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| << | < | > | >> |IndiceIntroduzione all'edizione italiana (Paolo Spinicci) XI Ringraziamenti 3 Introduzione 5 1. Il Cattivo argomento. Uno dei più grandi errori della filosofia degli ultimi secoli 13 I. Una piccola fallacia e un grande errore 13 II. Digressione su intenzionalità e fenomenologia 16 III. Realismo diretto 18 IV. Oggettività e soggettività 19 V. Diagrammi della percezione visiva 20 VI. L'argomento per rigettare il Realismo diretto (o ingenuo) 23 VII. La fallacia dell'argomento 27 VIII.Conseguenze storiche del Cattivo argomento 33 Appendice A al capitolo 1. Elementi della teoria dell'intenzionalità 37 1. Contenuto e oggetto 41 2. Oggetti intenzionali 42 3. Atteggiamenti proposizionali 42 4. Proposizioni come entità astratte 43 5. L'ambiguità di "condizione" 45 6. Rappresentazione e presentazione 45 7. Intenzionalità indipendente e intenzionalità relativa a un osservatore 46 8. L'intenzionalità fa parte della nostra biologia 47 9. Causazione intenzionale 47 10. Rete e sfondo 48 Appendice B al capitolo 1. Coscienza 51 1. La definizione di coscienza 51 2. Caratteristiche della coscienza 52 3. Alcuni resoconti scorretti della coscienza nella percezione 54 2. L'intenzionalità delle esperienze percettive 57 I. Scetticismo sull'intenzionalità della percezione 58 II. Caratteristiche peculiari dell'intenzionalità percettiva 65 III. Visione e Sfondo: si deve imparare come vedere 75 IV. Che ne è dei dati sensoriali? 81 V. Il Cervello in una vasca 82 VI. Conclusione 84 3. Ulteriori sviluppi dell'argomento contro il Cattivo argomento 87 I. Esempi classici del Cattivo argomento 88 II. Come la refutazione del Cattivo argomento contro il Realismo diretto si estende alle altre versioni dell'Argomento dell'illusione 95 III. Conseguenze del Cattivo argomento per la storia della filosofia 100 IV. Conclusione 106 4. Come funziona l'intenzionalità percettiva (prima parte). Caratteristiche di base, causazione e contenuto intenzionale 107 I. La filosofia analitica e la strada inversa 108 II. I confini del visivo 110 III. Campo percettivo oggettivo e soggettivo 112 IV. La struttura del campo visivo soggettivo 117 V. La struttura gerarchica della percezione visiva 118 VI. Come le caratteristiche fenomenologiche del campo visivo soggettivo determinano le condizioni di soddisfazione dell'esperienza visiva? 121 VII. Il mio punto di vista attuale 125 VIII.Il ruolo della causazione presentazionale intenzionale 134 IX. Le qualità primarie 136 X. La strada inversa 138 XI. Una possibile obiezione 139 XII. Riassunto dei risultati fin qui ottenuti 141 5. Come funziona l'intenzionalità percettiva (seconda parte). Estensione dell'analisi alle caratteristiche non di base 143 I. La percezione visiva dal basso verso l'alto 145 II. Percezioni tridimensionali 146 III. Relazioni temporali 150 IV. Estensione dell'analisi verso l'alto 151 V. Il riconoscimento e il problema della particolarità 154 VI. Risposte ad alcune importanti domande sulla percezione 159 VII. Cervello in una vasca 164 VIII.Conclusione 170 6. Disgiuntivismo 173 I. Che cosa è esattamente il Disgiuntivismo? 175 II. Argomenti a sostegno del Disgiuntivismo e risposte 182 III. Coscienza e percezione: il resoconto di Campbell 200 IV. La vera fonte del disaccordo 206 V. Disgiuntivismo e immaginazione visiva 208 7. Percezione inconscia 211 I. Una breve storia dell'inconscio 211 II. Sospetti sulla coscienza 218 III. La coscienza conta? 224 8. Teorie classiche della percezione 227 Scetticismo e teorie classiche della percezione 227 I. Scetticismo 228 II. Fenomenismo, Idealismo e Teoria rappresentazionale della percezione 232 III. Confutazione della Teoria rappresentazionale della percezione 235 IV. Confutazione del Fenomenismo 236 V. Le teorie classiche e il problema filosofico della percezione 241 VI. Qualità primarie e secondarie 242 Indice dei nomi 247 Indice analitico 249 |
| << | < | > | >> |Pagina 5Questo libro verte sulla percezione. Al pari di molti degli autori che scrivono sullo stesso tema, mi concentrerò sulla visione. E sebbene inizialmente non intendessi scriverlo in questo modo, il libro è in larga parte una celebrazione dell'esperienza visiva. Insieme al sesso, al buon cibo e a un buon bicchiere, l'esperienza visiva è una delle più grandi forme di piacere e di felicità nella nostra vita. Se solo ci diamo la pena di pensarci un poco, ci sono anche altre cose che diamo per scontate e che invece sono fonti di grande piacere: per esempio, il libero movimento del corpo e la capacità di parlare. Insieme all'esperienza visiva, le diamo per scontate e così non le apprezziamo come invece facciamo con altre fonti di intenso piacere dei sensi. Voglio cominciare identificando il territorio dell'indagine. Chiudete gli occhi e mettetevi una mano sulla fronte in modo da coprirveli: cesserete di vedere ogni cosa, eppure la vostra coscienza visiva non cesserà. Sebbene non vediate alcunché, avrete comunque delle esperienze visive che saranno qualcosa di molto simile al vedere l'oscurità e qualche macchia gialla. Naturalmente, non vedete macchie gialle nell'oscurità dal momento che non state vedendo proprio nulla; eppure avete una coscienza visiva. L'area della coscienza visiva è abbastanza limitata: nel mio caso va, a grandi linee, dal limite superiore della fronte giù fino al mento. Ciò di cui sto parlando qui riguarda la fenomenologia e non la fronte e il mento di cui tratta la fisiologia. Sto parlando di come le cose appaiono a me quando sono cosciente. Ma l'area della mia coscienza visiva è limitata per via del fatto che, per esempio, non ho coscienza visiva di ciò che mi sta dietro la testa o sotto i piedi. Senza dubbio però ho una coscienza visiva di fronte al mio viso, anche quando tengo gli occhi chiusi. Chiamerò "campo visivo soggettivo" l'area cosciente che ho appena individuato. Aprite gli occhi e immediatamente il campo visivo risulterà pieno, e la ragione di ciò è che voi diventate visivamente consapevoli del campo visivo oggettivo (cioè, lo vedete in senso letterale): gli oggetti e gli stati di cose che vi stanno attorno. Gran parte di questo libro si occupa della relazione tra il campo visivo soggettivo e quello oggettivo. L'osservazione più importante che posso fare al momento è questa: all'interno del campo visivo oggettivo ogni cosa è vista o può essere vista, mentre all'interno di quello soggettivo non si vede, né si può vedere, alcunché. Perché scrivere un intero libro sulla percezione? La relazione tra esperienze percettive e mondo reale e la visione è uno dei più importanti tipi di esperienza che si possono fare del mondo reale ha rappresentato una delle principali preoccupazioni forse si potrebbe dire la principale preoccupazione della filosofia occidentale per i tre secoli successivi a Descartes. Fino al ventesimo secolo, l'epistemologia è stata il centro della filosofia, e gli errori che hanno caratterizzato quel campo di indagine sono rimasti fino ai nostri giorni. Questo libro tenterà sia di rimuovere quegli errori, sia di presentare un resoconto alternativo a quelli che mi sono familiari, siano essi tradizionali o contemporanei. La mia speranza è di offrire un resoconto più adeguato della relazione tra l'esperienza percettiva e gli oggetti delle nostre percezioni. | << | < | > | >> |Pagina 10Questo libro è essenzialmente una continuazione dell'analisi che avevo iniziato nel capitolo 2 di Della intenzionalità, nel quale offrivo un'analisi intenzionalistica della percezione. Ritengo di vedere ora molte cose che all'epoca in cui scrissi quel libro non vedevo: non solo soluzioni a problemi preesistenti, ma problemi dei quali non ero consapevole. Credo che il resoconto che si trova in Della intenzionalità sia pienamente corretto fino a dove esso si spinge, ma il punto è che non si spinge tanto lontano quanto io voglio andare in questo libro.La provocazione sempre che sia la parola adatta che mi ha inizialmente spinto ad approfondire il mio lavoro sulla percezione è venuta dalle conversazioni con Ned Block e Tyler Burge, i quali mi hanno sollecitato a intraprendere una ricerca su qualcosa chiamato "Disgiuntivismo", che loro caratterizzavano come "l'erbaccia che cresce nel tuo giardino qui a Berkeley". Mi sono lasciato catturare dall'interesse e, nel cercare di comprendere il Disgiuntivismo, ho beneficiato di molte conversazioni con i miei colleghi a Berkeley, specialmente John Campbell e Michael Martin. E mi è sembrato che il Disgiuntivismo consistesse, in un certo senso, nell'accettare la parte peggiore dell'argomento classico contro il Realismo ingenuo, e questo nonostante il Disgiuntivismo fosse stato concepito proprio per difendere il Realismo ingenuo. Poiché questo lavoro si basa sul mio precedente, specialmente per ciò che concerne intenzionalità e coscienza, ma poiché voglio anche che sia interamente autosufficiente, ho aggiunto due brevi appendici al capitolo 1: una sull'intenzionalità e una sulla coscienza. Molte delle confusioni nella filosofia della percezione contemporanea derivano tanto dal fatto che gli autori mancano di una chiara concezione dell'intenzionalità, quanto da un modo scorretto di concepire la coscienza. Tali errori derivano, almeno in parte, dalla nostra sfortunata tradizione filosofica. Queste appendici sono brevi e ripetono materiale che ho esposto più diffusamente altrove. Ritengo, tuttavia, che il risultato sia un libro del tutto autosufficiente. Una volta che l'intenzionalità della percezione sia stata stabilita e si sia data una caratterizzazione generale dei suoi aspetti, la ricerca dischiude molti problemi. Critico il Disgiuntivismo a mo' di inciso nel capitolo 6. Il principale sforzo intellettuale del libro è invece concentrato nei capitoli 4 e 5. Cerco di rispondere alla domanda su come la pura fenomenologia delle esperienze percettive determini il contenuto intenzionale dell'esperienza. Nel capitolo 7, considero tanto esempi di percezione cosciente, quanto altre forme di cognizione inconscia, e cerco di dare una risposta alla tesi secondo cui la coscienza non è realmente importante. I classici problemi filosofici della percezione per ciò che concerne lo scetticismo e le varie teorie tradizionali della percezione vengono considerati soltanto alla fine, nel capitolo 8. Per me, quelli più importanti sono i capitoli 1, 2, 4 e 5. | << | < | > | >> |Pagina 13La filosofia non si lascia mai davvero alle spalle la propria storia e molti degli errori del passato ci accompagnano ancora oggi. Ci manca una parola che, da sola, possa nominare la grande varietà di sbagli, errori, fallacie, confusioni, incoerenze, inadeguatezze, nonsensi e mere falsità che abbiamo ereditato. Chiamare tutto ciò "errori" è impreciso, ma mi manca una parola migliore. Credo che il più grande di tutti questi errori sia costituito da quel gruppo di teorie conosciute sotto i nomi di Dualismo, Materialismo, Monismo, Funzionalismo, Comportamentismo, Idealismo, Teoria dell'identità ecc. L'idea che tutte queste teorie hanno in comune è che la relazione tra la mente e il corpo, tra la coscienza e il cervello, sia un problema di tipo speciale; ed essendosi fissati sull'illusione che vi sia un problema, i filosofi si sono affrettati a proporre differenti soluzioni a quel problema. Questo errore risale agli antichi, ma ha ricevuto la sua presentazione più celebre per opera di Descartes nel diciassettesimo secolo e si è poi perpetuato attraverso gli errori dei nostri giorni quali sono la contemporanea Teoria computazionale della mente, il Funzionalismo, il Dualismo delle proprietà, il Comportamentismo ecc. La cosa di cui è importante rendersi conto è che tutte queste teorie, all'apparenza differenti e reciprocamente incompatibili, sono in realtà espressione dello stesso errore di fondo che, solo per dargli un'etichetta, ho chiamato Dualismo concettuale. Un errore quasi della stessa portata ha sommerso la nostra tradizione dal diciassettesimo secolo in avanti: si tratta dell'errore di supporre che noi non percepiamo mai direttamente gli oggetti e gli stati di cose del mondo, ma percepiamo direttamente soltanto le nostre esperienze soggettive. Questo errore ha diversi nomi, tra i quali compaiono quelli di Descartes, Locke, Berkeley, Leibniz, Spinoza, Hume e Kant. Dopo Kant le cose sono addirittura peggiorate. Dovremmo includere infatti nell'elenco anche Mill e Hegel, nonostante le differenze che li separano. In questo libro espongo tale errore e le sue disastrose conseguenze, ma il mio obiettivo principale non è di natura storica. Voglio proporre un resoconto più preciso della percezione, e molto dell'interesse che c'è in tale resoconto risiede nel suo sforzo di correggere gli errori che l'hanno preceduto. Comincerò dando un resoconto essenziale di ciò che io credo sia una teoria corretta della percezione e dell'errore di cui qui discorro. Successivamente, nel capitolo 3, aggiungerò i dettagli. Al pari di molti filosofi che scrivono su questa materia, mi concentrerò sulla visione. Dirò qualcosa sulle altre modalità percettive solo di sfuggita. Se avete una visione normale, vi trovate in condizioni di illuminazione ragionevolmente buone e vi guardate attorno mentre state leggendo il libro, probabilmente vedrete cose di questo tipo: se vi trovate al chiuso, potreste vedere il tavolo su cui il libro è appoggiato e la sedia sulla quale siete seduti. In circostanze normali, ci saranno anche altri oggetti di arredamento, così come muri, finestre, un soffitto e altri elementi che solitamente compongono la scena di un interno. Se vi trovate invece all'aperto, la scena sarà probabilmente più ricca, dato che potreste vedere alberi, fiori, il cielo e forse case e strade. Comincerò cercando di descrivere alcuni fatti ovvi in merito a questa scena e le percezioni che voi avete in presenza della scena. In primo luogo, state vedendo direttamente gli oggetti e gli stati di cose, i quali hanno un'esistenza completamente indipendente dal vostro percepirli. La percezione è diretta nel senso che non percepite qualche altra cosa per mezzo della quale percepite la scena. Non è come guardare la televisione o osservare qualcosa riflesso in uno specchio. Gli oggetti e gli stati di cose hanno un'esistenza indipendente nel senso che esistono indipendentemente dal vostro esperirli. Se chiudete gli occhi, gli oggetti e gli stati di cose continueranno a esistere come prima, quel che cesserà sarà la vostra percezione. Inoltre, nel vedere questi oggetti e stati di cose, voi avete esperienze visive coscienti che accadono nella vostra testa. Di nuovo, se chiudete gli occhi, queste esperienze visive cesseranno, anche se gli stati di cose continueranno a esserci. Perciò ci sono due elementi distinti: gli stati di cose ontologicamente oggettivi che voi percepite direttamente e le esperienze ontologicamente soggettive che voi fate di essi. Di tutto questo voi siete a conoscenza prima ancora di iniziare a produrre qualsiasi ragionamento teorico sulla percezione. Non appena cominciate a fare un ragionamento teorico, noterete un terzo elemento che si aggiunge alla realtà oggettiva e all'esperienza soggettiva: ci deve essere una relazione causale per mezzo della quale la realtà oggettiva causa l'esperienza soggettiva. | << | < | > | >> |Pagina 20Per riassumere questo breve resoconto, la scena visivo-percettiva veridica contiene due fenomeni distinti: uno stato di cose oggettivo, appartenente al mondo che sta al di fuori della vostra testa, e un'esperienza percettiva visiva di quello stato di cose che è ontologicamente soggettiva e sta interamente all'interno della vostra testa. Il primo causa la seconda e il contenuto intenzionale di quest'ultima determina il primo come sua condizione di soddisfazione. Quando dico che lo stato di cose oggettivo viene percepito direttamente, intendo dire che non si deve percepire prima qualche altra cosa tramite la quale (o per mezzo della quale) esso viene poi percepito. Lo ripeto ancora una volta: l'esperienza non assomiglia al vedere qualcosa alla televisione o in uno specchio. Con l'ausilio di diagrammi possiamo rappresentare differenti aspetti della situazione. Nel primo diagramma, mostriamo semplicemente come l'oggetto ontologicamente oggettivo causi un'esperienza visiva ontologicamente soggettiva. Nel secondo diagramma, aggiungiamo a questo l'intenzionalità dell'esperienza visiva. E, nel terzo, abbiamo il caso dell'allucinazione, l'identica tipologia di esperienza visiva dotata di contenuto intenzionale ma non di un oggetto intenzionale.[...] Credo che questi diagrammi siano corretti, ma possono essere pericolosamente fuorvianti, se suggeriscono che l'esperienza visiva interna sia essa stessa oggetto della percezione. Supporre che le esperienze interne siano esse stesse oggetto della percezione è uno degli errori più grandi che questo libro mira a superare. L'esperienza visiva soggettiva non si può vedere, in quanto essa stessa consiste nel vedere qualunque altra cosa. Spero davvero che il resoconto fin qui sembri ovvio al punto da spingervi a chiedere perché vi stia tediando con tali banalità. Ma ecco la cosa veramente bella: il resoconto che vi ho appena proposto viene negato da pressoché ogni filosofo famoso che abbia scritto di percezione a partire dal diciassettesimo secolo personalmente, non so di nessun Grande Filosofo che abbia accettato il Realismo ingenuo o diretto. (I "Grandi Filosofi" in questo periodo cominciano con Bacon e Descartes e terminano con Kant. Includono Locke, Leibniz, Spinoza, Berkeley, Bacon e Hume. Se qualcuno vuole considerare Mill e Hegel come grandi filosofi, non avrò nulla da ridire.) | << | < | > | >> |Pagina 37Molti degli errori commessi nella filosofia della percezione derivano da una mancata comprensione dell'intenzionalità specifica dell'esperienza percettiva. E una tale mancanza, a sua volta, spesso proviene da una mancata comprensione della natura dell'intenzionalità in generale. Questa appendice offre un breve riassunto della teoria dell'intenzionalità e mette in evidenza alcuni dei più comuni errori che vengono commessi riguardo a essa. Per una presentazione più ampia del mio punto di vista, si veda Della intenzionalità (1983). L'intenzionalità è quella caratteristica per mezzo della quale la mente è diretta a o verte su oggetti e stati di cose del mondo. L'intenzionalità è, soprattutto, un fenomeno biologico comune agli esseri umani e ad altri animali. Le forme basilari di intenzionalità sono forme biologicamente primitive quali la percezione cosciente, l'azione intenzionale, la fame, la sete e quelle emozioni come la rabbia, il desiderio [lust] e la paura. Forme derivative sono cose come le credenze, i desideri e la speranza. Per avere una formula abbreviata, io uso "stato intenzionale" come termine generale per tutte le forme di intenzionalità, sebbene molte di esse non siano stati in senso stretto, ma eventi, processi e disposizioni. Ogni stato intenzionale consiste di un contenuto e di un modo psicologico. Se vedo che sta piovendo e penso anche che stia piovendo, i due fenomeni intenzionali, vedere e pensare, hanno in comune il contenuto che sta piovendo. I modi psicologici, il vedere e il pensare, sono però chiaramente differenti nei due casi. Θ importante sottolineare il carattere biologico dell'intenzionalità. Molti filosofi ritengono che vi sia qualche profondo mistero a proposito di come qualcosa che si trova dentro íl cervello possa vertere su un oggetto del mondo che sta al di fuori del cervello. Questo mistero si dissipa immediatamente se focalizziamo la nostra attenzione su semplici sensazioni animali quali la fame e la sete. Queste ultime sono forme basilari dell'intenzionalità. Tutti gli stati intenzionali, senza eccezione, sono causati da processi cerebrali e hanno la propria realizzazione nel cervello. Il presunto mistero dell'intenzionalità è simile ai precedenti misteri che hanno trovato soluzione nella biologia, quali il problema della vita e quello della coscienza. Come può la materia inerte essere viva? Come può il cervello essere dotato di coscienza? Proprio come il problema della vita viene ora visto come un problema biologico il vitalismo è fuori questione , allo stesso modo io credo che problemi quali quello della coscienza e dell'intenzionalità siano a loro volta problemi biologici il dualismo metafisico è fuori questione , per quanto i dettagli delle soluzioni a questi problemi non siano affatto scontati per noi al momento. | << | < | > | >> |Pagina 51Ogni resoconto della percezione deve contenerne uno della percezione cosciente. Ma ogni resoconto della percezione cosciente deve contenere, o per lo meno presupporre, un resoconto della coscienza in generale. Questa breve appendice contiene un resoconto della coscienza umana e animale. Ciò è importante perché sulla coscienza, più che su ogni altro tema filosofico, si dicono molte cose false e anche non intelligenti. Θ importante evitare gli errori prima di cominciare a proporre un resoconto completo della percezione. Il resoconto sarà breve perché è una sintesi di quello che ho sostenuto altrove. I lettori che hanno familiarità con la storia della filosofia lo riconosceranno come una "soluzione" al cosiddetto "problema mente-corpo". Ecco in che modo procede.
Spesso si dice che la coscienza sia difficile da definire. Se
però quello di cui parliamo è una definizione in termini di senso comune che
identifichi l'oggetto della nostra analisi, allora
la definizione risulta piuttosto semplice. La coscienza consiste
di tutti i nostri stati (processi, eventi ecc.) del sentire, dell'essere
senzienti o dell'avere consapevolezza. Questi tipicamente
hanno inizio quando ci svegliamo da un sonno privo di sogni,
o da una qualunque altra forma di incoscienza, e continuano
finché non ritorniamo incoscienti un'altra volta. I sogni sono
forme di coscienza, sebbene siano abbastanza differenti dalla
coscienza propria dei momenti di veglia. La caratteristica assolutamente
essenziale della coscienza è che, per ogni stato cosciente, c'è qualcosa che si
prova a trovarsi in quello stato. L'essenza della coscienza è che essa è
qualitativa
nel senso che ogni stato cosciente possiede qualche qualità esperienziale. Essa
è ontologicamente
soggettiva
nel senso che esiste solo in quanto esperita da un soggetto umano o animale. Ed
è
unificata
nel senso che tutti i nostri stati coscienti ci sono dati come parti di
un campo cosciente unificato. In passato ritenevo che la natura qualitativa
della coscienza, il suo essere soggettiva e la sua
unità fossero fenomeni separati, ma ora ritengo che ciascuno
di essi implichi l'altro e che, presi insieme, essi costituiscano
l'essenza della coscienza. Il carattere qualitativo dell'esperienza implica la
soggettività ontologica, e queste due cose insieme implicano l'unità perché, se
provate a immaginare il vostro campo cosciente presente come separato in
diciassette parti, non avrete un unico campo cosciente diviso in diciassette
pezzi, ma diciassette campi coscienti separati.
La coscienza definita in questo modo presenta molte caratteristiche, ma per
i nostri scopi quelle più importanti sono le
seguenti. Le sottolineo perché vengono frequentemente negate
nella letteratura filosofica.
1.
La coscienza è reale e irriducibile. Non si può dimostrare
che essa sia un'illusione nello stesso senso in cui lo sono il tramonto e gli
arcobaleni perché, se avete da coscienti l'illusione
di essere coscienti, allora voi siete coscienti. La distinzione tra
realtà e illusione presuppone la distinzione tra come le cose
appaiono alla coscienza e come esse sono nella realtà. Ma, laddove è l'esistenza
della coscienza a essere in questione, questa distinzione non si può tracciare,
dal momento che l'illusione cosciente della coscienza è la realtà della
coscienza.
Poiché la coscienza ha un'ontologia di carattere soggettivo
e legata alla prima persona, essa non può essere ridotta a niente che abbia
un'ontologia legata alla terza persona o oggettiva.
2. Tutti gli stati coscienti definiti in questo modo sono causati da processi neuronali all'interno del cervello. Non conosciamo i dettagli, ma allo stato attuale della nostra comprensione della neurobiologia non c'è dubbio che la coscienza sia causata da processi neurobiologíci. Sebbene la coscienza sia ontologicamente irriducibile, essa è causalmente riducibile ai processi del cervello. Che cosa significa tutto ciò? Significa che tutte le caratteristiche della coscienza, senza eccezioni, sono causate da processi neurobiologici nel cervello. 3. Tutti i nostri stati coscienti hanno la propria realizzazione nel cervello, di nuovo, senza eccezioni. Tutti gli stati di coscienza noti esistono negli uomini e negli animali. Forse, un giorno, saremo in grado di inventare macchine coscienti composte di materiale non organico, ma per ora l'unica coscienza nota si trova nel sistema nervoso degli esseri umani e degli animali. 4. La coscienza, pur con tutte le sue così intime, "misteriose", caratteristiche ontologicamente soggettive, è una componente biologica, e dunque fisica, del mondo reale. Come tale, essa entra in relazioni causali con altre parti del mondo fisico. Perciò, per esempio, tutte le mie percezioni coscienti sono causate nel mio cervello dall'impatto di stimoli percettivi sul mio sistema nervoso. E queste percezioni insieme ad altri processi, alcuni coscienti e altri inconsci, causano a loro volta il mio comportamento fisico. Per esempio, vedo il bicchiere di birra davanti a me, lo raggiungo quindi con la mano, lo afferro e bevo. Alcuni pensano ancora che l'irriducibilità ontologica della coscienza non la renda parte del mondo fisico. Si sbagliano. Il mio raggiungere la birra è un'azione cosciente da parte mia, e i miei movimenti sono causati dalle mie intenzioni coscienti. Ma qualsiasi cosa sia a causare quel movimento, deve causare la secrezione di acetilcolina, il neurotrasmettitore specifico per i movimenti del corpo. Perciò lo stato cosciente che è qualitativo, soggettivo, così intimo ecc., deve avere una descrizione di livello più basso, secondo la quale esso è un processo biologico che causa la secrezione di acetilcolina. Ciò non è più misterioso del fatto che il motore della mia automobile abbia una descrizione di livello superiore secondo la quale le esplosioni all'interno del cilindro muovono il pistone, e una descrizione di livello inferiore secondo la quale l'ossidazione delle molecole di idrocarburo sprigiona l'energia termica. 5. Tutta l'esperienza percettiva cosciente accade come parte di un campo cosciente totale. Θ importante rammentarci di questo perché taluni autori che scrivono sulla percezione la trattano come se esistesse in maniera isolata. Ma non è così. Non posso vedere in maniera cosciente il bicchiere di birra davanti a me senza avere un'intera serie di altri stati coscienti come parte del mio campo cosciente soggettivo totale. | << | < | > | >> |Pagina 54All'interno delle teorie della percezione vi sono due alternative al punto di vista che ho appena presentato. Una è che la coscienza percettiva non esista affatto. Questo modo di vedere le cose non è però plausibile, al punto che è difficile immaginare qualcuno che sarebbe disposto a difenderlo. Coloro che negano che la coscienza esista non lo fanno dicendo in maniera brutale "la coscienza non esiste" oppure "la coscienza percettiva non esiste". Quello che costoro sostengono è che la coscienza sia in realtà qualcosa d'altro. Nel caso di Daniel Dennett , egli afferma che essa è in realtà il programma di un computer in esecuzione nel nostro cervello. Nel caso di John Campbell, egli afferma che la percezione cosciente è semplicemente una relazione diretta tra il soggetto che percepisce e l'oggetto che viene percepito. Gli unici elementi che costituiscono la situazione percettiva, secondo Campbell, sono il soggetto che percepisce, l'oggetto percepito e il punto di vista. Nel capitolo 6 discuto la sua teoria nei dettagli. Un secondo approccio, che ritengo altrettanto non plausibile, è che la coscienza percettiva possa esistere al di fuori del cervello. Un esempio è nell'articolo di Alva Noè "Experience without the head". Noλ offre diversi esempi e argomenti per tentare di dimostrare che il contenuto, cioè il contenuto intenzionale delle nostre esperienze percettive, sia molto spesso determinato da relazioni molto complesse tra noi, le nostre disposizioni e l'ambiente. Egli conclude così: "Conclusione: è una possibilità empirica aperta che la nostra esperienza dipenda non solo da ciò che viene rappresentato nei nostri cervelli, ma da interazioni dinamiche tra cervello, corpo e ambiente. Il sostrato di esperienza può includere le parti del corpo che non sono il cervello e il mondo" (p. 429). Il problema di tutto ciò è che la prima affermazione non implica la seconda. Θ infatti vero che la nostra esperienza dipende non solo da quanto viene rappresentato nei nostri cervelli, "ma da interazioni dinamiche tra cervello, corpo e ambiente". Ritengo che questo sia un punto ovvio. Tuttavia, il fatto che il contenuto delle nostre esperienze dipenda non solo da queste "interazioni dinamiche" in nessun modo implica alcunché circa il sostrato dell'esperienza. Se il sostrato dell'esperienza significa ciò che dovrebbe significare cioè, come l'esperienza viene realizzata non c'è modo in cui l'esperienza cosciente qualitativa soggettiva possa essere realizzata, per esempio, nel tavolo che io ora vedo o nell'aria che circonda quel tavolo. Ricordate: quando si parla degli stati coscienti, si parla di eventi fisici reali che hanno una collocazione nello spazio, un inizio e una fine nel tempo, dimensioni spaziali e proprietà elettrochimiche di vario tipo. Non vi è assolutamente alcuna discussione su questo punto. E infatti questi sono i risultati delle "interazioni dinamiche", sebbene certamente ciò non confligga con l'idea che le interazioni dinamiche vengano "rappresentate nel cervello". Lo sbaglio consiste nel pensare che ciò vada in qualche modo nella direzione di mostrare che la soggettività qualitativa, per così dire, fluttui. Essa invece non fluttua: è collocata nei cervelli degli esseri umani e degli animali. La prima affermazione contiene un'opposizione implicita che è falsa. Quanto viene rappresentato nel nostro cervello possono ben essere le interazioni dinamiche tra íl cervello, il corpo e l'ambiente. In particolare, le interazioni dinamiche tra il corpo e l'ambiente producono effetti sul nostro sistema nervoso. Diverse strutture neurali all'interno di architetture neurali diverse si attivano secondo velocità diverse, per esempio. Questi processi sono sufficienti per produrre tutte le forme di coscienza. Dove dovrebbe stare il problema? L'argomento decisivo contro l'idea che la coscienza esista al di fuori del cervello è che, al pari di qualsiasi altra caratteristica biologica di ordine superiore del mondo, come la digestione, la fotosintesi o l'allattamento, la coscienza deve trovarsi all'interno di qualche sistema biologico. Deve essere realizzata, per esempio, in qualche sistema fatto di cellule. Forse possiamo creare coscienza all'interno di sistemi non organici, ma il principio biologico è il caso particolare di un principio molto più generale secondo cui qualsiasi caratteristica di ordine superiore come la liquidità dell'acqua, la solidità del tavolo e l'elasticità di una sbarra di ferro deve essere realizzata in elementi di ordine inferiore. Se pensiamo alla coscienza come a qualcosa che esiste al di fuori del sistema nervoso umano o animale, come qualcosa che, per così dire, ci fluttua attorno nell'aria o nella struttura del tavolo, allora dobbiamo supporre che le molecole dell'aria e quelle del tavolo stiano realizzando la coscienza. Questa idea non è degna di esser presa seriamente in considerazione. | << | < | > | >> |Pagina 57Ho appena detto qualcosa sulla storia di uno dei più grandi errori che hanno attraversato gli ultimi secoli della filosofia occidentale. Per come l'ho descritto, questo errore deriva, in fondo, dalla mancata comprensione dell'intenzionalità dell'esperienza percettiva. In che modo esattamente? Ci sono due fenomeni nella situazione percettiva cosciente: ci sono esperienze percettive coscienti ontologicamente soggettive, che stanno nella testa, e gli stati di cose e gli oggetti del mondo percepiti, che sono ontologicamente oggettivi e stanno tipicamente fuori dalla testa. Se non si riesce a comprendere che l'esperienza è una presentazione intenzionale diretta degli stati di cose, probabilmente si penserà che soltanto una cosa sia presente nella situazione percettiva: o lo stato di cose percepito o l'esperienza percettiva stessa. Dopotutto, c'è una sola esperienza! I Grandi Filosofi, da Descartes a Kant, ritennero che l'oggetto della percezione fosse l'esperienza soggettiva stessa. Molti filosofi che accettano che vi sia un oggetto esistente in maniera indipendente ritengono che, se nella situazione percettiva ci sono due elementi esperienza e oggetto , allora ciascuno dei due deve essere percepito. Tra coloro che aderiscono a una teoria della percezione avanzata di recente e chiamata Disgiuntivismo, alcuni hanno pensato che non vi sia alcun contenuto esperienziale soggettivo in comune tra í casi di percezione veridica e l'allucinazione. Il Disgiuntivismo è un punto di vista molto strano, e vi dirò di più su di esso nel capitolo 6. Per ora, vi proporrò una teoria intenzionalistica della percezione. Ritengo che, se facciamo chiarezza sull'intenzionalità delle esperienze percettive, molti dei problemi filosofici abbiano soluzioni piuttosto ovvie. Le posizioni alle quali mi oppongo includono sia la posizione falsa secondo cui l'esperienza soggettiva stessa è oggetto di percezione (il Cattivo argomento), sia la posizione altrettanto falsa secondo cui non vi è esperienza percettiva comune tra allucinazione e casi di percezione veridica (Disgiuntivismo). La tradizione filosofica ha il problema di presentare esempi di percezioni visive eccessivamente semplici. Tipicamente, i filosofi parlano di cose come vedere dei pomodori (H.H. Price) o vedere un pezzo di cera (Descartes). Proviamo a descrivere uno scenario più realistico: io ora sto guardando la baia di San Francisco fuori dallo studio al piano superiore di casa mia a Berkeley. Vedo la città di Berkeley in primo piano, la baia sullo sfondo e, distante all'orizzonte, la città di San Francisco, il Golden Gate e le colline della penisola. In primissimo piano, vedo anche il tavolo sul quale sto lavorando, il computer con il suo schermo illuminato, diversi libri e articoli, anch'essi sul tavolo, e il mio cane, Tarski, seduto ai miei piedi sul pavimento. Questa è un'esperienza visiva continua e io posso cambiare il fuoco della mia attenzione a mio piacimento. Posso cambiarlo addirittura senza muovere gli occhi. Talvolta, per amor di semplicità, nella discussione mi concentrerò soltanto su alcuni elementi come, per esempio, vedere il tavolo , ma bisogna tenere a mente la complessità di questa scena a mano a mano che procediamo. | << | < | > | >> |Pagina 61[...] In breve, le esperienze visive possiedono le quattro caratteristiche sufficienti per l'intenzionalità:
1. Contenuto intenzionale.
Il carattere esperienziale dell'esperienza percettiva possiede tutti i marchi
dell'intenzionalità. In nessun modo io posso guardare fuori dalla finestra senza
per lo meno avere visivamente l'impressione che la baia di San
Francisco sia di fronte a me insieme a tutte le altre cose che
ho menzionato. Ora, quell'
impressione
è un marchio dell'intenzionalità. Nelle esperienze visive c'è un
contenuto.
Non c'è modo di avere questa esperienza, anche quando si pensi che si
tratti di un'allucinazione, senza per lo meno avere l'impressione di stare
vedendo la baia di San Francisco. Quindi, questo è il primo punto: la pura
fenomenologia, il puro carattere esperienzíale delle vostre esperienze visive,
vi fornisce l'impressione che
questo sia il modo in cui le cose sono.
E ciò è sicuramente un marchio dell'intenzionalità. Riassumerò questo punto con
la solita zoppicante metafora del "contenuto" dicendo che le esperienze visive
hanno
contenuto intenzionale.
2. Direzione di adattamento. Gli stati intenzionali hanno diversi modi di relazionarsi alle proprie condizioni di soddisfazione. Le credenze dovrebbero rappresentare come stanno le cose nel mondo; la credenza dovrebbe adattarsi al mondo. I desideri e le intenzioni non dovrebbero adattarsi a una realtà preesistente, piuttosto, se soddisfatti, è la realtà a essere in accordo con il desiderio o con l'intenzione. Della prima categoria, le credenze, possiamo dire che hanno direzione di adattamento mente-mondo. Della seconda categoria, desideri e intenzioni, possiamo dire che hanno direzione di adattamento mondo-mente. Per quanto riguarda le credenze, la credenza si trova nella mente. Se essa ha successo, dovrebbe combaciare con il mondo. Per quanto riguarda i desideri, se un desiderio che si trova nella mente ha successo, è il mondo che dovrebbe combaciare con il contenuto di quel desiderio. A fronte di tale distinzione tra differenti direzioni di adattamento, le esperienze percettive hanno ovviamente una direzione di adattamento. Come per le credenze, la direzione di adattamento della mia esperienza percettiva è mente-mondo. A differenza dei miei desideri e delle mie intenzioni, le mie percezioni non mirano a modificare il mondo in modo che quest'ultimo combaci con il loro contenuto, piuttosto le esperienze mi sono date come presentazioni di come il mondo è. Perciò l'esperienza percettiva ha sia un contenuto sia una direzione di adattamento.
Al contrario di credenze ed enunciati, non diciamo che le
nostre esperienze visive sono vere o false, perché esse sono presentazioni e non
rappresentazioni. La verità e la falsità si usano
per le rappresentazioni proposízionali, come le credenze e gli
enunciati; abbiamo però bisogno di un termine per definire il
successo o l'insuccesso della percezione e, come ho già notato in precedenza, i
filosofi si avvalgono del termine "veridico"
(abbastanza brutto) per esprimere la caratteristica propria della
percezione che corrisponde alla verità nel caso delle credenze
e degli enunciati.
3. Condizioni di soddisfazione. Sulla base di quanto detto, dovrebbe risultare ovvio che le esperienze percettive, al pari di credenze, intenzioni e desideri, saranno soddisfatte oppure non soddisfatte. Il mondo sarà, oppure non sarà, nel modo in cui esso mi appare percettivamente. E per ripetere un punto che ho sollevato in precedenza, anche nel caso in cui io sappia che la mia esperienza percettiva è illusoria come per esempio accade nella famosa illusione di Múller-Lyer (fig. 2.1) , mi sembrerà egualmente che le due linee siano di lunghezza diversa. E ciò significa che le condizioni di soddisfazione sono che le linee abbiano lunghezza differente, anche se di fatto io so, in maniera indipendente, che quelle condizioni di soddisfazione non sono soddisfatte.
Abbiamo quindi tre caratteristiche delle esperienze percettive che insieme
sono sufficienti per l'intenzionalità: contenuto, direzione di adattamento e
condizioni di soddisfazione. Il contenuto determina quali aspetti del mondo
vengono presentati dall'esperienza percettiva, la direzione di adattamento è
ovviamente mente-mondo e le condizioni di soddisfazione sono
fissate dal contenuto.
4. Auto-riflessività causale.
L'intenzionalità percettiva, come la memoria e le intenzioni precedenti, ma
diversamente dalle credenze e dai desideri, ha come parte delle proprie
condizioni di soddisfazione una relazione causale che intercorre tra lo stato
intenzionale e il mondo esterno. Possiamo metterla in maniera semplice dicendo
che lo stato intenzionale non è soddisfatto non percepiamo il mondo in un modo
tale che lo stato intenzionale sia soddisfatto a meno che l'essere in quel
modo del mondo non causi il nostro percepirlo in quel modo. Quella
dell'auto-riflessività causale è una caratteristica cruciale del
contenuto intenzionale delle esperienze percettive. Come ho
detto, è condivisa anche dalla memoria, dalle intenzioni precedenti e
dall'intenzione-in-azione, ma non è una caratteristica
universale dell'intenzionalità. Se credo che Sally sia repubblicana, allora la
mia credenza può essere vera anche se il fatto che
Sally sia repubblicana non causa quella credenza. Se desidero
sposare una repubblicana e la sposo, allora il mio desiderio è
soddisfatto, anche se quel desiderio non ha causato il matrimonio. Ma se vedo un
tavolo verde davanti a me, allora io vedo
veramente il tavolo solo se la presenza e le proprietà del tavolo
causano l'esperienza visiva che io descrivo quando dico "vedo il tavolo". Nel
contenuto intenzionale delle esperienze percettive c'è una componente
causalmente auto-riflessiva.
Per riassumere, l'esperienza visiva non solo rispetta la definizione, ma possiede anche tutte le caratteristiche formali proprie dell'intenzionalità. Ha un contenuto che determina le condizioni di soddisfazione, ha una direzione di adattamento e il contenuto deve predisporre condizioni tali che l'esperienza visiva sia soddisfatta oppure non lo sia, abbia successo oppure non lo abbia, al pari tanto di credenze e desideri, quanto di intenzioni e ricordi. Ha una caratteristica aggiuntiva condivisa da alcune, ma non tutte, le forme di intenzionalità: le condizioni di soddisfazione sono causalmente auto-riflessive. E parte delle condizioni di soddisfazione che l'esperienza non sia soddisfatta, a meno che l'oggetto o lo stato di cose apparentemente percepito non causi l'esperienza del percepirlo. L'argomento più profondo a favore dell'intenzionalità della percezione visiva non l'ho ancora enunciato, e in questa epoca della filosofia esso risulta di difficile comprensione per molti filosofi. La prova di ciò sta nel fatto che costoro suppongono erroneamente che si tratti di un argomento contro l'intenzionalità della percezione, quando in realtà è il più potente argomento in suo favore. Si chiama Argomento della trasparenza, ed ecco come procede. | << | < | > | >> |Pagina 211Finora questo libro è stato interamente dedicato al problema delle percezioni coscienti. Tuttavia, anche la percezione inconscia solleva problemi interessanti, e questi sono diventati più pressanti per via dell'attuale opinione diffusa che fa apparire la coscienza come qualcosa che non ha poi una grande importanza. In questa atmosfera, è possibile fare sembrare che la maggior parte dei processi e delle attività mentali più importanti degli esseri umani siano inconsci e che sia più probabile che la funzione della coscienza, sebbene ancora oscura, consista nel regolare e monitorare le attività umane, tra cui percezione e pensiero, piuttosto che iniziarle e portarle avanti. Questo capitolo sarà dedicato in primo luogo alla percezione inconscia, ma discuterò anche altri tipi di fenomeni psicologici inconsci, quali le azioni inconsce. Né in scienza né in filosofia disponiamo di un resoconto adeguato della relazione tra stati coscienti e stati inconsci. Qual è il problema esattamente? Ci sono molti problemi, ma il modo più semplice di affrontarli è discuterne la storia. Letteralmente per secoli, la coscienza è stata considerata relativamente non problematica, e la nozione di stato mentale inconscio veniva considerata come qualcosa di molto difficile da comprendere, o forse addirittura incoerente. L'argomento contro l'inconscio procedeva in questo modo: Descartes e altri hanno mostrato che gli stati mentali sono essenzialmente coscienti. Infatti, essere coscienti costituisce l'essenza degli stati mentali. La nozione di stato mentale inconscio sarebbe, dunque, quella di coscienza inconscia. Ma questa è evidentemente una contraddizione in termini. Secondo la definizione cartesiana del mentale una definizione che ha dominato la vita intellettuale letteralmente per secoli non potrebbe darsi alcun fenomeno mentale inconscio. Già a partire dal diciannovesimo secolo, però, ci fu qualcuno che mise in discussione questo modo di vedere le cose e difese l'idea che vi siano fenomeni mentali inconsci. Tre esempi sono Dostoevskij in letteratura, Nietzsche e Schopenhauer in filosofia. Freud non inventò l'idea di inconscio, ma fece molto più di chiunque altro per renderla popolare. Θ difficile oggi recuperare la percezione dell'enorme influenza che Freud ha avuto sulla vita intellettuale. Wystan Auden l'ha caratterizzata in questo modo: "Per noi non è più una persona / Ora ma un intero clima di opinione". La concezione che Freud aveva dell'inconscio è più complessa di quanto la gente possa pensare. Tuttavia, in breve, la concezione freudiana è che si debba distinguere tra il pre-conscio e l'inconscio. Il pre-conscio consiste di fenomeni a cui non ci capita di pensare, come la mia credenza che Washington fu il primo presidente degli Stati Uniti. L'inconscio, invece, secondo Freud, coinvolge casi di repressione genuina. La nozione freudiana di inconscio, opposta a quella di pre-conscio, è la nozione di stati mentali che sono semplicemente troppo dolorosi per emergere a livello della coscienza. Il desiderio del bambino di avere rapporti sessuali con la propria madre e di uccidere il padre, per esempio, era considerato da Freud come una forma inconscia di motivazione: il desiderio era troppo doloroso perché potesse essere riconosciuto, ma era comunque presente come parte della motivazione del bambino. Penso che Freud sia fuori moda da un punto di vista intellettuale al giorno d'oggi, e non si guarda più alla sua teoria come a una concezione scientificamente valida dell'inconscio. Nei decenni successivi del ventesimo secolo emerse, però, un'altra concezione di inconscio, che potrei chiamare Inconscio cognitivo. Si supponeva che ci fossero dei processi in atto nel cervello che sono processi mentali in un senso genuino (invece di essere processi meramente biologici), ma che non sono accessibili in linea di principio alla coscienza. Naturalmente, essi sono realizzati o implementati neurobiologicamente. Ma il livello di descrizione che è essenziale per comprendere tali processi è quello del livello mentale inconscio, non si tratta quindi né del livello neurobiologico, né di quello cosciente. L'idea era che, per spiegare la cognizione umana, dobbiamo postulare l'esistenza di processi genuinamente mentali che accadono nel cervello, ma che non sono coscienti, e non sono nemmeno il tipo di cose che potrebbero diventare coscienti; allo stesso tempo, però, si situano a un livello più alto di quello neurobiologico. Quindi, si supponeva che ci fossero tre livelli di spiegazione: un livello più alto, quello dell'intenzionalità a volte chiamato anche in maniera sprezzante "psicologia popolare" , un livello più basso, quello della neurobiologia, e un livello intermedio al quale la Scienza cognitiva per come allora era concepita poteva operare. La visione e l'acquisizione e l'uso del linguaggio costituivano due esempi di questa concezione tripartita. Nel caso della visione, l'idea era che, per spiegare l'elaborazione dell'informazione visiva, dovessimo postulare un livello computazionale che è inconscio e però non è soltanto una mera questione di neurobiologia. Il testo classico in proposito è il libro di Marr, Vision. Marr postulava tre differenti livelli di analisi. Chiamava il livello più alto computazionale. Questo è il livello al quale il sistema risolve i problemi. Quindi, per esempio, il sistema visivo deve essere capace di riconoscere la forma di un oggetto. Al livello più basso si trova la neurofisiologia, nella quale tutto questo accade. Ma il contributo unico di Marr e in effetti dell'intera concezione computazionale della mente è quello di avere postulato un livello intermedio collocato tra il livello della risoluzione dei problemi, quello più alto, e il fondo costituito dalla neurobiologia. A questo livello intermedio si trovano gli algoritmi implementati dall'"hardware" del sistema. Perché ciò è così importante? Significa che c'è una scienza della visione che non è psicologia dell'intenzionalità e nemmeno neurobiologia. C'è un livello intermedio, e la scienza della visione può procedere a quel livello computando gli algoritmi che l'agente sta seguendo, riconoscendo i programmi che sono implementati nel cervello. Non sorprenderà i lettori di questo libro, né i lettori del mio lavoro precedente, che io pensi che tutta questa concezione sia confusa. C'è un livello dell'intenzionalità molti livelli in verità e c'è un livello della realizzazione neurobiologica dell'intenzionalità molti livelli in effetti; ma non c'è alcun livello di elaborazione di algoritmi che sia psicologicamente reale ma inconscio. L'idea è che questi processi mentali al livello intermedio dovrebbero essere psicologicamente reali ma completamente inconsci. Non sono quel tipo di cose di cui uno potrebbe essere cosciente, ma offrono una spiegazione scientifica delle operazioni del sistema visivo. Non è stata affatto chiarita l'idea secondo cui il livello di implementazione computazionale abbia una qualche realtà psicologica. Si può descrivere il cervello in termini computazionali, come qualsiasi sistema può essere descritto in tali termini. Ma il processo di computazione in questione è completamente dipendente dall'osservatore. Queste computazioni sono tutte relative all'assegnamento di una certa interpretazione computazionale da parte di qualche osservatore esterno. A volte è utile fare questo; per esempio, potete trattare lo stomaco come se fosse impegnato in certe computazioni quando riconosce la quantità di sostanze chimiche particolari da usare per attaccare alcune sostanze che vengono immesse nell'organismo e che devono essere digerite. L'argomento contro l'esistenza di un livello psicologicamente reale dell'inconscio profondo è semplicemente che qualsiasi intenzionalità richiede una forma aspettuale, come ho detto in lungo e in largo in questo libro. La rappresentazione è sempre sotto questo o quell'aspetto. Ma qual è la realtà della forma aspettuale quando il sistema è completamente inconscio? Qual è la differenza tra un desiderio inconscio di acqua e il desiderio inconscio di H20, che possono essere entrambi psicologicamente reali? Un agente potrebbe non sapere che l'acqua è H20, potrebbe ritenere erroneamente che H2O sia qualcosa di disgustoso e volere dell'acqua, ma non H2O. Quando costui è completamente incosciente, che cosa lo porta a desiderare l'una e non l'altra cosa? E la risposta è chiara, credo. Noi intendiamo la nozione di stato mentale come quella di qualcosa che sia potenzialmente cosciente. Voi potreste fare domande all'agente, ed egli potrebbe portare a livello della coscienza i propri desideri e le proprie avversioni. Ma, nel caso del livello computazionale in Marr, non c'è alcuna prospettiva di portare tutto questo al livello della coscienza, poiché non si tratta di qualcosa che potrebbe entrare a far parte dei processi di pensiero coscienti. (Dirò di più su questo argomento più avanti.) Bene, allora perché il cervello non potrebbe essere come qualsiasi altro calcolatore digitale? Potrebbe essere semplicemente un meccanismo computazionale come tutti gli altri? La risposta è: in tutti i casi come quelli, la computazione è relativa a un osservatore. Ciò non significa che le computazioni non siano reali; al contrario, spendiamo un sacco di soldi per costruire e programmare computer che computino quello che noi vogliamo. Ma questo significa che computazione non designa un processo intrinseco indipendente da un osservatore nel modo in cui il circuito elettrico e le transizioni di stato elettrico all'interno dell' hardware sono intrinseci e indipendenti dall'osservatore. Piuttosto, l' hardware è concepito in modo tale che, una volta programmato, noi si possa interpretarlo così-e-così. Voglio mettere una certa enfasi su questo punto. Eccezion fatta per i casi come quello di un agente cosciente che affronta un problema di aritmetica e fa calcoli, la computazione è sempre relativa a un osservatore. Un secondo esempio di fenomeni mentali inconsci che agiscono in maniera causale nella spiegazione della cognizione umana sono l'acquisizione e l'uso del linguaggio. Si suppone che il modo in cui il bambino è in grado di usare il linguaggio, di elaborare gli stimoli linguistici e di produrre proposizioni sia questione di processi mentali che non soltanto sono inconsci, ma a differenza di ciò che vale per l'accezione freudiana di inconscio non sono nemmeno il tipo di cose di cui l'agente potrebbe diventare cosciente. Gli stati mentali in questione sono stati computazionali. Se uno dovesse rappresentarli all'interno di una teoria, questa rappresentazione dovrebbe essere nei termini della notazione di un programma di computer o, più tipicamente, di un insieme di termini tecnici usati dagli psicologi cognitivi e dai linguisti professionisti. Quando i linguisti dicono che il bambino applica la legge "muovere alfa", nulla implica che il bambino sia in qualche modo un conoscitore dell'alfabeto greco. Questa notazione è soltanto il modo in cui il linguista rappresenta un processo mentale inconscio che accade nel cervello del bambino. Secondo tale resoconto, sia la visione sia l'acquisizione del linguaggio sono una questione di computazione. Dobbiamo pensare agli stati mentali come a stati essenzialmente computazionali, e il livello computazionale si situa tra quello della neurobiologia e quello della "psicologia popolare". Esso è psicologicamente reale, ma non è il tipo di cosa che sia cosciente o anche accessibile alla coscienza. Con la rivoluzione cognitiva, c'è stato un cambiamento. Invece di pensare all'inconscio come a qualcosa di difficile comprensione o di problematico e alla coscienza come la normale forma della vita mentale, i ricercatori in scienza cognitiva hanno iniziato a pensare alla coscienza come a qualcosa di difficile comprensione, qualcosa di misterioso, che è forse addirittura al di là della portata dell'indagine scientifica, mentre l'inconscio è divenuto un modo standard di spiegare le cose. La spiegazione di questa trasformazione è che, secondo tale paradigma, dobbiamo pensare al cervello come a un calcolatore digitale e alla mente come a un insieme di programmi di calcolo. Con l'avvento della scienza cognitiva, almeno ai suoi inizi, c'era una grande impazienza di produrre modelli di spiegazione scientificamente validi della cognizione umana. Ma la spiegazione scientifica non dovrebbe essere una questione di psicologia introspettiva né di Comportamentismo. La Scienza cognitiva era stata fondata, almeno in parte, come reazione al Comportamentismo. Il modello che allora esercitava un fascino prepotente era il paradigma computazionale. Dobbiamo pensare al cervello come a qualcosa che fa una gran quantità di calcoli, che si situano al livello del mentale e non della neurobiologia; ma, allo stesso tempo, non sono una faccenda di psicologia del senso comune o "popolare" e sono completamente inconsci. Ho attaccato quella nozione di elaborazione mentale inconscia che era caratteristica dei primi decenni della Scienza cognitiva e ho tratteggiato un po' del mio argomento all'inizio di questo capitolo. Ora voglio espanderlo un po' di più. | << | < | > | >> |Pagina 232Una delle più fondamentali distinzioni tra filosofi e tipologie di filosofie, forse la distinzione più fondamentale, risiede nella risposta che si dà alla domanda su che cosa i filosofi considerino come il fondo, come il terreno ontologicamente ultimo. Vale a dire, per ogni filosofo che voglia elaborare le implicazioni della propria posizione filosofica, c'è una risposta alla domanda: "Che cos'è quella cosa (se ce n'è una) nei termini della quale possiamo spiegare tutto il resto, ma che non deve essere essa stessa spiegata nei termini di nient'altro?". Stando al resoconto che vi ho dato in questo libro, è chiaro che il fondo ultimo è il mondo così come viene descritto dalla fisica degli atomi. Questo non perché io ci tenga particolarmente a perorare la causa di un certo stadio di sviluppo delle scienze naturali; al contrario, assumo che esse continueranno a cambiare e svilupparsi. Credo però che, come risultato degli ultimi trecento anni di incremento della conoscenza quello che in maniera fuorviante chiamiamo "indagine scientifica" , possiamo concludere senza troppi problemi che il mondo conosciuto sia composto da entità che noi troviamo conveniente, se non del tutto corretto, chiamare "particelle fisiche". Tali particelle esistono all'interno di campi di forza e sono organizzate in sistemi, e i confini del sistema vengono fissati da relazioni causali. Esempi di sistemi sarebbero le molecole di acqua, i bambini, gli Stati nazionali e le galassie. Devo ammettere di trovarmi in imbarazzo con la materia oscura e l'energia oscura. D'altra parte, il mio imbarazzo è niente a confronto di quello dei fisici o dei cosmologi. Quando dicono "oscura", costoro non parlano di un colore ma della propria ignoranza. Quando sopra ho detto "mondo conosciuto", stavo deliberatamente escludendo la materia oscura e l'energia oscura. Devo lasciare che siano i fisici a comprendere la natura di questi fenomeni. Ma, in ogni caso, è chiaro dal resoconto che vi sto offrendo che esso termina in ciò che io ritengo sia il mondo reale, il quale esiste in maniera assolutamente indipendente da un osservatore ed è ontologicamente oggettivo. Uno dei compiti della filosofia è spiegare la costituzione di questi sistemi di livello superiore e mostrare come essi terminino nelle entità della fisica atomica.
Nella storia della filosofia degli ultimi trecento anni, l'affermazione che
l'ontologia termina nella fisica non è stata sempre
l'opinione predominante. Infatti, il Cattivo argomento è stato
tanto influente e per un tempo così lungo da produrre due modi di sviluppare gli
esiti dell'argomento stesso, che individuano
entrambi come realtà ultima la soggettività. Uno di questi è la
tradizione dell'Idealismo, la quale afferma che la realtà ultima
è l'idea; vale a dire: essa consiste di fenomeni spirituali chiamati in maniera
tecnica "idee". La fisica, secondo Hegel, non
ha l'ultima parola. Al contrario, è soltanto l'espressione superficiale di
qualcosa di più fondamentale, l'ontologia del
Geist.
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