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| << | < | > | >> |IndiceUomo con minotauro sul petto 7 Il nutrimento dell'artista 29 Il povero Roger 41 L'estrema unzione 61 L'ultima visita 71 Eufemia 85 Borges e l'ultraismo 105 Amor proprio 141 Il collezionista di colpe 151 La notte anomala 171 Il gusto della ripetizione 183 |
| << | < | > | >> |Pagina 41Avvolta nella termocoperta, Eleanore Wharton ignorò il primo trillo della sveglia. Il secondo sarebbe arrivato dopo un quarto d'ora, più energico, più carico di rimproveri in nome della disciplina, e se lei avesse continuato a dormire, ogni cinque minuti avrebbe dovuto sopportare un grido astutamente calcolato per trasmetterle sensi di colpa perfino in sogno. Odiava la sveglia, ma la considerava un buon investimento. Indubbiamente i giapponesi sapevano fare le cose come si deve. Il vizio di restare a sonnecchiare fra le lenzuola le era già costato varie trattenute sullo stipendio. Adesso, grazie all'allarme ripetuto, era diventata quasi puntuale. Non veniva più rimbrottata tanto spesso dalla Robinson & Fullbright, la ditta dove lavorava da vent'anni come segretaria esecutiva. Comunque si era creata un'ingiusta fama di dormigliona che non intendeva smentire. I suoi capi erano uomini, e gli uomini non hanno la menopausa. Come spiegargli che a volte al risveglio era depressa, senza alcuna voglia di lavorare, arrabbiata con sé stessa per aver passato la notte col proprio cadavere? Oggi stava ricadendo nell'indolenza. Non si tirò su neanche al secondo trillo: i giapponesi potevano andare all'inferno. Ma purtroppo erano riusciti nel loro intento. Ormai era sveglia, talmente sveglia che si mise a riflettere sulla funzione civica del sonno. Dio l'aveva inventato perché gli uomini si alzassero un po' storditi e non potessero opporsi all'inesorabile meccanismo dei giorni lavorativi. Lei però si era svegliata senza cispe nel cervello, assurdamente lucida, e nulla le impediva di pensare che la propria pigrizia era accogliente e tiepida quanto il letto. Tirò fuori una mano dalla coperta e cercò a tentoni il bicchiere d'acqua sopra il comodino. Per sbaglio prese quello con la dentiera e bevve l'amaro liquido verde (Polident, for free-odor dentures) che la proteggeva dalle impurità. Che schifo avere quarantanove anni! Che schifo aprire gli occhi lucida e decrepita! Pensò alla sua pappagorgia, al ripugnante obbligo di "farsi bella". Un motivo in più per non presentarsi al lavoro: una vecchia come lei non doveva essere costretta a rendersi presentabile. Al diavolo cosmetici e rossetti. Che l'erba e la muffa crescessero liberamente sulle sue rovine, in ogni caso nessuno le avrebbe guardate. Divorziata a trent'anni, non aveva figli, e da allora evitava di frequentare gli uomini. Le amiche le vedeva una volta l'anno, in genere il giorno del Ringraziamento. Non le cercava mai perché dopo appena mezz'ora di conversazione aveva di nuovo voglia di starsene da sola. Il suo individualismo sconfinava nella misantropia. Si proteggeva dalla vita dietro una corazza impenetrabile e respingeva qualsiasi dimostrazione d'affetto in grado di incrinarla. Odiava essere così, ma come rimediare? Doveva seguire un corso di meditazione trascendentale? Correva il rischio di trovare sé stessa, quando più di qualsiasi altra cosa desiderava perdersi di vista. No, la meditazione e la psicoanalisi erano solo imbrogli, trucchi per nascondere le rughe dell'anima (un sorso d'acqua pura cancellò il gusto amaro che aveva in bocca), invece a lei serviva un restauro integrale, un cambio di pelle. Eleanore Wharton aveva un sacco di fobie. Perché doveva sentire la propria voce dentro e fuori lo specchio? Se almeno avesse variato l'argomento dei monologhi sarebbe riuscita a sopportarla, ma parlava sempre delle stesse cose: i cibi grassi non fanno bene alla circolazione, Michael Jackson doveva finire in galera perché corrompeva i giovani, in questo mondo maschilista le donne della sua classe non avevano la possibilità di mettersi in luce, gli uomini volevano sesso, non efficienza, e i dirigenti dell'ufficio ne erano la prova, così severi con le anziane e così comprensivi con le ragazzine, ma lei non avrebbe più tollerato detrazioni per i suoi ritardi, altrimenti perché aveva comprato la sveglia giapponese con l'allarme ripetuto, che in quel momento le ordinava di uscire dal letto con grida atroci: wake up fuckin' lazy, sei triste, scrofa? Be', crepa pure di amarezza, ma solo dopo aver timbrato il cartellino. Spense la suoneria in aperta ribellione contro la Robinson & Fullbright. Sarebbe arrivata tardi di proposito. Non avrebbe sprecato una bella crisi esistenziale per compiacere i capi. Accese il televisore dal letto. La sera prima avevano trasmesso uno special su Bob Hope e voleva assicurarsi che il videoregistratore non le avesse giocato un brutto tiro. L'apparecchio, come al solito, aveva combinato uno dei suoi scherzetti. Lo aveva programmato per iniziare a registrare a mezzanotte, e invece sullo schermo scorrevano le immagini del notiziario delle 23.30. Maledetta Panasonic. La cosa più noiosa di quei guasti erano le inevitabili discussioni con il tecnico di turno. Se manteneva le distanze e scambiava con lui solo le poche parole indispensabili per spiegargli il difetto, si creava una situazione tesa, insopportabilmente formale, ma se gli offriva un caffè e cercava di rompere il ghiaccio aveva l'impressione di mettere in vetrina la propria intimità. Perché non inventavano apparecchi capaci di aggiustare gli altri apparecchi? Il notiziario trasmetteva le immagini del recente terremoto a Città del Messico: edifici in rovina, gente accampata per strada, donne che percorrevano lunghe distanze per riempire secchi d'acqua. Povero paese. Dove si trovava esattamente il Messico? Vicino al Perú? Quello della NBC parlava di ventimila morti. C'erano sopravvissuti fra le macerie, ma mancavano i mezzi per liberarli. Scarseggiavano anche indumenti e viveri. Inquadratura dell'insegna di un albergo con l'orologio fermo alle 7.19. "I messicani non potranno più dimenticare quest'ora, l'ora in cui la terra ha voluto cancellare dalle carte geografiche la città più popolosa del mondo." Inquadratura di un palazzo che crolla. Inquadratura del presidente che ringrazia per gli aiuti internazionali. Sembrava troppo bianco per essere messicano. Inquadratura della popolazione inginocchiata in una chiesa. "In questo scenario di dolore e tragedia, le principali vittime sono i piccoli rimasti senza famiglia e senza casa." La telecamera indugiò su un bambino seminudo che piangeva accanto alle rovine di un caseggiato. "Tanti bambini come questo cercano disperatamente i genitori," lo speaker finse di avere un groppo alla gola "senza sospettare che non li rivedranno mai più." Eleanore sentì una fitta al cuore. Il bambino piangeva lacrime nere, o era la polvere che aveva sulle guance a tingerle? Indossava un maglione bucherellato che, a giudicare da come tremava, non lo proteggeva dal freddo. Doveva avere due o tre anni, eppure il suo faccino sconvolto, gonfio per il pianto, esprimeva la desolazione di un vecchio che avesse visto cento guerre. Alle sue spalle, stagliandosi su un orizzonte plumbeo, si ergeva una montagna di macerie su cui si arrampicavano pompieri e squadre di soccorso con le mascherine sulla bocca. Le notizie sul terremoto si chiusero con un close up del bambino. Riavvolse la cassetta per vederlo un'altra volta. Quel povero angioletto viveva in Messico, ma dov'era il Messico? Era il paese dei mariachi che cantavano tanghi, di questo era sicura, però non era in grado di situarlo geograficamente. Bloccò l'immagine per esaminare con attenzione il bambino. Sembrava denutrito. Lei aveva il frigorifero colmo di tv dinners (dietetici, naturalmente) e si deliziava contemplando una creatura che implorava un pezzo di pane. Egoista. Con quale diritto restava a letto a leccarsi le ferite quando al mondo c'erano tanti bambini infelici e degni di compassione? Qualcuno dovrebbe portarlo in un orfanotrofio, sempre che ne siano rimasti in piedi. Incredibile ma vero: si era intenerita. Il piccolo terremotato le aveva restituito la voglia di lottare. Avrebbe voluto entrare nel televisore per consolarlo, per dirgli che non era solo al mondo. Balzò giù dal letto con l'amor proprio rivitalizzato. Ecco di cosa aveva bisogno per sentirsi viva: un'emozione pura. Dall'ufficio avrebbe chiamato il tecnico della Panasonic e si sarebbe messa a tubare con lui come una tortorella. Impegnata a stilare contratti di proprietà immobiliari e a fare telefonate al registro catastale, non ebbe il tempo di pensare alla sua nuova speranza fin dopo mezzogiorno, quando senti un commento del signor Fullbright sul terremoto in Messico. Quello che aveva visto in tv gli era sembrato così spaventoso, così impressionante, che non sarebbe più andato in vacanza ad Acapulco. Miserabile. Come osava invadere un territorio sentimentale che le apparteneva di diritto? Avrebbe scommesso cento dollari che aveva cambiato canale per non vedere la telenovela degli orfani messicani. Dopo il lunch, approfittando dell'assenza del capo, consultò l'enciclopedia in bella mostra nella sala riunioni. Il Messico confinava a nord con gli Stati Uniti e a sud con il Guatemala. Si faceva fatica a credere che il Sudamerica fosse così vicino agli Stati Uniti, ma la carta geografica non lasciava dubbi: c'erano meno di tre centimetri fra la sua cittadina, Green Valley, e la città straziata dove piangeva una creatura senza casa, senza famiglia, senza affetto. | << | < | > | >> |Pagina 85Stordita, assetata, e con un nido di cispe intorno agli occhi, Eufemia sistema la sua scrivania sotto i portici della piazza. L'orologio della parrocchia segna le undici. Ha già perso i clienti migliori, le massaie che di buon mattino si mettono in coda per il latte. Ben le sta: è una dormigliona e un'ubriacona. Lentamente, con addosso il peso del proprio scheletro, mette una tavola sopra due ceste di vimini, la copre con una tovaglia lisa ed estrae da una borsa di iuta il suo strumento di lavoro: una Remington delle dimensioni di una batteria d'auto, vecchia, malmessa e con le lettere cancellate. Un sole spietato arroventa l'aria. Non piove da un anno e il terriccio delle strade ha iniziato a creparsi. Passano cani famelici, muli carichi di legna, contadine che portano i figli nelle pieghe dello scialle. Eufemia respira con difficoltà. In bocca ha il sapore del rame. Dopo aver posato accanto alla Remington un cartoncino con il prezzo a foglio — preferisce indicare la scritta che parlare con la gente, non le è mai piaciuto parlare con la gente — si lascia cadere sulla sedia con un sospiro. È ora di colazione. Getta occhiate a destra e a sinistra per sincerarsi che nessuno la veda, estrae dal poncho una bottiglia di tequila e ne beve un sorso lungo, disperatamente lungo. Non c'è niente come la tequila per restituire agilità alle dita. Rinfrancata, si toglie le cispe con il mignolo e osserva i fannulloni che sonnecchiano o leggono il giornale sulle panchine della piazza. Beati loro che possono riposare. È ad Alpuyeca da una settimana e presto se ne dovrà andare. Ormai conosce le facce di tutti quelli del paese. Qualcuno cerca di entrare in confidenza, e questo non può permetterlo. Succede sempre, quando resta troppo tempo in un posto. La gente è molto contenta delle sue lettere. Quanto più sono ignoranti, tanto più le sono riconoscenti: la invitano addirittura per il barbecue, come se la conoscessero da una vita. Non riescono a capire che se va da un paese all'altro come una cavalla selvaggia, se non passa mai due volte nello stesso posto, è proprio per non rammollirsi, perché il suo odio non venga mitigato da affetti menzogneri e attenzioni vane. Una ragazza proveniente dal mercato si ferma davanti alla scrivania e le chiede il prezzo delle lettere. — Non sai leggere? — la cliente scuote la testa. — C'è scritto che ogni foglio costa cinquecento pesos. La ragazza esamina il cartoncino come se fosse un geroglifico, si fruga nel grembiule e tira fuori una moneta d'argento per posarla sul tavolo. Eufemia, con la sua voce autoritaria, le ispira terrore. — A chi va indirizzata? La ragazza arrossisce. Sorride timida scoprendo una magnifica dentatura. È carina e malgrado l'età ha già il seno da donna. — È per il tuo fidanzato? Contorcendosi per la vergogna, la ragazza le fa capire di sì. — Qual è il suo nome? — Lorenzo Hinojosa, ma io lo chiamo Lencho. — Allora mettiamo 'Caro Lencho' — decreta Eufemia, osservando il viso della ragazza per calcolare dal luccichio degli occhi l'intensità del suo amore. Si, lo ama, questa povera scema è innamorata. — Caro Lencho, e poi? Sbrigati, non posso perdere tutta la mattina con te. — Confido in Dio che ti trovi bene in compagnia dei tuoi familiari. Le dita di Eufemia corrono sui tasti a tutta velocità. La ragazza la guarda imbambolata. — Con-fi-do in Dio che ti tro-vi bene in com-pa-gnia dei tu-oi fa-mi-lia-ri. Che altro?
— Mi manchi molto e a volte piango perché non sei qui...
SUPERA TE STESSO E RAGGIUNGERAI I TUOI OBIETTIVI, diceva il fumetto della bambola bionda intenta a scrivere quanto le dettava il suo atletico capo: LA SCUOLA COMMERCIALE MODELLO TI PREPARA PER IL SUCCESSO. L'autobus era affollato ma Eufemia, insediata in quel lussuoso ufficio, non fece caso alla scomodità del viaggio, e la mescolanza di sudori e profumi non le diede il voltastomaco finché una brusca frenata non la riportò alla realtà quando era ormai tardi per scendere alla sua fermata. La distrazione le costò una camminata di sette isolati, ma scese convinta di avere la stoffa della segretaria. La biondina con il viso da principessa l'aveva punta nell'orgoglio. Voglio essere lei e stare al suo posto, pensò quella sera e le altre sere ancora, preoccupata di non avere una personalità all'altezza delle proprie aspirazioni. Con i risparmi poteva pagare le tasse scolastiche, ma temeva che se non camminava, non si vestiva e non pensava in un altro modo — insomma, se non cambiava pelle — non l'avrebbero mai fatta lavorare in uffici come quelli dell'annuncio, neanche come semplice segretaria. I suoi timori diminuirono quando la sua padrona, la signora Matilde, si offrì di pagarle l'iscrizione al corso e di prestarle una Remington per esercitarsi a battere a macchina. Con quell'appoggio si senti più sicura, più figlia di papà che domestica, ed entrò alla Scuola Commerciale Modello con la ferma determinazione di riuscire o morire. | << | < | > | >> |Pagina 105Lo disse con la deferente cortesia di un patriarca interessato ai giovani studiosi, ma facendomi pesare il rigore della sua augusta, indiscussa autorità letteraria. E lo disse ad alta voce, in modo che tutti i professori del dipartimento udissero il consiglio: – Perché non cambia argomento? Borges ha rinnegato l'ultraismo, e lui qualcosa ne sapeva, non crede? Quella parte della sua opera non importa a nessuno, è solo il capriccio di un adolescente. Se vuole commettere una sciocchezza, faccia pure, del resto è giovane, ma abbia pietà di Borges. Non gli farebbe piacere che lei scrivesse una tesi di dottorato sui suoi balbettii. Calò un silenzio carico d'attesa, come quello che precede l'esecuzione di un condannato, ma anche se mi sentii morire dentro non gli diedi la soddisfazione di accusare il colpo. Sorrisi, più per rabbia che per timidezza, cercando sostegno morale fra i partecipanti al cocktail di benvenuto. Nessuno mi difese. Per discutere con Florencio Durán ci voleva la sua statura intellettuale, e nessuno di noi ce l'aveva. Mi ferì soprattutto il tradimento di Fred Murray. Era stato per lui se mi ero imbarcato in quella tesi, e come capo del dipartimento avrebbe dovuto intercedere in mio favore, o perlomeno dire qualcosa che sembrasse intelligente. Invece finse di non aver sentito, e così facendo calpestò la propria dignità accademica. Modestia a parte, sono il ricercatore più brillante di questa maledetta università. Se il mio saggio sulla partecipazione di Borges al movimento ultraista era una baggianata, che figura ci faceva Murray? E qual era il valore degli studi letterari alla Vilanova University? Che razza di idioti eravamo tutti? Ovvio che le poesie ultraiste di Borges non hanno valore in sé, vi si scorge però il tema del rifiuto del tempo che diventerà decisivo nelle opere della maturità: stavo per rispondere qualcosa del genere a Durán, quando gli si avventarono addosso i miei allievi di teoria letteraria, che finalmente vedevano realizzarsi il loro desiderio di conoscere di persona un pezzo da novanta del boom latinoamericano. Mi resi conto che sarei caduto nel ridicolo mettendomi a discutere con lui di fronte ai suoi ammiratori e mi diressi verso l'altra estremità del salone, dove un cameriere nero serviva da bere. Due bicchieri di vino e un tramezzino mi fecero passare la voglia di polemizzare. Fra Durán e me c'era una distanza incolmabile. Soltanto per rispetto della gerarchia dovevo starmene zitto, come un soldato semplice che obbedisce agli ordini del suo generale. Chi ero io al suo confronto? Un oscuro specialista, un parassita del talento altrui. Ma allora, perché se l'era presa con me? La domanda mi feriva nell'orgoglio mentre lo vedevo firmare libri tradotti in quattordici lingue. Non gli sarebbe costato niente criticarmi con gentilezza, riservando il sarcasmo e il disprezzo per i suoi pari. Lo stesso commento, fatto in buona fede, forse mi avrebbe spinto a studiare qualcosa di più interessante, perché Florencio – devo ammetterlo – aveva la sua parte di ragione. Avevo scelto l'argomento della mia tesi di dottorato (Borges e l'ultraismo: riflessioni su un profugo dell'avanguardia) più per colmare una lacuna che per assecondare i miei gusti. Il Borges che mi stava davvero a cuore era quello di Finzioni e dell' Aleph, ma su questi testi esiste una bibliografia consistente, e non mi azzardavo a competere con Emir Rodríguez Monegal e il suo gruppo di borgesiani di Harvard. Avevo optaco per coltivare da solo un orticello critico giustamente ignorato, con tutta la mediocrità che questo implica. Florencio aveva scoperto la mia mancanza di ambizione, ma questo non gli dava il diritto di metterla in evidenza davanti ai miei colleghi. O forse ci provava gusto a schiacciare scarafaggi? Un urlo mi restituì la presenza di spirito nel momento in cui ne avevo più bisogno per non suscitare compassione. La mia ex amante Gladys Montoya, professoressa di storia dell'arte, voleva presentarmi la moglie di Florencio, una bionda smorta e insulsa, insaccata in un soprabito marrone, che portava un collare ortopedico. Mi salutò senza guardarmi negli occhi, come una first lady reticente a stabilire rapporti con i funzionari di rango inferiore. Si chiamava Mercedes, era nata a Bogotà e a dodici anni era emigrata con i suoi a Parigi, dove aveva conosciuto Durán. Le diedi trentacinque anni. Alla sua prima incursione nella nostra università, era meravigliata dagli scoiattoli che scorrazzavano nei giardini, ma gli edifici in stile neogotico le sembravano un po' pacchiani. Gladys fu d'accordo con lei: erano mostruosità, e ci impartì una breve lezione sulla mania degli statunitensi di costruire false anticaglie, cosa che denotava a suo avviso un complesso d'inferiorità culturale. Mercedes sbadigliò. Forse voleva insinuare che di conversazioni colte le bastavano e avanzavano quelle del marito. Trovandola così poco interessante, ne dedussi che Durán si fosse innamorato dei suoi occhi. Erano due verdi minacce di fedeltà eterna. Quei due laghi sereni potevano appartenere solo a una donna rispettabile fino alla frigidità. Le domandai a cosa pensava di dedicarsi durante la sua permanenza a Vilanova. – Spero che mi lascino lavorare nel laboratorio di arti plastiche – finalmente sostenne il mio sguardo. – Faccio incisioni su metallo e sto preparando il materiale per una mostra. – Uno di questi giorni deve farmi vedere le sue opere – dissi per cortesia, desiderando ardentemente che non mi prendesse in parola. Grazie a Dio era superstiziosa: non le mostrava mai a nessuno prima di esporle, era di malaugurio. Non se la sarebbero presa a male, vero? Persino a Florencio teneva nascosto il suo work in progress, ma se volevo vedere qualche foto della sua produzione recente me le avrebbe fatte avere volentieri, perché non la giudicassi una pedante. Mi parve ridicola, oltre che pedante, perciò lasciai cadere l'offerta e spostai il discorso sul tema spiacevole del suo collare ortopedico. Non la disturbava nel lavoro? – Macché. È comodissimo chinarsi con questa guaina – scherzò. – Però c'è di buono che adesso cammino a testa alta – e subito dopo, come per mettere in chiaro che non era un'invalida permanente, aggiunse che lo portava per una vertebra cervicale deviata, ma nel giro di sei mesi glielo avrebbero tolto. Pensai che Mercedes, come tutte le donne brutte, aveva la sua piccola riserva di vanità e dava quell'informazione non richiesta perché cercassi d'immaginarla senza la gorgiera. Accontentarla non mi costava niente. Sforzai al massimo l'immaginazione, ma continuai a vederla grigia, insipida, triste. Gladys ci lasciò soli per unirsi al gruppo formatosi intorno a Florencio, che aveva finito di firmare autografi e adesso chiacchierava con il rettore dell'università incantandolo col suo ottimo inglese. Murray sollevò le braccia per chiedere silenzio e dalla pedana annunciò che, per decisione dell'Academic Board, il nostro distinto ospite era appena stato nominato dottore honoris causa. Abbraccio di Florencio con il rettore e applausi dei presenti. Mercedes non si avvicinò al marito per condividere quel momento di gloria, dettaglio che mi fece un'ottima impressione. Sarà anche stata brutta e snob, però non mendicava lo splendore altrui. Le perdonai la squisita superstizione, mi sedetti al suo fianco e le raccontai le mie disavventure a Vilanova, le sofferenze patite per spiegare Primero sueño a studenti a malapena in grado di leggere e parlare spagnolo. Da tre mesi erano impantanati nell'ombra piramidale, così avevo detto loro che suor Juana Inés de la Cruz aveva scritto la poesia durante un viaggio con i funghi allucinogeni, e adesso perlomeno mi prestavano attenzione. Riuscii a strapparle un sorriso debole e forzato che mi consentì di vedere i suoi enormi incisivi. (Decisamente Mercedes era l'orpello più evidente di Florencio.) Rotto il ghiaccio, trovò il coraggio di confessarmi che temeva di annoiarsi a morte a Vilanova. Era abituata al viavai di Parigi e le avevano detto che la nostra università era la cattedrale del tedio. Le ricordai che si trovava a venti minuti da Filadelfia: poteva farci una scappata quando aveva bisogno di una tregua dagli scoiattoli. – E a Filadelfia che si può fare, a parte visitare musei? – Niente – ammisi. – Ma a South Street ci sono sfilate di neri che ballano con le loro radio portatili, e almeno ti risollevano il morale dopo la vista degli automi delle periferie. Ci faccia caso quando sale sul treno. Sembrano sagome di cartone con la ventiquattrore. Indossano tutti il soprabito e aprono il 'Wall Street Journal' nello stesso istante, come se qualcuno li manovrasse con il telecomando. Ho l'abitudine di toccare le persone con cui parlo. È un gesto automatico, un modo per relazionarmi attraverso il tatto, e a un certo punto della conversazione, mentre dissertavo sull'uniformità mentale del popolo nordamericano, senza volere strinsi il ginocchio di Mercedes. Fu una stretta veniale e fugace, più insignificante del bacio di una zia, ma lei reagì come se avessi tentato di violentarla. Scossa da una scarica di adrenalina, o da un colpo basso dei suoi desideri frustrati, scostò il ginocchio con brusca determinazione e arrossì come un semaforo. A mo' di discolpa, e per non esporla a maggiori scostumatezze, tirai indietro la mia sedia di venti centimetri, lasciando fra noi un abisso virtuoso. Invece di rassicurarla riuscii a farla sentire, appena si rese conto del suo pudibondo equivoco, ancora più imbarazzata. – Florencio probabilmente vorrà essere portato via di qui – balbettò. – Vado a liberarlo dagli ammiratori – e ci congedammo con un saluto nervoso. A qualcosa serve aver studiato semiologia. Quella sera, con l'aiuto del whisky doppio che uso come sonnifero, mi dedicai a interpretare la reazione di Mercedes. Il significante non poteva essere più chiaro: una stretta al ginocchio l'aveva fatta tremare. Più difficile trovare un significato per quell'emozione. Era sposata con un uomo che aveva il doppio dei suoi anni. Florencio era un gigante della letteratura, ma alla sua età gli faceva più comodo un'infermiera che una moglie. Calvo, cianotico, fragile come un libro squinternato, a letto doveva puzzare di formalina, di ceri, di omaggio post mortem. Povera Mercedes. In cambio delle soddisfazioni intellettuali di cui senz'altro godeva con lui, stava sprecando la propria giovinezza. La sua sensualità era talmente infiacchita che non riusciva neanche a distinguere una carezza da un gesto socievole. Io piacevo alla sua pelle, ma non alla sua coscienza. Guardiana di sé stessa, al minimo sentore di scopata indossava la corazza da porcospino, ma il suo corpo, sottoposto a una pressione maggiore, avrebbe infranto il recinto di fil di ferro esigendo a gran voce un armistizio, un disgelo totale e definitivo. La mia lettura semiologica del suo carattere era carente solo in un punto: per verificare se il significante corrispondeva al significato sarei dovuto andare a letto con lei, e la mia smania di capire non si spingeva così lontano. Demoralizzato dall'offensivo commento di Florencio, il mio interesse per Borges scemò e arrivai quasi a detestare le sue poesie giovanili, tuttavia proseguii nella tesi: ero già molto avanti e non volevo che Murray notasse il mio risentimento. Un robot meticoloso avrebbe svolto il lavoro come me, anzi meglio. Schedavo libri e inserivo dati nel computer in preda a un senso di inutilità. Gli ultraisti applicarono alla poesia le idee di Ortega y Gasset sulla disumanizzazione dell'arte. Bella pillola per la bocca di un erudito. Ramón Gómez de la Serna fu il padrino del movimento e poi se ne discostò. Viva lo sport della citazione fine a sé stessa. In una celebre condanna dei vizi letterari del suo tempo, Borges dichiarò l'abolizione nella poesia ultraista non solo dell'intimismo e dell'armamentario ornamentale, ma anche dei dettagli circostanziali, ovvero dell'aneddoto. Come riciclare queste anticaglie per specialisti, che Borges stesso avrebbe condannato, ora che giudicavo la mia tesi secondo l'implacabile criterio di Florencio Durán? Oltre a danneggiarmi come ricercatore, mi screditò come docente. La maggioranza dei miei allievi seguiva le sue lezioni (era venuto a tenere un corso di tre mesi pagato a peso d'oro) e i suoi brutali attacchi alla moderna scienza letteraria cominciarono a seminare dubbi. Dopo averlo ascoltato venivano a dirmi che i metodi di analisi strutturale erano trappole per l'immaginazione. Perché li obbligavo a differenziare il testo dall'intertesto se Mister Durán diceva che quei paroloni non facevano altro che allontanare la gente dalla letteratura? Io ribattevo che uno scrittore come lui poteva confidare nelle proprie intuizioni, mentre a loro occorrevano solide basi metodologiche per sviscerare i molteplici significati di un testo. Predicavo nel deserto, ormai non mi rispettavano più. Un "vero" scrittore raccomandava di gettare i miei insegnamenti nella pattumiera, e anche se avessi avuto ragione non sarei mai riuscito a impormi, ormai le argomentazioni accademiche erano passate in secondo piano. Simpatizzavano per Florencio – al di là dei suoi giudizi letterari – perché da grandi non volevano somigliare a me. | << | < | > | >> |Pagina 171La nostra schiavitù si basava su un'idea misericordiosa. Papà pensava che l'infelicità nascesse dal contrasto con il benessere degli altri, e per evitare a mio fratello Arturo, cieco dalla nascita, la notte morale dei paragoni, decise di creargli intorno una penombra artificiale, un confortevole guscio di bugie. Finché avesse ignorato la propria menomazione, convinto che l'oscurità fosse inerente alla condizione umana, sarebbe stato al riparo dalle amarezze della cecità consapevole. Come tutte le idee funeste, anche quella di mio padre aveva il sostegno intellettuale di un classico. Gli venne in mente leggendo Montaigne: "I ciechi dalla nascita" scrive da qualche parte nei Saggi "vengono a sapere da noi che gli manca qualcosa di desiderabile, qualcosa a cui danno il nome di bene, ma non per questo sanno di che si tratta, né potrebbero concepirlo senza il nostro aiuto." Se ne deduceva che qualora Arturo non fosse riuscito a concepire il dono della vista per mancanza di informazioni visive, non avrebbe nemmeno lamentato l'assenza di quel bene. L'esperimento di papà coinvolse l'intera famiglia in un'ostinata opera di mistificazione. Da quando Arturo cominciò a prendere coscienza delle proprie azioni, ci fu imposto di parlargli con un linguaggio crepuscolare nel quale i colori, i verbi complici dell'occhio, gli aggettivi qualificativi legati alla visione e persino i pronomi dimostrativi erano parole tabù. Non potevamo dire verde o bianco, nemmeno questo o quello, né alludere ad altre caratteristiche fisiche o estetiche che non fossero percepibili grazie al tatto, all'udito, all'olfatto o al gusto. Il filtro linguistico ci obbligava a inventare complessi equilibrismi stilistici: un semplice "sono qui" richiedeva una ben più dettagliata localizzazione spaziale (sono a quattro passi dal tuo letto, fra la porta e l'armadio), il tramonto era un raffreddamento del sole, la notte conservò il suo nome, ma trasformato in sinonimo di sonno, il che ci impediva di accennare alle attività notturne, e per non dilungarci in spiegazioni sulla funzione delle finestre, preferivamo chiamarle "pareti di vetro". Tutto perché Arturo non venisse a conoscenza della luce per sentito dire. Ritenendosi colpevole per aver generato un cieco, papà placava i propri rimorsi con il sacrificio d'ingannarlo. Per lui e per la mamma la messinscena era una sorta di penitenza: in quel modo rimediavano al male che gli avevano fatto mettendolo al mondo. Io non mi sentivo colpevole di niente, ma collaboravo alla missione illusionistica per un equivoco senso del dovere e accettavo l'ignominia come parte del mio destino. Osservare (uso questo verbo per sfogarmi) le minuziose precauzioni linguistiche era il meno: con l'addestramento quotidiano mi abituai a oscurare la conversazione al punto che fuori della prigione domestica avevo difficoltà a colorarla. La cosa più ingiusta e snervante, quella che alla fine mi spinse alla ribellione e all'odio, era dover passare per cieco in tutte le situazioni della vita. Crebbi nel cantuccio di una camera buia, temendo di commettere una distrazione fatale in presenza di Arturo. Fui il suo accompagnatore, peggio, perché un accompagnatore sa dove va, io invece dovevo camminare a tentoni, perdere l'equilibrio, sbattere ogni tanto contro i mobili di casa per non turbarlo con la mia eccessiva disinvoltura nei movimenti. Fra i sette e i quattordici anni presi lezioni da insegnanti privati: se fossi andato a scuola anche Arturo avrebbe voluto venirci, e sarebbe stato impossibile rifiutargli quel capriccio senza fornirgli indizi sulla sua incurabile menomazione. Il colmo fu che dovetti imparare il sistema Braille, perché Arturo aveva gli occhi sulla punta delle dita e avrebbe potuto pensare che ero un analfabeta se non avessi decifrato i romanzi di Verne e Salgari che papà si affannava a tradurre nel nostro dialetto incolore, oscurando paesaggi e mutilando avventure. Si aggiunga a questo, per completare il quadro di un'infanzia da martire, il giogo di ascoltare solo musica strumentale, la proibizione di guardare la tv, il divieto di portare amici a casa, la vergogna di dover fingere che anch'io avevo bisogno di un cane guida per uscire. Le mie proteste, all'inizio moderate, rabbiose via via che entravo nell'adolescenza, si infrangevano immancabilmente contro un muro d'incomprensione. A mio padre appariva mostruosa la mia richiesta di divertimenti frivoli: avevo già la compensazione della vista. "Pensa a tuo fratello, cazzo. Lui cambierebbe la sua vita con la tua se sapesse che ci vedi." In questo magari aveva ragione. Discutibile era invece che Arturo, al mio posto, si sarebbe annullato come persona per non mortificare il fratellino cieco. La sua doppia maschera gli risparmiava i dilemmi morali, ma se avesse dovuto scegliere fra il proprio bene e la mia infelicità, forse avrebbe preso una decisione spregevole ed egoistica, proprio come me. Il santo immune dalle tentazioni era libero per quanto si può esserlo nelle tenebre, mentre io, vittima senza meriti, scontavo con atroci rinunce il privilegio di vederci. A cosa mi servivano gli occhi in mezzo a un black-out esistenziale come il nostro? Martiri dell'illusione, avevamo solo una vita esteriore, come i personaggi di un radio-dramma che si sarebbe potuto intitolare Quiete nell'ombra. La routine familiare era scandita da situazioni predisposte ad arte affinché Arturo facesse bella figura. Ci comportavamo da idioti per infondergli fiducia e sicurezza. Un esempio fra tanti: ogni pomeriggio la mamma rompeva una tazza o si scottava con l'acqua bollente mentre preparava il cafle, e dato che la sua ossessione per il realismo sconfinava nella follia, lo dolcificava con vomitevoli cucchiaini di sale. | << | < | > | >> |Pagina 183Nello specchietto retrovisore dell'insonnia mi vedo più giovane di quindici anni, più irrequieto di quindici anni, più insicuro di quindici anni, mentre bevo con Mariana al Barón Rojo. Non so perché l'ho portata qui. Mi sento come un pesce fuor d'acqua in mezzo agli impiegati che festeggiano il giorno di paga con euforia contenuta. Mariana invece condivide la loro allegria artificiosa. Accompagna il cantante battendo le mani e gli chiede a gran voce boleros, che lui alterna ai successi del momento, brindando con il pubblico alla fine di ogni brano. Mentre lei si diverte, io faccio somme e sottrazioni. Non posso più spendere neanche un soldo per bere, sto già sperperando quelli messi da parte per l'albergo. È tutta la sera che Mariana mi fa delle avances, è pronta a capitolare. Dovrei inventarmi un mal di testa e andarmene subito di qui, ma invece di dar retta al primo impulso chiamo il cameriere e ordino un rum e Coca. Non sono un alcolizzato: sono un vigliacco. Ho paura di fare cilecca a letto se Mariana mi concede la suprema opportunità. Ho già fatto fiasco due volte per impotenza nervosa nei primi due incontri con delle prostitute, e il mio orgoglio ferito non tollera altre batoste. Ho tutta la vita davanti per perdere la verginità. Domani stesso, in condizioni fisiche e mentali migliori, mi prenderò la rivincita senza rischiare un'altra figuraccia. Appena il cantante ci concede una tregua, Mariana mi pone il dilemma cruciale della sua vita: da due anni risparmia per cambiare auto, e adesso che ha messo insieme il denaro non sa se pagare l'anticipo o iscriversi a un corso di paracadutismo. – Per favore, dimmi che devo fare. Con la Datsun mi vergogno di uscire, cade a pezzi. L'altro giorno mi ha lasciata a piedi sul Circuito Interior. Ma pur di volare non m'importerebbe nemmeno di andare a dorso di mulo. Da quando ho letto Il gabbiano Jonathan Livingston muoio dalla voglia di sapere cosa si prova. E poi l'istruttore è mio amico e mi presterebbe l'attrezzatura. Che faresti tu al posto mio? – Nessuna delle due cose. Con quei soldi me ne andrei a vivere da solo. Non ti piacerebbe poter fare quello che vuoi? – Mah, non so. Di libertà ne ho già quanta ne voglio a casa mia. E poi, che farei da sola? – Non saresti sola. Io verrei a vivere con te, pagando metà delle spese. Rimane pensierosa, magari immagina la nostra vita insieme. Con un bacio impaziente ribadisco che la mia è una proposta seria. Lei non ne è convinta, comunque è lusingata e struscia il ginocchio contro il mio. Tanto per cambiare, ho un'erezione intempestiva. Come mai sono così virile quando ho ancora i vestiti addosso? L'ironia è doppiamente crudele perché in quel momento arriva il cameriere con gli alcolici della mia costosa terapia. Il primo sorso mi toglie dalle labbra il sapore di Mariana. – Allora? – le domando senza distogliere lo sguardo dal bicchiere. – Ti arrischi ad affittare un appartamento? – E come faccio? Non posso mica rompere con la mia famiglia così, senza un motivo. – La famiglia è un carcere. Non ti lasciano andare da sola neanche a Cuernavaca. Ti sta bene? – Non mi lasciano perché si preoccupano per me. E se mi succede qualcosa? – E se non ti succede niente? E se ti comporti bene tutta la vita e poi finisci come loro, davanti alla tv ventisei ore al giorno? – I miei non sono così. Tu neanche la conosci, la mia famiglia. – Non parlo della tua, parlo della famiglia in generale: la tua, la mia, qualsiasi altra. La famiglia come istituzione è condannata a morte. È nata con la proprietà privata, così i primi sfruttatori della storia potevano lasciare in eredità ai figli la terra sottratta alla tribù. Non conosci Engels? – Mariana mi guarda seccata. – Be', dovresti leggerlo. Uno qualunque dei suoi libri è meglio del tuo Gabbiano Livingston. Se fosse per me, continuerei a indottrinarla tutta la sera, ma il cantante riprende il microfono e mi toglie l'ispirazione. Forse pecco d'ingenuità nel voler politicizzare Mariana. Perché cazzo mi metto a spiegarle l'origine della famiglia se lei già pensa ai nomi dei figli ed è contenta della sua abietta morale classista? Mentre rifletto sulle cose che mi impediscono di desiderarla, e sulla preoccupante circostanza di avere incontrato finora solo donne come lei, dimentico che se avessi le palle dovremmo già essere a letto. Spendo fino all'ultimo soldo in alcolici e al termine dell'esibizione musicale usciamo dal bar. Mariana mi ha perdonato il sermone marxista (devo piacerle molto per scordarsene tanto in fretta) e si stringe a me come se fra noi non ci fosse una barriera ideologica. Preferirei accompagnarla subito a casa, ma so che si aspetta qualcosa di più. Camminiamo abbracciati nel vicoletto di Chimalistac dove ho parcheggiato l'auto. È una Volkswagen scassata, sudicia e con un fanale cieco. Non mi vergogno del suo aspetto miserabile: mi vergogno perché è un regalo di mio padre. Forse, inconsapevolmente, sono andato a sbattere per occultare dietro il suo degrado il mio senso di colpa sociale.
Com'era da temere, appena saliamo in macchina Mariana mi si
butta addosso. I suoi baci nell'orecchio suonano come una promessa di ben altre
oscenità. Ci allacciamo in palpeggiamenti sconci e
precipitosi. Per mostrarmi audace (non deve assolutamente capire
che ho paura di lei) comincio a sbottonarle piano la camicetta, ma
ha un sussulto di pudore e mi scosta la mano.
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