Copertina
Autore Franco Sacchetti
Titolo Il Trecentonovelle
EdizioneUTET Libreria, Torino, 2008 [2004], Classici italiani 67 , pag. 722, cop.fle., dim. 12x19x3,8 cm , Isbn 978-88-02-08044-4
CuratoreDavide Puccini
LettoreGiovanna Bacci, 2009
Classe classici italiani , citta': Firenze
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Indice


  7 Introduzione

 31 Nota biografica
 43 Nota bibliografica
 49 Nota al testo

    IL TRECENTONOVELLE

 63 Proemio

    - Novella II, 65
    - Novella III, 67
    - Novella IV, 71
    - Novella V, 75
    - Novella VI, 77
    - Novella VII, 80
    - Novella VIII, 82
    - Novella IX, 84

[...]

    - Novella CCXXX, 663
    - Novella CCXXXI, 665
    - Novella CCXXXII, 667
    - Novella CCLIV, 667
    - Novella CCLV, 668
    - Novella CCLVIII, 669

673 Indice dei nomi

691 Indice delle voci annotate e
    delle notizie linguistiche principali


 

 

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Pagina 7

INTRODUZIONE



Uomo «discolo e grosso», cioè ignorante e rozzo, si dichiara Franco Sacchetti nel proemio del Trecentonovelle, e l'affermazione è stata spesso ripresa dalla critica, che se ne è servita perlopiù, soprattutto in passato, come documento autentico per mettere in evidenza e quasi certificare i limiti artistici dell'autore. Purtroppo il proemio, come l'intera opera, ci è giunto lacunoso e mutilo, e non possiamo seguire per filo e per segno fino in fondo l'argomentazione del Sacchetti, ma certamente il suo atteggiamento è molto più complesso di una pura e semplice confessione di ignoranza, e al contrario è probabile che sotto l'apparente modestia, già tradizionale e ripresa poi proprio dai dotti umanisti, si nasconda una punta di orgoglio se non la rivendicazione di un merito o addirittura una dichiarazione di poetica. Intanto, che l'ottica sia questa ce lo può dimostrare il fatto che poco prima il Decameron è giudicato «materiale cosa», cioè grossolana, come appunto sostenevano i dotti e lo stesso Boccaccio, non certo i borghesi che ne decretarono il successo. È un punto di vista che senza dubbio appartiene anche al Sacchetti (o a cui volentieri si uniforma), il quale nella canzone Or è mancata ogni poesia (Libro delle rime, CLXXXI), scritta per la morte del Boccaccio, lo esalta come autore delle Esposizioni sopra la Comedia di Dante e delle opere erudite in latino, non del Decameron. Insomma, se un letterato della statura del Boccaccio si è abbassato a scrivere il libro delle cento novelle, a maggior ragione può farlo un uomo «discolo e grosso».

Ma ci sono argomenti di maggior rilievo. Il Sacchetti si definisce «uomo grosso» anche nella lettera del 15 aprile 1397 (vicinissima, cronologicamente, al proemio del Trecentonovelle, di solito assegnato, sia pure su basi tutt'altro che solide, agli anni 1397-98), con cui invia ad Astore Manfredi i dodici sonetti in difesa della pace: «gli quali come uomo grosso ho composti grossamente, a ciò che apertamente siano intesi, però che li scritti sottili sono da molti chiosati e variamente contro a la 'ntenzione de gli autori che li compuosono» (la lettera, si badi bene, è trascritta dall'autore nel manoscritto autografo del Libro delle rime, e quindi non ha carattere privato, ma di dichiarazione ufficiale). Come si vede, l'«uomo grosso» rivendica quanto meno il merito di una franchezza e di una chiarezza che non si prestino a equivoci. Nel Libro delle rime non mancano poi altri esempi di «grosso» con preciso riferimento allo stile: nel sonetto a Gian Colonna, che risale al 1399, parla di «materiale ingegno / de' grossi versi» e di «rozzo dettato» (CCXCIX, 5-6); nel capitolo dei Bianchi dichiara: «compunsi e scrissi in grosso stil poetico» (CCCII, 3).

Quanto a «discolo», c'è più di un precedente rispetto al proemio. Bartolomeo da Castello della Pieve nella prosetta latina preposta al sonetto mandato a Franco (Libro delle rime, CXXXIXa), databile forse intorno al 1370, definisce sé stesso «discolum», 'uomo ignorante', e ripete il concetto al v. 5 del sonetto: «e discoletto [ignorantello] assai più ch'io non mostro». Ancora in latino il secondo episodio, e riguarda la prima lettera del Sacchetti, in risposta a quella piena di elogi di Bernardo di ser Pistorio, che risale probabilmente al 1373: Franco definisce la propria locutio «materialis et grossa» e sé stesso «discolus». Infine, quasi al termine del Libro delle rime, nel sonetto CCCIIIb databile intorno al 1399, il Sacchetti riprende il diminutivo «discoletto» usato da maestro Bartolomeo, in un'affermazione che può servire da prima chiave di lettura per il proemio del Trecentonovelle. «Spirto benigno sempre ognun fa sacro / con lode di virtù, che fama l'empia, / e mai di sé non mostra adorna tempia, / porgendo d'esser discoletto e acro», che si può spiegare: 'Un animo benevolo consacra ognuno con lode di virtù, in modo che la fama lo esalti, e mai mostra sé stesso adorno di gloria, affermando anzi di essere ignorantello e rozzo'. La coppia «discoletto e acro» corrisponde perfettamente a «discolo e grosso», in quanto la sostituzione del secondo termine è del tutto giustificata dal fatto che il sonetto, responsivo, riprende le stesse parole-rima della proposta.

Sono dunque privi di qualunque fondamento quei giudizi critici limitativi che si basavano sull'espressione «discolo e grosso» intendendola alla lettera, come se si trattasse di un'ammissione di incapacità. Ma non basta: occorre prendere in considerazione un'ipotesi più avanzata e radicale, e cioè che quella del «discolo e grosso» sia una vera e propria poetica, una rivendicazione di originalità e quasi una divisa distintiva indossata dal Sacchetti in modo via via più consapevole, magari una poetica nata a posteriori, come giustificazione dell'esistente, vale a dire del già scritto, o come presa di coscienza di una tendenza ravvisabile nella propria scrittura e nata istintivamente. Ci sembra che tale ipotesi risulti autorizzata dalla stessa insistenza con cui l'autore ritorna sul concetto: numerose volte in pochi anni (1397-99) e in parti diverse dell'opera (proemio del Trecentonovelle, lettere, varie rime), con congrue anticipazioni di oltre vent'anni prima, che possono documentare il sorgere ancora confuso e il lento prender forma dell'idea. L'ultimo trecentista, come lo definisce il De Sanctis, non poteva sfuggire in nessun caso al destino di «minore» in un secolo che era cominciato con l'elaborazione e la diffusione della Commedia dantesca ed era stato poi dominato dalle figure gigantesche di Petrarca e Boccaccio, ancor più dominato, se possibile, nello scorcio del suo ultimo quarto dopo la loro morte. Alle tre corone il Sacchetti rende ripetutamente omaggio, e soprattutto i versi di Dante sono spesso citati come verità immutabili, quasi si trattasse di massime ormai proverbiali o addirittura di sentenze bibliche; ma con la poetica dell'uomo «discolo e grosso» lo scrittore, mentre riconosce questa sua «minorità», se ne fa allo stesso tempo scudo e insegna, in modo da ritagliarsi uno spazio in cui operare autonomamente, sia pure all'ombra di tanta grandezza.


Arriviamo così al cuore del Trecentonovelle, alla sua particolare struttura (in cui la multiforme varietà dei temi si organizza in modo più unitario di quanto di solito non si pensi), al suo particolarissimo registro linguistico e stilistico. Cominciamo dalla struttura e dall'articolata ma non dispersiva ricchezza della materia. Come gli altri narratori dell'ultimo Trecento, Ser Giovanni Fiorentino e Giovanni Sercambi, anche il Sacchetti prende le distanze dall'inarrivabile modello del Boccaccio (il che non esclude, anzi a ben vedere implica, il continuo confronto con il Decameron), rifiutando la cornice e sostituendo alle voci dei narratori di secondo grado la sua presenza costante, ora apertamente dichiarata, ora implicita ma non meno avvertibile.

[...]

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Pagina 63

PROEMIO
[1] del Trecento Novelle, composte per Franco Sacchetti cittadino di Firenze.



Considerando al presente tempo e alla condizione de l'umana vita, la quale con pestilenziose infirmità e con oscure morti è spesso vicitata; e veggendo quante rovine con quante guerre civili e campestre in essa dimorano; e pensando quanti populi e famiglie per questo son venute in povero e infelice stato e con quanto amaro sudore conviene che comportino la miseria, là dove sentono la lor vita esser trascorsa; e ancora immaginando come la gente è vaga di udire cose nuove, e spezialmente di quelle letture che sono agevoli a intendere, e massimamente quando dànno conforto, per lo quale tra molti dolori si mescolino alcune risa; [2] e riguardando in fine allo eccellente poeta fiorentino messer Giovanni Boccacci, il quale descrivendo il libro delle Cento Novelle per una materiale cosa, quanto al nobile suo ingegno, quello è divulgato e richie che in sino in Francia e in Inghilterra l'hanno ridotto alla loro lingua, e grand<...>so; io Franco Sacchetti fiorentino, come uomo discolo e grosso, mi proposi di scrivere la presente opera e raccogliere tutte quelle novelle le quali, e antiche e moderne, di diverse maniere sono state per li tempi e alcune ancora che io vidi e fui presente e certe di quelle che a me medesimo sono intervenute.

[3] E non è da maravigliare se la maggior parte delle dette novelle sono fiorentine, che a quelle sono stato prossima, e se non al fatto più presso a la <...> [4] e perché in esse si tratterà di condizioni di genti, come di marchesi e conti e cavalieri, e di grandi e piccoli, e così di grandi donne, mezzane e minori e d'ogni altra generazione; nientedimeno nelle magnifiche e virtuose opere seranno specificati i nomi di quelli tali; nelle misere e vituperose, dove elle toccassino in uomni di grande affare o stato, per lo migliore li nomi loro si taceranno; pigliando essempio dal vulgare poeta fiorentino Dante che, quando avea a trattare di virtù e di lode altrui, parlava egli, e quando avea a dire e' vizi e biasimare altrui, lo facea dire alli spiriti.

[5] E perché molti, e spezialmente quelli a cui in dispiacere toccano, forse diranno, come spesso si dice: «queste son favole», a ciò rispondo che ce ne saranno forse alcune, ma nella verità mi sono ingegnato di comporle. Ben potrebbe essere, come spesso incontra, che una novella sarà intitolata in Giovanni, e uno dirà: ella intervenne a Piero; questo serebbe piccolo errore, ma non sarebbe che la novella non fosse stata. E altri potran dire <...>

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Pagina 118

NOVELLA XXV
[1] Messer Dolcibene per sentenza del Capitano di Forlì castra con nuovo ordine uno prete, e poi vende li testicoli lire ventiquattro di bolognini.


[2] La seguente novella di messer Dolcibene, della quale voglio ora trattare, fu da dovero, dove la passata fu una beffa.

[3] Nel tempo che messer Francesco degli Ardalaffi era signore di Forlì, una volta fra l'altre v'arrivò messer Dolcibene: e volendo il detto signore per essecuzione fare castrare un prete e non trovandosi alcuno che 'l sapesse fare, il detto messer Dolcibene disse di farlo elli. Il capitano non averebbe già voluto altro, e così fu fatto. [4] E messer Dolcibene fece apparecchiare una botte e, sfondata da l'uno de' lati, la mandò in su la piazza facendo là menare il prete, ed elli col rasoio e con uno borsellino andò nel detto luogo.

[5] Giunti là e l'uno e l'altro, e gran parte di Forlì tratta a vedere, messer Dolcibene, avendo fatto trarre le strabule al prete, lo fece salire su la botte a cavalcioni e li sacri testicoli fece mettere per lo pertugio del cocchiume. [6] Fatto questo, ed elli entrò di sotto nella botte e, col rasoio tagliata la pelle, gli tirò fuora e misseli nel borsellino e poi gli misse in uno carniere, però che s'avisò, come malizioso, di guadagnare, come fece. Il prete doloroso, levato di su la botte, ne fu menato così capponato a una stia e là alquanti dì si fece curare. Il capitano di queste cose tutto godea.

[7] Avvenne poi alquanti dì che uno cugino del prete venne a messer Dolcibene in segreto, pregandolo caramente che quelli granelli gli dovesse dare, ed elli farebbe sì che serebbe contento; però che 'l prete capponato sanza essi dire messa non potea. [8] Messer Dolcibene, aspettando questo mercatante, gli avea già misalti e asciutti, e quanto gli dicesse, e come si mercatasse, egli n'ebbe lire ventiquattro di bolognini. Fatto questo, con grandissima festa disse al capitano che così fatta mercanzia avea venduta; e 'l sollazzo e la festa che 'l capitano ne fece non si potrebbe dire. [9] E in fine, per diletto e non per avarizia, della quale fu nimico, disse che volea questi denari e che li aparteneano a lui. Messer Dolcibene si potéo assai scuotere, ché convenne che tra le branche di Faraone si cavassono lire dodici di bolognini, dando la metade al detto capitano.

[10] E così rimase la cosa, che 'l prete se n'andò senza granelli, de l'uno de' quali ebbe il capitano lire dodici, e messer Dolcibene altre tanti dell'altro.

[11] Questa fu una bella e nuova mercatania: così delle simili si facessono spesso, ché ne serebbe molto di meglio il mondo; e che fossono tratti a tutti gli altri, acciò che, ricomperandosi, avessono l'uno e l'altro danno, e poi gli si portassono in uno borsellino, che almeno non serebbono li viventi venuti a tanto che bandissono ogni dì le croci sopra le mogli altrui e che tenessono le femine alla bandita, chiamandole chi amiche e chi mogli e chi cugine; e li figliuoli che ne nascono, loro nipoti gli battezzano, non vergognandosi d'avere ripieni li luoghi sacri di concubine e di figliuoli nati di così dissoluta lussuria.

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Pagina 126

NOVELLA XXIX
[1] Un cavaliero di Francia, essendo piccolo e grasso, andando per ambasciadore innanzi a papa Bonifazio, nell'inginocchiarsi gli vien fatto un peto, e con bel motto emenda il difetto.


[2] Io uscirò ora alquanto di quelle materie e inganni ragionati di sopra e verrò a un piacevole motto che un cavaliere francesco gittò dinanzi a papa Bonifazio ottavo.

[3] Uno cavaliere valente di Francia fu mandato per ambasciadore con alcun altro dinanzi a papa Bonifazio, che aveva nome messer Ghiriberto, il quale era bassetto di sua persona e pieno e grasso quanto potea. E giunto il dì che costui dovea sporre questa ambasciata, come uomo non usato a simil faccenda, domandò alcuno che reverenza si costumava fare quando un suo pari andava dinanzi al Papa. Fugli detto che convenia che s'inginocchiasse tre volte per la tal forma. [4] Essendo il cavaliere di tutto informato, andò il dì medesimo dinanzi al Papa per dispor la imbasciata; e volendo fare destramente più che non potea la sua persona, s'inginocchiò la prima volta; come che gli fosse fatica, pur n'uscìo; venendo alla seconda inginocchiazione, la fatica della prima agiugnendosi con la seconda e 'l voler far presto e non potere, lo costrinse a far sì che la parte di sotto si fe' sentire. [5] E 'l cavaliere, veggendo esser vituperato, subito ccorse, dandosi delle mani nell'anche, dicendo: – Lascia parlare moi, che mala mescianza vi don Doi –.

Papa Bonifazio, che ogni cosa avea sentito, e ancora il piacevole motto dello ambasciadore, disse: – Dite ciò che voi volete, che io v'intenderò bene –.

[6] E giugnendo a piè del Santo Padre, con grande sollazzo il ricevette; ed elli seguìo la sua ambasciata, e per averla sposta con due bocche ebbe meglio dal Papa ciò che domandò.

[7] Molto fu da gradire il tostano rimedio di questo cavaliero, il quale, sentendosi contra il suo volere caduto in tal vergogna, subito ricorse a quello, che altro rimedio non vi era né più piacevole. [8] Altri scientifichi uomeni già sono stati che, dicendo una ambasciata dinanzi al Papa, sanza che caso sia occorso loro di vergogna, sono cascati, non sapiendo perché, in sì fatta maniera che sono penati una gran pezza a ritornare in loro.

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Pagina 197

NOVELLA LXIII
[1] A Giotto gran dipintore è dato uno palvese a dipingere da un uomo di picciolo affare. Egli facendosene scherne, lo dipinge per forma che colui rimane confuso.


[2] Ciascuno può aver già udito chi fu Giotto, e quanto fu gran dipintore sopra ogn'altro. [3] Sentendo la fama sua un grossolano artefice e avendo bisogno, forse per andare in castellaneria, di far dipignere un suo palvese, subito n'andò alla bottega di Giotto, avendo chi gli portava il palvese drieto, e giunto dove trovò Giotto, disse: – Dio ti salvi, maestro; io vorrei che mi dipignessi l'arme mia in questo palvese –.

[4] Giotto, considerando e l'uomo e 'l modo, non disse altro, se non: – Quando il vo' tu? –

E quel glielo disse. Disse Giotto: – Lascia far me –.

E partissi. [5] E Giotto, essendo rimaso, pensa fra sé medesimo: – Che vuol dir questo? Sarebbemi stato mandato costui per ischerne? Sia che vuole; mai non mi fu recato palvese a dipignere: e costui che 'l reca è uno omicciatto semplice, e dice che io gli facci l'arme sua, come se fosse de' reali di Francia; per certo io gli debbo fare una nuova arme –.

[6] E così pensando fra sé medesimo, si recò finanzi il detto palvese e, disegnato quello gli parea, disse a un suo discepolo desse fine alla dipintura; e così fece. La qual dipintura fu una cervelliera, una gorgiera, un paio di bracciali, un paio di guanti di ferro, un paio di corazze, un paio di cosciali e gamberuoli, una spada, un coltello e una lancia.

[7] Giunto il valente uomo che non sapea chi si fosse, fassi finanzi e dice: – Maestro, è dipinto quel palvese? –

Disse Giotto: – Sì bene; va', recalo giù –.

[8] Venuto il palvese, e quel gentiluomo per procuratore il comincia a guardare, e dice a Giotto: – O che imbratto è questo che tu m'hai dipinto? –

Disse Giotto: – E' ti parrà ben imbratto al pagare –.

Disse quelli: – Io non ne pagherei quattro danari –.

Disse Giotto: – E che mi dicestù che io dipignessi? –

E quel rispose: – L'arme mia –.

Disse Giotto: – Non è ella qui? Mancacene niuna? –

Disse costui: – Ben istà –.

[9] Disse Giotto: – Anzi sta mal che Dio ti dia, e dèi essere una gran bestia, che chi ti dicesse: «Chi se' tu?» a pena lo sapresti dire; e giungi qui e di': «Dipignimi l'arme mia». Se tu fussi stato de' Bardi, serebbe bastato. Che arma porti tu? Di qua' se' tu? Chi furono gli antichi tuoi?" Deh, che non ti vergogni! Comincia prima a venire al mondo, che tu ragioni d'arma, come stu fussi il Dusnam di Baviera. Io t'ho fatta tutta armadura sul tuo palvese; se ce n'è più alcuna, dillo, e io la farò dipignere –.

[10] Disse quello: – Tu mi di' villania, e m'hai guasto un palvese –.

E partesi, e vassene alla Grascia e fa richieder Giotto.

[11] Giotto comparì, e fa richieder lui, adomandando fiorini dua della dipintura: e quello domandava a lui. Udite le ragioni gli officiali, che molto meglio le diceva Giotto, giudicarono che colui si togliesse il palvese suo così dipinto e desse lire sei a Giotto, però ch'egli aveva ragione: onde convenne togliesse il palvese e pagasse, e fu prosciolto. [12] Così costui, non misurandosi, fu misurato; ché ogni tristo vuol fare arma e far casati; e chi? Tali che li loro padri seranno stati trovati agli ospedali".

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Pagina 316

NOVELLA CXIV
[1] Dante Allighieri fa conoscente uno fabbro e uno asinaio del loro errore, perché con nuovi volgari cantavano il libro suo.


[2] Lo eccellentissimo poeta volgare, la cui fama in perpetuo non verrà meno, Dante Allighieri fiorentino, era vicino in Firenze alla famiglia degli Adimari; ed essendo apparito caso che un giovane cavaliere di quella famiglia, per non so che delitto, era impacciato e per esser condennato per ordine di iustizia da uno essecutore, il quale parea avere amistà col detto Dante, fu dal detto cavaliere pregato che pregasse l'essecutore che gli fosse raccomandato. Dante disse che 'l farebbe e volentieri. [3] Quando ebbe desinato, esce di casa e aviasi per andare a fare la faccenda; e passando per porta San Piero, battendo ferro uno fabbro su la 'ncudine, cantava il Dante come si canta uno cantare e tramestava i versi suoi, smozzicando e appiccando, che parea a Dante ricever di quello grandissima ingiuria. Non dice altro, se non che s'accosta alla bottega del fabbro, là dove avea di molti ferri con che facea l'arte; piglia Dante il martello e gettalo per la via, piglia le tanaglie e getta per la via, piglia le bilance e getta per la via, e così gittò molti ferramenti. [4] Il fabbro, voltosi con un bestiale, dice: – Che diavol fate voi? Sète voi impazzato? —

Dice Dante: — O tu che fai? -

- Fo l'arte mia, – dice il fabbro – e voi guastate le mie masserizie, gittandole per la via –.

Dice Dante: – Se tu non vogli che io guasti le cose tue, non guastare le mie –.

Disse il fabbro: – O che vi guast'io? –

Disse Dante: – Tu canti il libro e non lo di' com'io lo feci; io nu ho altr'arte, e tu me la guasti –.

[5] Il fabbro, gonfiato, non sapiendo rispondere, raccoglie le cose e torna al suo lavorìo; e se volle cantare, cantò di Tristano e di Lancelotto e lasciò stare il Dante; e Dante n'andò all'essecutore, com'era inviato. [6] E giungendo all'essecutore e considerando che 'l cavaliere degli Adimari che l'avea pregato era un giovane altiero e poco grazioso quando andava per la città, e spezialmente a cavallo, che andava sì con le gambe aperte che tenea la via, se non era molto larga, che chi passava convenia gli forbisse le punte delle scarpette (e a Dante, che tutto vedea, sempre gli erano dispiaciuti così fatti portamenti), dice Dante allo essecutore: – Voi avete dinanzi alla vostra Corte il tale cavaliere per lo tale delitto; io ve lo raccomando, come che egli tiene modi sì fatti che meriterebbe maggior pena; e io mi credo che usurpare quello del Comune è grandissimo delitto –.

[7] Dante non lo disse a sordo; però che l'essecutore domandò che cosa era quella del Comune che usurpava. Dante rispose: – Quando cavalca per la città, e' va sì con le gambe aperte a cavallo, che chi lo scontra conviene che si torni adietro, e non puote andare a suo viaggio –.

Disse l'essecutore: – E pàrciti questo una beffa? Egli è maggiore delitto che l'altro –.

Disse Dante: [8] – Or ecco, io sono suo vicino, io ve lo raccomando –.

E tornasi a casa, là dove dal cavaliere fu domandato come il fatto stava.

Dante disse: – E' m'ha risposto bene –.

[9] Stando alcun dì, e 'l cavaliere è richiesto che si vada a scusare dell'inquisizione. Egli comparisce, ed essendogli letta la prima, e 'l giudice gli fa leggere la seconda del suo cavalcare così largamente. Il cavaliere, sentendosi raddoppiate le pene, dice fra sé stesso: – Ben ho guadagnato, che dove per la venuta di Dante credea esser prosciolto, e io sono condennato doppiamente –.

[10] Scusato, accusato che si fu, tornasi a casa e, trovando Dante, dice: – In buona fé, tu m'hai ben servito, che l'essecutore mi volea condennare d'una cosa, finanzi che tu v'andassi; da poi che v'andasti, mi vuole condennare di due –.

E molto adirato verso Dante disse: – Se mi condannerà, io sono sofficiente a pagare, e quando che sia ne meriterò chi me n'è cagione –.

[11] Disse Dante: – Io v'ho raccomandato tanto che, se fuste mio figliuolo, più non si potrebbe fare; se lo essecutore facesse altro, io non ne sono cagione –.

[12] Il cavaliere, crollando la testa, s'andò a casa. Da ivi a pochi dì fu condennato in lire mille per lo primo delitto, e in altre mille per lo cavalcar largo; onde mai non lo poté sgozzare, né egli né tutta la casa degli Adimari.

E per questo, essendo la principal cagione, da ivi a poco tempo fu per Bianco cacciato di Firenze e poi morì in essilio, non sanza vergogna del suo Comune, nella città di Ravenna.

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Pagina 319

NOVELLA CXV
[1] Dante Allighieri, sentendo un asinaio cantare il libro suo e dire: arri, il percosse dicendo: — Cotesto non vi miss'io —; e lo rimanente come dice la novella.


[2] Ancora questa novella passata mi pigne a doverne dire un'altra del detto poeta, la quale è breve, ed è bella. [3] Andandosi un dì il detto Dante per suo diporto in alcuna parte per la città di Firenze, e portando la gorgiera e la bracciaiuola, come allora si facea per usanza, scontrò uno asinaio, il quale avea certe some di spazzatura inanzi; il quale asinaio andava drieto agli asini, cantando il libro di Dante, e quando avea cantato un pezzo, toccava l'asino, e diceva:

– Arri –.

[4] Scontrandosi Dante in costui, con la bracciaiuola li diede una grande batacchiata su le spalle, dicendo: – Cotesto arri non vi miss'io –.

Colui non sapea né chi si fosse Dante, né per quello che gli desse; se non che tocca gli asini forte, e pur: – Arri, arri –.

[5] Quando fu un poco dilungato, si volge a Dante, cavandoli la lingua e facendoli con la mano la fica, dicendo: – Togli! –

Dante, veduto costui, dice: – Io non ti darei una delle mie per cento delle tue –.

[6] O dolci parole piene di filosofia! Che sono molti che sarebbono corsi dietro a l'asinaio e gridando e nabissando; ancora tali che averebbono gittate le pietre; e 'l savio poeta confuse l'asinaio, avendo commendazione da qualunche intorno l'avea udito così savia parola, la quale gittò contr'a uno sì vile uomo come fu quell'asinaio.

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Pagina 442

NOVELLA CLIX
[1] Uno cavallaccio di Rinuccio di Nello sciogliendosi per correre drieto a una cavalla in Firenze, e 'l detto Rinuccio seguendolo, con nuovi casi fece quasi correre a seguirlo la maggior parte de' Fiorentini.


[2] Uno cittadino molto antico d'anni e nuovo di costumi fu, non è gran tempo, nella città di Firenze, il quale ebbe nome Rinuccio di Nello, uomo assai di famiglia antico; e stava presso a Santa Maria Maggiore. Costui avea sempre cavallo per suo cavalcare che era più nuovo di lui, e non so da qual razza si veniano quelli cotanti che tenne ne' suoi dì, che tutti pareano più sgraziato l'uno che l'altro. [3] Fra gli altri, quasi ne l'ultimo della sua vita, n'ebbe uno che parea uno cammello, con una schiena che parea Pinza di Monte e con una testa di mandragola; la sua groppa era che parea un bue magro; quando elli li dava una spronata, e' si movea d'un pezzo, come se fosse di legno, alzando il muso verso il cielo; e sempre parea adormentato, se non quando avesse veduto una ronzina; allora, rizzando la coda, un poco anitriva e spetezzava. Non era però da maravigliare se 'l detto cavallo era incordato, però che gli dava spesso a rodere sermenti per paglia e ghiande per biada. [4] Avenne un giorno per caso che, volendo cavalcare il detto Rinuccio, avendo appiccato il detto cavallo di fuori nella via ed essendo venuta una ronzina alla piazza dove si vendono le legne, che era quasi dirimpetto alla sua casa, ed essendosi sciolta da uno arpione, cominciò a fuggire per la via dov'era appiccato il detto cavallo; il quale, come sentì la giumenta correre dirietro, tiròe la testa a sé con sì dura maniera che ruppe uno briglione assai forte; però che il detto Rinuccio l'avea fatto fare in prova, mostrando a ciascuno per quello che 'l cavallo fosse sì poderoso che a pena si potea governare. Tirato a dietro la testa con tutta la persona, spezzò la briglia e, voltosi dietro alla cavalla verso Santa Maria Maggiore, gli tenne dietro furioso, com'è d'usanza degli stalloni.

[5] Rinuccio, che era per uscire fuori e montare a cavallo, sente un gran romore, che ogni uomo correa drieto a tanta novità; fassi alla porta, non truova il cavallo, domanda dove gli è ito. Uno calzolaio gli dice: – Rinuccio mio, il vostro cavallo ne va drieto a una cavalla col mazzafrusto teso, e in su la piazza di Santa Maria Maggiore mi parve gli salisse a dosso: soccorretelo, ché si potrebbe troppo ben guastare –.

[6] Rinuccio non dice: – Che ci è dato? –: mettesi a corso, e con gli sproni in piede fu più volte presso che caduto; e tenendo per nuove vie drieto a questa sua buscalfana, pervenne in Mercato Vecchio; là dove giunto, vide il cavallo a dosso alla ronzina; e ciò veggendo, comincia a gridare: – San Giorgio, San Giorgio! –

[7] I rigattieri cominciano a serrare le botteghe, credendo che 'l romore sia levato. Le bestie entrano tra' beccai, che allora stavano alla scoperta in mezzo della piazza; e giugnendo a uno desco d'uno che avea nome Giano, che vendea le vitelle, la ronzina si gettò sul detto desco e 'l cavallo drietole per forma che Giano, che era assai nuovo pesce, fu presso che morto; e le pezze della vitella di latte, che erano tese per lo desco, furono tutte peste e convertironsi in pezze di vitella di loto. E 'l detto Giano, quasi come smemorato, fuggì in una bottega di speziale. E Rinuccio aombrato gridava: — San Giorgio! —

E Giano gridava: — Oimè, ch'io sono diserto! —

[8] Colui di cui era la ronzina era tuttavia drieto con un bastone, e volendo atutar la concupiscenza della carne dava di gran bastonate, quando al cavallo e quando alla ronzina; e spesse volte, quando dava al cavallo, e Rinuccio gli si gettava a dosso, e dicea: — Per Santo Loi, che, tu dài al mio cavallo, che io darò a te —.

E così pervennono con questo romor per Calimala, là dove tutti i ritagliatori gittavano i panni dentro e serravono le botteghe. [9] Chi dicea: — Che è? — E chi dicea: — Che vuol dir questo? —, e chi stava come smemorato; e molti seguivono le bestie, le quali, voltesi per lo chiassolino che va in Orto San Michele, entrorono tra' granaiuoli e le bigonce del grano che si vendea sotto 'l palagio, dov'è l'Oratorio, e scalpitarono molti granaiuoli.

[10] E di quelli ciechi, che sempre ve ne stavano assai nel detto luogo al Pilastro, sentendo il romore ed essendo sospinti e scalpitati, non sapiendo il caso del romore, menavano i loro bastoni, dando or a l'uno e or a l'altro.

[11] La maggior parte di quelli che si sentivano dar del bastone si rivolgeano a loro non sapiendo che fossono ciechi. Altri, che sapevo che coloro erano ciechi, diceano e riprendeano quelli che contro a loro faceano; e quelli tali si rivolgeano loro a dosso. E così chi di qua e chi di là, e chi per un verso e chi per un altro, si cominciarono a ingoffare, facendo molte mislee da più parti; e con queste mischie uscirono fuori de Orto San Michele le scuccomede, non essendo ancora attutato il caldo del bestiale amorazzo del cavallo, anzi più tosto cresciuto, e forse con alcune pugna che ebbe Rinuccio e quello della ronzina, giunsono, così percotendosi e con busso e con romore, su la piazza de' Priori. [12] Li quali Priori e chi era in palagio, veggendo dalle finestre tanto tumultuoso popolo giugnere da ogni parte, ebbono per certo il romore essere levato. Serrasi il palagio e armasi la famiglia, e così quella del capitano e dello essecutore. Su la piazza era tutto pieno, e parte combatteano con pugna, e gran parte d'amici e parenti erano drieto a Bucifalasso e a Rinuccio per aiutarlo, che già non potea più.

[13] Come la fortuna volle, il cavallo e la ronzina quasi congiunti entrorono nella corticella dello essecutore, là dove lo essecutore, per grandissima paura, non sapiendo che fosse, ma avisandosi che 'l furore del populo gli venisse per uno che avea tra mano, del quale era gran contesa che non morisse, ed elli il volea far morire, si fuggì drieto a un letto d'un suo notaio, e di là entrò sotto la lettiera, essendo già quasi mezzo armato. [14] Il popolo ancora si bussava in gran parte con le pugna, ed era per venire a' ferri; se non che subito la porta dello essecutore, la qual già mai non si serra, fu subito serrata, e a gran fatica fu preso il cavallo e la giumenta, li quali tutti gocciolavono di sudore, e Rinuccio di Nello era più morto che vivo, e non sudava però che non avea omore, e le rotelle degli sproni gli erano cascate di dietro e intrate sotto le piante, le quali gli aveano laceri tutti gli fiossi de' piedi. [15] Li Signori rassicurati, ch'aveano veduto ciò che era, mandarono comandatori e famiglia ad acchetare la zuffa e 'l romore, e con bandi e con comandamenti ebbono assai che fare di potere acchetare la moltitudine.

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