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| << | < | > | >> |Indice5 La verosimiglianza della montagna 11 Un Padre della Patria PARTE PRIMA - I Racconti 29 Avventure in montagna 45 Una caccia sulle Montagne Rocciose 51 Le valanghe degli Urali 63 Una caccia ai leoni sull'Atlante 75 Sulla frontiera albanese PARTE SECONDA - Scritti vari 87 Un'escursione a Punta Quinseina 97 Gli stambecchi 99 I montanari albanesi 101 Prefazione a "Al Polo Nord" PARTE TERZA - "Per terra e per mare" 115 La montagna in una rivista d'avventure 127 Il misterioso Tibet 133 L'Edelweiss 135 Il mal di montagna 139 La pianta delle nevi 141 Una terribile ascensione |
| << | < | > | >> |Pagina 5Lasciando ad altri più esperti l'esegesi storica e letteraria di un autore atipico come Salgari, in questa introduzione abbiamo preferito limitarci ad alcune osservazioni sul contenuto dei testi salgariani direttamente o indirettamente dedicati alla montagna. La prima impressione che se ne ricava è quella di una certa approssimazione nella descrizione delle tecniche alpinistiche e dell'ambiente montano, soprattutto in confronto agli scrittori suoi contemporanei e vicini geograficamente, segnatamente i classici De Amicis e Guido Rey , assai più precisi ed esperti del mondo alpino. Se invece si intende la montagna in un'accezione più generale, comprendendo flora e fauna, descrizioni geografiche, localizzazioni territoriali, allora la precisione di Salgari diventa impressionante; come è stato notato, le sue fonti sono innumerevoli e anche alquanto aggiornate rispetto all'epoca in cui scrive, cioè a cavallo tra il XIX e il XX secolo, segnatamente nel periodo tra il 1895 e il 1909. Non si può dire che Salgari fosse uno specialista dal punto di vista strettamente tecnico-alpinistico, ma che fosse un uomo attento e curioso certamente sì. Come per molti altri ambienti descritti nei suoi romanzi e racconti egli fa tesoro delle esperienze personali per poi trasfigurarle e ricrearle attraverso la sua fervida fantasia. Dalla sua frequentazione del Canavese - per anni scelse la cittadina di Cuorgnè prima come sua residenza e, successivamente, quale luogo di villeggiatura - vengono le descrizioni delle campagne di caccia agli stambecchi dei monarchi Savoia, così pure l'esperienza dei cercatori d'oro sul torrente Orco, poi fantasiosamente riprodotti in ambienti geografici lontanissimi come le Montagne Rocciose in Alaska. Ma è dalla lettura e dalla consultazione di riviste, libri, atlanti geografici, relazioni di viaggi, che Salgari desume una mole impressionante di elementi che costruiscono complessivamente quella verosimiglianza della montagna che è probabilmente la chiave di lettura della sua scrittura sull'argomento. Le caratteristiche principali del suo approccio possono essere sintetizzate in alcuni punti. Il cosmopolitismo. Qualunque sia la fonte da cui l'autore attinge le sue informazioni, ogni esperienza viene trasposta e trasfigurata dalla lontananza geografica. Fidando su un mix straordinario di fantasia ed elementi veri - o perlomeno verosimili - lo scrittore ci porta sulle montagne di tutto il mondo, dal Riff del Marocco agli Urali, dalle Montagne Rocciose all'Albania, al Tibet, ai vulcani dell'est europeo, al mondo sconosciuto del Borneo. Lì, in luoghi che, si sa, l'autore non ha mai visto di persona, vengono "esportate" e adattate le più straordinarie esperienze e avventure, che sembrano più vere del vero. Il cosmopolitismo diviene poi esotismo se, a corredo e complemento della trama del racconto, si intrecciano usi, costumi, credenze, luoghi comuni e anche i pregiudizi tipici della cultura "fin de siècle". In effetti talora l'esotismo sconfina in forme sottili di razzismo; l'interesse di Salgari per queste popolazioni "diverse" si scontra con i pregiudizi prevalenti della sua epoca: l'avversione per i popoli balcanici appellati «macedoni e bulgari banditi», i giudizi sorprendentemente severi verso il mondo tibetano e i buddhisti in particolare. Mitico il brano in cui sfata la leggenda della reincarnazione in un piccolo tibetano, raccontando l'imbroglio che permette di perpetuare questa credenza presso i seguaci di Buddha. L'avventura. É il plot narrativo che fa sempre da sfondo a ogni vicenda. Figlia del positivismo ottocentesco, della fede nella scienza e nel progresso, dell'illusione che tutto possa essere esplorato e compreso. In questo Salgari appartiene al mondo sognato da Edgar Allan Poe e raccontato poi magistralmente da Jules Verne. L'esplorazione. É l'incarnazione concreta dell'avventura, non a caso i libri più affascinanti da questo punto di vista riguardano i Poli. Proprio negli anni in cui Salgari scriveva "Al polo australe in velocipede" (1895), "Nel paese dei ghiacci" (due racconti del 1896), "Al Polo Nord" (1898), "La Stella Polare e il suo viaggio avventuroso" (1901), "Una sfida al Polo" (1909), si svolgeva la grande corsa per la conquista dell'Artide prima e dell'Antartide subito dopo. A un secolo di distanza per noi rimane difficile distinguere la storia vera (Peary al Polo Nord nel 1909 e Amundsen nel 1911 al Polo Sud) dalle fantastiche avventure uscite dalla penna di Salgari. Gli uomini. Gli eroi salgariani della montagna sono principalmente di due tipi. Da un lato gli abitanti della montagna, che ovviamente non sono i montanari e i contadini, ma coloro che la affrontano, ostile com'è, in situazioni "estreme". Sono i cacciatori di lupi e di grizzly, i minatori, i cercatori d'oro, i soldati. Dall'altro lato compaiono, a partire dalle avventure polari, i nobili, gli snob, i giornalisti ficcanaso, insomma chi, all'inizio del XX secolo, poteva permettersi il lusso di confrontarsi con i suoi pari in imprese rischiose, non a fini scientifici, ma per una sfida "sportiva" (in questo, erede diretto del «terreno di gioco» di Leslie Stephen). Le donne. Poco spazio nei racconti di montagna per l'universo femminile, relegato a ruoli subalterni e di retrovia, in attesa del ritorno dei protagonisti. Sono madri, mogli, fidanzate, che vivono di vita riflessa. La natura. Certamente si tratta di una delle passioni prevalenti di Salgari. Non vi è descrizione che non sfoci in un panorama mozzafiato: in questo senso, la salita delle montagne sembra quasi finalizzata a queste entusiastiche conclusioni narrative. Flora e fauna sono poi parte essenziale della narrazione. Nella descrizione dei falchi, dei galli di montagna, degli stambecchi, dei grizzly, dei lupi, delle vipere, Salgari mette la passione del neofita e talora la pedanteria dell'entomologo, a dimostrazione della serietà con cui affronta anche temi a lui poco noti. La stessa cosa per la flora montana, dall'immancabile edelweiss, all'elleboro, alla soldanella, al bucaneve. E nel caso degli animali non è difficile scorgere in trasparenza l'umanizzazione dei loro comportamenti, dove questi vengono "caricati" di vizi e virtù, quasi a renderceli ancor più familiari. Certo Salgari conosceva gli illustratori d'oltralpe, in particolare il Grandville che di questa intuizione aveva fatto il proprio cavallo di battaglia, antesignano di un altro genio, Walt Disney, che qualche anno dopo proprio sugli animali umanizzati avrebbe costruito il suo impero. La valanga. Tra i fenomeni naturali che hanno affascinato Salgari, come le eruzioni laviche e le tempeste, quello delle valanghe è il tema che ha ispirato uno dei racconti più belli e toccanti, riproposto in questo volume: "Le valanghe degli Urali", firmato con pseudonimo G. Altieri. La storia del pastore che rimane sepolto sotto una valanga nella sua baita, insieme ai due figlioletti e alle capre per intere settimane e poi, miracolosamente, sopravvive è narrata con piglio sicuro e alta partecipazione emotiva. Pur non avendo noi prove apodittiche, ci viene il sospetto che Salgari abbia avuto sottomano il classico libro di Ignazio Somis sulla valanga di Bergemoletto, avvenuta nel 1755. Qui le tre donne del fatto reale diventano tre uomini, il luogo non è più la Valle Stura del Cuneese, ma nientemeno che gli Urali.
Le coincidenze sono troppe per essere casuali: diverse settimane di
sopravvivenza, determinante la presenza di pecore e capre, lo sfiato
provvidenziale per respirare, la legna da ardere, i travi per rafforzare il
tetto, il fieno per nutrire le bestie, l'arrivo tardivo ma salvifico dei
soccorritori allo sciogliersi delle nevi.
Dunque, un grande affabulatore, Emilio Salgari. Non il vero, ma il verosimile. Non la realtà, sempre piuttosto prosaica, ma il sogno dell'avventura e dell'ignoto, assai più affascinante al mare così come sulle montagne. | << | < | > | >> |Pagina 51La catena dei monti Urali, che separa per un lunghissimo tratto l'Europa dall'Asia, al pari di quella delle nostre Alpi si è acquistata una triste celebrità per le sue valanghe. Ogni anno, durante la stagione invernale, un gran numero di capanne vengono interamente distrutte e talvolta perfino villaggi interi vengono sepolti sotto quegli enormi ammassi di neve assieme con gli abitanti, e le vittime si contano talvolta a centinaia. Sono i gelidi e impetuosissimi venti che producono quelle catastrofi tanto temute. La popolazione è scarsa sui fianchi di quei monti, però paga largamente il suo tributo all'inverno. Alcuni anni or sono, in una vallata di quelle montagne, si era radunata una famigliola, composta dal padre, già vecchio minatore, e da due ragazzi; uno di quindici e l'altro di dieci anni. Il minatore aveva costruito una casupola di legno, un'isba come la chiamano i contadini russi, cercando di renderla solidissima affinché potesse resistere alle valanghe, e aveva raccolto quattro capre del Tibet, dicendo ai due ragazzi di farle pascolare. Mentre i piccini se ne andavano attraverso le gole delle montagne, il minatore scendeva nei torrenti e lavorava le sabbie, cercando le pagliuzze d'oro, mestiere molto aspro, ma che però era sufficientemente compensato. Nei giorni piovosi, invece, quando l'abbondanza d'acqua rendeva impossibile il lavoro, Gurko - così chiamavano il vecchio - si recava nelle selve più fitte a cacciare gli orsi, ancora molto numerosi su quelle montagne. Alla sera poi il vecchio mungeva le capre insieme coi fanciulli e si preparava la cena, molto magra, ma appetitosa per quella famigliola che lavorava da mane a sera sulla montagna. L'estate era passata felicemente. Gurko aveva fatto una discreta raccolta di polvere d'oro e i fanciulli avevano riempito la tettoia dell'isba di legna, per poter affrontare i rigori dell'inverno. Anche le provviste erano state rinnovate, acquistandole in una borgatella che si trovava sull'opposto versante della montagna. Ai primi di dicembre la neve era cominciata a cadere a larghe falde, coprendo i burroni e le boscaglie e accumulandosi in quantità straordinaria attorno le cime della catena. Il vecchio Gurko era stato costretto a interrompere i suoi lavori e anche le sue cacce, e a rinchiudersi nella capanna insieme coi figli e le capre. Non avrebbe nemmeno osato lasciarli soli, perché sapeva che la neve cacciava a basso gli orsi, e anzi ne aveva veduto più d'uno ronzare nella gola. E poi temeva di venire sorpreso dalle valanghe. Che cosa sarebbe avvenuto dei due ragazzi se una disgrazia lo avesse colpito durante una delle sue escursioni? I poveretti sarebbero addirittura morti, essendo ancora troppo piccoli per pensare a se stessi e incapaci di attraversare quei monti aspri per raggiungere il villaggio più prossimo. Però, se il freddo e la prudenza li obbligavano a starsene rinchiusi nella loro isba, non perdevano inutilmente il loro tempo. Gurko, aiutato dal primogenito, si fabbricava nuovi arnesi per lavorare le sabbie aurifere o conciava le pelli degli animali uccisi durante le sue scorrerie o accomodava le vesti di tutti, mestiere che aveva appreso alla morte della moglie. Il figlio minore, invece, aveva cura delle capre, dava loro da mangiare e le mungeva mattina e sera. Già mezzo inverno era trascorso senza che alcun avvenimento fosse accaduto e Gurko cominciava a rallegrarsene, quando un brutto giorno, mentre stavano seduti a tavola mangiando la solita zuppa di segala col latte, udirono un rombo spaventevole. Gurko si era alzato pallidissimo, dicendo ai figli: - È caduta una valanga nella vallata. Deve essere passata vicino a noi. Uscì dopo aver rassicurato i due ragazzi e si spinse fuori dalla tettoia. Un'enorme valanga, staccatasi dalla cima del Paulinskoj, la vetta sovrastante quella parte della catena, era rotolata nella valle, schiantando nella sua corsa furibonda un numero di antichissimi faggi e accavallandosi in un profondo burrone. Gurko, guardando verso la vetta, s'accorse che la massa nevosa era diventata così immensa, da costituire un gravissimo pericolo per la sua capanna. Nuove valanghe minacciavano di rotolare dall'alto e qualcuna poteva piombare là, dove aveva trovato ricovero la famigliola. - Bisognerà sloggiare - disse il vecchio minatore. - La vita dei miei figli è troppo preziosa. Sloggiare! Si faceva presto a dirlo, ma come mettere in pratica il progetto? Il villaggio si trovava sul versante opposto della catena, a più di dieci ore di marcia, e tutti i passi della montagna erano diventati impraticabili a causa dell'enorme quantità di neve già caduta. E poi come arrischiarsi su quelle vette e tra quei burroni col freddo intenso che regnava all'aperto? Avrebbero potuto resistere i due ragazzi? Gurko, in preda a questi pensieri, era rientrato nella capanna, cercando di nascondere, ma invano, le sue preoccupazioni. - Padre - disse Nicola, che era il primogenito - è caduta una valanga? - Sì, ragazzo mio - rispose il minatore. - Però non spaventatevi: non corriamo alcun pericolo. - Io non ho paura della neve - disse il piccolo Michele. Neanche le mie capre si preoccupano delle valanghe. - Andate a letto e dormite tranquilli - disse Gurko. - La nostra isba è sicura. - Li condusse nella loro stanzetta, poi, quando li udì russare, tornò ancora sotto la tettoia. Era molto inquieto e sentiva per istinto che un grave pericolo lo minacciava. Fuori soffiava un vento impetuosissimo il quale, dopo aver percorso le gelide contrade della Siberia, s'abbatteva contro la catena, urlando e ruggendo in mille modi. In mezzo alle foreste si udivano i rauchi ululati dei lupi, e in lontananza qualche cupo rombo annunziante la caduta di qualche nuova valanga. - Anche i lupi sembrano inquieti - si disse il minatore che questa notte debba succedere qualche grave disgrazia? Rimase qualche po' sotto la tettoia, esposto al nevischio che il vento trascinava giù per le chine; poi rientrò, sedendo presso la stufa ancora accesa. I due ragazzi dormivano placidamente. Pareva che il pericolo che minacciava la casa l'avessero già dimenticato. Gurko, invece, sentiva aumentare i suoi terrori e prestava orecchio ai ruggiti sempre più acuti del vento siberiano. Finalmente, stanco da quella lunga veglia, si era assopito presso la stufa. Quanto dormì? Non poté saperlo. Fu improvvisamente svegliato dagli urli dei lupi. Pareva che quegli animali fuggissero, passando presso la capanna. Ad un tratto un rumore sordo, che aumentava con incredibile rapidità, giunse ai suoi orecchi. Si precipitò subito verso la porta, temendo che la disgrazia attesa fosse per accadere. Stava per aprirla, quando l'intera capanna oscillò spaventosamente come se fosse stata urtata da una massa enorme. - Nicola! Michele! - gridò, slanciandosi verso la cameretta. Fuggite. La valanga.... I due fanciulli, svegliati di soprassalto dalle grida del padre e dai belati delle capre, si erano gettati giù dal letto e si erano stretti al vecchio genitore. In quel momento la capanna subì una seconda oscillazione, più spaventevole della prima, e alcune travi caddero al suolo schiantate. Gurko, tenendo fra le braccia i figli, si era diretto verso la porta e subito aveva dovuto retrocedere. Il passaggio era stato ormai chiuso dalla neve, accumulatasi in quantità enorme sulla capanna. Una prima valanga l'aveva in parte coperta, poi la seconda l'aveva sepolta completamente, otturando la porta e le finestre. Il minatore dapprima si credette perduto, poi, vedendo che la capanna, malgrado l'enorme peso che era costretta a reggere, non cedeva, cominciò a sperare. Non piangete, fanciulli miei - disse a Michele e a Nicola, i quali gli stringevano attorno, tremando di freddo e di paura. - Dio ci ha protetti e non ci abbandonerà. - Non morremo soffocati, padre? - chiese Nicola. | << | < | > | >> |Pagina 75Una folta nebbia calava a poco a poco dalle alte giogaie, che attraversano il vilayet di Prichtina e che segnano o meglio, dovrebbero segnare, il confine fra la selvaggia Albania e la bella e fertile pianura della Macedonia, e le ombre della sera coprivano i villaggi devastati e ormai deserti, resi per sempre muti dalla ferocia mussulmana. Un soldato, che indossava il pittoresco costume dei montanari albanesi, coll'ampia veste bianca, il giubbetto tutto adorno di ricami e che cavalcava uno di quei piccoli e vellosi animali che solo si trovano bene fra le aspre montagne dall'apparenza meschina eppure d'una resistenza straordinaria, risaliva lentamente la riva, ingombra di sterpi e di canneti, d'uno di quei fiumiciattoli che solcano in gran numero le pianure macedoni. Era un bel giovane di forse venticinque anni, dagli occhi ed i capelli nerissimi, di forme quasi erculee, quantunque la taglia fosse elegante e non massiccia. Pareva immerso in profondi pensieri e sembrava non prestasse alcuna attenzione allo scrosciare delle acque, né che la nebbia che continuava a calare freddissima, né le tenebre lo preoccupassero, quantunque attraversasse una regione frequentata dalle bande degl'insorti bulgari e macedoni anelanti di sangue turco. Una profonda tristezza trapelava sul viso del giovane albanese. Una improvvisa fermata del cavalluccio lo strappò finalmente dalle sue meditazioni. Una casetta, formata di tronchi d'albero col tetto di stoppie, aveva chiuso il passo dell'animale. L'albanese, scorgendola, non aveva potuto frenare una esclamazione di gioia e, senza servirsi delle staffe, era balzato agilmente a terra, mandando un sospiro. Dalle strette finestre della casupola trapelavano due piccoli fasci di luce. - Madre! - gridò il giovane. La porta si aprì subito e una donna un po' curva, coi capelli bianchi, comparve, gettando sul giovane uno sguardo sospettoso, ma poi un grido le era sfuggito. - Tu, mio Osman? - disse, gettandogli le braccia al collo e stringendolo violentemente al petto. - Che cosa sei venuto a fare qui, figlio mio, in questi monti? Non sai che sono qui? Che ieri hanno messo a ferro e fuoco Kajars? - Chi? - chiese il giovane. - I macedoni, gl'insorti. Un sorriso di sprezzo comparve sulle labbra del giovane. - Quelli non sono che dei banditi, che non faranno mai paura ad un suddito del Sultano. Non sono un bulgaro io. Si vede, mamma, che tu non mi conosci. Abbracciami ancora madre. Vengo dalla frontiera macedone e sono due giorni che galoppo per venire a trovarti. La vecchia indietreggiò di qualche passo e contemplò estatica, commossa e fiera, i bottoni lucenti, l'elegante divisa ed i galloni che ornavano le maniche del giovane. - Dei gradi! - esclamò. - Guadagnati sul campo di battaglia - disse Osman, sorridendo. - Mio padre, se fosse ancora vivo, credo che sarebbe orgoglioso di suo figlio. - Egli riposa sempre nella grande montagna sotto l'enorme frana che i bulgari fecero cadere sopra di lui - rispose la vecchia, con un sordo singhiozzo. - Quando la guerra sarà finìta e la mezzaluna del profeta avrà fatto abbassare le bandiere rosseggìanti degli insorti, andrò a cercare il suo cadavere, se la morte mi risparmierà - disse Osman. Poi, dopo un breve silenzio ed un certo imbarazzo, chiese, quasi timidamente: - E lei? Sul viso della vecchia apparve come una nube. Fece un nuovo passo indietro e lo fissò a lungo, aveva compreso che il giovane soffriva. - É una bulgara - disse poi. - Che cosa vuoi dire, madre? - chiese il giovane con ansietà. - È partita dopo che i nostri figli della montagna hanno bruciato il suo viaggio e la sua fattoria, e si trova fra le bande dei suoi compatrioti. - Lei! - esclamò Osman con doloroso stupore. - Sì, figlio. I nostri le hanno fucilato il padre e da quel momento si è messa in campagna contro i sudditi del Sultano. Per nascondere il proprio turbamento, l'albanese pestava il suolo coll'estremità della scimitarra ed aveva voltati gli sguardi, diventati improvvisamente umidi, verso il suo peloso cavalluccio, che cercava di mordicchiare i rami d'un magro cespuglio. - Addio, madre - disse ad un tratto. - Non ho avuto che quattro giorni di permesso e la frontiera macedone è molto lontana da qui. Se le palle mi risparmieranno, tornerò un giorno coi galloni d'oro e tu sarai maggiormente orgogliosa di tuo figlio. Io non ho paura dei macedoni, quantunque si siano mostrati valorosi avversari. - Come!... Parti di già? - Non si deve scherzare colla disciplina militare, madre, ed io ci tengo a essere un buon soldato, come lo fu, nella mia gioventù, mio padre. La patria ed il Sultano innanzi a tutto. Dopo di che montò in sella, appendendo la scimitarra all'arcione. - Guardati dai bulgari, Osman - gli disse la povera vecchia, con voce angosciata. - Un albanese della montagna non ha paura di quei briganti - rispose Osman. - Addio madre! La notte era ormai diventata cupa e la nebbia aveva invasa tutta l'immensa pianura di Prichtina, nascondendo le alte giogaie della catena balcanica. Osman aveva abbandonate le briglie sulla folta criniera del suo cavallo, che fiancheggiava il fiume a testa bassa, a piccolo trotto. Il giovane pensava forse al padre morto là, sulla gelata montagna non ancora sepolto in terra santa, né benedetto dal muezzin, e alla madre invecchiata e appassionata. Quante cose erano accadute in un anno! Combattimenti terribili, sconfitte disastrose, le armi bulgaro-macedoni trionfanti e la bellissima fanciulla bulgara scomparsa e schieratasi fra gli avversari... Quella Sava, che egli aveva segretamente e così immensamente amata e alle cui dipendenze aveva lavorato guadagnandosi la dura vita. Smarrito nel passato, rivide l'infanzia, quando scorreva colla vaga e ricca fanciulla le fertili pianure di Prichtina, alla caccia dei falchi e dei deliziosi galli di montagna. Erano cresciuti insieme, ella in bellezza, perché quantunque bulgara aveva avuto il sangue d'un esiliato russo, fino a che una sera, durante una festa, si era accorto d'amarla... poi la guerra era scoppiata coi macedoni amanti di libertà, egli era partito, coi turchi aveva veduto orribili combattimenti, aveva assistito a spaventose carneficine, ma tutto ciò non aveva cancellato il ricordo della fanciulla. Un colpo di fucile, sparato a poca distanza, lo strappò bruscamente dai suoi pensieri. Il cavallo aveva abbandonata la riva del fiume e si era cacciato in una gola profonda, che da un lato era fiancheggiata da un orribile precipizio, in fondo a cui rumoreggiavano cupamente le acque d'un torrente. Era quello un passaggio pericoloso, ben noto agli albanesi, che lo passavano di solito a gran galoppo, perché battuto frequentemente dalle bande macedoni. Al primo sparo era seguita una scarica violentissima, senza che alcun proiettile giungesse a destinazione. Osman, accortosi del pericolo, aveva allargate le gambe ed allentate le briglie, per lasciare maggiore libertà al cavallo. Questi, comprendendo il pericolo che minacciava il suo padrone, era partito ventre a terra, con impeto straordinario. Una seconda scarica era partita dalla cima d'una cresta dominante il burrone. Osman, che era rimasto nuovamente illeso, si era messo a ridere. - I bulgari sono pessimi soldati - aveva detto. - Non valgono gli albanesi della montagna. Una palla in quel momento gli fischiò agli orecchi ed il suo fez, adorno del turbantino, volò via. - Questo è un vero soldato - mormorò il giovane. - Sarà qualcuno di quegli ufficiali bulgari che comandano... Non poté finire. Era stato improvvisamente scaraventato colla testa innanzi in mezzo ad un cespuglio foltissimo di nocciuoli selvatici, mentre il cavallo cadeva, colle zampe in aria, quattro metri dietro di lui. Quando si rialzò, una ventina d'uomini armati gli stavano intorno. Erano tutti bei pezzi di giovanotti, col capo coperto da berrettoni di pelo di pecora nera, larghe casacche attraversate da due cartucciere incrociate e alte uose che salivano fino al ventre. Anche il suo cavallo si era levato, perché pareva che non si fosse spezzata alcuna gamba, però prima che avesse potuto prendere la corsa era stato fermato da uno di quei robusti giovanotti. - Che cosa volete voi? - aveva chiesto Osman, saettando gli uomini con uno sguardo di fuoco. Un uomo, più attempato degli altri, si era fatto innanzi, dicendo freddamente: - La tua vita: preparati a morire. - Un soldato della mezzaluna non teme la morte - disse Osman, fieramente. - Sono un albanese della montagna io e non già un cane infedele. - Lo sappiamo - rispose il capo della banda, con accento un po' sarcastico. - Tuttavia, se vuoi, potresti ancora salvare la pelle. Dinanzi agli occhi del giovane albanese passò, come una visione, la pallida figura della vecchia madre o forse qualche altra ancora. - In quale modo? - chiese, dopo una lunga esitazione. - Tu appartieni, se non m'inganno, alla cavalleria d'Ali Pascià? - É vero. - Quello che ha avuto l'incarico di spazzare il vilayet di Prichtina dalle bande insorte. - Non lo nego. - Per quale gola devono passare i suoi squadroni? - Che cosa dici tu, vecchio? - gridò l'albanese, indignato. - Vi sono due vie che conducono attraverso le montagne - disse l'insorto. - Se mi dici quale prenderà Ali Pascià, tu avrai salva la vita. - Quella del diavolo - rispose Osman. Il capo degli insorti fece un segno ai suoi, i quali caricarono frettolosamente i loro fucili. - Appoggiatelo alla roccia! - aveva comandato il capo - e legatelo. Due insorti si erano fatti innanzi, tenendo in mano delle corde, quando i cespugli che costeggiavano la gola si aprirono impetuosamente ed una giovane dai capelli biondi, gli occhi azzurri, dal corpo svelto e nervoso che modellavasi squisitamente in una veste grigia cortissima, si slanciò fra gli insorti, gridando: - Fermi tutti!... Un urlo era sfuggito dalle labbra dell'albanese. - - Sava!... La giovane bulgara si era avvicinata al prigioniero, colle mani sui fianchi, guardandolo sorridente. - Osman - disse - il figlio del nostro fattore... Poi aggiunse con dolore. - Lo sapevo che saresti passato fra i nostri nemici della montagna. Ma ora sei nostro, Osman, sei preso e l'albanese che è stato amico mio, di mio padre e di mio fratello, dimenticherà la mezzaluna e diverrà un insorto. - È impossibile, Sava - rispose Osman, con voce triste - Io sono un figlio della montagna e non conosco che un solo padrone: il Sultano. - Vedremo - disse la fanciulla. Con un gesto energico fece allontanare gl'insorti, poi si avvicinò all'albanese e, fissandolo in viso, gli disse: - Un giorno i tuoi padri, condotti da Skanderberg, lottarono estremamente contro i turchi e si copersero di gloria. Tu sei figlio di uno di quegli eroi, che erano cristiani e non già adoratori della mezzaluna. Rinunzia alla nuova religione che fu imposta ai tuoi avi colla scimitarra alla gola e vieni a combatter l'odiato mussulmano e servi la santa causa della libertà. Osman scosse il capo. - Sono turco, oggidì - disse - ed ho giurato fede al Sultano. Sono un soldato ed un tradimento Osman non lo farà mai. | << | < | > | >> |Pagina 97Avrete udito a parlare qualche volta degli stambecchi, che vivono sulle nostre Alpi, e forse ne avrete veduto qualcuno esposto nella vetrina di qualche venditore di selvaggina; ma sono certo che non conoscete i costumi di questi animali. Vi dirò adunque, che gli stambecchi sono selvaticissimi, che non si lasciano domare e che perciò si tengono sempre lontani dai luoghi abitati dagli uomini. Vivono qualche volta a branchi, talvolta vanno soli, e si tengono sempre sulle più alte cime delle nostre Alpi, fra le rocce e le nevi, accontentandosi di brucare un po' di magra erba che cresce stentatamente fra i macigni. Come dissi, sono selvaticissimi e sospettosissimi: quindi vivono in continuo allarme e si lasciano molto difficilmente avvicinare dai cacciatori. Corrono come i cervi, balzando di roccia in roccia con rapidità e sicurezza sorprendente, varcando larghi crepacci, e non temono di gettarsi nei profondi abissi delle montagne, riparandosi colle loro grosse e robuste corna. Avviene quindi talvolta di vedere stambecchi colle corna spezzate. Assaliti dai cacciatori, fuggono; ma messi alle strette, specialmente i maschi, si difendono ferocemente e si gettano disperatamente contro i nemici, percuotendoli colle corna e colle zampe. Parecchi cacciatori sono stati gettati nei burroni dagli stambecchi, ed altri sono ritornati ai loro villaggi molto malconci. Alcuni anni or sono, un inglese, che visitava le nostre montagne, fu assalito da un vecchio stambecco che lo aveva scambiato per un cacciatore, e il povero uomo fu mezzo accoppato dalle corna e dalle zampe dell'animale. I cacciatori li cercano dovunque, essendo la carne degli stambecchi eccellente, ed anche il nostro re Umberto tutti gli anni si reca a cacciarli, uccidendone moltissimi. | << | < | > | >> |Pagina 127La spedizione inglese, organizzata dal governo angloindiano per imporre al misterioso Tibet, quasi mai violato da secoli da alcun piede europeo, una specie di protettorato, ha richiamato in questi giorni più che mai l'attenzione dell'Europa e soprattutto ha messo in vivo orgasmo il colosso russo. Lhassa, la città dei Buddha, la città misteriosa, meta di tutti i viaggiatori, la città inviolabile, ha veduto per la prima volta entrare le truppe anglo-indiane, guidate dall'intrepido generale Macdonald e dal colonnello Younghusband, senza che i suoi celebri templi cadessero e senza che la collera di Bhudda si scatenasse e sterminasse gli audaci invasori. Che cos'è innanzi tutto quel paese misterioso, si chiederanno, non senza ragione, i nostri lettori?... Ecco: è uno dei più vasti regni dell'Asia centrale confinante colla China, che da secoli esercita una certa influenza, anzi una specie di protettorato più nominale che effettivo però, e coll'India inglese, ma che nell'istesso tempo è anche il meno conosciuto, perché i tibetani, gelosissimi guardiani dei loro territorii, hanno sempre impedito ai viaggiatori europei d'inoltrarvisi. Infatti, fino ad oggi, non ostante i molti tentativi fatti, nessuno è mai riuscito a porre il piede in Lhassa, anzi nemmeno a vederla da lontano. Le immense montagne che separano il Tibet dall'India, le più alte del mondo, essendo formate dalle catene dell'Imalaya ed i deserti che lo dividono dalla Mongolia, nonché gli immensi altipiani nevosi, hanno reso sempre difficilissime quelle esplorazioni, senza contare le ostilità degli abitanti. Dire quale superficie abbia il Tibet sarebbe impossibile, ignorandosi le sue vere frontiere. Che abbia una vastità immensa, forse pari e fors'anche di più della penisola indostana, è probabile, ma non si crede che abbia una popolazione superiore ai nove od ai dieci milioni di abitanti. Pochissime sono le sue città, e tutte meschine, all'infuori di Lhassa, la capitale, la sede del Buddha vivente o meglio del Gran Lama, personaggio considerato come divino, che riceve l'adorazione di una moltitudine di devoti, i quali per vederlo e portargli regali, intraprendono dei viaggi immensi attraverso ai più spaventosi deserti del mondo. Il Tibet è infatti considerato come terra santa. È, si può dire, la Palestina degli asiatici. Tutto è sacro in quel paese, perché tutto appare meraviglioso ai pellegrini che dall'India e dalla lontana Mongolia ogni anno si recano a Lhassa ad adorare il Buddha vivente. La spaccatura d'una rupe qualunque non può essere stata fatta pei tibetani che da qualche dio, non per opera della natura; una piramide qualunque d'argilla, eretta dalla mano dell'uomo, deve aver servito come punto d'appoggio a qualche famoso Lama, morto per spiccate la volata in cielo; perfino i fossili delle rocce sono santi; che più, perfino le montagne. E sono trecento cinquanta quelle che si ergono sugli immensi altipiani tibetani, corteggio d'altrettanti déi intorno alla divinità principale, il Ningiin-tangla, l'eterna piramide nevosa, dai cui fianchi sgorgano i fiumi più famosi che solcano l'India. Quella immensa montagna è la Tisa dei tibetani ed il Kailas degli Indiani, dinanzi a cui tutti si prostrano sette volte ed alzano le mani sette volte verso il cielo, perché sia per gli uni che per gli altri essa è la prima dimora del Mohadeo ossia del Gran Dio, il primo e più fiero di quell'Olimpo, alla cima del quale i popoli, ad ognuna delle loro tappe verso l'occidente, hanno veduto risplendere la luce abbagliante della loro divinità; quella montagna è il Meru degli antichi indiani, il pistillo del simbolico loto che rappresenta, secondo le leggende indiane, il mondo. È su quei fianchi scoscesi che fu costruito il primo monastero buddista, a cui ogni anno traggono milioni di pellegrini attraverso nevi, frane, dirupi, burroni spazzati da valanghe, ed è da quelle caverne, aperte nei suoi fianchi che escono i quattro grossi fiumi: il Sastlegi, l'Indo, il Gange ed il Tsangbo, tutti possenti corsi d'acqua e sacri. Tutto il Tibet settentrionale, che comprende la maggior parte, è un orribile deserto formato da altipiani situati a delle altezze pari alla vetta del monte Bianco, dove non crescono che poche e rade erbe in primavera, che servono a malapena a sfamare le truppe di jachs ossia di certe specie di bufali assai villosi ed i cammelli selvaggi. Il vento spira sempre lassù così secco e così violento che strappa le carni a brani dal viso e dalle braccia! I tibetani stessi non si avventurano su quegli altipiani ed i pochi che abitano quelle orribili regioni non lasciano mai le profonde gole, dove anche sono tutt'altro che sicuri in causa delle valanghe, che precipitano dai ghiacciai di quelle enormi montagne che fanno corona a quegli spaventevoli deserti. Eppure, anche lassù, dove la respirazione è resa penosa per l'estrema rarefazione dell'aria, si trovano dei monasteri di buddisti. Come vi vivono i Lama, ossia i sacerdoti? È un mistero. Il Tibet meridionale invece, è più piano, con valli dove il clima è abbastanza mite, dove cresce abbondante l'orzo, che forma il nutrimento principale di quel popolo, insieme al latte di cammello. Numerose tribù vi vivono, attendate sotto capanne formate con feltri neri, che trasportano a capriccio, essendo d'indole nomade. Non mancano mai di avere quelle tende un'asta adorna d'una coda di cavallo o di qualche pezzo di seta per tener lontani i cattivi spiriti. I villaggi sono invece poco numerosi e per lo più raggruppati intorno alle poche città, quasi tutti male fabbricati e sporchi, con casucce in forma d'alveari, formate con pietre sovrapposte senza cemento ed alcuni fori per dare luce nell'interno. Gli uomini si occupano dell'allevamento dei cammelli e degli jachs, della fabbricazione dei formaggi e di un certo pessimo liquore ottenuto colla fermentazione della farina d'orzo. Lhassa, come abbiamo detto, è la capitale e quindi la più importante città del Tibet, dove risiede il Dalai Lama, che rappresenta sulla terra Bhudda che porta il nome di Perla dei sapienti, e di Perla dei vincitori, che è il protettore ed il custode della religione, il reggente che è incaricato del governo del paese. Il Dalai Lama risiede in un magnifico monastero, che è sorretto da centinaia di colonne dorate, ma non è visibile pel vile popolo. Vive insieme ai suoi lamas, occupando tutto il suo tempo a mangiare, a bere the ed acquavite calda, in attesa che la morte lo colga per tornare subito a rivivere, perché quel personaggio straordinario è immortale. Appena morto, la sua anima - dicono i lamas - passa in quella di un bambino, trasmettendovi i suoi lumi e la sua volontà. Non si sa mai chi sia, perciò bisogna ricercarlo quel fanciullo prodigioso, quindi appena il gran pontefice muore, si mandano spedizioni in tutte le parti del Tibet a scovarlo. Quella non è una faccenda facile ma i lamas, che devono essere dei grandi furbi, vi riescono dopo un certo tempo. Probabilmente lo hanno scelto prima e anche istruito per far credere ai fedeli che in questo risiede veramente l'anima del defunto Dalai Lama. Appena trovato, lo si conduce con grandi onori nel grande monastero di Terpaling, dove deve rimanere fino al giorno dell'assunzione al pontificato. È sempre un fanciullo prodigio, d'una intelligenza straordinaria, meravigliosamente istruito, perché appena assunto al potere chiede subito le vesti che portava prima di rinascere narrando degli aneddoti verissimi della sua vita antecedente. Quando ha quattro o cinque anni gli fanno subire un esame pubblico, per togliere ogni dubbio sulla sua identità e subire dei lunghi interrogatori sopra certe circostanze della sua vita passata; riconoscere di primo colpo tutti gli oggetti che gli erano appartenuti e conoscere i personaggi che lo hanno avvicinato. Come fa? Non lo si sa. Il fatto è però che quel fanciullo prodigio non s'inganna mai e che non lascia nel popolo alcun dubbio, che sia il defunto pontefice rinato in altro corpo per opera di Buddha. Disgraziatamente questi pontefici difficilmente campano molto. Il popolo fanatico crede che si divertano a morire per rinascere più purificati e più illuminati; sembra invece che quei poveri diavoli non se ne vadano all'altro mondo di loro spontanea volontà. I maligni - e anche nel Tibet ve ne sono - dicono che il reggente preposto al governo, per iscopi politici, li faccia sopprimere prima che tocchino i vent'anni, con un buon laccio di seta ben stretto attorno al collo. E pare che non abbiano del tutto torto, perché alcuni anni or sono il residente del governo imperiale del Celeste Impero, che deve sorvegliare gli atti del reggente, essendo il Tibet sotto il protettorato chinese, preoccupato della moda continua dei Dalai Lama, dovette intervenire personalmente e far capire a quel fior d'assassino che era tempo di finirla di far rinascere troppo sovente il Buddha vivente. Malgrado la sua apparente ricchezza, il Tibet è un paese così povero, che non varrebbe la pena di tentarne la conquista. Ben poche sono le famiglie agiate; tutti gli altri non sono che miserabili pastori che vivono con un po' d'orzo e che solamente nelle grandi occasioni si permettono il lusso di regalarsi un pezzo di carne che mangiano cruda. Sono poi d'una sporcizia ripugnante, le donne comprese. I pochi ricchi che abitano nella capitale, indossano lunghe vesti di seta adorne di pelli e hanno molte mogli; il popolo non porta che vesti di pelle di montone. Le donne invece indossano giubbettini a maniche corte, gonne alla tartara, portano i capelli sciolti sulle spalle, adorni di vezzi di perle e di pendagli d'argento. Un particolare, curioso è quello che i tibetani scrivono colla mano sinistra invece che colla destra. La spedizione inglese guidata dal generale Macdonald, non ha dovuto sostenere gravi scontri durante la sua marcia attraverso quelle orride montagne. Solamente in certe gole, gli ouhla - ossia la casta guerresca - ha opposto qualche resistenza, ma le loro vecchie armi da fuoco a miccia hanno dovuto cedere subito ai fucili moderni.
La colonna inglese è entrata ora nella città inviolabile, senza trovare
resistenza, ma pare che comincino ora per essa le maggiori difficoltà perché
corre il pericolo di morire di fame, avendo gli abitanti nascosti tutti i viveri
onde affamarla e costringerla ad una precipitosa ritirata.
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