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| << | < | > | >> |IndicePrefazione vii Introduzione xiii Capitolo 1 - La vita appassionata 1 L'amore come virtù: contro il paradigma kantiano 9 La virtù dell'eros 14 La volontà di potenza come virtù 19 Sulla virtù delle virtù 25 Capitolo 2 - La politica delle emozioni 29 Le emozioni sminuite 30 Che cos'è un'emozione? (Verso una visione politica) 34 Due paradigmi dell'emozione: l'eccitamento di James e la politica di Aristotele 41 Al di là della tradizione cartesiana 43 La (le) finalità delle emozioni 46 La politica dell'emozione 52 L'ontologia dell'emozione 53 Emozioni, potere e persuasione 55 Le politiche interne dell'emozione 58 La politica del linguaggio e della teoria delle emozioni 60 La politica delle emozioni e la razionalità 64 Capitolo 3 - La razionalità e le sue vicissitudini 65 La razionalità in prospettiva 69 Alcune ragioni per essere sospettosi (della ragione) 72 Dalle somme all'egoismo: la ragione come concetto essenzialmente contestato 78 La razionalità delle emozioni e il radicamento emozionale della razionalità 83 Capitolo 4 - Giustizia, compassione, vendetta 97 Giustizia e vendetta: il paradigma mancante 100 Giustizia contro vendetta: un'opposizione insostenibile 106 Il lato gentile della giustizia: la compassione e i sentimenti morali 110 Il lato cattivo della giustizia: in difesa del risentimento 118 Vendetta come giustizia: la razionalità della rivalsa 123 Come la giustizia soddisfa 131 Capitolo 5 - Il senso tragico della vita 133 Invece della tragedia: biasimo e diritto 139 Il Problema del Male 144 Incolpare la vittima: la soluzione del "libero arbitrio" 148 Oedipus Redux: la morte della tragedia 153 Fato, McFato e la mano invisibile 158 Buona fortuna, cattiva fortuna e nessuna fortuna: un appello alla gratitudine 165 Il significato della tragedia 172 Capitolo 6 - Pensare la morte direttamente 175 Feticismo della morte, solipsismo morboso 175 Pensare la morte direttamente 178 Il diniego della morte: breve storia 182 Dal diniego della morte al feticismo della morte 187 Lo scenario calvo: "la morte è nulla" 194 L'esile mietitore: la morte come paradosso 199 Temere la morte: che cosa c'è da temere? 203 Al di là del solipsismo morboso: la dimensione sociale della morte 209 Capitolo 7 - Recuperare l'identità personale 213 L'itinerario del puzzle 218 Identità personale e il sé sociale esistenziale 222 Identità personale ed etica della virtù 226 Identità personale e multiculturalismo 234 L'identità personale nell'amore 238 Recuperare l'identità personale 242 Capitolo 8 - Inganno, sé e autoinganno in filosofia 243 Perché la verità? 243 Verità e menzogna nel senso filosofico 246 Inganno, autoinganno e il sé 251 La ragnatela ingarbugliata: la duplicità come fenomeno olistico 258 La doppiezza del sé e il sé dell'autoinganno 263 Capitolo 9 - Riflessione finale 269 La "filosofia analitica" ha rovinato la filosofia? 269 Note 279 |
| << | < | > | >> |Pagina VIIPREFAZIONE
Immagino di essere particolarmente suscettibile alla magia dei giochi.
Vladimir Nabokov,
Lolita
Lui aveva quarantacinque anni quando lo conobbi. Era stato un atleta dilettante all'università (in pista e sul campo). Aveva tollerato i corsi con animo allegro (e non molto altro), come segni di interpunzione fra le feste studentesche e le partite di football del sabato. Dopo l'università divenne un uomo d'affari di successo, un eccellente giocatore di tennis, una persona di un certo peso nella società, un'incarnazione del sogno americano. Ma adesso il suo rovescio cominciava a non essere più quello di una volta e nel bel mezzo di un'altra acquisizione di società si sorprendeva a porsi domande che non riusciva ad articolare. Arrivò a rendersi conto che la sua vita era piena ma, come dire? "Vuota e superficiale", diceva a se stesso. Fu allora che scoprì la gioia della filosofia. Non si trattava di una presunzione intellettuale e men che meno di un corso obbligatorio. Come un bambino, dimostrava un entusiasmo praticamente sconfinato per il suo nuovo giocattolo. Si procurò un certo numero di libri (di quelli che la maggior parte degli accademici avrebbe liquidato come letture "divulgative" o "di secondo ordine"), qualche cassetta audio di lezioni da ascoltare nella Porsche, un po' di nomi da citare di tanto in tanto e un bel numero di idee. Ma ciò che aveva conquistato era un amore per tutta la vita, un senso illimitato di stupore e di fascino. Dopo trent'anni, la filosofia rimane per me, come per molte persone, una fonte di considerevole gioia e delizia. Però "gioia" e "delizia" non sono termini rispettabili nella filosofia professionale. Nietzsche, che celebrava la filosofia come una "gaia scienza", continua a essere liquidato come un "non filosofo", nonostante la sua popolarità in molti ambienti. La sua prosa è troppo scintillante, troppo piena di sarcasmo e di battute, troppo personale. Si diverte troppo. (Troppi punti esclamativi!) Θ un ballerino, un giocoliere della filosofia, un ironico nella grande tradizione di Socrate, un giocoliere e un comico che include di tutto nella sua filosofia: consigli per la salute, ricette di cucina, pettegolezzi, slogan, filastrocche, consigli per le pene d'amore, psicologia spicciola, fisica divulgativa, un pizzico di occulto e di esoterico, commenti sulla società, storia dei miti, filologia discutibile, risse di famiglia, diatribe politiche, insulti calunniosi, dichiarazioni di guerra, lamentele spicciole, megalomania, bestemmie, barzellette sgangherate, battute fin troppo argute, parodie e scopiazzature. I filosofi di professione stigmatizzano la mancanza di rigore, persino l'assenza di una tesi coerente. Ma perché rovinare una festa così sontuosa con i tentacoli fibrosi della mera argomentazione? Nietzsche sapeva bene come ricavare gioia dalla filosofia, la sua "gaia scienza". Sebbene io non abbia alcuna pretesa di competere con Nietzsche o di scimmiottarlo, né nella profondità delle sue passioni e intuizioni né nel suo meraviglioso e inconfondibile "stile", condivido davvero con lui il suo senso della gioia nella filosofia. In contrasto con gran parte della filosofia corrente, non si tratta né di amore per l'argomentazione né di amore per la liquidazione elegante. Non implica quello che i postmodernisti chiamano "play", vale a dire, provocare e godere la costernazione e la confusione di altre persone. Quello che significa, invece, è andare oltre lo scarso spessore delle argomentazioni per arrivare a quella ricchezza che è la filosofia, cercando di arricchire la nostra esperienza piuttosto che "dimostrare un punto". I punti, come abbiamo imparato studiando la geometria piana, non hanno dimensioni e, di conseguenza, nessuna tessitura, nessun colore e, certamente, nessuna profondità. Questo libro, di conseguenza, non è un'argomentazione, e neppure incorpora una "teoria". Come alcuni lettori noteranno, con crescente esasperazione, spesso cambio strada non per dimostrare "punti" o per offrire "prove", ma piuttosto per spostare prospettive, persino soggetti, nella speranza di trovare qualcosa di nuovo da esplorare. La mia preoccupazione principale è quella di abbattere certe vecchie mura, fra la filosofia accademica e il suo pubblico perduto, fra la logica priva di spessore e la retorica massiccia, fra la ragione filosofica e la passione filosofica, fra la filosofia "analitica" e quella "continentale", fra la filosofia e tutto il resto. La filosofia è diventata troppo "seria", una "professione" con i suoi addetti ai lavori e i suoi "esperti". Non è più se lo è mai stata per l'uomo comune, con le sue esigenze tecniche, i suoi problemi e rompicapo specializzati ma ciò nondimeno intrattabili, le sue gerarchie accademiche e il suo settarismo. Il problema, come lo vedo in questo libro, è che la filosofia è diventata troppo "esile", attenuata, emaciata, anoressica (per usare un termine appropriatamente patologico). In troppi ambienti è stata ridotta alla logica e alla critica delle argomentazioni, alla "decostruzione", al gergo tecnico e all'aria impalpabile della metafilosofia. L'esperienza concreta e la ricerca scientifica, la religione e la spiritualità poste sullo stesso piano sono respinte come irrilevanti o considerate con supponenza come meri "oggetti" di studio. Questioni che impongono di esaminare il mondo e vivere concretamente in esso vengono liquidate con un risolino supponente e il commento "ma quella non sarà forse una questione empirica?" Ciò che un tempo si chiamava "speculazione", per non parlare della "visione", non è più di moda. Il vecchio ideale della filosofia che tutto abbraccia, spessa, carnosa e onnivora, è stato sacrificato alla nuova filosofia dello snello e cattivo, che abbia la forma delle argomentazioni lineari o del cinismo postmoderno. Un mio collega stava facendo lezione presso una delle più prestigiose università della California meridionale su questa ristrettezza in filosofia. Rifletteva che la filosofia di recente era diventata molto simile ai proverbiali ciechi che si aggirano intorno a un elefante. Uno dei più prestigiosi fra i molti filosofi prestigiosi che seguivano la lezione ammise con orgoglio di essere "esclusivamente interessato all'anatomia della proboscide e che non gli importava se l'elefante fosse morto". In questo libro, vorrei tentare di sbirciare l'elefante vivo, o almeno afferrare qualcosa di più di una proboscide o di un paio di zanne morte. Molti filosofi oggi insistono sulla filosofia "pura", vale a dire una filosofia ridotta al suo solo scheletro, logica e argomentazione e gli elementi essenziali della storia della filosofia (talvolta a partire dal formalismo di Frege, alla fine del Diciannovesimo secolo). Io offro, invece, un volume colmo di "filosofia impura", come il grande filosofo cileno Pablo Neruda disse un giorno (della sua poesia): "impura come abiti vecchi, come un corpo con le sue macchie di cibo e la sua vergogna, con rughe, osservazioni, drammi, veglie, profezie, dichiarazioni di amore e di odio, stupidità, shock, idilli, convinzioni politiche, negazioni, dubbi, affermazioni e tasse". Nelle pagine che seguono non ho altra ambizione che esplorare alcune prospettive alternative su certi problemi filosofici perenni. Il libro non è serio nel senso che viene così spesso invocato con compunzione moraleggiante. Preferirei piuttosto che venisse letto come "un semplice giocherellare con idee (serie)". Questo (posso osare dirlo?) è ciò che è la filosofia. Niente di serio, solo divertirsi con le idee, idee che significhino davvero qualcosa. Con ciò non voglio dire che sarà tutto un susseguirsi di risatine o di risate da tenersi la pancia. Temo che le mie espressioni di gioia si limiteranno a un po' di epiteti, avverbi, commenti sarcastici e battute scadenti. Ma l'idea corrente che la gioia si possa trovare soltanto nei sorrisi vacui e ortodossi di ventenni magri, abbronzati e cotti dal vento non è l'intera verità. La si può trovare anche nelle pingui meditazioni e ponderazioni dei filosofi. | << | < | > | >> |Pagina XIIIINTRODUZIONE
La filosofia fra spessore ed esilità (essere e niente di meno)
[G. E.] Moore si mise alla guida della ribellione e io lo seguii con un
senso di emancipazione... Noi credevamo che l'erba è verde e che il sole e le
stelle esisterebbero se nessuno fosse conscio di loro. Il mondo
che era stato sottile e logico ora divenne ricco e variato.
Bertrand Russell
La storia della filosofia ha molte ironie. Una di queste, di sicuro, è l'osservazione compiaciuta di Bertrand Russell sulle origini della filosofia "analitica". Contro Hegel, che incorporò virtualmente nella sua filosofia ogni sfaccettatura della concreta esperienza umana, Russell, seguendo Frege e Moore, "si ribellò". Fraintendendo l'idealismo tedesco, che a suo parere (erroneamente) sosteneva che il mondo fosse fatto di idee e non di buona e solida materia, Russell integrò il suo commento "Il mondo che era stato sottile e logico... divenne ricco e variato" nella propria filosofia. Ebbe così inizio un movimento "analitico" durato cento anni che avrebbe davvero reso la filosofia sottile e logica. Potremmo essere d'accordo con Russell, che la gioia della filosofia sta nella sua ricchezza e varietà. Ma quanto è triste, allora, che come "disciplina" si sia ristretta a un insieme di competenze concettuali, abbia dichiarato guerra alla ricchezza e alla varietà in favore di una "sottile" e del tutto esclusiva preferenza per l'argomentazione e l'analisi logica, liquidando l'immaginazione "speculativa" di Hegel e la sua concezione onnicomprensiva dell'esperienza ("totalizzazione", nel gergo altrettanto sottile dei postmodernisti). La filosofia oggi esige "specializzazione", tecnica, focalizzazione ristretta e rigore invece di visione, curiosità e apertura. L'ideale di Hegel era una "comprensione" onnicomprensiva. Oggi, alcuni degli articoli più prestigiosi in filosofia sono sequenze di simboli e stringhe di gergo incomprensibile, che interessano soltanto pochi compagni di strada. L'ambizione dominante della filosofia, come annuncia il filosofo della politica John Rawls all'inizio della sua epocale Theory of Justice, rimane sempre quello di elevare il livello della conversazione "a un più alto ordine di astrazione". Ma la filosofia (come argomentava Hegel) non ha bisogno di essere astratta. Vi è una filosofia concreta che vive nei particolari, nella dialettica in carne e ossa delle idee, qualcosa di più che mere ossa e tendini. Essa ha successo, nelle parole di Wilfrid Sellars, "vedendo come le cose stanno assieme". Prospera rendendo notevole ciò che è ordinario e misterioso ciò che non è notevole: il tempo, la vita, la mente, il sé, il modo in cui noi e il mondo "stiamo assieme". La filosofia è, o dovrebbe essere, una specie di magia. Non è una fuga dalle nostre vite, ma piuttosto una nuova finestra o molte finestre su di esse. Più che astrazione è intuizione e visione. I grandi filosofi, dai primissimi Vedanta agli esistenzialisti, hanno offerto abbacinanti e sconcertanti intuizioni e visioni, idee che ci fanno girare la testa e ci fanno perdere per un momento l'orientamento e le preoccupazioni di tutti i giorni. Odio pensare che quel senso di magia e di gioia sia stato perso o abbandonato. I filosofi oggi sono troppo spesso nemici della gioia, troppo pronti a fare obiezioni, troppo ostinati per capire (o anche soltanto ascoltare) alternative enunciate imperfettamente, troppo ansiosi di liquidare tanto l'intuizione come l'entusiasmo. Quando studiavo per il dottorato, una giovane donna superbamente dotata di talento e di creatività, che aveva esattamente la mia età, consegnò una esercitazione di filosofia molto creativa. Il suo insegnante la devastò brutalmente, esclamando con un'indignazione da Vecchio Testamento "La filosofia non deve essere divertente!". (Oggi lei è un'accademica affermata, ma in un campo diverso.) Gli studenti più entusiasti e dotati di talento continuano a essere scacciati dalla filosofia con la stessa rampogna. La filosofia non deve essere divertente! | << | < | > | >> |Pagina XVQual è la gioia della filosofia? Io pure solevo dire che è l'emozione di vedere come ogni tipo di idee si combinano assieme. Ma oggi direi che è, piuttosto, l'emozione di vedere gli occhi degli altri illuminarsi quando cominciano a vedere come ogni tipo di idee si combinano assieme, a modo loro."La gioia della filosofia." Quell'espressione non dovrebbe sembrare strana a chiunque abbia dedicato un po' di tempo a filosofare. I miei amici filosofi sono fra le persone più dedicate per non dire proprio ossessionate o drogate che io conosca. Alcuni trovano gioia (non disgiunta, forse, da un po' di angoscia) nel cercare di afferrare "le grandi questioni". Altri si scavano un sentiero attraverso testi imperdonabilmente oscurantisti. Molti di più stanno ora cercando la loro strada attraverso "rompicapo" sempre più sconcertanti che hanno a che fare con la logica e le peculiarità del linguaggio filosofico. Conosco un sacco di artisti, musicisti, politici, altri accademici, uomini d'affari e finanzieri: tutti devoti, ma nessuno altrettanto devoto come i miei amici filosofi. E non si tratta soltanto di quelli che stanno al vertice della professione. In effetti, questi tendono a essere più sulla difensiva e di gran lunga meno entusiastici delle centinaia di eccellenti ed entusiastici insegnanti che incontro nelle piccole università e persino nelle scuole superiori. Per questi ultimi, la gioia della filosofia è la gioia della filosofia, non la gioia di una professione ben fatta. | << | < | > | >> |Pagina XVIRitratto di un filosofo
Quanto può dirsi [in filosofia] si può dir chiaro; e su ciò, di cui non si
può parlare, si deve tacere.
Ludwig Wittgenstein,
Tractatus Logico-Philosophicus
Ecco il ritratto di un filosofo alla fine del Ventesimo secolo. Lui (l'esempio continua a essere quasi sempre un lui) è in piedi di fronte a un piccolo uditorio. Θ in pieno tormento. Gli occhi, sebbene intensi, non guardano nulla: forse sono persino rivolti verso se stessi. La fronte è corrugata, una ruga profonda no, un cipiglio e una mano afferra la fronte, come per impedire alla testa o al cervello di esplodere. Per quelli che amano i riferimenti ai classici, egli assomiglia almeno al famoso Pensatore di Rodin, o forse, piuttosto, al contorto e infelice padre e sacerdote del Laocoonte, la rappresentazione più aggrovigliata e luttuosa della sofferenza di tutta l'antichità. La sua parlata è spezzata, quasi balbettante, rivelando l'ingorgo del traffico delle idee e l'intensità con la quale cerca di trovare le parole giuste. Passeggia febbrilmente, d'impulso, in modo erratico, seguendo sempre lo stesso logoro percorso, da un angolo all'altro, senza che i suoi occhi entrino mai in contatto con quelli del suo uditorio, rapito e totalmente perplesso. La mano libera passa alternativamente a coprire la bocca e gli occhi, sfrega il naso, afferra la nuca, passa su un'ascella, prende su nervosamente un pezzo di gesso dopo l'altro, lo circoncide e lo lascia andare, occasionalmente gesticola come per scrivere qualcosa, ma non emerge altro che un generico "x" o un ovale. Vi sono pause tormentate (e pregnanti). Θ una prestazione che esigerebbe l'attenzione del Dr. Oliver Sacks, il grande neuropsichiatria. Θ un teatrino vivente di nevrosi, di narcisismo, di pensiero rivolto contro se stesso, di linguaggio che ha disperatamente bisogno di una vacanza. Questa è filosofia e qui c'è il filosofo. Che soffre e soffre a causa della filosofia. La filosofia è una malattia, per la quale l'unica cura è... ancora più filosofia. Il ritratto che ho appena tratteggiato appartiene a una persona storica facilmente identificabile. Ludwig Wittgenstein, la cui filosofia sta progressivamente scomparendo, ma la cui biografia è emersa come una delle icone più durature della vita filosofica del Ventesimo secolo. Sebbene pochi studenti di Wittgenstein abbiano condiviso il suo genio o la sua morbosa visione viennese della vita, molti, molti di loro hanno preso a prestito i suoi gesti, il suo stile e indossato la maschera della sua serietà, come se davvero il suo turbamento fosse il loro. Il risultato è due generazioni di studenti e insegnanti di filosofia che mettono in scena la filosofia come se fosse un pubblico autoesorcismo. Essi recitano per i corsi universitari introduttivi e gli studenti che sono predisposti a partecipare alla recita (invece di riderne) vengono incoraggiati a entrare nel giro. Gli argomenti restano per la maggior parte noiosamente uguali, ma lo stile, la recita, la serietà hanno trasformato la filosofia come lamentava lo stesso Wittgenstein in una specie di psicopatologia. | << | < | > | >> |Pagina XXIIII problemi perenni della filosofia
Presto o tardi, la vita ci rende tutti filosofi.
Maurice Riseling
Contro la visione cinica ("ironica") secondo la quale la filosofia non è altro che ciò che alcuni filosofi con un impiego redditizio fanno in quel dato momento, voglio sostenere che esistono problemi umani molto reali, palpabili e universali che danno slancio e motivazione alla filosofia. Con questo non voglio negare, come suggeriva Nietzsche, che esiste una "voglia di verità", un senso di fascino nei confronti di rompicapo e paradossi che, una volta stimolato, può continuare a pulsare per anni, senza alcuna ragione. Ma la filosofia non è questo. Θ una lotta ingaggiata con i problemi perenni della vita. Siamo tutti filosofi e dobbiamo democratizzare la filosofia, nonostante le sue lunghe radici elitarie. La filosofia non è una specializzazione, una professione, un club esclusivo con sue regole e parole d'ordine. La filosofia non è altro che pensare a temi quali passione, giustizia, tragedia, morte, identità dell'io e, naturalmente, la filosofia stessa, che non è affatto il territorio riservato o il privilegio di un piccolo gruppo di professionisti che l'hanno studiata all'università. La filosofia, nel senso più importante e politicamente non corretto del termine, è intrinseca al nostro modo di essere molto umano. Noi pensiamo, proviamo sensazioni. E vi sono alcuni temi - potremmo considerarli come "condizioni filosofiche preesistenti" (note anche come "la condizione umana") in merito ai quali non possiamo fare altro che pensare e avere sensazioni. Fra questi temi troviamo, cosa che non ci sorprende, la natura della vita, il luogo e la ragion d'essere delle nostre passioni più potenti, il posto che abbiamo fra gli altri, problemi di giustizia, spiegazioni di tragedie, il carattere palesemente definitivo della morte, la nostra identità e quale senso e quale scopo abbiano il pensare, il riflettere, la consapevolezza, la filosofia, comunque possano differire nei particolari o nella concezione da cultura a cultura. Sono questi, o alcuni di questi, i problemi perenni della filosofia. Vi sono stati filosofi ( Richard Rorty, per prendere l'esempio più eminente) che hanno detto che non vi sono problemi perenni della filosofia. Questo, secondo me, è semplicemente sbagliato (e Rorty altrove lo rende molto chiaro). Naturalmente uno può prendere una descrizione talmente "spessa" di questi problemi che finiscono per diventare, cosa che non sorprende, specifici di un momento determinato, di un luogo o di una persona o dell'appartenenza all'American Philosophical Association nel 1973. Ma la vita ha problemi suoi del tutto indipendenti da qualsivoglia tradizione filosofica specifica, per esempio, la nostra consapevolezza della nostra vulnerabilità e della morte. Che esista oppure no una qualsiasi "logica" corretta per pensare alla morte, la morte appare ciò non di meno paurosamente come un "fatto" universale che ci riguarda ("la nostra più necessaria possibilità", scrisse Heidegger ). Naturalmente vi sono innumerevoli modi per concettualizzare la vita e i suoi significati e, di conseguenza, il significato e la natura della morte. Ma io penso che la consapevolezza della morte, per dirne una, conti come una "condizione filosofica preesistente", qualcosa che non è stato in alcun modo inventato dai filosofi ma, ciò non di meno, è stato formato dalla filosofia e le ha dato forma. Dire che vi sono problemi perenni in filosofia non è altro, in un certo modo, che puntare, forse accennare, a qualcosa che persino nelle più "smagrite" delle sue descrizioni è già locale, legata a una determinata prospettiva e di conseguenza qualcosa di meno che "perenne". (Come avrebbe detto Nietzsche, non vi sono fatti e non vi sono ur-testi, soltanto interpretazioni.) Θ possibile argomentare, per esempio, che quello che oggi viene indicato come il problema mente-corpo sia, in effetti, peculiare di un momento particolare dell'apprendimento e sperare nella convergenza degli eccitanti soggetti della neuropsicologia e della scienza del computer, accoppiati con la biforcazione cristiana di corpo e anima. La filosofia di Descartes (cartesiana) delle "due sostanze", un po' di inventiva all'intersezione professionale della filosofia del linguaggio e la filosofia dello spirito e certe peculiarità della lingua inglese. In Giappone, nell'antica Grecia e fra gli yoruba della Nigeria una distinzione del genere non esiste e quindi quel problema non c'è. Ma questo che cosa significa? Non vuol dire negare che vi siano altri problemi, altre "fratture", che provocano un'uguale costernazione. (E neppure vuol dire, il che sarebbe assurdo, che altre culture potrebbero non accettare le scoperte della neuroscienza.) In Giappone, per esempio, la tensione fra la "faccia" che si mostra al mondo pubblico e i sentimenti privati non manifestabili è una fonte di continua preoccupazione. Gli yoruba, come la maggior parte dei popoli, si preoccupano della natura dell'anima, che distinguono, in svariati sensi, dal corpo. Ma non vi è alcun problema mente-corpo in senso stretto, non foss'altro perché (in giapponese e in yoruba) non esiste una parola per "spirito" (non c'è un equivalente). (Kokoro, il termine che meglio si approssima in giapponese, comprende chiaramente tutta una serie di caratteristiche che si collocherebbero nell'area "corpo" della bipartizione cartesiana. Aristotele non aveva un senso dell' anima distinta da un organismo e la parola ori in yoruba significa qualcosa che è più vicino alla "testa" che alla "mente interna" e il contrasto è con il resto del corpo.) Ciò che noi chiamiamo "mente", si potrebbe sostenere, è la "più sottile" descrizione disponibile di determinati aspetti dell'esperienza in prima persona: la si contrappone quindi al "corpo" che a sua volta viene descritto succintamente in termini puramente fisiologici. Non avrebbe senso pensare che il problema mente-corpo non sia altro che una peculiarità culturale di un'epoca molto specifica in una tradizione filosofica molto locale. Come fornire una descrizione sufficientemente "sottile" del problema in modo che includa tutte le culture e tutte le contrapposizioni di questo genere non è cosa che mi interessi qui e una presentazione così sottile del problema potrebbe essere talmente attenuata da risultare per noi indifferente. Ma ciò che intendo perseguire qui deliberatamente contro quella linea postmoderna che Rorty occasionalmente appoggia è quel nucleo di preoccupazioni che non possono essere per noi una mera materia di ironia o di indifferenza e che meritano di essere riconosciute come quintessenzialmente umane, che vengano oppure no riconosciute come tali dai filosofi e che appaiano oppure no libere di una qualsiasi particolare prospettiva culturale o filosofica. Di sicuro alcuni punti di vista valgono soltanto in determinate culture e non in altre. Ma insistere che vi siano alcune preoccupazioni che sono essenzialmente umane non vuol dire commettere uno o l'altro dei peccati postmoderni di "essenzializzazione" e di "totalizzazione". E neppure vuol dire negare che se gli esseri umani fossero creature di genere molto diverso (per esempio, invulnerabili o immortali), i problemi perenni sarebbero molto diversi. Parlare di "problemi perenni" vuol dire semplicemente che vi sono alcune domande, in determinate forme, che per noi (vale a dire per tutti noi, fin dove le nostre limitate e necessariamente locali immaginazioni ci porteranno) sono inevitabili. | << | < | > | >> |Pagina XXVIICelebrare Socrate
Il riso è il linguaggio dell'anima
Pablo Neruda
Si scherza spesso sul fatto che Socrate non abbia mai pubblicato e che per questo sia perito. Ciò non di meno, egli è diventato il nostro eroe, l'ideale e l'ispirazione del filosofo. In effetti, sebbene vi siano stati filosofi prima di lui (in qualche modo liquidati come filosofi pre-socratici), è difficile immaginare la crescita o lo sviluppo della filosofia senza di lui. Di che cosa avrebbe scritto Platone? Da quale piattaforma intellettuale avrebbe preso le mosse Aristotele? Sapremmo come affrontare Agostino o Tommaso d'Aquino? Le follie (e l'invidia) di Nietzsche sarebbero andate in corto circuito (sebbene il protestantesimo delle piccole città lo avrebbe comunque stimolato). La personalità di Socrate come pure il suo spirito e la sua brillantezza affascina tutti noi. Θ in base al suo esempio (e alla presentazione che ne dà Platone) che la filosofia viene separata dalla (e contrapposta alla) poesia, la retorica, la politica e viene splendidamente isolata come la disciplina del conoscere se stessi." Eppure, la verità è che Socrate si comportava come un ciarlatano. Insisteva consapevolmente di essere ignorante e su quella base si proclamava l'uomo più saggio in "circolazione. Ricorreva ad argomentazioni atroci, se gli davano la possibilità di vincere. Adulava e motteggiava, mandava in confusione e blandiva. Ridicolizzava con argomentazioni ad hominem, una delle molte fallacie informali che era solito commettere. Era un uomo dedito al piacere, che era, o poteva essere, indifferente in modo sconcertante all'amore e al piacere e persino alla vita stessa. Morì per la filosofia, o almeno avrebbe voluto farcelo credere. Ma morì per se stesso, per "il bene della sua anima" e persino i principi politici per i quali si sacrificò sembrano oggi dubbi, incoerenti e magari insostenibili. Sembra, stando ai vari resoconti che abbiamo di lui, che Socrate non fosse mai solo, di rado in contemplazione e raramente troppo serio. E tanti saluti alla nostra immagine del filosofo come pensatore solitario, sobrio e dedito soltanto alla riflessione. Socrate era un frequentatore ossessivo di feste e simposi, un parlatore inarrestabile, un moscone che non smetteva mai di ronzare intorno alle questioni e, naturalmente, ai ragazzi. Qualunque altra cosa noi si possa dire di lui che era saggio, che era coraggioso, che era brutto, che era, dopo tutto, meramente mortale (come nell'obbligatorio sillogismo) quel che è sicuro è che si divertì parecchio. I suoi dialoghi sono pieni di battute umoristiche, insulti seducenti, farse filosofiche. Ancora oggi possiamo vedere la scintilla nei suoi occhi e il ghigno delle sue battute, la gioia con la quale perseguiva i suoi argomenti e le sue docili vittime e il sorriso niente affatto modesto col quale conquistava il suo punto, vinceva l'argomentazione, chiudeva una parte della discussione per fare strada a un'altra. Forse, come sostenne Nietzsche fra soggezione e invidia due millenni dopo, in realtà fu un buffone. Ma che buffone! Egli affascinò la gioventù di Atene e nel giro di pochi anni dalla sua morte affascinò il mondo antico. Duemila anni dopo sedusse i nuovi filosofi del Rinascimento e il mondo moderno di nuovo pagano. Insegnò la filosofia come conversazione, come chiacchierata arguta e illuminata, motteggiando e seducendo. Insegnò la filosofia come gioiosa saggezza, la filosofia come divertimento. Filosofi venuti dopo possono aver bevuto da soli di fronte a un focolare borghese, la penna in mano, ma Socrate bevve con piena soddisfazione ai simposi di gala e morì, appropriatamente, bevendo. Venne condannato, come noi tutti sappiamo, per aver "corrotto la gioventù di Atene", un'accusa tanto vaga quanto non dimostrabile, e per aver respinto gli dei della città, un'accusa che egli negò ma che era senza dubbio vera. Egli vantò le sue attività alla giuria che lo condannava, suggerendo di meritare una pensione invece di una condanna. Venne condannato a morte ingiustamente, ma soltanto perché lui stesso aveva provocato la condanna e con grande esitazione da parte della giuria. (Senza dubbio qualcuno di quei giurati già sospettava quel che la storia avrebbe fatto di quel verdetto.) Respinse il suo amico Critone, che gli offrì di farlo evadere dalla prigione e di aiutarlo a fuggire. Perché? Per via di svariate argomentazioni notoriamente cattive. Ma forse anch'egli ebbe un'intuizione di quello che la storia aveva in serbo per lui. Quella è la fantasia di tutti i martiri, ma raramente (eccetto per un solo altro) è coronata dal successo. (Si veda Aristotele, che alla maniera di Falstaff dichiarò "Atene non avrà una seconda occasione di peccare contro la filosofia". La saggezza è la parte migliore del valore.) Socrate fu ed è un paradosso, la singolare personalità dalla quale le successive confusioni e forzature della filosofia si originano e fluiscono come le conversazioni dalla sua bocca in continuo movimento. Egli insisteva sulla ragione, ma era un campione nell'arte della retorica. Si definì, grazie al puro carisma, come uomo di passione anziché di contemplazione. Aveva sempre la risposta immediata e la domanda pronta invece di una teoria approfondita. In effetti, non è chiaro se avesse una teoria su qualcosa e meno ancora una risposta alle sue stesse domande. Persino la sua grande Repubblica, che indusse l'Occidente a chiedersi "che cos'è la giustizia?" nei successivi duemila anni, non arriva ad alcuna conclusione chiara e suggerisce, almeno, che potrebbe non esservene alcuna. Socrate insisteva in particolare sulle definizioni, condizioni necessarie e sufficienti che avrebbero coperto qualunque caso appropriato senza escluderne alcuno, ma quanto a lui era più abile nel brillante contro esempio e nella sagace confutazione. E quando aveva confutato ogni definizione che veniva proposta, prendeva la parola non per un altro tentativo destinato all'insuccesso, ma per raccontare una storia o una favola, parlare di una città ipotetica o ritrarre la psiche come un branco di cavalli selvaggi e un cavaliere, ricordare un incontro immaginario con una musa o perdersi in speculazioni sull'immortalità dell'anima. Egli era, in effetti, un creatore di miti, lo scultore del mito e del contro mito: il mondo delle Forme, del vero Essere, la fuga dalla caverna, l'ideale della vera integrità, l'immortalità dell'anima. Suggerì che i poeti venissero scacciati dalla repubblica in quanto bugiardi e ciarlatani, ma era lui il poeta, bugiardo e ciarlatano più grande di tutti loro. Vi sono quindi due Socrate, l'entusiasta in carne e ossa di duemila e cinquecento anni fa e il nome associato all'esangue costruzione logica di una manciata di dubbie argomentazioni e di stravaganti teorie dell'altro mondo. Noi abbiamo conservato l'affascinamento di Socrate per i rompicapo e i paradossi ma abbiamo perso di vista sia i profondi interessi personali sia l'incomprimibile senso dell'umorismo che lo motivavano. Peggio ancora, la filosofia ha assunto un atteggiamento supponente che tende a escludere il resto del mondo e liquida semplicemente le accorate preoccupazioni della maggior parte degli studenti e degli altri appassionati della filosofia. Socrate aveva visto giusto: la filosofia può e dovrebbe essere una gioia, non un peso. Questo non vuol dire che sia una cosa facile. O che vada bene qualunque cosa. Ma Socrate affrontò la sua morte con un'equanimità ben superiore a quella della maggior parte dei filosofi quando si affrontano gli uni con gli altri o si trovano a fronteggiare i loro studenti nelle aule dei seminari. Non sono da Socrate le smorfie angosciate dei profondi pensatori del giorno d'oggi. Una risatina e una smorfia di compiacimento sono le più appropriate espressioni di saggezza. | << | < | > | >> |Pagina 52La politica dell'emozione
Un umore ci assale. Non viene dall'esterno né dall'"interno", ma sorge
dall'Essere-nel-mondo, come un modo di tale essere.
Heidegger,
Essere e tempo
La "politica" dell'emozione potrebbe venire suddivisa in quattro livelli
(interrelati). C'è, prima di tutto, una tesi generale sull'ontologia o,
meglio, la geografia concettuale delle emozioni: che
cosa sono, "dove" vanno cercate e i termini in cui andrebbero discusse. La
posizione politica tradizionale delle emozioni, come ho
lamentato, le priva completamente di diritti, facendone il
lumpen proletariat
dell'anima. (Ignorarle, altrimenti diventano tumultuose.) In secondo luogo, c'è
il senso più ovvio in cui le emozioni sono
politiche, vale a dire, hanno a che fare con il potere, la persuasione,
la manipolazione, l'intimidazione. Qui l'ira è l'esempio più familiare, ma
l'amore, la gelosia, la vergogna, il risentimento, l'invidia, la
tristezza e persino la disperazione meritano di essere riconosciute.
Qui possiamo vedere i modi, talvolta sottili, con i quali le emozioni
dominano. Il terzo livello è quello che potremmo chiamare della
politica interna delle emozioni, il modo in cui posizioniamo e (si
potrebbe persino dire) manipoliamo noi stessi in relazione al mondo,
indipendentemente dagli effetti delle nostre emozioni o della
loro espressione su altre persone. Quando iniziai per la prima volta
a capire l'importanza delle strategie emozionali, data la mia posizione
cartesiana (non riconosciuta), fu proprio quella politica interna che in primo
luogo mi coinvolse. Ancora una volta, adirarsi
è un esempio paradigmatico. Ci si adira per "salvare la faccia" non
soltanto agli occhi degli altri (la politica dell'ira, apertamente pubblica) ma
anche ai propri occhi. Infine, la politica dell'emozione si
estende al "meta" regno dell'emozione: "etichettare", riconoscere
l'emozione, riferire sull'emozione, descrivere l'emozione e teorizzare
sull'emozione. Non bisogna, però, pensare che questo "livello" della politica
dell'emozione sia facilmente separabile o addirittura distinguibile dagli altri
livelli della politica nell'emozione e nella sua espressione. I quattro regni
politici spesso si sovrappongono e influiscono l'uno sull'altro.
L'ontologia dell'emozione L'ontologia ci riconduce alla natura essenziale delle cose, al loro posto nell'universo e a come si correlano con altre cose. L'ontologia della psicologia o dei fenomeni psicologici è stata a lungo intrappolata nel quadro cartesiano, il che, rozzamente, significa che stati, processi o atti "mentali" hanno dovuto essere trattati o come manifestazioni stravaganti oppure come descrizioni fuorvianti di stati, processi e comportamenti materiali (Watson e Skinner in psicologia, Gilbert Ryle in filosofia) oppure come entità estremamente immateriali, quelle che Ryle notoriamente motteggiava come "il fantasma nella macchina". Ma lo stesso Descartes era acutamente consapevole che le emozioni, in particolare, stavano a cavalcioni di questo abisso ontologico, essendo composte, come diceva, di entrambi i tipi di "sostanze" (materiale e immateriale), agitazioni degli spiriti animali (materiale) da un lato, e definite da credenze e desideri ("pensieri" immateriali), dall'altro lato. Il comportamentismo, quali che siano state le sue assurdità, ebbe il buon senso di respingere questa implausibile dicotomia e di far rilevare, con vari livelli di sofisticazione, che quasi tutto quello che sappiamo, e proprio quasi tutto quello che vogliamo dire, sulle emozioni dipende dal comportamento (compreso il comportamento verbale, in particolare i rendiconti in prima persona). Quel che restava fuori, naturalmente, era quel fastidioso "caso della prima persona", il "sentimento" soggettivo delle emozioni, ma un buon numero di abili e talvolta grossolane spallate spazzava via questo residuo. | << | < | > | >> |Pagina 209Persino se si crede davvero in una vita ultraterrena, la questione della morte e con essa la questione della vita non scompare. La promessa di una vita ultraterrena non dovrebbe essere usata per offuscare le questioni mondane dell'etica e dei legami, per ridurre al minimo l'importanza delle relazioni e banalizzare gli obblighi (anche se fa del comportamento etico e del successo nelle relazioni un criterio per una posizione desiderabile nella vita ultraterrena). Persino nel pensiero più escatologico, la questione socratica di "come condurre la vita" occupa una posizione centrale e la questione di come pensare alla morte diventa una sfida a pensare alla vita. Così Spinoza, un uomo devotamente religioso, ci dice "L'uomo libero, cioè l'uomo che vive secondo il solo dettame della ragione, non è guidato nel suo agire dal timore della morte, cioè né fa il bene per evitare il male, né fugge direttamente il male: desidera invece e vuole direttamente ciò che è bene, cioè procura di agire, di vivere, di conservare il suo essere sulla base della ricerca del proprio utile: e quindi di nulla egli si preoccupa meno di quanto si preoccupi della morte, e la sua sapienza è una meditazione della vita". Che si sia ebrei o cristiani o musulmani o induisti, le questioni della vita ultraterrena sono eticamente, se non ontologicamente, secondarie rispetto alle questioni della vita. Vivere per la morte è un diniego della vita, che è una cosa molto più seria del diniego della morte.
Al di là del solipsismo morboso: la dimensione sociale della morte
Quando si smette di dare un contributo, si muore. Eleanor Roosevelt La paura della morte si presenta facilmente come una perplessità logica o metafisica, come un timore dell'ignoto, come un confronto col nulla. La verità, credo, è molto meno lusinghiera. Ci preoccupa il dolore del morire, o il dolore che precede il morire. Ci preoccupiamo vanitosamente della eliminazione dei nostri corpi dopo la morte. Ci preoccupiamo per le persone che ci stanno a cuore, ma al tempo stesso ci preoccupiamo che staranno bene lo stesso senza di noi, anzi, che non si ricorderanno neppure più di noi se non saremo più lì a farci ricordare costantemente, anche se con garbo. Anche l'idea che la morte sia nulla più che una questione di metafisica è un penoso senso di assenza. Detto nel modo meno lusinghiero, potremmo dire che la mia morte è una cosa cattiva perché priva l'universo di me. Mi immagino il mondo senza di me, come i personaggi di Sartre in Porta chiusa. Li vedo che parlano di me, ridono di me, mi commiserano. Vedo qualcuno che corteggia mia moglie e poi la sposa, alleva i miei figli, confuta i miei libri. Oppure, peggio, vedo che mi ignorano. La morte sarà magari nulla, ma è un nulla che fa male. Tutto questo non è grandiosa metafisica o "ontologia fondamentale", ma meschino egoismo avvolto in un enigma. Θ quello che chiamo solipsismo morboso, un'immagine della morte esclusivamente nei termini del sé. Ciò verso cui intendo argomentare e che è stato trascurato in filosofia è la dimensione sociale della morte. Per apprezzarne l'importanza, non è necessario abbandonare il riferimento alla prima persona che è basilare per la questione filosofica, e neppure significa in alcun modo compromettere il nostro solido senso della vita individuale e la preoccupazione personale per la morte. Ma vuol dire che noi siamo prima di tutto e soprattutto, fenomenologicamente e ontologicamente, come pure biologicamente, animali sociali. La morte di qualcuno è sempre, salvo casi di massima solitudine, una smagliatura (si spera non piccola) in una rete di relazioni. E persino nei casi di massima solitudine, la morte di qualcuno, nel suo pensiero, è una rottura di relazioni passate o possibili oppure, agli estremi del pathos, il compianto di star morendo, in modo del tutto innaturale, da solo. Quella che Heidegger segna come l'unicità" dell'Essere-verso-la-morte a me sembra una versione del solipsismo morboso, un diniego dell'ovvio in favore di una teoria filosofica oscura e fintamente eroica. E anche Sartre, per quanto io possa essere d'accordo con lui, mi sembra ricadere nello stesso tranello solipsistico, quando parla dei "miei progetti" e giustappone la "mia mortalità" con quella de "l'Altro". Ma Sartre è anche acutamente consapevole del fatto che quando penso alla mia morte non posso fare a meno di pensare a ciò che gli altri vedranno in me, come gli altri mi vedranno, come mi penseranno e mi ricorderanno. Quando immagino me stesso al mio funerale, à la Freud, sono gli occhi degli altri che immagino, non i miei, che la "mia prospettiva" sia oppure no, logicamente e irriducibilmente, mia e soltanto mia. Quando immagino il mio corpo su un tavolo anatomico, o coperto di sangue su una strada, o paralizzato dal dolore terminale, è gli altri che immagino mi vedano in questo modo, non sono io. Quando mi preoccupo di come morirò, è per gli altri che sono preoccupato. Naturalmente, mi preoccupo anche per la mia reputazione, ma qui, più drammaticamente che in qualunque altro caso, è evidente la natura sociale del sé. Dopo tutto, quale differenza potrebbe fare per me, in quell'attenuato, postumo senso filosofico, se esco di scena come un eroe, un codardo o un pagliaccio? La maggior parte delle società, naturalmente, questo lo considerebbero ovvio. I loro riti funebri lo danno per scontato. Ma nelle nostre avanzate filosofie decadenti, questo modo di pensare è del tutto ignorato o esplicitamente denegato. Quanti filosofi hanno considerato il lutto e il cordoglio come aspetti della morte invece che meri artefatti culturali che appartengono più propriamente all'antropologia? Quanti filosofi hanno preso niente di meno che l'intera narrazione della vita come il "momento" essenziale nella morte (a parte il morboso Silenius, per il quale l'intera vita era morire)? Nella saggezza dei cartoni animati, vige da tempo il cliché per cui, quando uno sta morendo, l'intera sua vita gli scorre davanti agli occhi (interni). Al posto dell'argomentazione per la quale la "morte è nulla", i filosofi dovrebbero sostenere che è la ricchezza della vita a provocare il pathos che circonda la morte. E la ricchezza delle nostre vite, più che alla fenomenologia dell'esperienza è dovuta alla specifica fenomenologia dell'esperienza sociale. Voglio vivere perché ci sono gli altri. Voglio vivere perché amo. Voglio vivere perché sono immerso nei miei progetti, che sono tutti virtualmente progetti sociali, come Sartre sopra tutti gli altri sarebbe il primo ad apprezzare, non importa quanto solipsista possa essere la loro pratica (scrivere, per esempio). Voglio vivere perché altri hanno bisogno di me e perché loro mi stanno a cuore e faccio parte del loro mondo come essi fanno parte del mio. | << | < | > | >> |Pagina 269CAPITOLO 9
Riflessione finale
La "filosofia analitica" ha rovinato la filosofia?
La filosofia ridotta a "teoria della conoscenza", di fatto, però, nulla più
che una timida epochistica e una dottrina dell'astinenza: una filosofia che non
sa varcare la soglia e ricusa meschinamente a se stessa il diritto
d'accesso una filosofia, questa, prossima ad esalare l'ultimo respiro.
Friedrich Nietzsche,
Al di là del bene e del male
Lo sento dire, adesso, in continuazione. Non come una domanda, ma come un verdetto: "La filosofia analitica ha rovinato la filosofia". Lo sento da amici nei dipartimenti di antropologia e di letteratura, nei corsi di studio sulle culture e sulle donne. Lo sento da persone del mondo economico, che, ripensando ai loro diplomi universitari in arti liberali, conservano una qualche fievole preoccupazione per lo stato della disciplina. E lo sento, naturalmente, da amici filosofi non analitici, che hanno qualche interesse da difendere. Il fatto che io sia noto per il mio lavoro sulla filosofia "continentale" si suppone mi renda incline a condividere quel punto di vista. Però sono profondamente turbato da questo diffuso fraintendimento di quel che sta accadendo in filosofia, come pure da quanto sta accadendo in filosofia. Eppure, come disse Mark Twain ascoltando Wagner, "Non è così cattivo come suona". Si dà fin troppa importanza, oggi, al contrasto e al presunto conflitto fra quella che viene chiamata filosofia "analitica" da un lato e filosofia "continentale" dall'altro. Questo contrasto è falso. "Analisi" si riferisce a un metodo, un metodo che, almeno superficialmente, si concentra sulla natura del linguaggio. "Continentale" si riferisce a un luogo, più precisamente, l'Europa continentale. A parte il fatto che "il continente" così indicato spesso include soltanto Germania e Francia, e il fatto spesso ignorato che la "filosofia analitica" comprende un discreto numero di metodologie contrastanti in concorrenza fra loro, dovrebbe essere chiaro persino a un lettore occasionale che il contrasto di base è sbagliato o fuorviante'. Mentre vi sono molti metodi, scuole e stili di filosofia contorti e intrecciati, raramente vengono distinti così facilmente da una via d'acqua stretta come il Canale della Manica. La "filosofia analitica" viene spesso definita in base al suo interesse per la logica e il linguaggio, ma quell'interesse emerse dapprima in Germania (con Frege in particolare) ed era pienamente condiviso dal progenitore dei movimenti "continentali" del Ventesimo secolo, Edmund Husserl. Il filosofo più influente del secolo, Ludwig Wittgenstein, che fu per due volte il filosofo definitivo della tradizione "analitica", arrivò in Inghilterra dall'Austria, senza mai abbandonare le sue radici "continentali". Egli era particolarmente interessato ai limiti del linguaggio, ma lo sono anche i postmodernisti, la nemesi della maggior parte dei filosofi analitici. Vi sono filosofi analitici che, come i loro pari nel continente, parlano e scrivono di sesso, genere, morte e del significato della vita. La filosofia analitica non è necessariamente così "esile" come talvolta sembra. Nonostante le prese di posizione più ristrette di alcuni dei suoi più illustri praticanti, non deve necessariamente essere soltanto logica priva di alcun interesse per il contenuto. Non deve per forza essere interessata solo alle argomentazioni indipendentemente dalla sostanza. Non è "scientifica", come gracchiò Hans Reichenbach al culmine del movimento una cinquantina d'anni fa. Non deve per forza essere disinteressata alla storia, al contesto, ai contenuti empirici e all'etimologia. Se Bertrand Russell rappresentò in modo distorto la tesi contro gli hegeliani di Oxbridge ai suoi tempi, egli fu, pur tuttavia, l'autentico modello del filosofo impegnato e popolare, con molte cose da dire alla gente comune su argomenti di eccezionale importanza. Vi sono moltissimi filosofi eccellenti al giorno d'oggi che stanno usando l'analisi (il che significa niente più, in fondo, che cercare di essere chiari) per affrontare problemi reali. Θ un vero peccato, quindi, che la filosofia analitica si sia gravata da sé con un paradigma e una reputazione tanto "smilzi" come l'ossessione per la logica e il linguaggio, escludendo sdegnosamente qualunque altra cosa. Il paradigma viene da Russell, che con Alfred North Whitehead diede il tono al secolo con il loro Principia Mathematica, che sosteneva che i principi base dell'aritmetica potessero essere derivati da principi ancora più fondamentali della logica. Quel "maschio" paradigma fissò lo standard per la "vera" filosofia, in quanto tutto ciò che non era logica finì per essere più o meno liquidato come "non filosofia". Russell procedette perseguendo l'idea più generale che esistano frasi (o, più accuratamente, proposizioni) "semplici" che corrispondono a fatti "semplici" e discreti nel mondo. La filosofia dell'"atomismo logico" che ne risultò evitava il contesto e quelle che Bradley aveva chiamato "relazioni interne" e si focalizzava invece sull'analisi logica delle proposizioni e delle loro aggregazioni. La "forma logica" di un enunciato, sosteneva Russell, non corrispondeva alla sua ordinaria forma grammaticale. Si avviò quindi una ricerca durata un intero secolo di un "linguaggio ideale" che sarebbe consistito di tutte e sole le forme logiche proprie. Questo era autentico minimalismo in filosofia, anticipando il (e sopravvivendo al) minimalismo nelle arti, che ebbe breve durata. Ma il problema del minimalismo è che è talmente minimo, così smilzo, che da ultimo è privo di interesse. Non che quel paradigma non venisse mai sfidato, persino entro il piccolo cerchio degli autorevoli analisti. La ricerca di una teoria formale onnicomprensiva subì un intoppo devastante nella logica di Kurt Gφdel, che nel 1931 formulò una "dimostrazione dell'incompletezza" dimostrando che vi sarà sempre un enunciato indimostrabile in un qualunque sistema formale potente abbastanza per fare quello che i filosofi linguistici volevano che facesse. Le conseguenze filosofiche di quella dimostrazione vengono ancora dibattute, ma in conseguenza di essa parecchi autorevoli matematici e filosofi abbandonarono la ricerca di un linguaggio formale ideale. Come minimo, la dimostrazione di Gφdel fu un colpo d'avvertimento sparato nel tabernacolo. Poi il più brillante studente di Russell, Wittgenstein, si ribellò contro il suo stesso Tractatus Logico-Philosophicus (il titolo pretenzioso era stato preso a prestito da Spinoza) e contro il movimento del "positivismo logico" che aveva ispirato. Nelle sue Philosophical Investigations, Wittgenstein respinse la logica decontestualizzata del primo atomismo di Russell (e suo). "Analisi", di conseguenza, assunse un nuovo significato. Non era più l'analisi della forma logica appropriata di semplici enunciati, ma l'indagine sui molti usi del linguaggio ("giochi linguistici") nelle "forme di vita" di tutti i giorni. Un tema delle Investigations ebbe un effetto particolarmente deleterio sulla filosofia. Laddove il Tractatus conservava un salutare rispetto, persino una reverenza, per la filosofia, le Investigations tendevano a diagnosticare la filosofia come un malessere intellettuale, per il quale, fortunatamente o sfortunatamente (dipende da come lo considerate e da chi vi paga lo stipendio) la cura è soltanto più filosofia. La filosofia, scrive Wittgenstein, è "linguaggio andato in vacanza", linguaggio che travalica il suo contesto ordinario e i "giochi" entro i quali normalmente agisce. La filosofia ci intrappola consentendoci di usare male il linguaggio, confondendo un'applicazione con un'altra, pensando che siccome una certa questione ha senso in un certo contesto o in una data forma di vita, debba per questo avere senso in un altro contesto o fuori da qualunque contesto. Ma se il contesto e l'uso sono tutto, allora gli strumenti tecnici sviluppati da Frege, Russell e (il primo) Wittgenstein potrebbero non servire affatto. Persino i positivisti, tuttavia, non erano così "smilzi" come di solito si pensa che fossero. Essi erano, per la maggior parte, liberi pensatori di sinistra tedeschi e austriaci, sconvolti dall'ascesa al potere di Hitler e dalla pervasività del nazismo. Con la loro insistenza sul rigore scientifico e logico, i positivisti rifiutavano il romanticismo tedesco che accusavano per gli orrori che vedevano e subivano. Essi erano campioni della salute mentale in un mondo che stava impazzendo. Come Husserl, che scriveva anch'egli in Germania all'incirca nello stesso periodo, la reazione dei positivisti fu in primo luogo e soprattutto una difesa della razionalità contro il fascismo e il nazionalsocialismo. Il problema era che, col loro insistere sul rigore scientifico e logico e la loro ripulsa del romanticismo tedesco, i positivisti logici tendevano a spingere l'etica e altri soggetti non scientifici fuori dalla filosofia. Come Wittgenstein alla fine del Tractatus, sembrava insistessero che niente di significativo potesse dirsi su tali argomenti. Ma così si lasciava in dubbio, o nel migliore dei casi, in sospeso lo status dell'etica. Se i filosofi non erano nella posizione adatta per castigare i peccati del mondo, chi avrebbe potuto farlo? I positivisti logici si battevano per mantenere vivo l'Illuminismo, nonostante i danni che aveva subito nella prima guerra mondiale e l'eclisse indotta dai nazisti. Sfortunatamente, minacciavano anche di porre fine all'etica e alla filosofia ricca in generale e di ridurre la filosofia a un ruolo di erogatore di servizi di portineria per la scienza. Se l'influenza di Russell sulla filosofia analitica fu un misto di positivo e di negativo, lo stesso si può dire dell'influenza di Wittgenstein. (Val la pena notare con un certo allarme che oggi è il Tractatus e non le Investigations a essere ancora una volta il punto focale dell'attenzione analitica.) La rivoluzione in filosofia fatta a modo suo da Wittgenstein fu aiutata dal fatto che era un insegnante carismatico, ipnotizzante, più un guru che un professore. I suoi studenti e in seguito gli studenti dei suoi studenti emulavano la sua intensità e (talvolta in mondo alquanto ridicolo) imparavano a imitare i suoi torturati manierismi e la sua nevrotica serietà. Ma a sentire ciò che riferiscono quelli che sedettero ai suoi piedi, trovarsi alla presenza di Wittgenstein era senza dubbio essere presenti alla nascita tormentosa di qualcosa di molto profondo. Il problema è che nessuno, compreso Wittgenstein, poteva dire molto chiaramente che cosa fosse. Però l'idea di Wittgenstein che la filosofia fosse una specie di malessere intellettuale prese piede, e l'idea che soltanto una maggior quantità di filosofia sia la cura non venne accolta con entusiasmo al di fuori dei piccoli circoli che venivano pagati e pagavano per assoggettarsi alla malattia. E se gli strumenti tecnici sviluppati dai grandi filosofi analitici si dimostrano inutili se non per curare quel disagio auto-imposto, allora l'intero campo si trova di fronte a un acuto senso di perdita dello scopo, punteggiato da occasionali sussulti di sfida. Alcuni filosofi analitici che non sanno che altro farsene delle loro vite, ammettono che la filosofia è una droga, un'attività da ultimo priva di significato, nella quale professori ordinari giustificano il loro posto di lavoro trasmettendo la malattia ai loro studenti. Il risultato è la frustrazione per tutti quelli che sono coinvolti. Proteggendo le tecniche e gli strumenti che si sono conquistati duramente, filosofi sulla difensiva si tagliano fuori dal mondo. La più gioiosa di tutte le discipline intellettuali ha fatto nascere amarezza e risentimento. Ciò che oggi viene chiamato "pragmatismo", sia nei circoli analitici come in quelli continentali, in ultima analisi si riduce all'idea che non si debba sprecare tempo con la filosofia. Alcuni degli scritti più influenti nella filosofia corrente hanno per tema "Abbiamo sprecato le nostre vite con queste questioni". La vecchia concezione alla James Dewey del pragmatismo, vale a dire che le idee dovrebbero davvero contare per qualcosa, rimane per loro un gesto astratto. Il fanatismo e l'atteggiamento difensivo forzati sono ancora più rovinosi dell'amarezza. La filosofia è l'unica disciplina accademica che tende a emergere in modo naturale nella vita di ognuno, in tempi di turbolenza o di cambiamenti traumatici o semplicemente in quieti momenti di riflessione. Ciò sembrerebbe indicare un ruolo speciale e continuativo per i filosofi. Ma l'idea di avere semplicemente una conversazione con gente comune, senza aver bisogno di competenze speciali o di conoscenze privilegiate, colpisce molti filosofi come avvilente o, peggio, come il passo inevitabile verso la disoccupazione. Imbarazzati da traduzioni pedestri delle loro idee, che possono suonare, nel parlar comune, come giaculatorie della nonna rifritte, i filosofi si rifugiano nell'oscurità. Non è una novità, naturalmente. Eraclito lo fece del tutto consciamente, due millenni e mezzo fa, e lo fece anche Hegel, altrettanto consciamente, per sembrare degno di una posizione accademica, due secoli fa. Heidegger notoriamente seguì la stessa strategia oscurantista e così, in tempi più recenti, ha fatto Michel Foucault. L'idea di tenere una conversazione intelligente con normali persone intelligenti terrorizza la maggior parte dei filosofi e così essi preferiscono conversare soltanto fra loro in un linguaggio e a proposito di perplessità che capiscono solo loro. Nella filosofia anglo-americana-australasiatica, la formalizzazione fornì i mezzi per farlo. Persino la formula più semplice è sufficiente per terrorizzare o allontanare praticamente tutti i lettori "non addestrati". Quante volte ho visto un tema interessante devastato da acronimi, formule ed equazioni totalmente inutili ma ritenute impressionanti? (Anzi, quanto spesso l'argomento stesso viene malamente tradotto, distorto e di conseguenza capito male e fuorviato dalla formalizzazione?) Ma la virtù del formalismo non è la chiarezza: è la sua capacità di escludere. L'esclusività di tali tecniche produce una specie di tribalismo in filosofia. Un buon antropologo ne sarebbe affascinato. Θ l'addestramento" a tenere insieme la tribù, dove questo include non soltanto competenze tecniche, ma anche uno stile caratterizzante nel vestire ("accademico dimesso" con alcuni devianti consapevolmente ben vestiti), rituali prevedibili (per esempio, l'insistenza nel riferirsi incessantemente a loro stessi e a nessun altro) e la dedizione a usare gli stessi logori esempi impiegati da Frege e Russell un secolo fa. Come per ogni tribù, vi è un enorme divario fra quanti ne fanno parte e gli altri. L'appartenenza è una questione di discendenza di sangue (connessioni accademiche): gli stessi insegnanti, gli stessi programmi di dottorato. Ciò produce una debilitante endogamia, non diversa dai proverbiali neonati a due teste nel Kentucky e in Tasmania. Uccide qualunque interesse che non sia appena nominale per la diversità. In questa società tribale c'è posto per chiunque sia semplicemente sveglio e, naturalmente, disposto a stare al gioco, seguire le regole, considerarsi uno della tribù. (Wittgenstein, senza connessioni inglesi, balzò in primo piano soltanto sulla base della sua intelligenza.) Così com'è, la filosofia analitica ha finito per assomigliare parecchio alla Mensa, una organizzazione di persone consapevolmente sveglie remote da qualunque sostanza o contenuto, senza riferimento ad alcuna virtù tranne una. Ma l'iniziazione (come gli studi per il dottorato) è concepita per distruggere qualunque apprendimento precedente, buon senso e ordinario interesse filosofico. All'interno della tribù rimane, naturalmente, l'apparenza del vero dissenso ("Sono completamente in disaccordo con lui".) Ma il cielo non voglia che un qualunque esterno sollevi un'obbiezione mal formulata, che gli sgorga dal cuore, non importa quanto ben centrata sul bersaglio. Le riviste e The New York Times sono pieni di indignate lamentazioni ormai di routine contro l'impoverimento della filosofia. La risposta dalla tribù, se pur viene, è un ruvido sghignazzo. Ciò che ha minacciato di rovinare la filosofia, in altre parole, non è la filosofia analitica, ma il tribalismo di troppi filosofi analitici ben sistemati. Essi hanno eretto un muro di gergo formale intorno a idee che dovrebbero essere prontamente accessibili. Essi assumono l'atteggiamento del critico aspro e dal cuore di pietra persino quando (soprattutto quando) sarebbe più appropriato ascoltare ed essere in sintonia. E hanno smagrito il soggetto e ristretto, ridefinito o ridotto i loro interessi a un piccolo numero di preoccupazioni tecniche che di conseguenza non interessano a nessun altro. A mano a mano che i migliori dipartimenti diventano sempre più esili, i loro dottorandi si disseminano nel paese per rafforzare questa immagine mortifera della filosofia. I migliori dipartimenti nel paese sono caparbiamente impegnati a riprodurre e difendere la propria ristretta specializzazione. Ma queste spettacolari congreghe di tecnici filosofici hanno forse qualcosa da offrire alle centinaia di studenti dei primi anni che desiderano studiare la filosofia o almeno avvicinarla un po'? Oppure tutti quelli che comprano libri New Age, affamati di un po' di filosofia? Gli esili tecnicismi del soggetto possono essere una fattore di orgoglio, non di imbarazzo, nella tribù, ma è soltanto questione di tempo prima che genitori, contribuenti, lettori e amministratori comincino a chiedersi, perché dovremmo pagare per questo? Θ questo ciò che i nostri ragazzi dovrebbero imparare? Questa è filosofia? La filosofia analitica, come la fenomenologia di Husserl, iniziò con un'enfasi sul pensare rigoroso e lungo tutte le sue vicissitudini continua a fornire un importante e spesso amabile complemento o correttivo ai voli speculativi e alla tendenza all'offuscamento che giacciono anch'essi nel cuore della filosofia. Ma non per questo deve essere inaccessibile, eccessivamente tecnica, limitata nei suoi interessi né socialmente insensibile. Può e deve diventare ricca e consistente e libera da ogni gergo. La formalizzazione (fuori dalle discipline formali) dovrebbe essere vista come una scivolata nell'oscurità piuttosto che un contributo alla chiarezza. Il tribalismo andrebbe considerato un imbarazzo, non una fonte di sicurezza. La professionalità dovrebbe essere una virtù riservata ai medici, gli avvocati e i dirigenti d'azienda e rifuggita dagli accademici (salvo, forse, nel loro ruolo di insegnanti e amministratori). La grande speranza viene dalla vasta schiera di studi inter e intra disciplinari e multiculturali che si stanno aprendo, dapprima ai margini ma ora presso il centro della filosofia. I filosofi, almeno alcuni di loro, non si sentono più imbarazzati a utilizzare tecniche attinte alla critica letteraria e all'antropologia nel leggere i loro stessi testi. Ancora più stupefacente, sono sempre più disposti a leggere testi di altre discipline e a scrivere seriamente di filosofia di e in letteratura, filosofia della fisica dei quanta, filosofia e management, filosofia e neurologia e scienze cognitive, filosofia e arti figurative, filosofia e moda. Vi sono adesso filosofi che insegnano nelle facoltà di medicina, nelle facoltà di economia aziendale, nelle accademie d'arte e non è più un percorso di comunicazione a senso unico. Quasi ogni dipartimento di filosofia importante adesso ha collegamenti con studi sulle donne e sulle culture. Diventando sempre più "impura", la filosofia può anche imparare e condividere con altra gente. Il dibattito fra filosofia "analitica" e "continentale" ormai dovrebbe essere finito. I filosofi hanno cose migliori da fare che perseguire vecchi malintesi. Come per molte dispute nel mondo accademico, questa è rilevante per quello che lascia fuori, vale a dire, il resto del mondo. Θ come se soltanto metodi filosofici che hanno avuto le loro origini in Europa e nei fondamenti della matematica e dell'ontologia come è stato per entrambi siano candidati per essere considerati vera "filosofia". Tanto la filosofia analitica come quella continentale sono state etnocentriche e ostinatamente chiuse ad approcci che non si attengono ai loro metodi. Vi sono filosofie in Asia e in America Latina, in Africa e presso la nostra cultura dei nativi americani. Se queste non rientrano nel ristretto paradigma della filosofia, allora questa potrebbe essere una ragione sufficiente per rottamare quel paradigma esclusivista e fuori moda. Vi sono tutte quelle altre discipline, dall'embriologia umana al marketing alla narratologia che pullulano di questioni filosofiche che sono state del tutto ignorate dai filosofi nella loro ricerca dell'astrazione pura e dell'esilità. Ma se i dipartimenti di filosofia e quel modo di filosofare presuntuoso ed esclusivista che Richard Rorty chiama "Filosofia con la F maiuscola" dovessero sparire domani, la filosofia non scomparirebbe. Verrebbe trovata in ogni parte dell'università e in tutto il resto del mondo. Perderebbe soltanto la sua pretenziosità e, sfortunatamente, la sua rivendicazione di inutile impiego.
La filosofia analitica continua a essere un salutare correttivo per
il romanticismo talvolta eccessivo dei giorni nostri. Ma questo non
significa che dovremmo considerare l'eccessivo romanticismo e la
filosofia analitica come veleno e antidoto. Esse sono due parti di
una dialettica che, al suo meglio, ci permette di articolare alcune
stupefacenti visioni e intuizioni. La filosofia analitica, quando non
pretende di essere l'unica voce nella stanza, apre (piuttosto che
chiudere) il mondo. Non ha bisogno di essere esclusivista o riduzionista o
materialista o eccessivamente formale o troppo assorbita
nelle sue proprie tecniche. E neppure deve dimenticare il contenuto, il
contesto, la cultura e la storia. In effetti, la miglior filosofia
analitica è sempre consistita in una scomoda tensione fra la necessità di
speculare e l'ansia di chiarire. Ma perché chiamarla "analitica" se non per
mettere la gente sulla difensiva? In effetti, perché
chiamarla in qualche modo? Pensare con attenzione ai problemi
perenni della vita, puntare alla chiarezza e all'illuminazione insieme e godere
del processo, questo è quello che Pitagora aveva in
mente quando con esitazione (e ironia) si descrisse come "filosofo", un amante
della saggezza.
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