Autore Elly Schlein
Titolo La nostra parte
SottotitoloPer la giustizia sociale e ambientale, insieme
EdizioneMondadori, Milano, 2022, Ingrandimenti , pag. 204, cop.rig.sov., dim. 14,5x22,5x2 cm , Isbn 978-88-04-73075-0
LettoreSara Allodi, 2022
Classe politica , ecologia , lavoro , femminismo , sociologia , paesi: Italia: 2020












 

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Indice


  3     I  Dipende da noi

    - Giustizia sociale e ambientale sono inscindibili, 4
    - L'intersezionalità, 8
    - Ecologista, progressista e femminista insieme, 10
    - Il dito e la luna. Contro la politica dei capri espiatori, 13
    - Ce lo insegna la storia, 16
    - Europea, 26
    - Riscattare la politica, 34
    - Le sfide cruciali per un futuro più giusto e
      in equilibrio con il pianeta, 41

 44     II  Accompagnare la transizione ecologica

    - Č nostra responsabilità, 46
    - Il pianeta è cosa pubblica, 52
    - Nessuno si salva da solo, 54
    - Energia rinnovabile: pulita, democratica e conveniente, 58
    - Prendersi cura del suolo, 62
    - Prevenire costa meno che curare, 64
    - Economia circolare: dare una seconda vita alle cose, 67
    - Dolce, lenta e sostenibile: una nuova mobilità, 70
    - II momento è adesso. Anzi, ieri, 73

 77     III  Ridistribuire la ricchezza, il sapere, il potere

    - Le cause alla radice delle diseguaglianze, 80
    - Libertà è ridistribuzione, 82
    - L'ascolto per scrivere politiche migliori,
      commisurate ai diversi bisogni, 87
    - Paradisi fiscali senza palme, 89
    - Un Double Irish, legalizzato, non tassato, 92
    - Caccia al tesoretto: soluzioni globali, 95
    - Un fisco progressivo: chi ha di più, deve contribuire di più, 101

106     IV  Restituire dignità e qualità al lavoro

    - Il precariato è la norma, 109
    - Spezzare le catene, 112
    - La partecipazione che migliora l'impresa e il lavoro, 116
    - Guidare l'innovazione tecnologica, 118
    - Ridistribuire anche il tempo, 121
    - Contro il precariato, lo sfruttamento e il caporalato, 125

131     V  Superare il patriarcato

    - Diritti sotto attacco e diritti negati, 133
    - Contrastare le diseguaglianze di genere, 136
    - Una società della cura libera il tempo delle donne, 141
    - Adottare una prospettiva trasversale di genere, 143
    - Una sfida culturale, 148

153     VI  Costruire una società inclusiva

    - Dietro ai numeri, persone, 155
    - Nessuna invasione, 158
    - Dov'è l'Europa?, 163
    - Per una vera politica migratoria e dell'asilo europea, 167
    - Abbattere il muro di Dublino, 169
    - Aiutiamoci a casa nostra, 179
    - La situazione in Italia, 181

187     Conclusioni

189     Note
203     Ringraziamenti


 

 

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I - Dipende da noi



«Non torneremo alla normalità, perché la normalità era il problema.»

Questa scritta, proiettata a caratteri cubitali su un edificio di Santiago del Cile dal collettivo Delight Lab a sostegno delle mobilitazioni sociali, è poi rimbalzata da una parte all'altra del mondo, fino ai muri di Hong Kong.

La pandemia da Covid-19 che ha travolto la gran parte del pianeta è partita come un'emergenza sanitaria, ma si è immediatamente trasformata anche in emergenza economica e sociale, intrecciandosi a quella climatica che già da tempo minaccia il pianeta e l'umanità. Ha sfidato il concetto stesso di confine, mostrandone tutta la volatilità quando in un primo momento i Paesi hanno pensato di salvarsi isolando quelli colpiti, salvo scoprire poco dopo di aver già contratto il medesimo virus.

Oltre ad avere strappato milioni di vite, la pandemia ha colpito al cuore la socialità, la mobilità, ci ha sottratto sorrisi sotto le mascherine e rubato abbracci che nessuno ci restituirà. Ha costretto a distanze fisiche che hanno acuito quelle sociali, aggravando le diseguaglianze e generando nuovi bisogni. Ha mandato in crisi aziende e colpito duramente chi lavora. Ha messo in luce il ruolo insostituibile del pubblico, ma anche tutta la fragilità degli Stati e delle democrazie. Ha fatto emergere, mentre il resto si fermava, l'essenzialità dei beni comuni e dei diritti universali da proteggere: la salute, l'ambiente, l'istruzione, il lavoro.

Quale mondo ne verrà fuori dipende da noi. Noi come persone che lo abitano, come cittadinə, come attivista, come rappresentanti impegnati in politica fuori e dentro le istituzioni. Dipende dalle scelte che faremo. Non ne usciremo automaticamente migliori, se non cambieremo sin dalle fondamenta un modello di sviluppo insostenibile che genera diseguaglianze e sfruttamento, consumando e devastando il pianeta.

Quel che serve è una vera e propria svolta per ripartire su basi nuove e diverse, puntando non alla normalità di prima, ma a correggerne le gravi storture, provando a trarre alcuni amari insegnamenti da quel che è accaduto e con il coraggio di cambiare il modello per migliorare, insieme, la qualità della vita delle persone e del pianeta, che sono inscindibilmente connesse. Serve una visione all'altezza delle sfide che i tempi ci impongono, che punti alla giustizia sociale e ambientale, contrastando ogni diseguaglianza, accompagnando la transizione ecologica ormai irrimandabile e restituendo dignità e qualità al lavoro.

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Pagina 16

Ce lo insegna la storia


Quantə di noi vengono da storie e provenienze che si intrecciano fra diverse città, Paesi e continenti? Il frutto di possibilità offerte e non negate, di partenze scelte oppure forzate, di incontri casuali, di fiori che spaccano l'asfalto, di sinergie lasciate libere di crearsi e non soffocate. Di come avrebbe potuto essere ma non è stato, di come invece poi è stato, nonostante tutto.

Così è anche la storia della mia famiglia. Sono figlia di madre italiana, di Siena, e padre americano; nata e cresciuta in Svizzera da «straniera». Nipote di un nonno e una nonna paterni entrambi emigrati. Mio nonno si chiamava Herschel Schleyen, nato nel 1892 a Zolkiew (oggi Žovkva), una piccola città poco distante da Leopoli. All'epoca in cui mio nonno la lasciò era ancora sotto l'Impero austro-ungarico, mentre oggi si trova in Ucraina. Conta poco più di diecimila abitanti, ma ha una sua storia importante.

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Pagina 23

Sono nata nel 1985, quando già esisteva il primo nucleo della grande Unione che conosciamo oggi, nell'unico Paese che non ne faceva parte, pur essendo geograficamente il suo cuore: la Svizzera. Ho vissuto a Lugano fino a quando, diciottenne, mi sono trasferita a Bologna per frequentare l'università. Sono quindi cresciuta in un Paese in cui l'alta percentuale di stranieri presenti nella popolazione sin dagli anni Venti del secolo scorso non è bastata a evitare che si radicasse il seme del pregiudizio contro gli immigrati, che dà ancora oggi i suoi frutti avvelenati. Eppure, nonostante le battute di qualche compagno di classe facessero male, sono convinta che proprio l'esperienza di crescere in scuole che negli anni Novanta accoglievano i figli degli immigrati spagnoli, portoghesi o in fuga dalle guerre nei Balcani sia stata quella che più mi ha insegnato come tuttə siamo simili nelle nostre diversità, e dobbiamo essere eguali nei diritti e nelle opportunità. Dalle scuole, dalla crescita insieme, infatti, viene la più forte e concreta speranza per una maggiore inclusione sociale.

Mi hanno sempre chiamata Elly, un diminutivo che usavamo in famiglia, ma in realtà mi chiamo Elena Ethel, perché porto con orgoglio i due nomi delle nonne che non ho mai conosciuto. Sono anche io la somma di storie e appartenenze diverse e incompiute, e questo mi ha segnata. In parte ti mette alla ricerca costante di un modo per completarle, ma al contempo ti fa sentire di appartenere a qualcosa di più grande, ti fa sentire che cosa vuol dire essere cittadina europea e del mondo. Per tantə giovani, in Italia e all'estero, non è così. Per chi nasce e cresce in un Paese che non lo riconosce. Per chi viene respinto. O per chi, non potendo ricordare qualcosa che non ha vissuto in prima persona e che non ha vissuto nessuno che conosce da vicino, ha bisogno di memoria, di musei, di libri, di testimonianze. Non sempre, però, ne trova.

A Leopoli, dove sono stata nell'autunno del 2018 insieme ai miei genitori per cercare tracce della famiglia di mio padre, senza purtroppo riuscire a trovarne, sembra che i pogrom non ci siano mai stati.

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Pagina 26

Europea


«L'Europa sarà forgiata dalle sue crisi e sarà la somma delle soluzioni trovate per risolvere tali crisi.» Jean Monnet, tra gli autori della Dichiarazione Schuman e primo presidente della CECA, lo scrisse nel 1976 nelle sue Mémoires. E il tempo pare gli stia dando ragione.

La reazione dell'Unione alla pandemia è stata forte e non scontata. Nel giro di poche settimane si è sospeso il Patto di stabilità e crescita per permettere agli Stati di intervenire con tutti gli strumenti necessari a sostegno della sanità, del lavoro, delle imprese e delle famiglie. Si è inventato il programma SURE, il primo strumento europeo di supporto agli ammortizzatori sociali, con 100 miliardi di euro. Si sono rese più flessibili le regole sugli aiuti di Stato e sull'uso dei fondi per la coesione. Insomma, l'emergenza ha costretto l'Unione a sgretolare alcuni strati di dogmi sotto cui soffocavano dibattiti cruciali come quello sulle risorse proprie dell'UE e sulla condivisione del debito, sul salario minimo e sull'armonizzazione fiscale. Soprattutto, si è deciso di rafforzare il bilancio europeo e di mettere in campo un piano per la ripresa e la resilienza, il Next Generation EU, con risorse senza precedenti: 750 miliardi di euro. Alla Commissione europea guidata da Ursula von der Leyen va riconosciuto di aver avuto il coraggio, nonostante la difficile contingenza, di stabilire che queste importanti risorse non arrivassero a pioggia, ma orientate alle giuste priorità per il futuro: la transizione ecologica, la trasformazione digitale e l'inclusione sociale. Una svolta non da poco, che rende Bruxelles più vicina ai territori e la prospettiva del Green Deal europeo più solida. Č presto per dire se si stia facendo davvero l'Unione, ma rispetto agli ultimi anni c'è motivo di speranza.

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Pagina 34

Riscattare la politica


Faccio parte di una generazione che non ha un rapporto facile con la politica. Guardavamo i cartoni animati quando i tg raccontavano Tangentopoli e l'ascesa di Berlusconi. Non abbiamo vissuto né il '68 né gli anni Settanta, né abbiamo approfittato dei rampanti anni Ottanta. La nostra adolescenza ha dovuto fare i conti con l'attentato alle Torri Gemelle, le guerre in Afghanistan e in Iraq, il G8 di Genova, la repressione con i manganelli su chi chiedeva un mondo diverso e avvertiva dei rischi della globalizzazione sregolata, l'uccisione di Carlo Giuliani. La generazione che cercava i primi lavori nel pieno della crisi economica e finanziaria scoppiata nel 2008.

In tantə non ci sentivamo rappresentatə. Ma per alcunə di noi è arrivato un momento in cui abbiamo capito che se non ci occupiamo di politica, lei si occuperà comunque di noi. Che se non partecipiamo, altrə continueranno comunque a farlo e le loro decisioni ricadranno anche sulla nostra vita. Che l'unica possibilità è mettersi in gioco ed essere parte del cambiamento che vogliamo generare nella società. Si può fare in tanti modi, militando in associazioni e partiti, comitati e movimenti. Informandosi, partecipando, scegliendo di candidarsi a rappresentare altre persone. L'importante è non essere indifferenti, ma prendere parte, essere partigianə.

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Pagina 41

Le sfide cruciali per un futuro più giusto e in equilibrio con il pianeta


Le sfide su cui ci giochiamo il futuro sono strettamente interconnesse. In apparenza sembrano lontane, ma in realtà sono legate intimamente in una spirale che oggi è discendente, ma che possiamo e dobbiamo provare a invertire, per ridurre i divari e salvare il pianeta.

Due parole per dire che cosa troverete e cosa non troverete in questo libro: ho sempre diffidato dei politici che fanno i tuttologi, ognuno di noi porta nel suo impegno la propria storia e il proprio percorso formativo e professionale, che non può coprire tutti i temi e le materie. La premessa è che in queste pagine ho provato a raccogliere ciò che ho imparato dall'ascolto e dallo studio, dall'approfondimento e soprattutto dall'incontro, in giro per l'Italia e per l'Europa, di tante persone più competenti di me, che hanno arricchito e a volte sfidato o smentito il mio punto di vista sulle sfide che ci aspettano e sulle battaglie che servono per cambiare le cose. Ho provato a ricostruire il filo che unisce queste battaglie attorno a una visione nuova, che coniuga giustizia sociale e ambientale.

Troverete molte fonti, per chi volesse verificare o approfondire le singole questioni. Non troverete dogmi, ma dati utili a comprendere fenomeni e indicare soluzioni possibili. Di persone convinte di avere la verità in tasca ce ne sono già, in politica e nelle istituzioni; io preferisco tenermi stretti i miei dubbi, perché la strada lastricata di domande credo abbia meno buche dell'asfalto delle certezze assolute. Troverete protagoniste e protagonisti straordinari da cui ho imparato tantissimo - in un libro non ci stanno nemmeno tuttə - e con cui ho il privilegio di condividere pezzi di strada, battaglie, gioie e dolori dell'impegno sincero. Restituiamo alla politica una visione lunga, consapevole del passato ma attenta ai bisogni del futuro, e larga, che abbracci nelle sue diversità tutta la società, specie chi fa più fatica. Una visione chiara e coerente per ricucire i fili con chi si mobilita nelle piazze. Una visione condivisa, attorno a cui ritrovarci mettendo da parte le solite dinamiche, superando le contraddizioni e le frammentazioni che ci hanno spesso diviso, e che si declini in alcune proposte molto concrete da portare avanti insieme.

Cercherò quindi di affrontare qui le sfide che non si possono più rimandare, tutte di pari importanza e profondamente intrecciate, senza alcuna pretesa di esaustività.

Nel secondo capitolo la sfida è l'emergenza climatica, come affrontarla attuando una vera transizione ecologica che abbatta le emissioni climalteranti e ristabilisca un equilibrio con il pianeta, che non è nostro, che abbiamo in prestito e dovremo restituire.

Nel terzo capitolo è il contrasto alle diseguaglianze sociali, territoriali, di genere e generazionali, attraverso politiche di ridistribuzione delle ricchezze, del sapere, del potere. A partire dal contrasto ai paradisi fiscali e all'elusione delle grandi multinazionali, riscoprendo il principio costituzionale della progressività.

Nel quarto capitolo il tema è come porre fine al precariato e allo sfruttamento che colpiscono in particolare giovani e donne, restituendo dignità e qualità al lavoro.

Nel quinto è superare il patriarcato che condiziona le nostre società, attraversate da discriminazioni che colpiscono tutti gli aspetti della vita delle donne ma anche della comunità LGBTQI+.

Nel sesto la sfida è spiegare che la società più sicura è quella più inclusiva, e che si possono scrivere politiche migratorie lungimiranti, efficaci e rispettose dei diritti fondamentali nell'interesse di tutta la comunità.

Per ciascuna di queste sfide, accanto all'analisi e alle critiche dell'esistente, troverete proposte alternative, esperienze positive. Con lo sguardo sempre ampio, essendo sfide enormi, a quanto si potrebbe fare a livello europeo, nazionale e locale. Consideratelo un invito a una mobilitazione collettiva per un futuro diverso e migliore.

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Pagina 77

III - Ridistribuire la ricchezza, il sapere, il potere



I 26 uomini più ricchi del mondo nel 2019 possedevano un patrimonio equivalente a quello della metà più povera del pianeta, vale a dire 3,8 miliardi di persone. L'1 per cento più ricco della popolazione mondiale deteneva già più del doppio della ricchezza netta posseduta da 6,9 miliardi di persone. Nello stesso anno in Italia la quota di ricchezza in possesso del 5 per cento più abbiente della popolazione superava quanto posseduto dal 90 per cento più povero. Il pianeta ha la febbre, l'abbiamo visto nel capitolo precedente, ma è anche gravemente malato di diseguaglianze, sia tra i Paesi sia all'interno degli stessi. La fotografia scattata dai rapporti annuali di Oxfam International non lascia spazio a fraintendimenti: già prima della drammatica pandemia da Covid-19 le diseguaglianze avevano raggiunto livelli elevatissimi. Se da un lato la crisi pandemica ha fatto emergere con evidenza - e mostrato da nuove angolature - gli enormi divari preesistenti, dall'altro li sta ulteriormente acuendo, affiancandovi nuovi bisogni e nuove povertà.

Le diseguaglianze assumono molteplici forme: sociali ed economiche (nei redditi, nella ricchezza, nelle condizioni materiali), di accesso ai servizi fondamentali (come istruzione e sanità), ma anche territoriali, di riconoscimento, di genere e generazionali. Si manifestano in una fortissima concentrazione della ricchezza in poche mani, nella polarizzazione tra lavori buoni e cattivi, tutelati e precari, ben retribuiti o mal pagati. Nella distanza abissale fra gli stipendi dei vertici aziendali e quelli di lavoratrici e lavoratori alla base delle piramidi aziendali sempre più appuntite. Nei divari salariali e occupazionali che colpiscono le donne. Nella concezione patriarcale di famiglia che nega diritti alle altre famiglie. Nella povertà educativa e nella malnutrizione che riguardano sempre più bambinə nel mondo e nel nostro Paese. Nella discriminazione dei migranti e nella ricattabilità di chi è senza tutele. Nelle barriere architettoniche. Nel mancato accesso alla cultura, elemento fondamentale di emancipazione. Nel blocco della mobilità sociale che deprime le speranze delle nuove generazioni. Nei divari territoriali che segnano ciclicamente i rapporti tra i Nord e i Sud del mondo, ma anche nelle distanze vere o percepite tra le periferie e i centri urbani, tra le aree montane e le città. Nella mancanza di voce e di peso nei luoghi dove si decide, che si traduce in quelle diseguaglianze di riconoscimento la cui mappa è in parte emersa in controluce dagli esiti elettorali che negli ultimi anni hanno colto di sorpresa l'Europa e gli Stati Uniti.

«Per certi versi è comprensibile che tra il 1950 e il 1980 si badasse poco al problema della ridistribuzione. In quel periodo l'economia degli Stati Uniti cresceva in media del 2 per cento all'anno, e a beneficiarne erano tutti gli strati della popolazione. Poi le cose sono cambiate» spiega Gabriel Zucman, economista ed esperto di paradisi fiscali. «Tra il 1980 e il 2014 il reddito medio degli statunitensi è aumentato di meno dell'1,4 per cento, ma circa l'85 per cento della popolazione l'ha avvertito a malapena. La classe operaia è stata completamente tagliata fuori dalla crescita. Nel frattempo lo 0,1 per cento degli statunitensi, i più ricchi, hanno visto crescere le loro entrate del 320 per cento.»

In Italia non è andata meglio. Fabrizio Barca , coordinatore del Forum Disuguaglianze e Diversità, già ministro per la Coesione, ricostruisce e spiega il fenomeno insieme a Patrizia Luongo in Un futuro più giusto: «Tra il 1991 e il 2016 il tasso di crescita medio annuo dei redditi è stato tanto minore (e per molti anche negativo) quanto minore era il livello dei redditi, con una situazione sistematicamente peggiore al Sud rispetto al Centro-Nord. ... La stima delle diseguaglianze di ricchezza è resa difficile e incerta dalla carenza di informazioni statistiche, frutto dell'inadeguata attenzione proprio al fenomeno delle diseguaglianze. Nonostante ciò, valutazioni pure assai diverse convergono sul fatto che la concentrazione della ricchezza è cresciuta in modo significativo nell'ultimo quarantennio. Secondo stime prudenziali, in Italia, si è avuto un vero e proprio sovvertimento della distribuzione. La quota di ricchezza posseduta dai 5000 adulti più ricchi è cresciuta dal 2 al 7%; quella posseduta dalla metà più povera della popolazione adulta del Paese (circa 25 milioni italiani) è diminuita da circa il 10 al 3%». Quindi la metà più povera del Paese è passata dall'avere cinque volte la ricchezza dei 5000 più abbienti ad averne meno della metà. La pandemia si è poi abbattuta su una società già profondamente diseguale. Secondo le stime dell'ISTAT, nel 2020 la povertà assoluta raggiunge, in Italia, i valori più elevati dal 2005 (ossia da quando è disponibile la serie storica per questo indicatore).

[...]


Le cause alla radice delle diseguaglianze


Tutto questo, però, non è accaduto per caso o per un ineluttabile destino.

Al contrario, è il frutto avvelenato di precise scelte di politica economica, sociale, ambientale, dei rapporti di forza all'interno delle società e dei tentativi di riconfigurarli disintermediando la rappresentanza e sopprimendo il conflitto, frammentando il lavoro e le filiere, delegittimando i corpi intermedi, screditando il ruolo del pubblico e rivendicando il primato dell'economia e delle leggi del mercato sulla politica.

Barca e Luongo individuano l'origine dell'accelerazione di questi processi nella svolta neoliberista che si è affermata a partire dagli anni Settanta, soppiantando i progetti politici di emancipazione sociale da cui era stato segnato il trentennio postbellico, che però attuavano la ridistribuzione attraverso trasferimenti economici e non agendo alla radice dei meccanismi di formazione della ricchezza che hanno generato e alimentato le diseguaglianze fino ai giorni nostri.

A quei progetti se n'è sostituito un altro basato sul dogma della capacità del mercato di autoregolarsi, mentre avanzava sregolata la globalizzazione, che ha liberalizzato la circolazione dei capitali in tutto il mondo ma ha innalzato muri per bloccare le persone e i diritti, favorito la delocalizzazione e compresso il ruolo del pubblico e il welfare. La deliberata scelta di non guidare la rivoluzione digitale con adeguate politiche ridistributive ha fatto sì che pure l'innovazione tecnologica, l'intelligenza artificiale e gli algoritmi accelerassero la polarizzazione delle ricchezze, del sapere e del potere.

Le diseguaglianze non sono nient'altro che il «prezzo da pagare», secondo il cinismo del modello neoliberista che si è imposto negli ultimi decenni, nell'illusione mai abbandonata di una crescita senza limiti che, prima o poi, si sarebbe ridistribuita da sola, riducendo automaticamente i divari e sanando le fratture. Ma non è mai andata così. Anzi.

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Pagina 101

Un fisco progressivo: chi ha di più, deve contribuire di più


Nel 1974, quando I'Irpef è stata istituita, erano previsti trentadue scaglioni di reddito, con aliquote che andavano dal 10 al 72 per cento. Oggi gli scaglioni sono cinque, l'aliquota minima è del 23 per cento e la più alta del 43. C'è chi propugna la flat tax, ma finge di non sapere che il nostro sistema fiscale si è già appiattito parecchio. La riduzione degli scaglioni ha limitato fortemente la progressività dell'imposizione fiscale, principio fissato dall'articolo 53 della Costituzione: «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività». Il grado di complessità del sistema fiscale italiano è aumentato con l'introduzione di regimi di tassazione separata con aliquote fisse, che hanno avuto l'effetto di frammentare la base imponibile Irpef a danno ulteriore della progressività.

Perché la società abbia un futuro sostenibile è giusto che chi ha di più contribuisca in proporzione maggiore al benessere collettivo.

In tutti questi anni non si sono trovati né il tempo né la volontà politica per effettuare una complessiva riforma fiscale che attuasse appieno il principio di progressività incardinato nella Costituzione; curioso che si siano invece trovati per inserire nella legge di bilancio 2017 un'imposta fissa per i super-ricchi che decidano di trasferirsi in Italia versando al fisco italiano un forfait di 100.000 euro sui redditi prodotti all'estero, a prescindere dalla loro entità. Praticamente una dichiarazione di guerra ai vicini europei, nel pieno solco della già citata corsa al ribasso.

Non è certo così che si risolve il problema dell'eccessiva pressione fiscale italiana sul lavoro (l'Italia ha il quarto cuneo fiscale più alto d'Europa, al 46 per cento, 11,4 punti sopra la media OCSE, abbinato al salario medio lordo più tassato e più basso d'Europa) o sull'impresa, ma graduando in senso più progressivo il prelievo e contrastando l'economia sommersa, rivedendo agevolazioni ed esenzioni secondo un'idea precisa di ciò che merita di essere incentivato per sostenere l'innovazione, la transizione ecologica e digitale, la ricerca, la formazione, la cura, le azioni che generano impatti sociali positivi sulla comunità o sul territorio. Lo schema insostenibile che abbiamo creato scarica sulle spalle di chi guadagna meno (e ai quali si preleva direttamente dalla busta paga) il mancato gettito che dovrebbe invece arrivare da chi guadagna di più e da chi non paga affatto. Per non parlare delle disparità orizzontali tra chi è in condizioni simili ma sottoposto a regimi fiscali diversi. Un capolavoro d'iniquità.

Due sono i principi cui deve essere improntato un buon sistema fiscale secondo i giovani ricercatori del think tank Tortuga: da una parte le tasse devono essere eque e ricadere maggiormente su chi ha più disponibilità economica; dall'altra, devono rispondere a criteri di efficienza economica, minimizzando gli effetti restrittivi su ciò che produce crescita per molti e pesando su ciò che produce rendite per pochi. In questo senso non può più essere un tabù, mentre se ne discute in molti altri Paesi come la Spagna e gli Stati Uniti, il tema di una tassazione sui grandi patrimoni, soprattutto se la proposta fosse inserita in una più ampia revisione che, per abbassare l'imposizione su lavoro e imprese, da un lato rendesse più progressivo il prelievo, prevedendo un maggior numero di aliquote e alzando unicamente le più alte, permettendo di abbassare le altre rispetto ai livelli attuali, e dall'altro ribilanciasse l'incidenza del prelievo dai fattori produttivi verso i grandi patrimoni e le rendite.

Oggi l'Italia ha diverse imposte patrimoniali, ma non ha un'imposta personale e progressiva solo sui grandi patrimoni superiori a una certa soglia. Persino l'OCSE ha suggerito questa ipotesi al nostro Paese, [...]

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Con lo scopo dichiarato di contrastare la disoccupazione, già il «pacchetto Treu» del 1997 introduceva nuove forme di lavoro a tempo determinato, interinale, parasubordinato. In seguito è intervenuta anche la riforma Fornero del 2012, che tra le altre cose ha sferrato un primo colpo all'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, modificando la disciplina dei licenziamenti senza giustificato motivo. Il resto l'ha fatto un pacchetto di riforme che ha preso il nome di «jobs Act», fortemente voluto da Matteo Renzi, diventato premier al posto di Enrico Letta dopo aver vinto le primarie del Partito democratico. Nel marzo 2014 il decreto Poletti aveva cominciato l'opera rendendo possibile stipulare contratti a termine «acausali» di tre anni, liberando il datore di lavoro dall'obbligo di giustificare perché non assumeva a tempo indeterminato. Il Jobs Act ha poi introdotto un «contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti» soltanto nel nome, visto che le tutele venivano drasticamente ridotte e l'unica cosa davvero indeterminata era il momento in cui il datore di lavoro poteva licenziarti molto più facilmente di prima.

[...]

Il dibattito attorno al Jobs Act sembrava viziato da una sorta di rimozione freudiana: si è rimossa la necessità di riequilibrare i rapporti di forza tra lavoro e capitale. Uno degli argomenti utilizzati dai fautori della riforma, a partire da Renzi, era il numero effettivo di applicazioni in tribunale dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e del reintegro nel posto di lavoro: «Stiamo discutendo di un tema che riguarda 3000 persone all'anno». Che è un po' come sostenere che, visto che gli omicidi nel 2020 sono stati 271, non abbiamo più bisogno di una norma che li punisca. Il diritto del lavoro nasce per riequilibrare in potenza, già sul luogo di lavoro, prima ancora che davanti al giudice, due posizioni che pari non sono: quella di chi cerca un impiego e quella di chi è in condizione di offrirlo. Rendere più semplice licenziare nell'illusione che ciò contribuirà a far assumere di più non è un'idea nuova, è la ricetta di decenni di neoliberismo. I risultati non sono stati esattamente brillanti, vederla assumere da un governo a traino democratico ha fatto pensare a qualcosa di simile alla sindrome di Stoccolma.

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V - Superare il patriarcato



21 gennaio 2017. Londra risplendeva sotto il sole e si specchiava in un cielo azzurro così limpido da spazzar via i pregiudizi sulla capitale che immaginiamo sempre piovosa. Sotto il suolo sfrecciavano veloci altri colori, quelli dei cartelli che riempivano la metro che ci portava verso Piccadilly Circus: «Girls just want to have FUN-damental rights», «No to racism, no to Trump» e l'iconico «My pussy grabs back». Alla Women's March on London si erano riunite centomila persone mentre in contemporanea, quello stesso giorno, quasi mezzo milione marciava a Washington, dove si era appena insediato come presidente Donald Trump, che si era già distinto per le sue uscite sessiste.

In quel lungo corteo non c'erano solo movimenti femministi. C'erano, fianco a fianco, anche movimenti ecologisti e antirazzisti, sindacati, attivistə per i diritti LGBTQI+. Un intreccio che racconta come nella società esista già una nuova consapevolezza della necessità di unire le lotte. Non solo per rafforzarle, ma perché si oppongono a una stessa matrice oppressiva.

C'è infatti un filo nero che lega sistemi di potere basati sul dominio, il possesso e lo sfruttamento: dell'uomo sulla donna, dell'uomo sulla natura, del ricco sul povero, del bianco sul nero. Come ho già anticipato, l'intersezionalità teorizzata dalla giurista Kimberlé Williams Crenshaw spiega che l'identità delle persone non è monolitica, vede interagire molteplici dimensioni e identità sociali, e che i diversi livelli di discriminazione che possono colpire una persona non si elidono a vicenda, ma si sommano e interagiscono. Così come quei sistemi di potere non agiscono da soli, ma si fondono e legittimano a vicenda. Sulla lotta contro il dominio dell'uomo sulla donna e sulla natura si è sviluppato l'ecofemminismo, portando solidi argomenti. E negli scritti di alcune autrici fondamentali quali Igiaba Scego, italiana e somala, scopriamo come un altro sistema di potere basato sul possesso, il colonialismo, non sia mai stato elaborato e destrutturato del tutto, lasciando tracce di razzismo sistemico anche nelle leggi. La rimozione del passato coloniale, che affronta anche Francesca Melandri nel suo romanzo Sangue giusto, tende a cancellare intere comunità e le individualità che le compongono, a livello sia istituzionale sia inconscio.

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L'ha spiegato in una sintesi perfetta la scrittrice Michela Murgia , punto di riferimento insostituibile: «Se serve solo a te, non è femminismo». Lo è se usi il potere e lo spazio faticosamente guadagnati per farci arrivare anche altre, per sostenerne l'emancipazione, per difenderne i diritti.


Una sfida culturale


Quella sintesi di Murgia viene da un memorabile articolo intitolato Scacco al re in sette mosse, in cui ha stilato alcune regole per combattere alla radice la cultura patriarcale. La terza è «Non temere l'impopolarità»: «Come tutti i sistemi di potere coercitivi, il patriarcato non tollera il dissenso. Se vi mettete a dare i numeri dell'ipertrofia maschile nei ruoli di comando e pretendete di essere nominate come persone e non come cose, occorre anche che mettiate in preventivo che il sistema patriarcale reagirà indicandovi come un problema. Sarete additate da stronze, streghe, insoddisfatte sessualmente, col ciclo in atto e/o il climaterio in arrivo, antipatiche, senza senso dell'humor, sempre a lamentarvi, misandriche e frustrate, che vi depiliate o meno. Sappiamo tutte che la brava bambina che dice sorridendo il suo domesticato sì avrà sempre un posto d'onore nel sistema patriarcale e rinunciare a quel posto d'onore è un passaggio faticoso, ma ineludibile. Se vi dispiace dispiacere, l'ancillaggio ha già vinto».

Con puntualità matematica, quando una donna prende una posizione nella sfera pubblica, c'è chi prova a deviare l'attenzione dalle sue idee criticandone il corpo, l'aspetto, la sessualità, il modo di vestire. Anche qui, ogni riferimento a cose o persone esistenti è del tutto volontario.

Parlare del corpo delle donne è ancora oggi un modo per tentare di metterle a tacere. Non dobbiamo permetterlo.

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Tutto questo dimostra che la sfida è principalmente culturale. Per contrastare all'origine le discriminazioni e gli stereotipi di genere, bisogna scardinare le radici della cultura patriarcale, che dobbiamo decostruire anche attraverso un grande investimento nell'educazione alle differenze, a partire dalle scuole e nella pubblica amministrazione. Educare già da principio al rispetto e alla parità, agire sulle differenze prima che diventino diseguaglianze. Non certo per cancellarle, ma, al contrario, per metterle a valore, garantendo però a tutta eguali diritti e opportunità di partenza.

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La battaglia culturale parte dal linguaggio, che dev'essere inclusivo e rispettoso dei generi.

[...] E invece abbiamo una lingua ricchissima che ci permette di articolare al femminile le professioni: sembra poco, ma significa tanto, perché non ci si rende conto che se «ingegnera» si usa meno di «infermiera» è perché anche la lingua è plasmata da stereotipi di genere, che proiettano la convinzione che le donne abbiano maggiori probabilità di svolgere alcuni mestieri rispetto ad altri. Adottare un linguaggio inclusivo è un dovere per le istituzioni, che devono rappresentare tuttə, ma serve anche uno sforzo collettivo della comunità.

Vera Gheno , nel suo Femminili singolari, affronta questi temi e anche quello di come superare il cosiddetto «maschile sovraesteso» (o universale), il fatto cioè che, per convenzione, riferendosi a un gruppo indistinto di persone si prediliga la desinenza maschile. «Buongiorno a tutti» dimentica che tra gli interlocutori ci sono anche delle donne, o delle persone non binarie. Se parlo solo dei bisogni «dei cittadini», per comodità, rischio di perdere per strada la specificità dei bisogni delle cittadine. E dove sta scritto che dobbiamo sentirci sempre e comunque assorbite in una macrocategoria al maschile? Una valida alternativa che si sta diffondendo, più veloce e inclusiva dei generi, è per esempio l'uso dello schwa (ə), la vocale intermedia tratta dall'alfabeto fonetico internazionale. Rivolgersi a tuttə è un modo per guardare negli occhi tutte le persone che hai davanti e dir loro che le riconosci, che sai che esistono e sono diverse, che vuoi rivolgerti a ciascuna di loro.

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La situazione in Italia


Se le migrazioni sono una sfida europea e globale che nessun Paese può affrontare da solo, è altrettanto vero che ogni Paese è tenuto a dotarsi di politiche migratorie adeguate pure a livello nazionale. Anche perché l'Unione ha competenza sulle norme che regolano l'asilo, mentre sulle politiche migratorie che regolano i flussi tale competenza se la tengono molto stretta i governi nazionali.

In Italia le persone straniere regolarmente residenti a fine 2020 erano circa 5 milioni (di cui 3,3 non comunitarie), l'8,5 per cento della popolazione, con un calo annuo dello 0,5 per cento che è il più consistente degli ultimi vent'anni. Mentre la popolazione straniera è altrove in espansione, nel nostro Paese è stabile da almeno sei anni attorno a questo dato.

Per quanto riguarda la presenza di immigrati irregolari, le stime parlano a inizio 2020 di circa 517.000 persone. Sul numero delle presenze irregolari hanno inciso negativamente i decreti Sicurezza voluti dall'ex ministro Salvini nel 2018, che la sicurezza l'avevano solo nel nome, perché lasciavano per strada migliaia di persone vulnerabili, cancellando la protezione umanitaria e colpendo frontalmente il sistema di accoglienza diffusa. La regolarizzazione approvata nel 2020 e le recenti modifiche a quei pessimi decreti - che hanno opportunamente reintrodotto, pur con altro nome, la protezione umanitaria - dovrebbero invertirne almeno in parte gli effetti negativi.

Ma arrivano tuttə in Italia? No. Nel 2018 l'Italia era il quattordicesimo Paese in Europa per incidenza degli stranieri sulla popolazione, mentre era persino il sedicesimo per numero di rifugiati ogni mille abitanti, con circa 2,4 su mille.

Sulle storture delle politiche d'accoglienza c'è una responsabilità europea, che affonda le radici nel Regolamento di Dublino, ma una buona parte di responsabilità grava sull'incapacità tutta italiana di modificare politiche migratorie inefficaci e irrazionali.

[...]

Un'altra bugia della destra è che i migranti siano esclusivamente un peso sulle «nostre tasche». Basta vedere i dati: chi migra contribuisce a produrre ricchezza nella società in cui arriva. In Italia, per esempio, si tratta di oltre il 9 per cento del Pil (139 miliardi). Alcuni interessanti studi, come quelli della Fondazione Leone Moressa, indicano che se si confronta quanto gli stranieri versano nelle casse statali, in termini di contributi di varia natura, con quanto ricevono in termini di servizi e accoglienza, il differenziale per il nostro Paese è all'attivo di almeno 500 milioni.

Le destre hanno passato anni a convincere il Paese che il suo maggior problema fosse l'immigrazione, e intanto non si sono accorte che stava riprendendo l'emigrazione, soprattutto di giovani che si spostano in altri Paesi europei per costruirsi un futuro e prospettive professionali più solide. A fine 2019 gli italiani iscritti all'AIRE (Anagrafe italiani residenti all'estero) erano 5,5 milioni, con un incremento di circa il 3,74 per cento rispetto all'anno precedente: sono più degli stranieri che vivono nel nostro Paese. Solo negli ultimi dieci anni si sono trasferiti all'estero in 899.000, dal 2015 oltre 100.000 all'anno: un ritmo di abbandono che, unito al blocco degli ingressi per stranieri e al calo della natalità, sta rendendo l'Italia sempre più anziana (abbiamo l'età mediana più alta d'Europa, 46,3 anni), con effetti evidenti anche sul sistema economico, produttivo e di welfare.

A chi giovano queste politiche irrazionali?

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