Copertina
Autore Gianpaolo Santoro
Titolo La solitudine dei numero uno
SottotitoloQuei calciatori strani che usano le mani
Edizionemanifestolibri, Roma, 2010, Società narrata , pag. 176, cop.fle., dim. 14,4x21x1,2 cm , Isbn 978-88-7285-649-9
LettoreDavide Allodi, 2011
Classe sport
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Indice


Introduzione                                          9

1. Le mani sul mondiale                              17

2. Quelli che hanno lasciato ìl segno                81

3. Quei portieri goleador                           107

3. Riti, talismani, follie e pazzie                 119

4. Saracinesche & colabrodi                         125

5. Quelli scesi in campo in politica                129

6. Quei numeri 1 che non ti aspetti in porta        139

Appendice. Brera & Pasolini                         154

Almanacco dei portieri                              167


 

 

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Pagina 9

INTRODUZIONE



Calciatori si diventa, portieri si nasce. E non manca chi sostiene che il portiere non sia nemmeno davvero un calciatore. In fondo è uno che si serve dei piedi solo per dare il pedatone di rimessa, o per qualche intervento disperato, quando l'attaccante l'ha ormai quasi dribblato e la gente sugli spalti sgrana gli occhi e stringe i pugni, perché il gol sembra già fatto. Essere un bomber è un sogno, fare il portiere è una missione.

Da ragazzi in porta finisce sempre il più piccolo, che a orecchie basse non osa ribellarsi alla condanna, oppure il più imbranato con i piedi, di quelli che solo davanti alla porta vuota ti sparano un tiraccio sbilenco che sfiora la traversa dalla parte sbagliata... Ma poi c'è l'eccezione: quando in porta ci va uno che lo sceglie, uno che spalle alla rete sente di aver trovato il proprio posto nel mondo, e si sfrega le mani scrutando silenziosamente il campo. L'eccezione, appunto, anzi l'anomalia. "Che sia un po' matto?", si chiedono i compagni. Forse, e spesso come ogni matto, il portiere è un solitario. Anzi, qualcosa di più: è un uomo solo.

Un uomo solo, dietro a tutti. Uli Stein, portiere dell'Amburgo degli anni Ottanta, il Gadamer del calcio (Hans Georg Gadamer è considerato uno dei maggiori esponenti dell'ermeneutica), ha pubblicato nel 1993 Halbzeit, "un bilancio senza difesa" della sua esperienza calcistica, dove si può leggere nel più puro stile Camus: "Sono un combattente solitario. Dopo di me non c'è più nulla. Sono l'ultimo uomo, ne sono consapevole, nessuno può far nulla per me..."

Vulnerabile, privo di alibi, e quindi sempre soggetto a critiche. È un giocatore diverso dagli altri, non solo perche indossa una maglia diversa da tutte le altre e non solo perché usa le mani al posto dei piedi. Deve avere la fiducia e il rispetto dai propri compagni; deve dimostrare e dare sicurezza, deve allenare scrupolosamente il fisico e il sistema nervoso, perché essere scattante e reattivo, avere prontezza e riflessi, saper uscire dai pali e aver senso della posizione, possedere ottima presa e buona impostazione tecnica, non basta. Ci vuole di più.

Per il portiere è fondamentale "sentire la porta" rispetto alla posizione del pallone, saper calcolare quali potranno essere gli spostamenti degli avversari e valutare come questi potranno condizionare la dinamica della propria azione. Per essere padrone della porta e dell'area di rigore bisogna allenare la percezione, la visione periferica e la velocità d'analisi dello sviluppo del gioco, solo così si potrà assumere un piazzamento corretto ed efficace. Così come è importante avere una grande capacità di reazione. La velocità d'analisi, di percezione degli stimoli acustici e visivi risulta decisiva per stabilire in una frazione di secondo, cosa fare e come contrapporsi a un tiro, un cross, un'azione di gioco.

Ma non è tutto. Perché possa essere sempre più efficace il suo intervento il portiere deve avere anche la capacità di anticipare, di percepire, intuire i possibili sviluppi di un'azione, in modo da impostare la parata o l'uscita una frazione di secondo prima rispetto allo svolgersi dell'azione. Deve riuscire, insomma, a rubare il tempo, deve immaginare dove finirà il pallone. Ma perché possa fare questo il portiere dovrà avere anche una padronanza della tecnica calcistica: solo dall'attenta osservazione della posizione del corpo di un avversario che sta per calciare, dall'impatto del piede sul pallone si può prevedere, infatti, quale può essere la traiettoria possibile e la direzione del tiro.

Ma tutto questo, che non è poco, ancora non basta. Il portiere deve avere ancora qualcosa di più, non deve allenare e addestrare soltanto il fisico, deve saper allenare anche la mente. Il che vuol dire il controllo delle immagini, del pensiero, delle attenzioni, formulazione degli obiettivi, gestione dello stress e corretta modulazione dell' "arousal", termine con il quale si intende il raggiungimento dell'attivazione psicofisica giusta per raggiungere una alta prestazione sportiva. Il che vuol dire poi anche training autogeno, una tecnica di rilassamento nel controllo dello stress, nella gestione delle emozioni e nelle patologie con base psicosomatica, utilizzata in quelle situazioni che richiedano il raggiungimento di un alto livello di concentrazione.

Per un portiere la carica psicologica dipende soprattutto dal tipo di prestazione che sta effettuando: una parata di rilievo, ad esempio, porta a un innalzamento delle componenti psicologiche positive. Un errore, ovviamente, scatena una valanga dì elementi negativi.

Una importante caratteristica psicologica che differenzia chi sta in porta dagli altri componenti della squadra è la carica ansiogena: mentre tutti i giocatori raggiungono il loro massimo prima della partita e questa carica scende fino a scomparire del tutto con il fischio iniziale, per il portiere, invece, tutto termina soltanto con il primo intervento. E non è finita qui. Le sollecitazioni ansiogene sono ricorrenti durante una partita: un corner, una punizione pericolosa, un rigore, determinano, comprensibilmente, forti carichi di apprensione. Costretto com'è a una attenzione continua, un portiere deve essere pronto per qualsiasi evenienza. Deve essere in grado di superare i cali di tensione dovuti alle fasi di inoperosità, deve saper analizzare rapidamente la situazione, deve possedere immediatezza di reazione, autocontrollo e fiducia nei propri mezzi al di sopra del comune. Sei non hai fiducia in te stesso, non puoi incutere fiducia ai compagni di squadra.

Le situazioni difficili da superare sono molteplici, in campo e fuori.

Il portiere è sempre sovraesposto, e a differenza dai compagni di squadra, la sua è sempre una sovraesposizione personale, individuale, che non coinvolge gli altri. Infatti il destino, le fortune, del numero uno non coincidono per forza con quelle della squadra. E come se giocassero due partite distinte.

Le due situazioni psicologiche più tipiche e negative si possono ricondurre alle cosiddette difficoltà ambientali (quando, per una ragione qualsiasi, si ha la stampa o la tifoseria contro) e alle conseguenze derivate da un proprio errore tecnico-tattico, quella che comunemente viene detta una papera. In questo caso si produce una prima pressione psicologica immediata che tende ad abbattere il morale e ostacola la successiva esigenza di rimanere concentrato per evitare il tracollo. Dopo la partita si susseguono una serie di pressioni che vanno dal dover giustificarsi o chiedere scusa a compagni e allenatore fino al desiderio di riscatto e rivincita nella partita successiva. E nel momento in cui si rientra in campo la pressione psicologica è più alta del solito e, in caso di ulteriore prestazione negativa, si crea una spirale dalla quale è difficile uscire indenni (psicologicamente parlando). Un portiere, insomma, deve avere le spalle larghe, molto larghe e grande, grandissimo autocontrollo.


Una vita difficile quella fra i pali, che non conosce mai neanche l'adrenalinica gioia del gol. Anche quando para un rigore (e cioè evita una quasi rete) il merito normalmente non viene assegnato al numero uno. "Rigore parato, rigore sbagliato..." la saggezza popolare del calcio è implacabilmente cinica e spietata.

Nel suo Il mestiere dei calciatori, Gianni Brera, il cantore del calcio, il più grande giornalista sportivo italiano, ha raccontato a modo suo la difficile, complicata, turbolenta vita del portiere. Rileggerlo serve a capire tante cose, piccole grandi verità, sfumature rilevanti.


La vita del portiere è sempre dura, sia nelle piccole sia nelle grandi squadre. Il portiere delle piccole viene sovente esaltato dal continuo lavoro. Ad ogni istante lo chiamano a interventi che ne dissolvono l'emozione (o il trac, che è anche degli attori sul palcoscenico). Entra allora in una sorta di trance agonistica dalla quale viene sublimato agli occhi della folla fosse anche la più ostile. A volte quando lo battono, non sembra mai colpa sua. L'avversario ha potuto tirare con comodo, perfino mirare e beffarlo. La colpa è dei centrocampisti che non tengono palla, dei difensori che i centrocampisti non sanno proteggere, e ovviamente degli attaccanti che non combinano molto più di nulla. Il portierino martire viene applaudito contemporaneamente agli autori dell'azione e del tiro che lo hanno battuto. Se poi è un gigante, mette tenerezza per la sua goffaggine. L'italiano normale è un omarino: poter aver compassione di un fusto è occasione che gli è sempre gradita.

Insisto su queste divagazioni psicologiche perché il mio lettore sappia di quante sfumature si complica il gioco del calcio. Ho detto del portiere di piccole squadre, il più delle volte bombardato e battuto. Dirò ora delle maggiori difficoltà incontrate dal portiere di grandi squadre, più raramente cercato dagli avversari.

Il portiere di grande squadra non nasce quasi mai in casa: viene acquistato presso squadre piccole, nelle quali si è distinto lavorando molto e brillando, esaltato, in ogni incontro. Quando arriva da fuori, si pensa al taumaturgo, al fenomeno: ma solo se è un vero campione riesce a reggere. Un portiere mediocre, che riesce a salvarsi per la forza dei compagni, viene messo proprio da quella forza in disperata minoranza. Nella sua squadretta era sempre sotto pressione: nella grande squadra trascorre lunghi periodi senza toccare palla se non per insignificanti rimesse. Durante le soste, invece di riposarsi, si snerva, o comunque si raffredda, perde i riflessi: quando l'occasione arriva, bisogna esser pronti come se si fosse sempre stati in giusta carburazione psicofisica.

Ecco perché una grande squadra non può avere che un grande portiere. Se ha la minima pecca, risalta doppiamente, la sfiducia ne mina il morale: ben presto si smonta e la gente arriva a mormorare fintamente stupita, in realtà beffarda, quando non perde presa. In questi casi è inutile lavorare di propaganda: la bocciatura è inevitabile: ogni palla diventa un proiettile subdolo e imprevedibile, sicché i compagni si smontano a loro volta anche quando potrebbero insistere in un recupero, in un tackle rischioso ma utile, badando a non rimediare magre di sorta perché, tanto, l'ultima magra, la più evidente, tocca al portiere.

La sorte del quale, ahimè, appare ben presto segnata: la grande squadra lo ripropone a una minore, quasi fosse costretta a svenderlo: e la carriera del poveraccio riprende nell'amarezza o nella frustrazione. Eppure, giocare cioè vivere est necesse. Tornato fra i poveri, il portiere liquidato può nuovamente assurgere ad eroe. Presto o tardi la giornata viene per cui si rinnova la gloria. Gli astri congiurano o concordano, a seconda del suo destino. Non tutti possono nascere Zamora.

Le squadre italiane sono diecimila: fra titolari e riserve, almeno quindicimila sono anche i portieri. E fra loro c'è sempre lo Zamora in potenza, ma per un verso o per l'altro non riesce ad emergere, i suoi sogni svaniscono con gli anni. Intanto diventa vecchio: e quando appende i guantoni al chiodo può almeno ricordare prodezze che non sono di tutti. Soltanto le papere gravi ricorrono nei suoi incubi. Essendo epico il ruolo di portiere, se ne sogna veramente la notte.

Stormi di centravanti allupati scendono verso la porta intrepidamente difesa: i palloni sono proiettili di katiuscia, che è una sorta di cannone-mitragliatrice: il portiere vola da un palo all'altro, impenna alla traversa, plana o addirittura picchia sull'angolino basso, torna a balzare indomito per schiaffeggiare via la palla dall'incrocio. Se proprio il suo istinto è eroico, non in volo si ricorda sognando, bensì in temeraria uscita sui piedi dell'attaccante lanciato al gol. Lo stadio ammutolisce perché ad ogni tifoso viene il groppo in gola. Il portiere compie rapidi passi a braccia basse e larghe come un lottatore giapponese che si appresti ad abbrancare. Nel silenzio attonito, egli si lancia a ghermire proprio nell'istante in cui l'avversario alterna il piede di spinta: abbandonata per un centesimo di secondo, la palla non è più dell'attaccante: il portiere l'afferra e vi si accartoccia sopra senza pensare al peggio. Lo stadio esplode in un applauso omerico. Sopra il suo capo, il portiere-eroe avverte il passaggio radente dei bulloni avversari. Beffato a quel modo, il centravanti ha dovuto sprintare per non incespicare in lui e – in seconda istanza – per non sfiorare nemmeno un capello a tanto campione!

Sognando a questo modo, indubbiamente si vive. Perfino i giochi di parole crociate definiscono i sogni "le immagini del dì false e corrotte". Il dottor Sigmund Freud asserisce il contrario e sicuramente ha ragione. M'importava fissare il carattere epico dei portieri, la loro psicologia improntata all'eroismo. Poi, ad alimentare i sogni servono gli esempi famosi. La storia del calcio è piena di portieri così bravi da sfiorare la taumaturgia.


Il calcio spesso è letteratura. Non a caso quattro premi Nobel hanno scritto di calcio. Emozioni, sensazioni, passioni. Il giapponese Kenzaburo Oe (Nobel nel 1994) nel suo Il grido del silenzio ha parlato di pallone nei dialoghi appassionati tra i fratelli Mitsu e Takashi. Un altro Nobel (1989), lo spagnolo Camillo José Cela, in Undici racconti sul caldo, dipana una storia dove due arbitri finiscono sulla forca per non aver letto Voltaire. E che dire dei ricordi di Günter Grass (Nobel nel 1999), ne Il mio secolo, che ha fatto rivivere la rete di Jürgen Sparwasser in Germania Est-Germania Ovest 1-0 ai mondiali del 1974? O della splendida surreale metafora di Eugenio Montale (premio Nobel per la letteratura nel 1975) che immedesimandosi nel destino triste del portiere scrisse: "Sogno che un giorno nessuno farà più gol in tutto il mondo".

Nel calcio quello del portiere è il ruolo più folle, più romantico e letterario. Jorge Amado ha celebrato in una novella per ragazzi, La palla innamorata, un portiere, Go-gol, che conosce, dopo tante papere, il giorno del riscatto. Ed è pure un portiere il protagonista del giallo-psicologico Prima del calcio di rigore di Peter Handke.

Il portiere non è uno degli undici, è qualcosa di diverso. La sfida è insita nel ruolo, uno contro tutti, la difesa della porta, come la difesa della terra santa.

Anche Umberto Saba nella sua poesia Goal, veste i panni da portiere. E prova a immaginare e spiegare i sentimenti contrastanti dei due portieri nel momento di un goal: il vinto, che si dispera "Il portiere caduto alla difesa ultima vana, contro terra cela la faccia, a non veder l'amara luce come a voler scomparire" e l'altro, che, obbligato a rimanere nei pali, lascia libera di vagare almeno la sua anima, alla ricerca della felicità insieme ai suoi compagni "Presso la rete inviolata il portiere l'altro — è rimasto. Ma non la sua anima, con la persona vi è rimasta sola. La sua gioia si fa una capriola, si fa baci che manda di lontano, Della festa — egli dice — anch'io son parte".

Chi gioca tra i pali, in definitiva, possiede qualcosa in più, o, se volete, qualcosa in meno, rispetto agli altri giocatori. Di certo è un predestinato. Ma non basta. Per fare strada, per andare avanti, per distinguersi e primeggiare, deve avere anche carisma e coraggio. E, ovviamente, fortuna.

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Pagina 32

GIANLUIGI BUFFON
Il Superman ultrà



GIANLUIGI BUFFON (Carrara, 28 gennaio 1978) è stato campione del mondo con la nazionale italiana nel 2006 in Germania (subendo solo 2 gol in tutto il torneo, un'autorete e un calcio di rigore...) e campione europeo con la nazionale under 21 in Spagna nel 1996. Nel 2006 è stato premiato dalla Fifa come miglior portiere del campionato del Mondo e si è classificato secondo nella classifica del pallone d'oro dietro Fabio Cannavaro. È stato l'unico portiere ad essere stato nominato miglior giocatore in Champions League (edizione 2002-2003). Per quattro volte è stato nominato "portiere dell'anno in attività" dall'International Federation of Football History & Statistics. Sempre dall'Iffhs è stato nominato il portiere più forte del mondo degli ultimi venti anni. Ha giocato nelle giovanili del Canaletto, del Perticata, del Bonascola, nel Parma e nella Juventus. Ha vinto 2 scudetti e un campionato di serie B con la Juventus, una coppa Italia con il Parma e tre supercoppe italiane, una col Parma e due con la Juventus. Il suo passaggio dal Parma alla Juventus nella stagione 2001-2002 avvenne per 105 miliardi di lire (75 in contanti più la cessione di Bachini): ed è stato così il portiere più pagato nella storia del calcio. Buffon possiede un ristorante nel centro della città di Pistoia intitolato "Zerosei" e uno stabilimento balneare in Versilia "La Romanina" a Ronchi in provincia di Massa Carrara.


Terzo minuto del primo tempo supplementare. Italia e Francia sono sull'uno a uno. Finiti sotto per un rigore realizzato con un cucchiaio irridente da Zidane, gli azzurri hanno riacciuffato i rivali d'oltralpe con una prepotente incornata di Materazzi su azione da calcio d'angolo.

In gioco c'è il sogno più grande di qualunque calciatore. Quel sogno trasversale, un po' delirante, impossibile ma irresistibile, che prima o poi attraversa inconfessato la mente di tutti quelli che hanno fatto parte di una squadra di calcio, dai pulcini ai fenomeni della Champions League: diventare campione del mondo.

Lo spettro della finale dell'europeo, dominata dall'Italia e "rubata" dai francesi al "golden gol", dopo un pareggio all'ultimo secondo, aleggia sui nostri. Al mondiale la partita sta andando diversamente, l'Italia non domina, ma il pareggio, l'1 a 1, è un risultato troppo instabile. Zero a zero può indicare quiescenza, ma 1 a 1 vuol dire che entrambe le reti sono state violate. Il terzo gol è nell'aria. E poi questa partita, questa finale del luglio del 2006 in una nuova Berlino, non può finire in pareggio. Dopo i supplementari ci saranno i calci di rigore. Ed è meglio allora farsi il segno della croce. Gli undici metri troppo spesso hanno tradito e ferito a morte gli azzurri. Per tre campionati del mondo di fila siamo usciti agli odiati rigori, ormai qualcosa di più di una semplice maledizione. Due volte gli errori dal dischetto ci hanno sbattuto fuori in semifinale (Italia '90 con l'Argentina e Francia '98 proprio contro i Bleus), una volta addirittura ci sono costati la Coppa Rimet (Usa '94 in finale contro il Brasile) quando eravamo arrivati a un passo dal successo finale. Insomma questi benedetti rigori sono per i cuori azzurri un feticcio, un tormento.

Terzo minuto del primo tempo supplementare. Zidane ha la palla, s'incunea al centro verso l'area italiana, allarga a destra, scatta, brucia Gattuso – che forse per un istante si distrae – e quando il pallone prezioso che ha dato a destra gli ritorna con un cross magistrale, lui è lì, solo, solo davanti alla nostra porta.

Non è tipo da bussare, lui, la vuole sfondare. L'intera difesa italiana è rimasta sbilanciata, e in quel vuoto che si è creato davanti alla nostra porta non c'è nessuno con la casacca azzurra. Il pallone dorato vola sopra le teste dei difensori e precipita con precisione millimetrica sulla zucca di Zidane. Il cinismo fatto calciatore, il killer del gol, uno che difficilmente sbaglia.

Lui salta, allarga le braccia come per aggrapparsi all'aria, la spina dorsale s'incurva e poi scatta, come un arco che sta per scoccare la freccia. È uno stacco imperioso, di chi praticamente ha già segnato.

Davanti a lui, tra lui e quel sogno immenso, ora c'è solo Buffon, l'ultimo diaframma che separa l'Italia dalla rovina e la Francia dal tripudio.

La responsabilità di tutto, il peso immane del destino della partita, dell'intero campionato, del sogno suo e di tutti i suoi compagni, del sogno di quei milioni di persone che sono assiepati sugli spalti, raccolti nei bar e nelle case, adunati davanti ai megaschermi delle piazze, dipende ormai da lui. Soltanto da lui. È questa, l'infinita solitudine del portiere. Tutti gli altri compagni, smarcatosi Zidane, hanno potuto voltarsi. Voltarsi indietro, verso l'ultima speranza. Ma lui no. Lui non può voltarsi. Non c'è nessuno dietro di lui. È lui l'ultima linea di difesa, è lui l'estremo baluardo della squadra.

È quasi un rigore, tirato di testa. Zidane è arrivato sul pallone come un falco in picchiata sull'allodola. La sua fronte colpisce la sfera come un maglio. La palla parte, va così veloce che per un istante scompare, non si vede più.

Centomila respiri si fermano. Il tempo si ferma. Tutto si ferma, per una frazione di secondo che non finisce più.

Ma in porta c'è Gigi Buffon, e Superman vola. Vola d'istinto, con la manona spalancata così grande che sembra impugni un guanto da baseball. Schizza verso l'alto come un pistone in fuorigiri, parte come un razzo che decolla, e dice no. Tocca il proiettile di Zidane all'altezza della traversa, quel tanto che basta per deviarlo di un centimetro, e il pallone dorato con le insegne della Fifa parte per la tangente.

La porta è salva. Zidane si afferra la testa tra le mani. Non ci crede. Non è possibile. Invece è vero. Ancora 1 a 1. Non c'è il tempo di dire amen, che la Francia batte il corner.

Mischia in area, Gigi sceglie il tempo ed esce. Irrompe tra i giocatori che lottano davanti alla sua porta, ruba il tempo a tutti e, a braccio teso, con la mano a pugno – così grossa che sembra la testa di un ariete – respinge lontano.

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DINO ZOFF
Il nonno in pantaloncini



DINO ZOFF (Mariano del Friuli, 28 febbraio 1942) è stato campione del mondo nel 1982 a Madrid (Italia-Germania 3-1). E con 40 anni, 4 mesi e 13 giorni è stato il più vecchio portiere ad aver conquistato il titolo mondiale. Sempre con la maglia azzurra è stato campione europeo nel 1968 (Italia-Jugoslavia 2-0) e vice-campione mondiale nel 1970 (Brasile-Italia 4-1 a città del Messico). Il suo bilancio in nazionale è di 55 vittorie, 36 pareggi, 21 sconfitte, 83 gol subiti e quattro campionati del mondo disputati. E stato l'unico portiere-capitano, insieme a Combi, della nazionale italiana ad aver vinto il titolo mondiale. Sempre come calciatore Zoff ha vinto 6 scudetti, 2 coppe Italia e 1 coppa Uefa con la Juventus. In serie A ha collezionato 570 presenze (332 consecutive). Nel 2004 è stato nominato Uefa Golden player. Zoff detiene due record di imbattibilità: quello in Nazionale, con 1.144 minuti, dal 1972 al 1974 e quello in Coppa dei Campioni, 399 minuti nella stagione 1972-73. Da allenatore Zoff ha vinto 1 Coppa Italia e 1 coppa Uefa alla guida della Juventus. Zoff ha allenato la nazionale olimpica conquistando il quarto posto alle Olimpiadi di Seul del 1988. Guida la nazionale maggiore agli Europei del 2000 e arriva in finale dove viene battuto dalla Francia per 2-1. Da presidente ha vinto 1 coppa Italia con la Lazio. Su iniziativa del presidente della Repubblica è stato nominato Commendatore della Repubblica Italiana e Grande ufficiale al merito della Repubblica italiana. Dall'università degli studi di Cassino ha ricevuto la laurea ad honoris causa in Scienze motorie.


Un giorno alla fine dell'allenamento mister Alberto, così chiamavano Alberto Ebani all'Udinese, chiamò in disparte quel ragazzo dalla faccia seria che non diceva una parola neanche ad ammazzarlo, e brutalmente gli disse: "Senti Zoff, voglio parlarti chiaro, se te diventi un jogador me tajo i cojoni..." in pieno dialetto triestino, lingua nobile ed efficace come scrisse Italo Svevo in La coscienza di Zeno, lingua che affascinò perfino James Joyce, che nella sua permanenza a Trieste imparò a parlare e scrivere in dialetto. E mister Alberto, che era un uomo semplice e dai modi spicci, quando parlava triestino, voleva farsi capire bene, essere proprio chiaro. Certo che il povero Eliani, (che tra l'altro di portieri se ne intendeva, fu lo scopritore di Stefano Tacconi e Walter Zenga) quella volta avrebbe fatto meglio a stare zitto, perché mai profezia fu più sbagliata e avventata. Vero è che quel ragazzo contadino che lavorava come motorista in un'officina e amava ugualmente il pallone e l'odore di grasso e benzina emanati dai motori bisognosi di una mano amica, nulla aveva di quelle classiche doti fisico-caratteriali che di solito si attribuiscono a chi, anche da ragazzino, gioca in porta. Anzi era l'antitesi della classica figura del portiere. Niente voli angelici e spettacolari, niente uscite a sfracellarsi contro un avversario per rubare un'emozione, solo e soltanto lo stretto indispensabile. Il suo fisico, non particolarmente eccezionale, reggeva l'impatto delle partite solo perché curato meticolosamente e quotidianamente con amore e dedizione. Eppure Zoff, probabilmente, è stato il più grande di tutti. Un uomo qualunque. L'elogio della normalità.

Tutta la sua straordinaria ed eccezionale carriera si condensa nell'esercizio ostinato della normalità. Un mestiere di portiere costruito giorno dopo giorno in campo nelle interminabili sedute di allenamento, e fuori campo con una condotta esemplare da vero, grande atleta: mai una sbavatura, mai un eccesso. Uno stile di vita che gli ha permesso a quarant'anni di vincere un campionato del mondo: Superdino, un nonno in pantaloncini.

Sacrifici, abnegazione, privazioni, il volto, sempre in bilico tra la malinconia e una smorfia di fatica: tutto per rendere normale anche la parata più difficile. È stato il portiere essenziale, pratico: mai una concessione allo spettacolo, mai un tuffo per il pubblico, per strappare un facile applauso. Poco appariscente, atteggiamenti modesti, mai un eccesso, mai un piccolo colpo di testa, uno "sfizio", faceva sempre quello che andava fatto, scegliendo la strada più semplice. Un ragioniere tra i pali.

Non ha avuto la strada spianata Zoff, anzi. Anche il suo debutto in serie A, fu una delusione che avrebbe profondamente segnato chiunque. Ventiquattro settembre 1961, l'Udinese gioca a Firenze, il giovane Zoff, appena diciannove anni, fa il suo esordio nella massima serie. Un disastro, una debacle, peggio di un cazzotto in pieno viso. La Fiorentina dilaga, lui becca 5 gol. "Per molti anni compagni ed avversari mi hanno salutato con la mano aperta e indicare quei cinque gol incassati..." non è stato facile sorridere e guardare avanti. Ma Zoff ha sempre avuto le spalle larghe e ha saputo affrontare i momenti difficili.

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WALTER ZENGA
Caniggia uccise l'Uomo ragno



WALTER ZENGA (Milano, 28 aprile 1960). È stato eletto per tre volte consecutive "miglior portiere dell'anno" dall'Iffhs, dal 1989 al 1991. Nel 1990 ricevette anche il premio di "Portiere dell'anno" dall'Uefa. Da sempre soprannominato Uomo Ragno (da una canzone degli 883: Hanno ucciso l'uomo ragno) l'uomo contro tutto e contro tutti. Lui non hai mai sofferto l'essere sempre controcorrente, sempre anticonformista, spavaldo se non proprio guascone. Non lo ha mai sofferto, tranne una volta. Nella fantastica estate degli anni 90, quella delle notti magiche e del sogno comune, era l'Italia di Vicini, durante quello che "doveva" essere il campionato del mondo degli azzurri.


Caniggia, quella nuvola di capelli biondi, l'incubo della sua vita. Quella maledetta sera di Napoli, quella della grande delusione. Fino ad allora non aveva preso neanche un gol. Quello fu il primo: di nuca, vigliacco, bastardo. Al buio, coi suoi pugni sopra la testa bionda di quell'argentino e sopra anche quella di Riccardo Ferri. Errore. Una uscita a vuoto. Lui non ha mai accettato, quell'errore: "Solo Maradona ha capito tutto. Perché lui conosce il calcio: la verità è che è stato bravo Caniggia. E riuscito ad anticipare la mia idea di anticipare lui". La difesa d'ufficio non ha mai convinto nessuno. E, molto probabilmente, neanche lui.

Un mostro tra i pali, un pollo fuori. Ma nonostante tutto, è stato per un lungo periodo, il più forte portiere del mondo, con il ciuffo svolazzante, e la catenina d'oro sempre fuori dalla maglietta. È stato Walter Zenga, più di un semplice giocatore, uno dei re della Milano boriosa degli anni Ottanta, uno dei primi calciatori-personaggio, presentatore televisivo e anche cantante (nel 1987 ha inciso un Lp di otto brani dal titolo Dal tuo amico Walter Zenga). Frequentava gli studi televisivi come un campo di calcio. Nelle stagioni 1988-1989 e 1989-1990 ha condotto la trasmissione sportiva Forza Italia, su Odeon TV, insieme a Fabio Fazio, Roberta Termali e Cristina Parodi. Nel gennaio 2000 ha partecipato come "postino" alla trasmissione di Maria De Filippi C'è posta per te. In radio ha condotto il programma Disco sport su Radio Deejay con Amadeus.

È stato un giocatore simbolo dell'Inter. La sua carriera in nerazzurro è ricca di grosse soddisfazioni. Tranne quella maledetta notte di Napoli, anche in nazionale una serie di prestazioni da incorniciare. Con la nazionale di Azeglio Vicini stabilì il record di imbattibilità ancora ineguagliato in un mondiale (518 minuti, in una serie di complessivi 981 minuti dall'ottobre 1989 al 3 luglio 1990). Tra i suoi trofei di squadra, lo scudetto dei record 1988-1989 con allenatore Giovanni Trapattoni, la Supercoppa italiana nel 1990 e la Coppa Uefa nel 1990-1991 e 1993-1994. Una volta smesso di giocare ha intrapreso la carriera di allenatore, guidando squadre in giro per il mondo. Ha vinto anche due campionati: quello rumeno con lo Steaua Bucarest e quello serbo-montenegrino con la Stella Rossa Belgrado. In Italia è stato sulla panchina del Catania e del Palermo.

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ERNESTO CHE GUEVARA
La rivoluzione di Leticia



Adolfo Pedernera, era qualcosa di più di un idolo. Per loro era il mito, l'incarnazione del gioco più bello del mondo, il principe azzurro della favola del calcio. E non è che tanta ammirazione fosse usurpata o figlia di una passione isolata. L'argentino Pedernera si ritrova al dodicesimo posto dei migliori calciatori sudamericani del ventesimo secolo, nella classifica Iffhs, acronimo di Istituto Internazionale di Storia e Statistica del Calcio. Insomma un campione. Fu proprio grazie a una piccola bugia su Pedernera ("siamo della scuola calcistica di Pedernera, io sono addirittura soprannominato Pedernita" si presentò così Granado) che una volta arrivati in zattera a Leticia un piccolo paese sulle sponde del Rio delle Amazzoni al confine estremo della Colombia, Alberto Granado e Ernesto Che Guevara durante il mitico viaggio in moto (una vecchia Norton di 13 anni) alla scoperta di quell'America latina che avevano studiato solo sui libri e che invece volevano toccare con mano, riuscirono a farsi ingaggiare come allenatori-giocatori dell'Indipendiente Sporting per un torneo. Un buon pasto caldo e un po' di calcio, era una formula vincente per i due ragazzi.

La fama di Pedernera, così come quella di Menendez e Di Stefano, stelle ormai cadenti che sul finire della carriera erano andate in Colombia attratte dai narcodollari della famosa squadra dei Milionarios di Bogotà per alimentare sogni e speranze di traguardi e successi, era sconfinata da quelle parti. In poche parole, Alberto ed Ernesto avevano usufruito della fama che i calciatori argentini in quel tempo godevano in Colombia.

E fu così che i due presero il comando di una squadra, dalle maglie a strisce bianche e rosse verticali, come il Lanerossi Vicenza di un tempo, di ragazzotti onesti e obbedienti, tanto lenti quanto infaticabili. Ma un allenatore visionario, rivoluzionario, certamente poeta, probabilmente un po' pazzo, (coadiuvato da un amico per la pelle, dai piedi buoni ma senza carisma) in pochi giorni riuscì a trasformare quel manipolo di volenterosi in una piccola macchina da guerra. Che Guevara in panchina ci sapeva fare, leggeva la partita con arguzia, era amante della tattica, prima ancora che della tecnica. La squadra giocava con il sistema, quello che utilizzava perfino il Grande Torino. Un calcio compassato e ordinato, come quello dell'Uruguay degli anni '30 che metteva in fila il mondo. Granado, piccoletto, con le gambe storte, che aveva una buona confidenza col pallone, si mise nel centro del campo; Che Guevara, invece, si piazzò in porta, (indossava una maglia tutta bianca con una striscia diagonale rossa, e faceva il suo figurone) ruolo che prediligeva, perché gli consentiva di guidare a voce i difensori e ingaggiare, così, una sfida personale contro gli attaccanti avversari. Qualche volta Fuser (il furibondo), così era soprannominato anche Ernesto Che Guevara, aveva giocato da marcatore. Ma in quel ruolo non si divertiva. Giocare in porta, governare l'area di rigore, era tutta un'altra cosa. Doveva essere da solo, come un vero capo. Dalla porta, poi, poteva anche vedere come era disposta la squadra in campo, se c'era qualcosa da cambiare o da modificare. Poteva comandare.

L'Indipendiente Sporting perse la prima partita per due a zero, ma poi vinse la seconda per due a uno (goal di Granado), a cinque minuti dalla fine e pareggiò la successiva, zero a zero, grazie a una partita superlativa del Che. Ernesto quel giorno sembrava indemoniato: volava da un palo all'alto, dominava i palloni alti in area di rigore, era fermo e sicuro nelle prese. Insomma un muro, un muro invalicabile. Una prestazione eccezionale.

Le regole del torneo erano a dire la verità un po' bizzarre, ma fatto sta che l'Indipendiente, avendo conquistati tre corner contro uno, si guadagnò così l'accesso alla finalissima. Partita che consacrò definitivamente Che Guevara, che essendosi rasato a zero, subito venne soprannominato dalla "torcida" el Pelao. La finalissima fu una vera battaglia: el Pelao comandava la difesa come se si trattasse di una guerriglia, un manipolo di onesti soldati a difesa di un fortino, un sogno: ideali, politica, libertà, emigrazione, dolore e poesia. C'era tutto in quella difesa a oltranza. Quella partita fu la sua consacrazione. Senza alcun dubbio, con un qualsiasi altro portiere l'Indipendiente avrebbe perso con due o tre gol di scarto. Finì ai rigori. Ed anche qui el Pelao superò sé stesso, parandone uno con uno splendido volo sulla sinistra. Il pallone era angolato ma non violentissimo, il Che riuscì con la punta delle dita a sfiorarlo, deviandolo sopra la traversa. Ma, l'ennesimo miracolo, non bastò. Il centravanti dell'Indipendiente Sporting riuscì nell'impresa di non realizzare neanche un rigore dei tre a sua disposizione (record negativo eguagliato dal centravanti dell'Argentina Martin Palermo contro la Colombia...) e fu secondo posto. Ma Che Guevara venne considerato il miglior allenatore e portiere del Torneo. Un eroe.

Ernesto Che Guevara amava lo sport. E nonostante soffrisse di asma, non s'è fermato mai davanti a niente. Anzi. Più del calcio era molto portato per il rugby. Giocava nell'Estudiantes di Cordoba: era stato prima un'ala e poi quarter back. Ma a volte era stato impiegato anche da hoocker, tenace e indistruttibile. Pur essendo più bravo con una palla ovale fra le mani, lui però amava il calcio, quella era una passione che veniva dalle viscere. Gli piaceva anche andare in bicicletta (a diciassette anni era andato con un "cucciolo", un velocipede a motore fino alla provincia più a Nord dell'Argentina), giocare a basket, a baseball, praticare il canottaggio, volare con il deltaplano (aveva frequentato un corso di pilotaggio con lo zio, Jorge de la Serna) e anche giocare a scacchi, passione che aveva appreso esercitandosi a Mar del Plata con il campione cileno René Letelier e che aveva poi incrementato a Cuba invitando protagonisti di quel gioco da tutto il mondo.

L'attività sportiva era per lui una sorta di sfida. Prima di tutto con sé stesso, con la malattia che si portava dentro, poi contro gli altri. Il culto e la pratica dello sport lo temprano a ogni sfida. Come la notte del suo ventiquattresimo compleanno, quando, dopo aver festeggiato con i medici e gli infermieri del lebbrosario di San Pablo, in Perù, aveva attraversato, mettendo a repentaglio la sua vita, un ramo del Rio delle Amazzoni per raggiungere la sponda opposta dove stavano reclusi i malati per brindare anche insieme a loro.

Cercarono di fermarlo, ma non volle sentire ragione, Granado gli urlò contro di tutto. "Sei pazzo, il fiume è pieno di piraña, basta che sfiori un ramo e sgorghi un po' di sangue, per attirarli... Corri il rischio di essere mangiato vivo... Tra l'altro, ci sono gorghi pericolosi, la corrente è forte, non conosci il fiume..." Ma se l'era messo in testa, e quando Che Guevara si metteva qualcosa in testa ... "Voleva andare dall'altra parte, a trovare la gente ricoverata nel lebbrosario. E allora si tuffò nuotando di traverso, in modo da farsi aiutare dalla corrente. Vinse il fiume, sprezzante del pericolo e basta. Dopo sapemmo che nessuno mai aveva tentato di attraversare il fiume a nuoto..."

Questo era Ernesto Che Guevara, Fuser, el Pelao. Aveva l'esigenza continua di misurarsi. Di vivere la vita come una sfida. "Smetterò di praticare lo sport quando morirò", disse una volta. E così fu. Mantenne anche questa promessa.

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BRERA&PASOLINI
Uomini contro, anche nel calcio



Brera e Pasolini sono due numeri uno. Fanno parte di quel ristretto manipolo di "uomini contro" che hanno avuto il coraggio della diversità, di andare avanti anche quando erano consapevoli di stravolgere le regole e di mettere in discussione il conformismo asfissiante del "politicamente corretto". Uomini che non hanno mai avuto paura di remare controcorrente "in direzione ostinata e contraria" e che, soprattutto, hanno sempre avuto il merito di frantumare l'ammorbante muro del silenzio.

Così uguali e nello stesso tempo così diversi. Brera e Pasolini si stimavano, si rispettavano ma, di certo, non si amavano.

Negli anni Settanta Pasolini in un articolo sul Giorno, il giornale di Brera, si scagliò contro la presunta diversità del giornalista sportivo. "Il calcio è un linguaggio con i suoi poeti e prosatori, con un uomo che usa i piedi per calciare un pallone. Sono inconcepibili i giornalisti sportivi che pretendono di parlare di calcio accampando superbe pretese..." Un attacco frontale, e per di più nel suo territorio, nel suo giornale. Più di un affronto. Il sapore di una sfida. Ma come, mentre l'italiano comune oscillava ancora tra un linguaggio formale e l'emarginazione dialettale (e ben dieci anni prima degli interventi dello stesso Pasolini), Brera si era servito di tutte le risorse della lingua, forte del suo personalissimo stile, per allontanarsi al tempo stesso dai modelli paludati e dalle forme più banalmente usuali inventando dal nulla miriadi di neologismi che hanno fatto il linguaggio del calcio e Pasolini parlava di pretese e superbia? Non venne mai perdonato lo "scrittore corsaro". Neanche dopo morto. Non fu certo indulgente, a tal proposito l'articolo che scrisse Gianni Brera sul Guerin sportivo, all'indomani della tragica uccisione di Pasolini all'idroscalo di Ostia. "Mi rimane tutt'ora nella memoria come una sorta di sgomento: (riferendosi alla faccia dello scrittore vista in una trasmissione tv) gli occhietti vivi e pungenti, la fronte ampia, bozzuta e insieme degenerata per chissà quali sconquassi ereditari, gli zigomi alti e sporgenti, il nasetto breve, la bocca larga da femminotta riuscita male, il mento peraltro ossuto e quadrato, in imbarazzante contrasto con l'espressione, che era del satiro conscio di sé e della propria dannazione armonica. Incasellato nel mio archivio mnemonico, quel personaggio era già condannato al triste suo destino, ed a pensarci, ha ottenuto la fine che forse cercava, quasi irridendo allo scandalo cui lo costringeva la sua ambigua natura. Ad accopparlo in quel modo orrendo è stato un ragazzo di vita quali egli stesso aveva scoperto e reso popolare. Era la fine di un poeta maledetto ma con Alfa Romeo e conto in banca".

Non si amavano, eppure Brera e Pasolini condividevano una grande passione, il calcio. E lo hanno raccontato. Ognuno naturalmente con il grandangolo della sua storia e del proprio bagaglio culturale, ognuno col proprio linguaggio, il proprio inconfondibile stile.

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GIANNI BRERA
Azzurri, omarini e Zulù



GIOVANNI LUIGI BRERA (San Zenone al Po, 8 settembre 1919 - Codogno, 19 dicembre 1992) è stato giornalista e scrittore. È da molti considerato colui che più di tutti ha influenzato il giornalismo sportivo italiano del XX secolo. Diede vita a uno stile giornalistico innovativo e moderno, basato su una feconda vena letteraria e narrativa e su una cultura classica assai profonda. Introdusse numerosi neologismi (ma anche riadattamenti in ambito sportivo di stilemi della tradizione linguistica italiana, nazionale e dialettale), tuttora utilizzati non solo in ambito sportivo. Seppe amalgamare in modo sapiente gli elementi della lingua italiana con quelli stranieri e con quelli tipici degli idiomi regionali. È stato lui a coniare il toponimo Padania. Brera ha scritto 47 libri. E non solo di sport. Ma anche di storia, politica, enogastronomia, teatro.


Chissà che cosa avrebbe detto, Gioanbrerafucarlo, padano di riva e di golena, di boschi e di sabbioni, figlio legittimo del Po, il più grande cantore del calcio che l'Italia abbia mai avuto. Chissà cosa avrebbe detto Gianni Brera di un campionato del mondo giocato in Africa, nell'Africa australe fra la Namibia, il Botswana, lo Zimbabwe, il Mozambico, lo Swaziland e il Lesotho, in un Paese, "culla dell'umanità", graffiato e segnato da un susseguirsi di altopiani, dall'Alto Veld, sino alla catena montuosa della Grande Scarpata, terre nate per correre di gamba felici, non certo per giocare al calcio.

Chissà cosa avrebbe pensato della celebrazione quadriennale di Eupalla, la dea del pallone, che lui aveva ricavato da Euterpe musa protettrice della musica e della poesia lirica, forme d'arte certo non più nobili del calcio, in Sudafrica, la terra degli Zulù, dove l'unica vera palla è quella ovale (due titoli mondiali nel rugby), autentico sport nazionale (anche in una particolare formula di rugby a sette, che sta al rugby come il calcio a 5 sta al calcio), grande, vera, sentita passione popolare. Rugby che, per come la pensava lui, era nato "per un ingiurioso sberleffo alla virtù pedatoria dei plebei", figuriamoci.

Che poi per questo mondiale sudafricano sia stato realizzato dall'Adidas insieme ai ricercatori inglesi della Loughborough University, quel mostro di pallone, traditore e irridente, infido e ultraleggero, dalle sembianze ovaloidi, chiamato Jabulani, che vuoi dire esultare, ma che ha fatto piangere i portieri di mezzo mondiale, è qualcosa di più di un segno del destino, la consacrazione di un mondiale dagli scarsi riferimenti tecnici. Di certo quel pallone per bambini che scappa da tutte le parti e rimbalza come vuole avrebbe fatto brontolare, e non poco, Gioanbrerafucarlo.

E non oso nemmeno immaginare che cosa avrebbe pensato delle vuvuzelas (fare vuvù in lingua zulù), o se volete Lepatata (in lingua tswana), quelle maledette trombette ad aria, solitamente di plastica, brevettate da tal Neil Van Schalkwyk che con questi ordigni micidiali ha fatto la fortuna sua e la disgrazia nostra e che ha trasformato le partite di calcio in un carnevale di decibel e gli stadi in sambodromi assordanti. Strumenti infernali che la Fifa ha benedetto inventando "che sono un elemento caratteristico della cultura e delle tradizioni sudafricane", sciocchezza che fa sorridere persino la gazzella e il leone, che ogni mattina si alzano presto e cominciano a correre per la savana, per "accontentare" i turisti e per tener in vita quelle leggende che piacciono tanto da quest'altra parte del mondo.

Di certo Brera avrebbe dato un'ampia boccata alla sua inseparabile pipa, compagna di mille viaggi e di mille stadi, quella che gli regalava calma interiore e pacatezza dell'anima, perché per lui vivere senza fumo era come dormire senza sognare. Sicuramente avrebbe dato un'ampia boccata lasciando che il fumo compisse scie e disegni voluti dal destino, e poi avrebbe ricordato che lui conosceva gli Springbok, quelle antilopi scattanti e muscolose che vincevano nel rugby, simbolo nazionale del Sud Africa sotto il dominio della minoranza bianca, l'unico simbolo di resistenza dopo la campagna di liberalizzazione antisegregazionista di Nelson Mandela; che lui, di calciatori discendenti dagli Zulù, non ne aveva mai avuto notizia né contezza, che lui i "bafana, bafana" (i nostri ragazzi) non li aveva mai visti giocare perché ai tempi suoi erano ormai esclusi da tutte le manifestazioni mondiali per decisione voluta dalla Fifa a causa dell'apartheid.

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PIER PAOLO PASOLINI
Gol, eros e poemi



PIER PAOLO PASOLINI (Bologna, 5 marzo 1922 — Roma, 2 novembre 1975) scrittore, poeta e regista italiano. È considerato uno dei maggiori artisti e intellettuali italiani del XX secolo. Dotato di un'eccezionale versatilità culturale, si distinse in numerosi campi. Attento osservatore della trasformazione della società dal dopoguerra sino alla metà degli anni Settanta, suscitò spesso forti polemiche e accesi dibattiti per la radicalità dei suoi giudizi, assai critici nei riguardi delle abitudini borghesi e della nascente società dei consumi italiana, ma anche nei confronti del Sessantotto e dei suoi protagonisti. Nella notte tra l'1 e il 2 novembre 1975 Pasolini, che era omosessuale, venne trovato ucciso sulla spiaggia dell'idroscalo di Ostia.


Ha amato il calcio con la stessa incantata foga di un bambino. Pier Paolo Pasolini ogni volta che ha scritto di calcio ha scritto col cuore. Una passione illimitata, il calcio al pallone come un gesto di libertà e di gioia. Basta vederlo con un pallone fra i piedi. Fra le tante che hanno riempito rotocalchi e giornali, c'è una foto che meglio di tutte le altre è riuscita a fissare l'anima di Pasolini. È una giornata di sole e il poeta è vestito di tutto punto, indossa un abito scuro e le scarpe di cuoio, la cravatta e il pullover sotto la giacca. Nonostante l'abbigliamento, con l'interno del piede destro controlla un pallone, un gesto tecnico preciso e corretto. La gamba e il busto formano una sola linea assai inclinata, tutto il peso sull'altra gamba flessa e ben piantata a terra. I pugni stretti, le braccia allargate tese come ali alla ricerca dell'equilibrio, lo sguardo fisso a terra sul pallone: è concentratissimo nell'atto di calciare. Una strada qualsiasi delle nostre periferie, intorno a lui un marciapiede scheggiato, un gradino di marmo, un cumulo di erba e terra. Un attimo rubato a una partita di strada, quelle dove si gioca per niente e ci si gioca tutto, trascinati dalla voglia di far volare e correre il pallone, di provare il colpo visto in televisione la domenica. Una di quelle improvvisate sfide, dove si urla e si ride e si sputa sangue sino alla fine, perché anche per strada, anche senza l'identità di una maglia, nessuno ci sta a perdere. Mai.

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