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| << | < | > | >> |IndicePREFAZIONE ALL'EDIZIONE ITALIANA 5 PREFAZIONE 9 CAPITOLO 1 - Paradiso perduto 13 CAPITOLO 2 - Il paradiso ritrovato 49 CAPITOLO 3 - La mia America a metà del secolo 73 CAPITOLO 4 - Yale, SDS e CIA 109 CAPITOLO 5 - Cambridge e la scoperta dell'Inghilterra 135 CAPITOLO 6 - Gli anni Sessanta 157 CAPITOLO 7 - Dagli anni Settanta in poi 185 CAPITOLO 8 - Conclusione 215 EPILOGO 221 Libri in tasca di Valentina Parlato 229 NOTE 232 |
| << | < | > | >> |Pagina 5Questo libro parla dell'America e dell'Europa ma anche della mia riscoperta dell'Europa e in questo l'Italia ha avuto un ruolo molto importante. All'inizio degli anni Sessanta, quando ho iniziato a lavorare alla Pantheon Books, mi sono trovato presto in contatto con editori e autori italiani. Uno degli incontri più importanti è stato quello con Giangiacomo Feltrinelli. Kurt e Helen Wolff, miei predecessori alla Pantheon, erano stati gli editori negli Stati Uniti del Dottor Zivago e del Gattopardo. Questi due libri avevano trasformato la Pantheon Books da piccola e combattiva casa editrice di esiliati europei a prospera e nota casa editrice americana. Nonostante la dimensione della Pantheon Books, il libro di Pasternak ha venduto più di un milione di copie, e contando i tascabili più di cinque milioni. Stabilire un rapporto con Feltrinelli, quando sono andato per la prima volta alla Fiera di Francoforte nel 1964, era quindi una priorità. La sua reputazione era tale che non ero sicuro mi avrebbe concesso un appuntamento. Sono andato con Bob Bernstein, nuovo capo del gruppo Random House, anche lui dubbioso sulle nostre possibilità di incontrare Feltrinelli. Giangiacomo ha dimostrato di essere non solo avvicinabile ma anche estremamente amichevole. Abbiamo iniziato a pubblicare molti libri insieme e ogni volta che andavo a Milano ci incontravamo. Era particolarmente orgoglioso delle sue nuove librerie e mi mostrava come aveva deciso dove dovessero essere posizionate. Spiegava che aveva valutato il traffico dei pedoni nel centro della città e deciso di aprire le librerie dove il numero di passanti era più alto. A dispetto delle sue idee politiche rivoluzionarie era un brillante uomo d'affari, come ha raccontato suo figlio Carlo nel suo attento e onesto libro di memorie sulla vita di suo padre. Dopo la tragica morte di Giangiacomo, ho continuato a incontrare la moglie Inge e Carlo, ottimo tutore dell'eredità paterna, che ha iniziato a concentrarsi sulle librerie. Poco dopo aver stabilito i miei contatti con Feltrinelli ho ricevuto dall'Einaudi l'invito a partecipare alla Fiera del libro di Torino e a incontrare Giulio Einaudi e i suoi collaboratori. Il catalogo di Giulio Einaudi era a tutti gli effetti il catalogo italiano più impressionante. Giulio Einaudi era noto per il suo fascino e per la sua personalità accattivante. Aveva chiaramente deciso che questo giovane americano sarebbe stato un partner ideale ed ero felicemente d'accordo con lui. Nonostante il suo fluente francese, mi ha sempre parlato in italiano, insistendo nel dire che lo avrei capito e, incredibile, aveva ragione: non abbiamo mai avuto bisogno di un traduttore. Mi invitò a cena in un piccolo ristorante torinese dove ho conosciuto il suo staff e dove ho incontrato Natalia Ginzburg e suo figlio Carlo che più tardi, troppo tardi, ho pubblicato. Ogni anno andavo in visita al Dipartimento di Storia di Princeton, come membro del loro comitato esterno. Ricordo chiaramente una serata in cui qualcuno mi ha detto che dovevo pubblicare il nuovo libro di Carlo Ginzburg, Il formaggio e i vermi. In un momento di stupido puritanesimo ho pensato di non pubblicare un libro che non potevo leggere personalmente e l'ho perso a vantaggio di un editore più scaltro. Tanto grande fu il suo successo, che solo molti anni dopo ho trovato un suo titolo ancora disponibile per il mercato americano. Einaudi aveva un gruppo di brillanti direttori editoriali. Quando l'ho incontrato, ne facevano parte Guido Davico Bonino e Giulio Bollati, che lo hanno aiutato a stilare un catalogo di scienze umanistiche senza pari in Europa. L'annuale appuntamento con loro a Francoforte era il momento più importante della mia visita. La loro intelligenza brillante dava molto alla nostra amicizia. Aspettavo con ansia il momento della nostra cena. Abbiamo iniziato a lavorare insieme su molti libri. L'Einaudi ha pubblicato un gran numero di nostri saggi di politica, di storia e di psicologia. Io ero felice di poter tradurre autori tanto diversi come Danilo Dolci e Primo Levi. Quando i primi libri che ho scritto sono stati tradotti in Italia, fui entusiasta di farli uscire presso la casa editrice di cui Giulio Bollati era diventato coproprietario e direttore dopo aver lasciato l'Einaudi: la Bollati Boringhieri. Una casa editrice con un catalogo che ammiro molto. Molti altri editori erano vicini a quello che noi stavamo tentando alla Pantheon Books. La lista è lunga e parecchie di queste case editrici sono ormai scomparse. Ma il panorama editoriale italiano mi sembrava vitale non solo per i giganti intellettuali che ho menzionato. Pure la scena politica sembrava entusiasmante, con il tentativo italiano di creare una nuova sinistra, mentre altri paesi, come la Francia e la Spagna, erano troppo paralizzati per provare esperienze simili. Anche se ho centrato i miei ricordi sugli straordinari editori con i quali ho potuto lavorare, i legami con la vita intellettuale italiana sono andati ben al di là. Mi sentivo naturalmente a casa in Francia, dove ero nato, e in Inghilterra, dove ho studiato, come racconto nelle pagine seguenti, ma in Italia c'era una sensazione particolare: il clima politico e intellettuale mi era congeniale. L'abilità di questi editori nello scegliere i libri che volevano, nonostante i dettami del mercato, mi sembrava esemplare, portavano avanti cataloghi che ammiravo e che mi sembravano modelli da imitare e che mai avrei potuto eguagliare. Sono stato particolarmente orgoglioso di vincere la seconda edizione del premio Grinzane Cavour Bollati. Il primo anno avevano dato il premio all'autore ed editore tedesco Hans Magnus Enzensberger (di cui ho pubblicato i libri in America). Anche se era il premio per il lavoro di una vita, penso fosse riferito al periodo d'oro in cui ho avuto il privilegio di lavorare con editori italiani così importanti. Non appena la tendenza da me denunciata in Editoria senza editori è arrivata in Italia, ho provato un personale senso di perdita di fronte a tante case editrici inglobate dai grossi gruppi. L'evoluzione che avevo tanto deplorato in America e in Inghilterra, è arrivata in Italia in forma ancora più distruttiva: la stretta di Berlusconi su così tanti media fa dell'Italia il peggior esempio di questo tipo di editoria in Occidente e rende purtroppo sempre più difficile la possibilità di cambiamenti politici. Possiamo solo sperare che con il collasso internazionale del sistema, che lui rappresenta in maniera tanto abile, dei cambiamenti possano essere di nuovo possibili in Italia. È incoraggiante che ci siano ancora case editrici indipendenti come la Voland che riescono a portare avanti la grande tradizione dell'editoria italiana. È un fenomeno in crescita in Europa come negli Stati Uniti. Rappresenta le speranze dei giovani ovunque siano ancora possibili alternative da sviluppare. Il futuro potrebbe essere proprio dalla loro parte. Speriamo. New York, febbraio 2009 | << | < | > | >> |Pagina 21La vita di mia madre era stata molto meno movimentata. Il padre, Oscar Heymann, era arrivato a Parigi da Strasburgo, nell'Alsazia-Lorena, come venditore ambulante povero in canna, incaricato dal padre di trovare, in qualche modo, dei soldi per la dote della sorella. A poco a poco mise su un vantaggioso commercio di merletti e passamanerie, che gli permise di mantenere mia madre, nata nel 1906, le sue due sorelle e il fratello minore nell'agiato sobborgo di Neuilly, in un grande e lussuoso appartamento con persino una sala da biliardo, prova della loro ascesa sociale. Come molte ragazze francesi del periodo successivo alla Prima guerra mondiale, mia madre non era andata all'università, benché avesse senz'altro partecipato al fervore intellettuale dell'epoca; una delle storie che raccontava – la mia preferita – era quella in cui faceva la fila in libreria ogni volta che usciva un nuovo volume della Ricerca del tempo perduto di Proust.Ma mio nonno materno era un padre severo, se solo avesse sorpreso mia madre a uscire di casa con un accenno di trucco, avrebbe bagnato il fazzoletto e avrebbe cancellato le tracce oltraggiose. In ogni modo, mia madre era decisa a emanciparsi e, quando seppe da amici che una nuova casa editrice cercava una segretaria, salì i sei piani che portavano all'ufficio di una sola stanza, sede della neonata Editions de la Pléiade, e si offrì per l'impiego. Avrebbe ricordato più tardi che a ogni piano della lunga scala c'era un cartello a indicare che gli uffici erano più in alto. Mio padre, immediatamente colpito dalla sua bellezza e divorziato da poco dalla prima moglie, le offrì subito il posto, nonostante lei avesse confessato di non avere alcuna esperienza e di non saper neanche battere a macchina. I miei genitori si sposarono poco dopo, nel 1929, e intrapresero quelli che furono senza dubbio dei felici anni iniziali. Come per milioni di altre persone, la guerra avrebbe drasticamente cambiato la loro vita e squassato il loro mondo. Nel 1939 mio padre venne arruolato nell'esercito, nonostante fosse prossimo ai cinquant'anni e soffrisse di enfisema polmonare. La vita spartana nelle caserme fuori Parigi non giovò certo alla sua cagionevole salute. Eppure tutto questo sembra aver toccato a malapena la mia vita. I miei genitori hanno fatto il possibile per nascondermi quanto accadeva, e per trasformare in un gioco da bambino quello che non potevano nascondermi. Per distrarmi dalla sua partenza e dallo sconvolgimento delle nostre vite, mio padre mi aveva fatto una versione per bambino della sua divisa, però con molte medaglie. Me ne vantavo nelle mie lettere a Gide (che nel frattempo era diventato uno dei più cari amici di mio padre). In seguito, quando mio padre tornò a Parigi durante i primi raid aerei tedeschi, mi nominò "addetto in seconda alla protezione antiaerea" e i miei ricordi dei bombardamenti sono quelli di un'avventura entusiasmante in cui noi ci precipitavamo giù nelle cantine piuttosto che di un effettivo terrore. I miei genitori riuscirono anche a organizzare una festa per il mio quinto compleanno con un giorno d'anticipo, il 13 giugno 1940, il giorno prima dell'entrata dell'esercito tedesco a Parigi. Ancora oggi mi chiedo come siano riusciti a nascondermi così bene le loro paure e le loro angosce. E non posso confondermi riguardo alle mie impressioni di allora: anche le lettere di mio padre mi descrivono mentre gioco felice durante questi anni difficili, persino durante quella che per i miei genitori deve essere stata l'esperienza più atroce: la fuga dal nazismo. Mio padre non aveva dubbi su cosa ci sarebbe toccato se fossimo rimasti in Francia. Sapeva dei campi di concentramento e doveva aver sentito parlare dell'assassinio sistematico già messo in atto nell'Europa dell'est: quasi un milione e mezzo di ebrei erano stati uccisi sul posto dall'esercito tedesco prima che i campi di concentramento fossero costruiti. Era anche consapevole del crescente antisemitismo e della xenofobia francese, eccitata all'inizio dalla stampa di destra e poi dal governo di Vichy. La mia era una famiglia di tipici ebrei laici, contrari a ogni religione, estranei ai riti e ai costumi dell'ebraismo. In Russia molti intellettuali ebrei consideravano i rabbini propagatori di superstizioni e di irrazionalità. Naturalmente, entrambi i miei genitori conoscevano bene le loro origini, ma furono fra quelli, numerosi in Europa, che sono diventati ebrei a causa di Hitler. Poco dopo l'entrata dei tedeschi a Parigi, il giorno del mio compleanno, il nostro appartamento fu requisito e dovemmo lasciare Parigi. Per me i contatti con i soldati tedeschi, anche in Normandia dove ci rifugiammo inizialmente, sono stati abbastanza piacevoli. Ricordo giovani soldati amichevoli che, in quei primi mesi, avevano ricevuto l'ordine severo di farsi benvolere dalla popolazione locale. Essere educati e anche galanti con mia madre non richiedeva un grosso sforzo. All'inizio erano tutti sorrisi e lusinghe. Non ricordo di essermi mai davvero spaventato fino a quando cominciammo a prepararci ad attraversare la zona occupata dai tedeschi per raggiungere la zona detta, erroneamente, libera, in teoria sotto il controllo del governo collaborazionista di Vichy. Avevamo documenti falsi e io dovevo memorizzare un nuovo nome. Ricordo di essere rimasto seduto nel bagno buio del posto di frontiera, ripetendo il mio nuovo nome all'infinito, ma poi non me lo ha chiesto nessuno. Arrivati nel sud della Francia, ci sistemammo a Saint Tropez in un appartamento affittato dai miei genitori per le vacanze d'inverno, nella torre del castello Suffren. Mia madre e mio padre continuavano a tentare di distrarmi. Un giorno i loro tentativi provocarono il solo momento di vera paura di cui mi ricordi chiaramente: fu quando mi portarono a vedere il film della Disney Dumbo. A quanto pare i film americani circolavano ancora nella Francia di Vichy. Come molti film della Disney anche questo enfatizzava la separazione dei bambini dai loro genitori, e mi terrorizzò per giorni. Nello stesso periodo mia madre e mio padre furono più fortunati nel loro contatto con la cultura popolare americana. Il romanzo Via col vento era appena apparso in traduzione francese, e si rivelò la migliore lettura di evasione possibile, in tutti i sensi. Quando mio padre finiva una pagina, la strappava e la passava a mia madre. Rimanemmo a Saint Tropez ad aspettare i nostri visti. Il minuscolo villaggio era bello e ancora incontaminato, privo della manifesta ostentazione degli anni post-Bardot. Adesso il porto non ha abbastanza posti per tutti gli yacht che vogliono ormeggiare. Nonostante allora fosse un periodo di tensioni e costrizioni senza fine per i miei genitori, io ne ho solo ricordi gradevoli. Ricordo l'eccitazione di vedere i cavalli della cavalleria francese nelle stalle del castello. Il castello esiste ancora, in seguito l'ho visitato in diverse occasioni. Una volta sono anche tornato nel nostro vecchio appartamento, e mi sono ritrovato davanti agli occhi l'ampia vista sul Mediterraneo infinito che avevamo dalle nostre finestre. E anche se in quell'inverno del 1940 pativamo la fame, ricordo le magnifiche passeggiate sui sentieri di campagna costeggiati dalle mimose, dove con l'aiuto di un ragazzo del posto ho imparato ad arrampicarmi sui pini per prendere le pigne piene di preziosi e commestibili pinoli. Le immagini delle foreste dalla deliziosa fragranza rimangono in me, come il profumo delle mimose mescolato al caldo e ricco odore degli aghi di pino che tappezzavano il suolo. Per i miei genitori era naturalmente molto logorante. Da Saint Tropez mio padre faceva su e giù per Marsiglia, sperando in qualche modo di trovare un posto su una nave per l'America. Ma siamo rimasti in trappola per mesi, in ansiosa attesa. Un periodo di false partenze che spezzavano il cuore, aspettavamo i visti e i biglietti, con il pericolo che scadesse l'uno prima di aver ottenuto l'altro. | << | < | > | >> |Pagina 59La storia era complessa: non appena i nazisti occuparono Parigi, misero i sigilli alla Gallimard, e la famiglia e gli impiegati, compreso mio padre, se ne andarono in campagna. Gaston era impaziente di riprendere l'attività ed era pronto ad accettare le condizioni dei nazisti. Cioè licenziare dalla casa editrice due ebrei, mio padre e il responsabile delle vendite, Louis-Daniel Hirsch, permettere ai direttori editoriali scelti dai nazisti di entrare nella casa editrice e cambiare la direzione della famosa rivista "La Nouvelle Revue Française", fondata una decina d'anni prima da André Gide. Otto Abetz, l'ambasciatore tedesco, aveva passato molti anni nella Francia d'anteguerra e ne conosceva a perfezione il panorama culturale, gli era ben nota l'importanza della Gallimard e di "La Nouvelle Revue Fraçaise", sapeva quindi che assicurare la continuità di entrambe avrebbe dato l'impressione che la cultura francese non avesse subito mutamenti. Abetz, intelligentemente, scelse come nuovo direttore della rivista uno scrittore fascista di fama, Pierre Drieu La Rochelle. Con lui in carica la Gallimard fu autorizzata a continuare le pubblicazioni nell'ambito di una politica nazista ben precisa.Gallimard, l'uomo e la casa editrice, erano stati attaccati anche dai fascisti francesi, che spesso nel linguaggio erano più estremisti dei sofisticati tedeschi. In realtà durante l'occupazione i tedeschi usarono spesso i fascisti sia per fare pressioni da destra su Vichy, sia per organizzare attacchi contro la Resistenza. Il 18 ottobre 1940, sul giornale "Au Pilori", Paul Riche denunciava Gallimard e i suoi libri: "Via i libri di Gide, Malraux, Aragon, Freud, i libri surrealisti — i libri pacifisti e antinazisti — che hanno rovinato le relazioni tra l'Europa [leggi la Germania] e la Francia... Quanti nomi ebrei alla Gallimard: Freud, Benda, Schiffrin. [...] Gallimard vuole tornare a Parigi! I negri, negroidi, e negrofili gallimardosi aspettano ai "Deux Magots" i loro trenta denari." Eccetera. Di fronte a tali attacchi, si può ben immaginare il sollievo di Gaston sapendo di poter ricominciare a pubblicare, anche se al prezzo di licenziare i suoi migliori dipendenti e di accettare il controllo tedesco sulla sua rivista-ammiraglia. Bisogna aggiungere, per correttezza, che molti editori si sono comportati ben peggio. Alcuni entusiasti filonazisti e antisemiti pubblicarono secondo la loro ideologia, altri si affrettarono a distruggere le loro traduzioni di Heine, il poeta classico ebreo-tedesco, prima che i suoi scritti fossero messi al bando. Altri si conformarono immediatamente alla lista dei libri censurati da Abetz, l'ignobile Lista Otto, che vietava la vendita di centinaia di titoli di autori ebrei, di antinazisti e di marxisti. Su questo argomento venni a saperne di più anni dopo, quando lessi l'eccellente saggio di Pascal Fouché, L'édition francaise sous l'Occupation, una storia dimenticata dalla maggior parte dei francesi. Ma allora, mentre andavo nel grande appartamento di Gaston Gallimard, ignoravo queste cose. L'abitazione di Gallimard dava sui giardini del Palais Royal, uno dei più bei luoghi di Parigi: un grande porticato circondava il giardino con tre viali di alberi quasi identici, che creavano a loro volta un porticato verde uguale a quello dei palazzi. I portici non erano più il rifugio di prostitute e di giocatori raccontato da Balzac nelle Illusioni perdute, tutt'altro, un lato era occupato da uffici governativi e gli altri tre da sfarzosi negozi e ristoranti con, sopra, lussuosi appartamenti. Mi sembrava incredibile che semplici mortali potessero avere una così splendida vista. Gallimard stesso ne sembrava impressionato e mi mostrò l'abitazione di Colette dall'altro lato del giardino. Non avevo ancora letto nessuno dei suoi libri ma sapevo di lei cose che mi avevano scosso (aveva un ruolo importante nelle nostre leggende familiari: una volta aveva invitato mia madre, allora molto giovane, a casa sua per il weekend. Nella stanza a lei destinata, Simone trovò il pavimento coperto di petali di rosa. A quanto ne so, non accadde niente, ma una volta arrivato all'età per corteggiare una donna ho capito che non avrei mai raggiunto un tale livello di raffinata seduzione). | << | < | > | >> |Pagina 64A essere onesti bisogna riconoscere che l'atteggiamento di Gide verso gli ebrei era molto comune tra gli scrittori dell'epoca. Molti erano anche peggio. Un recente e notevole libro, La Nouvelle Revue française des années sombres, 1940-41, di Pierre Hebey, fa il triste elenco degli scrittori che attaccavano gli ebrei e che si erano persino opposti alle misure di accoglienza dei rifugiati dalla Germania nazista promosse dal Primo ministro Léon Blum (proprio come hanno fatto molti politici americani). L'elenco è un vero pantheon degli scrittori francesi di allora. Vi appaiono personaggi famosi come Jean Giraudoux e Georges Bernanos e, tra quelli più a destra, Drieu La Rochelle, Robert Brasillach e Céline. Brasillach scrisse sulla stampa di Vichy chiedendo perché certe persone, che citava con i nomi e i cognomi, non erano ancora state arrestate (per questo dopo la guerra è stato fucilato, a ragione, penso). Céline si era lamentato con lo scrittore tedesco Ernst Jünger, a quel tempo ufficiale della Wermacht, che i tedeschi non avessero sparato, impiccato o sterminato in altri modi gli ebrei. Una storia molto eloquente è quella tranquillamente inclusa da Jean Cocteau nell'edizione post-bellica dei suoi diari del 1942-44 (Gallimard, 1989). A un ebreo che si lamentava con lui di dover portare la stella gialla, Cocteau rispose: "non preoccuparti, dopo la guerra potrai farci indossare un naso finto." Cocteau, che aveva vissuto senza disagi durante tutta l'occupazione, andando alle feste e ai ricevimenti dei tedeschi, era apparentemente così compiaciuto del suo bon mot da giudicarlo degno di essere ricordato, senza capire quello che rivelava di sé stesso.I commenti di Gide, per quanto infelici, sono dunque anodini a confronto con altri, anche i più liberali, e sono temperati dal fatto che lui ne fosse turbato. Quando la Francia fu occupata dai tedeschi, Gide divenne il bersaglio dei collaborazionisti che lo accusarono di tradimento, lo ritenevano responsabile della decadenza morale della Francia e, quindi, della disfatta. Capì molto in fretta quale fosse il ruolo di Pétain e di Vichy, e dopo aver ceduto alle suppliche di Gallimard scrivendo un articolo per la rivista di Drieu La Rochelle, rifiutò in seguito qualsiasi collaborazione. Infine decise di non pubblicare i suoi libri in Francia, e li mandò a mio padre, a New Yok. Ma Gide ha fatto molto di più che superare i pregiudizi comuni alla sua generazione. Ha aiutato mio padre da vero amico ed è stato il vero artefice del cambiamento più importante della sua vita editoriale. Gide è stato decisivo nel trattare il passaggio della Pléiade alla Gallimard. | << | < | > | >> |Pagina 157Quasi tutte le mie previsioni si sono rivelate sbagliate: Oxford e Cambridge furono completamente trasformate dagli sforzi congiunti di Margaret Thatcher e Tony Blair. Dall'esperienza di Cambridge uscii completamente trasformato: avevo trovato un ambiente intellettuale e sociale in cui mi sentivo perfettamente a mio agio; non mi sentivo più emarginato e in guerra come a Yale; ero diventato un perfetto inglese e avevo fatto dell'Inghilterra la mia seconda patria. In parte, si trattava senz'altro dell'angoscia del rifugiato, del bisogno di trovare un altro porto sicuro nel caso il primo fallisse, come da bambino avevo chiesto una bicicletta pieghevole. Il maccartismo aveva lasciato, in molti di noi, una profonda incertezza sul nostro futuro americano. Un buon numero di accademici, registi e altri, si erano rifugiati in Inghilterra, compresi alcuni importanti professori di Oxford e di Cambridge, come Moses Finley, il famoso antichista che avrebbe poi avuto un ruolo importante nella vita culturale inglese. Intellettualmente Cambridge mi aveva dato la libertà che non avevo mai avuto e mi aveva insegnato molto di più di quanto mi sarei aspettato. Ricordo di aver riletto, per la centesima volta, il libro di Tocqueville sulla rivoluzione francese con il mio tutore, lo storico Jack Gallagher, e di essermi reso conto che, a Cambridge, avevo finalmente imparato a leggere. Prima leggevo per piacere o per obbligo, ma ora capivo sia le intenzioni dell'autore sia le questioni che poneva. Sentivo che potevo inserire, in modo nuovo, il libro nel proprio contesto. In altre parole stavo iniziando a leggere come uno storico. | << | < | > | >> |Pagina 164Alla fine degli anni Cinquanta e in seguito, molti a sinistra abbandonarono la linea 'tradizionale' in politica estera e interna, per volgersi a quelle che sembravano le problematiche del momento, evidenziate da un libro di grande successo, uscito nel 1960, La fine dell'ideologia di Daniel Bell. I vecchi problemi – sosteneva Bell – erano stati in gran parte risolti, le nuove questioni da affrontare riguardavano gli effetti dell'automazione, cosa fare del tempo libero che ne sarebbe conseguito. Molti pensavano che i problemi della società sarebbero stati risolti da esperti, e alcuni intellettuali già si vedevano trasformati in tecnocrati. Autori ben intenzionati hanno scritto libri e saggi sull'argomento prima di capire quanto fossero lontani dalla realtà, quanto i problemi americani fossero ancora gli stessi, quanto la nostra società fosse ancora ingiusta.Antony Crosland, parlamentare inglese dell'ala destra del partito laburista, ha ben esemplificato questo nuovo approccio. In Future of Socialism, un noto libro del 1956, scriveva: "Il capitalismo è stato riformato in misura tale da risultare irriconoscibile... Ci si può aspettare che l'automazione risolva ogni altro problema di scarsa produzione. Guardando al futuro, il nostro tasso di crescita ci porterà in cinquant'anni a una produzione nazionale triplicata." Pochi anni dopo Margaret Thatcher iniziava il suo lavoro di smantellamento del welfare state, "la fascia inferiore della classe operaia (un quinto dei lavoratori) si trovò in effetti in una situazione peggiore degli altri lavoratori rispetto a quanto fosse stata un secolo prima". Fino a poco tempo fa la Gran Bretagna vantava 400.000 mila senzatetto ufficialmente registrati. Più recentemente, gli americani si sono trovati ad affrontare la devastazione dell'uragano Katrina scoprendo il livello di estrema povertà e ineguaglianza in questo paese, nonostante le allegre previsioni di cinquant'anni prima. Ma, a quel tempo, gran parte della sinistra sembrava felice di abbandonare il suo vecchio terreno: la sorte dei lavoratori e dei poveri, le ineguaglianze del capitalismo moderno, la necessità del controllo operaio e delle imprese cooperative. Gli anni Cinquanta avevano mietuto le loro vittime. La guerra fredda aveva inflitto pesanti colpi alla sinistra, l'aveva macchiata con l'accusa di filosovietismo, l'aveva corrotta e assimilata. E il periodo maccartista era stato responsabile di uno scoraggiamento più profondo. L'idea che McCarthy avesse un grande sostegno popolare si era diffusa in fretta e, credo, anche in maniera irrazionale. Sarebbero dovuti passare molti anni prima che libri come McCarthy and the Intellectuals di Michael Rogin, uscito nel '68, mostrassero i limiti della popolarità di McCarthy. A quel tempo la sua forza fu accettata acriticamente, come se fosse naturale che in America dovesse svilupparsi una forma populista di fascismo. Credo che per gran parte della sinistra, e specialmente per gli ebrei, il nazismo avesse lasciato un sentimento di vulnerabilità, il dubbio che anche qui un leader di carattere potesse separarli dalle masse. Privata della certezza del sostegno della classe operaia, la sinistra si accartocciava, impotente, delegittimata, finendo per essere solo un'agenzia di consulenza intellettuale in cerca di clienti. Molti, di conseguenza, cominciarono a cambiare campo, creando le basi dell'attuale neoconservatorismo. Era come se dicessero: "Se le masse sono così volubili, non meritano il nostro sostegno." In effetti bastava guardare la nuova e fiorente classe lavoratrice, i cui salari erano triplicati nel dopoguerra, per vedere quanto fosse diventata conservatrice, quanto fosse borghese, individualista, lontana dai vecchi ideali. I repubblicani capirono subito l'importanza per loro di questo cambiamento, e lo utilizzarono nel sud con la strategia di Nixon e l'appello di Reagan agli operai americani. Il ricorso astuto e continuo al razzismo preparò il cambiamento che Karl Rove e George W. Bush avrebbero sfruttato con successo in anni recenti, storia oggi fin troppo nota. Ma se il sostegno delle masse alla sinistra non era più sicuro, perché mantenere la vecchia coalizione rooseveltiana? Neanche la sinistra tradizionale seppe capire la forza dei nuovi movimenti nati tra la fine degli anni Cinquanta e l'inizio dei Sessanta. Condizionati da anni di sostegno a una politica estera che metteva d'accordo maggioranza e opposizione, molti vecchi militanti erano diffidenti verso il movimento pacifista e i nuovi gruppi studenteschi. Le donne, i neri, i verdi e altri ritenevano fosse meglio creare ciascuno un proprio movimento piuttosto che unirsi agli altri. L'idea di un partito unico – socialista o anche democratico – che si facesse portavoce di tutti gli aspetti della società era praticamente scomparsa. Nessun gruppo era disposto a negoziare le rivendicazioni contraddittorie degli ecologisti e dei sindacati, degli immigrati e degli operai neri. Ogni nuovo gruppo difendeva appassionatamente una causa che gli altri consideravano una minaccia. Insieme alle grandi speranze che avevano animato la sinistra era finito anche l'utopismo. Ero diventato socialista non solo perché volevo vivere in una società più giusta ed equa, ma perché capivo che questo non sarebbe mai potuto accadere se non fossero cambiate le strutture industriali e finanziarie del paese. Il nostro obiettivo era modificare questi dati di partenza, non creare una controcultura o istituzioni alternative. Anche se la forza della classe operaia europea e della comunità afroamericana era stata proprio quella di creare culture parallele, i socialisti pensavano invece che fosse necessario restare legati alle miniere e alle fabbriche, ai giacimenti di petrolio e alle ferrovie. Un principio importante del pensiero socialista, ai suoi inizi, era quello di far funzionare le cose in modo più efficiente, di assicurarsi che tutte le fabbriche lavorassero a pieno ritmo, e di non accettare lo spreco del sistema capitalistico. Fu un grande shock constatare che il capitalismo sapeva adottare le nostre idee senza mollare il potere. Avevamo sostenuto che la concorrenza era rovinosa, e i monopolisti sono riusciti ad eliminarla in molti settori. Avevamo sostenuto la pianificazione e l'aiuto dello stato – i francesi avevano i loro ottimi piani quinquennali basati sulla socializzazione di buona parte dell'economia – e i capitalisti, ancora una volta, hanno trovato un modo di adeguarsi ma solo fino a quando i loro profitti e il loro controllo non ne venivano danneggiati. In Giappone e in gran parte del sud-est asiatico, la pianificazione si è dimostrata efficace quando non si è scontrata con il metodo democratico e con la redistribuzione delle ricchezze. In America abbiamo costruito con il tempo un sistema di assistenza statale per le grandi società, sistema che ha toccato tutti gli aspetti della nostra economia, dandoci tutti gli svantaggi del socialismo e nessuna delle sue qualità. Sin dal XIX secolo i liberali americani avevano sostenuto che l'intervento del governo avrebbe salvaguardato la concorrenza e che, dunque, la nazionalizzazione era solo un inutile impegno ideologico. Con la globalizzazione però, abbiamo visto le più grandi industrie chiudere, abbandonare fabbriche e operai, e spostarsi all'estero piuttosto che rischiare una diminuzione del profitto. Ci si può chiedere se le compagnie pubbliche, non obbligate al massimo profitto, avrebbero potuto essere un modo migliore di gestire le economie nazionali, come aveva sostenuto anche de Gaulle. Oppure, osservando il fallimento del sistema sanitario americano, ci si può domandare se una sanità pubblica non avrebbe potuto essere un sistema molto più efficace e molto più economico di assistenza alla popolazione; o chiedersi se non sarebbe stato meglio nazionalizzare le società farmaceutiche che, sebbene la ricerca sia in buona parte pagata dai contribuenti, spremono senza pietà i consumatori.
Un argomento forse ancora più importante era che se un governo democratico
non controllava le grandi imprese, queste avrebbero controllato ogni aspetto del
governo. Gli anni di Bush hanno
mostrato a quali estremi si può arrivare in questa direzione.
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