sarà la più alta, e che si abbatterà sulle coste dell'Europa e dell'Africa tra le ore 22 e le 23. L'ondata si abbatté infatti, con violenza inaudita sulla Terra, la invase, travolse tutto nella sua rovina e andò a infrangersi contro le falde delle montagne. Ma, per fortuna, la massima parte degli abitanti della Terra, grazie ai velocissimi mezzi di trasporto, aveva fatto in tempo a mettersi al sicuro. Quando il rumore dell'urto giunse agli orecchi dei mortali, esso fu accolto con grida di giubilo: invece di annunciare un disastro, quell'interminabile boato annunciava la fine di un incubo. Robur assunse il comando di una squadra di 27 velivoli. In costante comunicazione radio-telefonica con Vir, egli puntò direttamente verso l'Atlantico ad una velocità oraria di km 1.200. In capo a tre ore una spettacolosa montagna bianca che occupava tutto l'orizzonte, gli si parò dinnanzi: era l'enorme massa lunare emergente dall'oceano. [...] | << | < | > | >> |Pagina 83La fiaba ch'io vi racconto non incomincia colle parole «c'era una volta», perché non è una delle solite fiabe del tempo passato. Essa non è nemmeno una fiaba del tempo presente, per il semplice fatto che precorre i tempi e narra avvenimenti di là da venire.
I ragazzi del giorno d'oggi, che s'interessano di ludi sportivi e di
scoperte scientifiche, possono leggerla liberamente, senza correre il rischio di
annoiarsi o di compromettere il loro decoro di bimbi moderni.
Alle soglie dell'anno tremila, cioè tra circa undici secoli, la Terra sarà popolata da due sole razze d'uomini, per gusti, per abitudini e per idee, in assoluto contrasto tra di loro. Una razza di studiosi sedentari occuperà l'Applicania. Dedita alle ricerche scientifiche, agli studi filosofici e matematici, questa razza abiterà una immensa città industriale regolabile a mezzo di comandi automatici. Lo sviluppo enorme del cervello avrà, in un lungo giro di secoli, atrofizzato quasi completamente il busto, le braccia e le gambe di questi uomini intellettuali, riducendoli a vere e proprie teste ambulanti. Un'altra razza d'uomini, muscolare e dinamica, si muoverà invece in lungo e in largo sull'immenso territorio della Ludesia. Dedita esclusivamente alla vita igienica e ai ludi sportivi, questa razza farà consistere tutta la felicità della vita nel giocare e nello spostarsi con la più fantastica velocità, per terra, per aria e per acqua. Lo sviluppo enorme dei muscoli avrà, in un lungo giro di secoli, atrofizzato quasi completamente la testa di questi uomini giganteschi, riducendola a una bocca e a due occhi seminascosti tra le pieghe delle spalle. Siccome gli abitanti della Ludesia non avranno il tempo di lavorare, dovranno fornirsi di cibi chimici dai cerebrali dell'Applicania, indebitandosi fino ai capelli che non avranno. Penso V re d'Applicania, insisterà invano per avere un acconto: i Ludesii, ora colla scusa di un incontro di calcio, ora colla pretesa di una gara aerea, non tireranno mai fuori un soldo.
Insisti oggi, insisti domani, Re Penso finirà per perdere la pazienza: le
relazioni fra i due stati diventeranno estremamente tese e finalmente, il 10
agosto del 3032, scoppierà la più terribile delle guerre future.
Due milioni di soldati meccanici, azionati a distanza per mezzo di onde corte, vengono mobilitati e lanciati alla conquista della Ludesia. Due milioni di siluri vengono sguinzagliati sul mare e due milioni di elicotteri lanciabombe vengono lanciati a stormi nel cielo. In meno di dieci minuti, il mondo intero si oscura tra un crepitio di mitraglia, e un tambureggiare di scoppi. Ma i Ludesii, pieni di spirito sportivo, non perdono la testa per così poco. Si affidano alla velocità che è il loro forte. Degni discendenti dei grandi assi del pedale e del volante, essi compiono una spettacolosa fuga in massa, approfittando del fatto che le fughe, che per un guerriero rappresentano un'onta, sono invece un onore per chi è sportivo nell'anima. Il territorio di Ludesia, magnificamente sistemato come una immensa pista, si presta magnificamente allo scopo. Soldati meccanici, elicotteri e siluri non trovano davanti a loro che il vuoto. A sera, esaurita la dotazione dei proiettili, rientrano in Applicania, vincitori.
Pure vincitori, i muscolosi Ludesii rincasano, la sera, sorbiscono
ventiquattro uova di struzzo a testa, si fanno un buon massaggio e schiacciano
un pisolino.
Penso V, Re d'Applicania, è nervosissimo. Il controllo degli apparecchi a distanza offre degli inconvenienti e permette al nemico di aggirare le posizioni. Bisognerebbe che qualcuno seguisse il movimento delle truppe, dall'alto; ma, si sa, i cerebrali sono tutti dei teorici che funzionano benissimo a tavolino, ma, tolti dal loro tavolino, sono come dei pesciolini fuori dall'acqua. Andrò io! dice a un tratto il principino Ci, figlio terzogenito di Re Penso, offrendosi volontario. Si mette, senza tanti complimenti, un elmetto a cuffia contenente un motorino e sormontato da un'elica, e spicca il volo dalla terrazza della reggia. Una specie di ventaglio, manovrato coi piedini, gli serve da timone. Passa tra fitte nubi d'elicotteri, varca i confini dell'Applicania, si libra alto sul territorio nemico. Sebbene il lungo studio l'abbia reso estremamente miope, ha gli occhi muniti di due potenti telescopi che gli permettono di vedere a grandissima distanza: ogni mossa degli eserciti viene da lui segnalata al Comando Supremo per mezzo di una minuscola antenna che porta infissa sulla punta del naso. Diretti e sorvegliati dall'alto, i soldati automatici serrano le file, convergono a destra e a sinistra, serrano i fugaci Ludesii in una morsa di ferro, di fuoco e di gas... Ma s'ode a un tratto un colpo secco: l'elica del principino Ci vola in ischeggie, colpita da un disco di metallo. Che cosa è accaduto? Milone, Re di Ludesia, campione mondiale del lancio del disco, ha fatto il più preciso, il più spettacoloso tiro di tutta la sua vita. Al principino volante non rimane che discendere a candela, servendosi dei paraorecchi come paracadute. Ma l'urto è forte e le sue gambette atrofizzate si insaccano. Le operazioni guerresche, per mancanza di segnalazioni, rimangono sospese. Milone ride forte, solleva Ci tra due dita e lo fissa con curiosità. Mi hai vinto! dice il principino al Re nemico. Sono prigioniero ed ai tuoi ordini! Prendimi sulle spalle e portami dove vuoi. Re Milone non se lo fa dire due volte. Si mette sulle spalle quell'esserino tutto testa, vivente prova della sua grande vittoria. Ma quell'esserino tutto testa è furbo e sta già meditando il suo piano. Re Milone! dice sottovoce. Re Milone! Tu sei l'uomo più forte del mondo e il mondo intero finirà per essere tuo! La razza dei cerebrali è in decadenza, perché ha consumato tutta la sua vitalità sui libri: l'avvenire è di coloro che studiano poco e godono ottima salute come te! Il re, ch'è un colosso e, come tutti i colossi è anche un gran bonaccione, si meraviglia molto di sentire un nemico parlare così, ma siccome quel che sente lusinga molto il suo amor proprio, lascia dire. Guardati nello specchio, e vedrai come sei bello! insinua il principino. Il Re si fa portare un grande specchio e si accorge di essere infatti bellissimo: non soltanto ha delle membra muscolose e perfette, ma possiede, cosa nuova, anche una testa (quella di Ci) che gli sta così bene sulle spalle da parer quasi la sua. Se la mia testa ti piace, tienila pure! dice, cortese, il principe. Sarà per me un vero onore ubbidire al corpo più forte del mondo! Milone, lusingatissimo, s'inchina e ringrazia. Il principino dice allora: Come sarebbe bello se tutti i tuoi sudditi potessero avere ai loro ordini una testa come hai tu! La cosa sarebbe facilissima. Basterebbe che ognuno di voi facesse prigioniero uno dei nostri e se lo mettesse a sedere sulle spalle. L'idea mi va! dice Milone. Insegnami come ho da fare. Era proprio quel che il principino voleva. Coll'aria di suggerire, egli fece fare a Re Milone tutto quel che voleva. Gli fece riunire e schierare l'esercito, lo fece piombare a grandissima velocità sull'Applicania, lo lanciò all'assalto. Tutte le porte della città erano aperte spalancate, perché Ci aveva trasmesso a suo padre l'ordine di far così. I Ludesii occuparono la città nemica senza colpo ferire. Ognuno di essi fece prigioniero un intellettuale e se lo mise sulle spalle, come trofeo di vittoria, pensando in cuor suo: Ecco che finalmente i corpi comanderanno alle teste!
I Ludesii si sbagliavano di grosso. Le teste, saldamente piantate sui colli,
avevano vinto la loro battaglia. Comandarono, come era loro abitudine,
coll'arma del ragionamento e della persuasione, e i corpi, malgrado tutti i
loro muscoli, ubbidirono, senza nemmeno accorgersi, anzi credendo di
comandare. E le due razze, quella degli intelligenti e quella dei forti, si
fusero in una sola, con vantaggio del buon senso.
Questi fatti accadranno infallibilmente nell'agosto del 3032, a meno che il buon senso non trionfi prima. | << | < | > | >> |Pagina 131I padri della fantascienza, si sa, sono Jules Verne e Herbert Georges Wells , ma la fantascienza moderna è soprattutto dal secondo che procede, e dalla sua opera ha ricavato la maggior parte dei suoi temi. Ora, mentre la fantascienza italiana della prima metà del Novecento si muove, con poche eccezioni, nella tradizione verniana, è piuttosto a Wells che, come gli autori americani della stessa epoca, Rubino fa riferimento. Θ questo uno dei motivi per cui le sue «Fiabe del futuro» ci appaiono un'opera ancora moderna e attuale. L'influenza di Wells, che considereremo nella seconda parte di questa appendice commentando i singoli racconti, apre a Rubino gli orizzonti del possibile, che in Verne, senza nulla togliere ai suoi meriti letterari, restano limitati da una cauta estrapolazione dei dati tecnico-scientifici della sua epoca. I temi wellsiani sono per altro sviluppati da Rubino con grande originalità e liberati dalla seriosità che spesso appesantisce le opere dell'autore inglese, cosicché la sua fantascienza supera in qualità la science fiction americana degli stessi anni, che, essenzialmente avventurosa e spesso puerile, all'inizio degli anni Trenta muoveva i suoi primi passi manifestando un'incondizionata ammirazione nei confronti delle meraviglie della tecnica. Rubino invece è ironico e criticamente acuto quando parla di scienza e tecnologia e non disdegna i temi sociologici, che tratta per lo più in chiave antiutopistica, senza evitare ai suoi giovanissimi lettori qualche amara considerazione sul futuro dell'umanità. Negli Stati Uniti per avere una fantascienza di questo livello letterario e filosofico, altrettanto ironica e critica, attenta agli aspetti sociologici dei futuri che immagina, occorrerà attendere la fine degli anni Quaranta. D'altra parte, dal punto di vista ideologico, la science fiction è per molti aspetti l'equivalente americano, e popolare, del Futurismo, e le fiabe del futuro, pubblicate in un'epoca in cui la parola italiana "fantascienza" non esisteva ancora, dovettero essere recepite all'epoca della loro prima pubblicazione come racconti "futuristi". Di Futurismo si è spesso parlato a proposito delle illustrazioni di Rubino, facendo il più delle volte il nome di Fortunato Depero, senza però mai considerare le illustrazioni di questi racconti, che più di altre si prestano a questo confronto. Ma con il Futurismo la fantascienza di Rubino è in realtà in polemica, per quanto amichevole: Rubino guarda al futuro con occhio disincantato, segnala lucidamente i pericoli della tecnologia e dell'industrializzazione, diagnostica l'alienazione della società neocapitalista, così come l'America permetteva di prevederla, e la sua satira non risparmia affondi ai tic e agli slogan, dal mito della velocità al museo «come cimitero dell'arte», del movimento di Marinetti. Ma anche di questo parleremo nelle note ai racconti, per concentrarci qui sulla storia del libro Le cronache del futuro, nel quale Rubino avrebbe voluto raccogliere i suoi racconti fantascientifici. Rubino si era avvicinato alla fantascienza già nel 1910 con le illustrazioni per Pippo Sizza aviatore di Giuseppe Fanciulli, che narra di come il protagonista, atterrato sulla cometa di Halley con il suo aeroplano, compia un viaggio nello spazio, e poi nel 1919 con Viperetta, un romanzo di pura fantasia, ambientato però sulla Luna e con qualche elemento scientifico. Il suo primo vero racconto di fantascienza dovrebbe essere Un bimbo radioattivo, pubblicato nel 1932 nel «Corriere dei piccoli», che inaugurava di fatto la serie delle «Fiabe del futuro». Rubino era tornato a collaborare al settimanale dopo una parentesi in cui aveva prima lavorato per «Il Balilla», da cui era stato allontanato pare per i contenuti irriverenti e "disfattisti" delle sue tavole a quadretti, e poi fondato e diretto per La Rinascente «Mondo Bambino». Dal 1932 al 1934, anno alla fine del quale Rubino lasciò nuovamente il «Corriere dei piccoli» per assumere la direzione di «Topolino», uscirono sul giornalino altri undici racconti fantascientifici, cioè la quasi totalità delle «Fiabe del futuro», o «del Duemila», o del «del tempo futuro», come sono definite nei loro sottotitoli.
[...]
Renato Giovannoli
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