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| << | < | > | >> |Indice1 1. Il passato degli storici 27 2. Ai margini della storia 41 3. La storia dei malati 53 4. Gli archivi dei matti 67 5. Scritture di sé e trincee di parole 81 6. Discorsi sul mangiare 97 7. Famiglie in movimento 113 8. Amori e passioni 123 9. Gli scarti della storia 143 10. La memoria nella storia 163 Indice dei nomi |
| << | < | > | >> |Pagina 11. Il passato degli storiciFare storia, al di là dei facili entusiasmi che può suscitare il ritrovamento di documenti provenienti dal passato, è un'operazione non facile. Di sicuro per tre motivi: 1. perché, come argomenta in versi Eugenio Montale, la storia «non si snoda / come una catena / di anelli ininterrotta», cioè non risponde a precise formule di causa ed effetto; 2. perché chi fa storia deve correggere le informazioni del passato che sono deformate, anacronistiche, mitiche, falsate dall'intervento della memoria collettiva; 3. perché dallo storico si esige l'imparzialità e si pretende l'obiettività. Ma se l'imparzialità è deliberata, l'obiettività è inconsapevole. In questo senso lo storico può, e anzi deve, perseguire l'imparzialità mettendo sul tappeto tutte le fonti di cui viene a conoscenza, senza trascurare quelle che non gli paiono sulla stessa lunghezza d'onda dei suoi intendimenti e delle sue ipotesi. Invece, a differenza di quanto sostenuto dalla storia positivista, che attribuiva allo storico il compito di "mostrare le cose come erano andate", gli sarà quasi impossibile "essere obiettivo", in quanto l'interpretazione delle fonti è condizionata dalle idee e dai metodi di elaborazione derivati dal suo ambiente sociale di formazione e di appartenenza. Inoltre, poiché il passato è complesso, la ricostruzione storica dovrebbe abbracciare tutti i vari aspetti di quello che è stato: ma ciò è umanamente impossibile, se è vero che qualunque azione presenta una fitta rete di trame, moventi e pensieri di cui non si potrà mai riconquistare l'originaria pienezza. La ricostruzione del passato è prima di tutto frutto di una selezione, di una scelta che privilegia certi aspetti a discapito di altri e che deve fare i conti con la reticenza dei protagonisti e dei testimoni, con la incompletezza e la parzialità dei documenti e, infine, con il fatto che tutte le fonti sono "sempre mute e mai innocenti". In effetti, «ciò che del passato sopravvive» non è che «una scelta attuata sia dalle forze che operano nell'evolversi temporale del mondo e dell'umanità, sia da coloro che sono delegati allo studio del passato e dei tempi passati, gli storici» [ Le Goff 1977]. Se è vero che non sempre si ha interesse a dire e a presentare il tutto e il vero, che di ogni episodio storico si possono avere versioni diverse, che non tutte le versioni finiscono per essere conservate o salvate dal tempo e che nulla ci assicura che i documenti che sono giunti fino a noi sono quelli più idonei a farci capire la complessità dell'evento, del personaggio, del clima culturale di una certa epoca storica, si arriva alla conclusione che le fonti sono una costruzione epistemologica dello storico, che sui segni e sulle informazioni del passato interviene con la sua analisi. In questo senso «porre la storia sullo stesso piano delle scienze naturali e fare dell'obiettività il criterio supremo e in un certo senso unico della verità, significa allontanarsi dalla via giusta. Per quanto possa fare, il povero storico sarà sempre costretto ad accogliere nella sua conoscenza qualche elemento personale: esecrabile e scoraggiante "soggettività"! Pretendere dallo storico che egli isoli, sul fondo del suo setaccio, un materiale completamente obiettivo, significa imporgli un compito irrealizzabile» [Marron 19621. Eppure nei discorsi di tutti i giorni ci sarà sempre qualcuno, di solito un sostenitore di un qualche revisionismo storico, pronto a propugnare la necessità di una "storia obiettiva", un concetto che si accompagna a sua volta, e spesso con finalità moralistiche o escatologiche, all'idea della historia magistra vitae, ossia di un passato in grado di instradare gli uomini a non ripetere errori, di aiutarli a risolvere i problemi, a plasmare positivamente l'esperienza. Senza tener conto che l'esperienza «può essere utile — e non sempre e solo in parte — nel caso della vita individuale; ma per le società (così diverse tra loro, così sminuzzate e composite nel loro stesso seno, così perennemente in evoluzione), come si può sostenere che il passato serva immediatamente a dare insegnamenti concreti sulla vita collettiva? Se così fosse, tutta l'umanità, almeno da millenni, avrebbe risolto tutti i suoi problemi, e oggi non ne resterebbe nemmeno uno da risolvere» [Placanica 1995]. Più realisticamente, e con più convinzione, si può invece affermare «che il passato ha plasmato quella società, e che gli eredi di questa riconoscono quel passato come parte, anzi artefice, della propria identità», senza «aspettarsi dal passato una somma di precetti, di cui servirsi per il presente». Con la storia è possibile informarsi «sui caratteri, sulla varietà e sulle vicende dei comportamenti umani», «capire come e perché la società di oggi è diventata quella che è, e dunque come siamo fatti noi». Con l'aiuto della storia possiamo «comprendere i nostri problemi», non certo pretendere di risolverli. Anche perché essendo tutto "storico", alla fine la storia è ciò che noi stessi scegliamo che sia "storia", e il risultato dipende sia da questa scelta sia dai modelli di lettura del passato. Per esempio, dopo lo studio di Fernand Braudel sulla «civiltà materiale» [1977], molti storici hanno cominciato a considerare la storia della vita quotidiana «l'unico vero tipo di storia esistente, l'asse portante intorno a cui tutto gira», cercando di dimostrare come «comportamenti o valori che in una società sono dati per scontati possano in un'altra essere ritenuti impensabili». L'attenzione di questi storici si è spostata in questo modo sull'abitare, sul mangiare, sul vestire, sul morire. | << | < | > | >> |Pagina 8Per Bloch , rifugiarsi nella "vaghezza sociale" era un pretesto per abbattere gli schematismi disciplinari e ribadire che non esistevano una storia economica e una storia sociale, ma «la storia pura e semplice, nella sua unità», senza bisogno di altri attributi perché «la storia è tutta sociale per definizione». Un postulato che, secondo alcuni punti di vista, ha comportato l'indebolimento di quelli che venivano comunemente reputati "paradigmi disciplinari forti" e che fino ad allora erano stati condivisi dalla comunità dei ricercatori. La "nuova storia", la "storia sociale", non rifacendosi strettamente né all'approccio politico classico, né a quello idealistico e materialistico finiva per assumere le connotazioni di "storia debole" [Musi 19941, anche se Edoardo Grendi, nel 1977, aveva cercato una sintesi concettuale definendo la "storia sociale" come «storia delle relazioni fra persone e gruppi».
Tentando una schematizzazione, gli elementi di peculiarità che
contraddistinguono la prima storia sociale paiono fondarsi sul superamento
dell'esclusivismo etico-politico che riduceva la storia (intesa
come un'ossessiva ricerca delle radici del presente) a una serie di
vicende diacroniche collegate fra loro da rapporti di causa-effetto;
sulla rivalutazione dei soggetti "senza storia" e l'utilizzo di nuove
fonti (processi, testamenti, testimonianze orali e folcloriche, iconografia,
letteratura); sul riconoscimento di una pari dignità ai diversi
ambiti di ricerca, macroanalisí e microanalisi, a seconda dell'ampiezza della
scala d'indagine, dove la macrostoria, secondo il modello
proposto da
Immanuel Wallerstein
, in
The Modern World-System
[19741, si propone il superamento delle "unità parziali" (Stato e
società) a favore di uno "spazio sociale totale", mentre la microstoria
intravede la possibilità di superare la genericità affidandosi all'infinitamente
piccolo, ma in grado di cogliere appieno il vissuto e le
«strutture entro cui quel vissuto si articola» [Grendi 1977]. E ancora:
sull'applicazione del metodo sincronico (analisi del funzionamento dei sistemi
sociali in un tempo determinato) e del metodo diacronico (analisi dei meccanismi
e delle ragioni che portano, nel tempo,
al cambiamento di quei sistemi sociali [Macry 1980]; sull'introduzione dei
concetti di tempo geografico (cicli millenari), tempo sociale
(lungo: formazione delle mentalità; medio: che abbraccia le congiunture
economiche), tempo individuale (il tempo della vita politica e
degli atti quotidiani) [Braudel 1986]; infine su un'auspicata e necessaria
collaborazione con le altre scienze sociali, sia per la misurazione
dei fenomeni storici (con la demografia, la dendrologia, la cliometria), sia per
arrivare alla
history in depth
(con la sociologia e l'antropologia) e addirittura alla psicostoria, con
l'analisi delle autobiografie e le ricerche prosopografiche.
Gli anni sessanta e settanta hanno rappresentato anche in Italia un passaggio, una demarcazione, da una storiografia (fare storia, scrivere la storia) attenta agli eventi politici e diplomatici (histoire bataille), dalle biografie di Stati nazionali e dalla descrizione degli eventi più "rilevanti" (histoire événementielle), a una storiografia più aperta agli aspetti della vita delle società intese nel loro complesso. Il primo scossone in questo senso è certamente venuto dalla storiografia di ispirazione marxista, con il recupero di alcune tematiche delineate da Antonio Gramsci nei Quaderni del carcere , pubblicati a partire dal 1947: l'accezione di Risorgimento come «rivoluzione passiva» per l'incapacità dei democratici di esprimere le aspirazioni delle masse rurali e di «rivoluzione agraria mancata», con la conseguente non formazione di un mercato nazionale, teorizzata da Emilio Sereni e confutata da Rosario Romeo. Questi due temi, assieme alla «questione meridionale», ai processi di industrializzazione e al ruolo della borghesia produttiva italiana, alle vicende dei movimenti anarchici e socialisti, sono stati i cardini che hanno avviato lo sviluppo delle ricerche di storia sociale in quegli anni. L'orizzonte storico, con le sue rinnovate opzioni metodologiche si allargava fino ad abbracciare tematiche quali il movimento operaio e contadino, la Grande guerra, il fascismo, la Resistenza con visuali e approcci fino a quel punto inediti. In questo senso è possibile individuare il ruolo giocato sulla storia sociale italiana da un saggio del 1963 di Edward Thompson , Rivoluzione industriale e classe operaia, «dedicato ai "vinti", nel tentativo di ricostruire dall'interno e "dal basso" la formazione della prima classe operaia»; e dalla ricerca di Eric Hobsbawm , a proposito dell'affermazione della borghesia (l'edizione inglese di Rivoluzioni borghesi è del 1962) e sulle «forme primitive di rivolta e di banditismo sociale». Non va però sottovalutata l'influenza esercitata da Stefano Merli con il suo Proletariato di fabbrica e capitalismo industriale, del 1972, una ricerca che muoveva dall'idea che «una storia del proletariato industriale non può essere né una storia sindacale, né una storia politica». Partendo dalla constatazione che invece «troppo spesso la storia del movimento operaio» era stata vista soltanto «come storia delle istituzioni e come storia delle ideologie e delle strategie» politiche, Merli spostava lo sguardo sulle condizioni di vita del proletariato di fabbrica nel ventennio 1880-1900, con il chiaro intento di contrapporre alla storia del "movimento operaio" la storia della "classe operaia" [Merli 1973]. Se questa visione apparve ad alcuni troppo riduttiva e molto ideologica, aveva però l'indubbio merito di mostrare la possibilità «di superare gli schemi e i limiti nei quali si erano mossi, fino a quel momento, gli studi italiani». Merli, pur calando le sue ricerche nell'analisi dei salari, delle condizioni sanitarie di lavoro, dei ritmi di lavoro imposti nelle fabbriche e nelle manifatture e delle condizioni di vita in generale, comunque tendeva ancora a escludere tutti i soggetti non organici al concetto di classe, lasciando ai margini quello che veniva immediatamente prima o era estraneo ai processi di industrializzazione e di organizzazione del proletariato. | << | < | > | >> |Pagina 90In Italia, nel 1865, su 1000 nati vivi 230 morivano nel primo anno di vita (200 in Prussia e 168 in Francia); quarant'anni dopo, grazie al «migliorato tenore di vita delle classi popolari» e a una «volontaria limitazione della prole [...] specialmente nelle città», il rapporto era di 166 ogni 1000 nati vivi (205 in Prussia e 145 in Francia) e scenderà a 113 nel 1931. L'interazione fra sottoalimentazione e patologie rimaneva comunque particolarmente rilevante nel caso delle malattie infettive e intestinali, soprattutto diarrea e dissenteria; queste causarono, fino al 1905, il 40% dei decessi registrati nella fascia d'età da zero a cinque anni e soltanto dopo il 1930 tale percentuale scese al di sotto del 30%.
«Abitudini sociali come il prolungato allattamento al seno materno, o anche
peggio il passaggio con lo svezzamento a un'alimentazione ricca di amido, che
fornisce calorie, ma ben poche proteine», e di
conseguenza causa di «difetti nutrizionali particolarmente gravi»,
giocavano in questo scenario un ruolo di primo piano e tendevano a
stemperare i conseguenti effetti negativi solo dopo i primi dodici mesi di vita.
Nel caso delle gastroenteriti infantili, che dal 1887 al 1964 causarono in Italia 2 milioni e 400 000 morti nel primo anno di vita, anche il fattore igienico passava in secondo piano, proprio perché era l'alimentazione a fissare nei neonati le difese immunitarie dell'organismo, e queste dipendevano, in massima parte, dalle condizioni della madre. Il colostro, secreto nei primi giorni del puerperio, e il latte materno avevano insomma un'importanza essenziale per la sopravvivenza e per la crescita del neonato, anche perché molto raramente ricorrevano le condizioni per integrare il fabbisogno del lattante con acqua zuccherata, semolini, pastine e tuorli d'uovo. Tuttavia, le opinioni su questo punto non sono del tutto concordi. Per Massimo Livi Bacci [1987] infatti esisterebbe nella puerpera «un meccanismo di adattamento metabolico, forse dovuto a più alti livelli di prolattina, che permette di mantenere un equilibrato bilancio energetico anche quando la dieta appare inadeguata». In questo modo si arginerebbero o comunque verrebbero a essere minimizzate le conseguenze «sia sul feto, durante la gravidanza, sia sul neonato» alimentato al seno materno. Secondo l'opinione più diffusa (non solo a livello medico ma anche nelle culture popolari) era ed è invece scontato che da una scarsa alimentazione materna, e comunque da una gravidanza vissuta in condizioni di stress fisico e psichico, potesse discendere proprio nei primi mesi di vita del lattante un "latte fisiologicamente cattivo", o addirittura una secrezione di colostro senza tutte quelle sostanze biologicamente attive (compresa la vitamina A) che avrebbero dovuto proteggere il neonato dalle infezioni. Scrive Edward Shorter: Oggi sappiamo che la cosa migliore per la donna incinta consiste nel mettere su da dieci a dodici chili di peso, e nella possibilità di aggiungere alla dieta quantità apprezzabilmente maggiori di proteine, ferro, calcio, e altre vitamine e sali minerali. Nessuno nel mondo che abbiamo perduto aveva mai sentito parlare di vitamine o sali minerali; eppure le gestanti sentivano probabilmente il bisogno di mangiare di più.
Ed era proprio l'impossibilità di mangiare di più che alimentava scongiuri,
preghiere e riti. In quanti casi infatti era possibile compensare
l'aumentato fabbisogno proteico calcolato in termini scientifici attorno al
21-22% nella gravidanza e al 40% nell'allattamento? Così, per sopperire alle
deficienze dietetiche, in un rituale dell'Italia meridionale per le puerpere si
preparava una pietanza in cui la loro stessa placenta era cucinata con cipolle.
Queste, nella tradizione popolare di molte regioni, erano considerate un
toccasana per la formazione del latte. Quanto alla placenta appare scontato
l'accostamento con le abitudini degli animali domestici: non mangiano infatti
la propria placenta anche le capre?
Una regola sanitaria della scuola salernitana sembra essere passata
indenne attraverso i secoli fino ad arrivare ai giorni nostri, rimossa soltanto
negli ultimissimi decenni dalla paura del colesterolo: «L'uova fresche, il vin
rosso, e il brodo grasso / misto col più bel fiore della farina /
del miglior grano, sono un alimento / profittevol di molto alla natura».
E a un'altra massima, di medesima provenienza, si è conformato l'aspetto umano,
il concetto di bellezza e di salute per tutto un millennio:
L'uomo sanguigno di natura è pingue, faceto, allegro, e di novelle vago, cui piace assai Venere, e i cibi, e il vino, sempre loquace, ilare e ridente, atto ad apprendere ogni studio, e arte, che non si muove facilmente all'ira, amante, liberale e rubicondo, benigno, audace, e di bei canti amico [Gatto Trocchi 1983]. Si tratta di una celebrazione della "grassezza", o quantomeno, per riprendere un'espressione di Camporesi , «una misurazione dello stato di salute in relazione ai gradi dell'appetito». Immagini che hanno a lungo condizionato la cultura e il modo di pensare, collegandosi strettamente alla divisione sociale della ricchezza e alla difformità classista delle abitudini alimentari. Intervenendo nel 1902 al II Congresso pellagrologico, il dottor Giovanni Loriga chiariva molto bene questo concetto, separando di fatto la popolazione italiana in due blocchi: da un lato i contadini e dall'altro quelli che contadini non erano, per precisare con decisione che il regime alimentare dei primi si doveva «definire un regime di privazione». In questo caso anche qualità e quantità avevano valenze particolari, in quanto «il contadino non mangiava per nutrirsi, ma per riempire lo stomaco e ingannare la fame». Una parte della società, insomma, per molti secoli non avrebbe tanto pensato «a mangiare bene» quanto «ad avere il piatto pieno» e la pancia gonfia. La sazietà era la sensazione tipica di chi si nutriva di polenta e di legumi, anche se dopo un'ora subentrava nuovamente lo stimolo della fame, perché chi mangia solamente cibi vegetali «dovrebbe in pratica mangiare in continuazione» [Harris 1992]. L'aspetto fisico era, insomma, un parametro tangibile e visibile della condizione sociale, e in questo senso ha continuato a condizionare l'immaginario collettivo dell'indigenza e della ricchezza. Chi era magro non poteva mangiare a sufficienza e chi non mangiava a sufficienza, oltre a rivelare organicamente la sua natura di "povero", potenzialmente era anche un malato. Al contrario, chi era pingue e rotondo disponeva evidentemente di abbondante quantità di cibi e automaticamente era associato all'idea della buona salute. Certi proverbi popolari, come «uomo di panza, uomo d'importanza», o «il mangiar bene fa la donna bella», sottolineavano gli aspetti positivi che emanavano da una persona in carne, di cui in questo modo si tendeva anche e soprattutto a rimarcare l'immagine della salute fisica e della potenza sessuale. Di un uomo pingue le donne erano pronte ad affermare che si trattava di "un bell'uomo"; in lui si vedeva l'espressione della pienezza delle forze e della virilità. Allo stesso modo la saggezza popolare ammoniva che «quando la donna è bella e pettoruta, trova da maritarsi senza la dote» o, in un'altra variante, «chi ha le buche nelle gote, si sposa senza dote». Così, «avere una giusta percentuale di pinguedine, né poca né troppa, [era] per le donne la ricerca di tutta la loro vita» e, come ci ricordano le immagini fotografiche della seconda metà dell'Ottocento che ritraggono signorine in atteggiamenti disinibiti, la donna sensuale, erotica e appetibile, doveva essere rotonda, dai fianchi larghi, piena e formosa. Del resto mantenere la linea fu a lungo per la maggioranza della popolazione italiana un problema sconosciuto, anche perché la donna magra ed esangue, i bambini rachitici, gli adulti esauriti, erano dei potenziali anemici e dei futuri tisici; a loro in tal senso si rivolgeva la pubblicità della Ferrochina Bislerí, del Fernet Branca, di confetti, elisir e tonici molto in auge negli anni della Belle Époque, del boston e del tango. Tutti erano raccomandati contro la "povertà del sangue", la "debolezza organica", per dare "forza e salute", per assicurare «la formazione del sangue nuovo, fresco, abbondante, di nuovi tessuti, nuovi muscoli, nuovi nervi». Ricostituenti e fortificanti, preparati a base di polvere di carne e uova da aggiungere alla minestra, erano propagandati per «deboli, pallidi, anemici e tisici», ma si rivolgevano anche ai magri, presentandosi come cure specifiche per ingrassare. La réclame di un preparato tonico tardo-ottocentesco inneggiava alla "grassezza" e senza mezzi termini considerava la "secchezza" come antitesi al concetto stesso di bellezza, incapace di suscitare passioni e addirittura una vera e propria "deformazione" dell'estetica femminea indotta dalla "civilizzazione". Negli spazi della pubblicità giornalistica non mancavano testimonianze di signorine soddisfatte dei risultati ottenuti dopo l'uso di simili prodotti. C'era, infatti, chi dopo undici settimane di cura, si dichiarava orgogliosa di aver avuto un aumento di peso di quasi 14 kg e di essere diventata «bianca e rosea, le forme arrotondate e abbondanti». Erano queste infatti le caratteristiche che permettevano di riconoscere a colpo d'occhio un'anemica (una donna pallida, con «il colore della cera vecchia», che aveva spesso mal di testa, poco appetito, poca o nulla mestruazione, debolezza nelle gambe) dalla donna sana, rubiconda e formosa, caratteristiche che lasciavano presupporre gravidanze sicure, parti con minori rischi e allattamento garantito. [Sorcínellí 1999]. | << | < | > | >> |Pagina 1138. Amori e passioni
Solo con la scrittura uomini e donne del passato hanno lasciato tracce
significative della loro vita sessuale, ma coloro che sapevano scrivere
erano soprattutto personaggi dell'élite, e fra questi certamente erano
più numerosi i maschi. I casi citati da Lawrence Stone [1983] in
Famiglia, sesso e matrimonio
sulla scorta di documenti autobiografici
riguardano solo uomini, ma anche Edward Shorter, che pure si propone di
allargare la sfera di indagine alle «donne comuni» per cercare
di capire che cosa pensassero «realmente del sesso, dei loro mariti,
della femminilità», è costretto a ricorrere a fonti ancora una volta
unilaterali. Infatti si basa abbondantemente su relazioni mediche compilate –
guarda caso! – da maschi e dunque non necessariamente sulla
stessa lunghezza d'onda culturale delle loro pazienti. Ma forse per
entrare in contatto in modo più diretto con «la vita delle donne che
facevano parte del popolo» è necessario ricorrere alle testimonianze
mediate da «proverbi, filastrocche, canzoncine popolari, ricette medicamentose
di uso popolare» e anche dai «riti magici tramandati» in
maniera scritta o nella tradizione orale [Shorter 1984]. Come si vede
si tratta di un apparato etnografico e folclorico che anche per il caso
italiano potrebbe apportare significative sorprese, per esempio prendendo in
considerazione i materiali raccolti tra la fine dell'Ottocento e
il primo Novecento. Anche se presentano dei limiti, per la verità, perché quando
i nostri «fabbri del folclore» si misero all'opera, nella
seconda metà del secolo scorso, per ricercare e raccogliere le varie
forme della cultura popolare, il loro lavoro fu «ancora fortemente sottoposto a
certi tabù di ordine morale» e dunque ritennero opportuno
censurare «dalle loro collezioni i pezzi più sotadici». Forse proprio
per questo, come ebbe modo di rimarcare Giuseppe Pitré, autore di
una monumentale "Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane", scaturisce a
prima vista l'impressione che «i popoli nostri» fossero «un
modello di castigatezza», quando invece a ben vedere questa apparenza è frutto
di «un grande equivoco, anzi è un vero errore» [Finamore,
Pasqualigo, Balladoro 1991]. Un percorso di ricerca, dunque, ancora
tutto da scoprire e da sfruttare, perché, a ogni buon conto, negli anni
conclusivi del secolo scorso "raccolte manoscritte di folclore erotico"
trovarono una certa diffusione e il loro recupero in chiave storiografica
potrebbe ora servire per entrare meglio nel clima di un erotismo
popolare non sempre di accessibile lettura. Interessante, per «un vero
arricchimento della nostra conoscenza e per una trasformazione delle
nostre vedute nella vita sessuale dell'umanità», sarebbe, per esempio,
rileggere come vere e proprie fonti storiche i materiali raccolti dai
folcloristi di fine Ottocento Arrigo Balladoro e Cristoforo Pasqualigo
per il Veneto, da Gennaro Finamore per l'Abruzzo e soprattutto da
Raffaele Corso, che, nel 1913, pubblicò i risultati in tedesco col titolo:
Das Geschlechtleben in Sitte, Brauch, Glauben und Gewohnheitrecht
des Italienischen Volkes,
un'opera tradotta in italiano soltanto nel 2001. Infatti per non rischiare una
probabile denuncia per "oscenità"
aderì all'invito di Federico Salomone Krauss di inserire il suo lavoro
nella collana di ricerche folcloriche "Anthropophyteia", attiva dal
1904 e da cui Sigmund Freud aveva attinto a piene mani durante la
stesura di una delle sue opere più famose:
Sogni nel folklore.
La storia dei sentimenti amorosi e del modo di vivere la sessualità è ambigua, e come tale presenta alcune contraddizioni di fondo. A cominciare dalle stesse nozioni di "amore" e di "sessualità", che di fatto comprendono una vasta gamma di comportamenti e di manifestazioni, dove l'affetto cerebrale si mescola alla passione dei sensi, il pudore all'erotismo, la tenerezza alla violenza, la realtà alla fantasia. I due termini a volte si sovrappongono: "fare all'amore" può significare "amoreggiare", "essere fidanzati" o anche "avere rapporti sessuali"; o si elidono: l'amore implica anche il sesso, ma il sesso non sempre comprende un sentimento amoroso. D'altronde il termine sessualità comincia a essere usato soltanto nel 1859 e prima d'allora si parlava semplicemente di "amore" e di "passione amorosa". Inoltre, spesso ciò che chiamiamo sessualità non coincide con il "comportamento sessuale", che quasi sempre può essere condizionato da convenienze e norme, da regole e pudori, da considerazioni mediche e da pregiudizi culturali. Insomma da tutto un apparato con cui si scontra il concetto di sessualità. La famiglia, il collegio, il tribunale, l'ospedale psichiatrico hanno costituito luoghi di ascolto dei vissuti passionali, così come per lunghi secoli lo è stato il confessionale. Ma mentre la Chiesa ha organizzato e risolto la disomogeneità dei comportamenti sessuali nel registro del peccato e della penitenza, la cultura laica ha operato una loro ulteriore frammentazione. Una serie di esperti, creati ad hoc, ha disgiunto le rappresentazioni del sesso dall'energia sessuale. Le prime sono state sostituite con lessici specialistici normativi, mentre la seconda è stata indirizzata e finalizzata al "risparmio spermatico" [Sorcinelli 2006]. | << | < | > | >> |Pagina 1239. Gli scarti della storiaPuò sembrare paradossale. Ma nella storia le cose più semplici e abitudinarie, quelle di tutti e di tutti i giorni, sono le più sconosciute. Non è un caso che il corpo – a detta di Jacques Le Goff [2005] – sia «una delle grandi lacune della storia, una grave dimenticanza dello storico». Del corpo gli storici si sono occupati soltanto in alcune direzioni: per sottolineare i suoi aspetti negativi collegati alle prescrizioni della morale cattolica e per le ricadute di fattori materiali ed esogeni, quali la fame o le epidemie. Si è trattato dunque di discorsi incentrati soprattutto su rinunce, mortificazioni e piaghe, deformità, cancrene. Il concetto è stato messo in evidenza da Jean-Claude Schmitt [2001], che però, per capire le problematiche esistenziali che si sono agitate sul e attorno al corpo, non si è limitato alla repressione del corpo da parte della Chiesa dal V secolo in poi, ma ne ha messo in luce anche i percorsi antagonisti e alternativi. Basti pensare al dualismo concettuale e alla contrapposizione comportamentale Quaresima-Carnevale, la prima con le sue mortificazioni, il secondo con le sue trasgressioni. E non soltanto nel Medioevo in senso stretto, ma per tutto quel "lungo Medioevo" che Le Goff protrae per alcuni aspetti fino alle soglie della Rivoluzione francese e alla rivoluzione industriale. O, per altri versi, fin quando è rimasta in piedi l'identificazione del peccato con la donna. Anche la storia delle streghe e del Carnevale è stata una storia senza il corpo. Senz'altro è stata una storia culturale dell'immaginario e dei rapporti sociali, finanche una storia in cui sono rientrate alcune parti del corpo, ma non una storia del corpo. Sulla scia di un'accezione cristiana che attuava un distinguo fra parti nobili e parti triviali, sono mancati infatti gli studi sul corpo-immondo e sul corpo-fonte-di-piacere e suscitatore di desideri. In una parola su quelle parti del corpo più strettamente collegate alle funzioni organiche, al piacere, all'erotismo. Dunque considerate parti "triviali" e per secoli definite con una terminologia prudente e velata – pudenda – o con perifrasi moralistiche: parti vergognose. In linea con un sistematico e pervasivo sistema di controllo del corpo che trionfa nella riforma gregoriana del XII secolo, quando «il corpo sessuato è svilito e le pulsioni e il desiderio carnale vengono largamente repressi» all'interno di un ordine sessuale che auspica al primo posto un «mondo di celibi» e il corpo è considerato un involucro da celare alla vista e da nascondere con accuratezza. In questo clima, quella del corpo è stata una sorta di storia sotterranea, in cui i pruriti provocati dai parassiti nelle zone pilifere, le evacuazioni fisiologiche, le sollecitazioni erotiche non hanno prodotto molti discorsi né tanto meno memorie collettive. Insomma, pochi nella loro vita si sono premurati di scandire queste vicissitudini. Chi l'ha fatto ha lasciato scritti spesso contraddittori fra di loro. Dominati da riserbo e pudore, oppure animati da morbosi compiacimenti; all'interno di una severa riflessione moralistica, oppure con l'asettico distacco del pensatore filosofico e dell'indagatore scientifico.
Per quasi diciotto secoli le ragioni cristiane hanno lasciato attecchire un
rifiuto del corpo in nome e per conto dei valori dell'anima.
Molte donne e molti uomini si sono adattati, altri hanno fatto finta
di adattarsi, altri ancora hanno cercato di aggirare il ginepraio di
ammonizioni e di condanne morali, ma tutti – volenti o nolenti – sul
corpo hanno edificato una parte importantissima della loro vita.
All'inizio del V secolo Sant'Agostino afferma due principi etico-religiosi che da allora peseranno sulla condotta sessuale dell'Occidente: la concupiscenza ha trasmesso il peccato originale; questo è stato lasciato in retaggio all'umanità attraverso l'atto sessuale. L'assimilazione del peccato originale al peccato sessuale comporterà di conseguenza il rifiuto del piacere mediante una continua lotta alla concupiscenza. La condanna della «luxuria» da parte di Sant'Agostino accompagnerà l'«uomo nuovo» del cristianesimo e marcerà per lunghi secoli di pari passo con la colpevolizzazione dei piaceri della gola, dell'eccesso nel mangiare e nel bere, in una parola, della "crapula". Così il concetto che «la sensualità trova quasi sempre posto nei banchetti», predicato da Gregorio Magno, attraverserà il mondo cristiano insieme alla demonizzazione della donna che Gioachino Belli, in maniera molto cruda e realistica, renderà con la metafora di un'esistenza umana destinata perennemente a precipitare «ner pozzo de la gola e dde la fregna» e che Freud leggerà poi nell'intreccio psicoanalitico dell'«ingestione» e della «penetrazione». Sulla base di questo assioma, il senso comune e la letteratura moralistica hanno ristretto la donna all'interno di un'ottica che da un lato la interpreta come discendente di Eva peccatrice e dall'altro la esalta come figlia di Maria. L'uomo se ne sente attratto, ma ne ha anche paura, secondo lo schema mentale creato dal cristianesimo e rappresentato in innumerevoli versioni pittoriche, fra cui il dipinto di Eva che porge la mela ad Adamo, esplicitamente intitolato da Hendrick Glotzius L'errore dell'uomo (1616). Un antagonismo teorizzato da Freud in chiave psicoanalitica chiamando in causa da un lato il timore «di castrazione» e del «grande clitoride», che mettevano in discussione la superiorità fallica, e dall'altro il «desiderio femminile di possedere un pene». Nella tradizione cristiana, sulla scorta di San Paolo, San Gerolamo e Tertulliano e poi, nel 1490, del Malleus maleficarum, il più famoso manuale sulle streghe, dei domenicani Sprenger e Kràmer, la donna è la «madre del peccato» che trascina gli uomini nell'abisso della sensualità [Delumeau 1987], un «essere malefico di cui Satana si serve per dannare l'uomo» [Minois 1999]. Le donne saranno demonizzate dal mondo ecclesiastico per il loro potere sessuale e, accusate di stregoneria, saranno rasate nelle parti intime, cioè laddove si riteneva che si annidassero le armi e gli strumenti con cui compivano i loro malefici. Una valenza negativa che partendo dal cristianesimo dei primi secoli si riversa poi nel pensiero medievale (e oltre!) con l'accostamento misogino donna/vagina/diavolo. Per Boccaccio la vagina è una «voragine infernale» da cui «discendono fiumi sanguigni e crocei, di bianca muffa fardellati, talvolta non meno al naso che agli occhi spiacevoli». Nella concezione colta di Michelangelo Biondo, medico e astrologo del Cinquecento, è un «gorgo senza fondo, putrido e mortalissimo» e quindi da evitare. Padre Antonio Rocco, lettore di retorica per conto del Senato veneziano, in L'Alcibiade fanciullo a scola, un trattato libertino che comincia a circolare manoscritto verso il 1630, giudica il sesso femminile una «vasta capacità [che] induce agl'orrori del laberinto» e che causa «putredine, ulcere, taroli, piaghe e altri mali infiniti». Una miscellanea di versi poetici del 1765, Il cotal truciolato, forse opera di Giovan Battista Casti, parla di un'«infame e cazzicida polta». Anche il Marchese de Sade, nelle Centoventi giornate di Sodoma, parla della vagina come di una «parte infetta che fa ribrezzo» agli uomini. Nei sonetti del Belli (siamo nel primo Ottoento) il sesso femminile è un pantano, una chiavica, un fenile senza tetto, in cui gli uomini compiono la stessa operazione dei maiali quando «ficcano il grugno nelle sozzure per pascere la propria voracità». Il mangiare dei porci, ingrufare, diventa così il coito umano, in cui il fallo «si impantana nella palus putredinis della donna». In questo caso, Guido Almansi ha avanzato un accostamento di derivazione engelsiana. All'interno di un sotto-sotto-proletariato fatto «de merda e dde mmonnezza», il critico letterario ha colto l'occasione per avanzare un'ulteriore suddivisione di genere e di classe, in cui il maschio sta alla femmina come la borghesia al proletariato. Infatti in questo mondo di derelitti il maschio può consolarsi «della propria bassezza scoprendo qualcosa ancora più lercio, una specie di modello di mondezza», cioè la donna, definita una «schifenza bbastardaccia d'un mulo e dde 'na vacca», «er pissciatore d'un conte», «una carnaccia ch'è un zaccaccio de vermini». Ma il punto focale di questa «schifenza» è il suo sesso, che rappresenta «la quintessenza del lerciume, l'oggetto turpe e sozzo per eccellenza», così come turpe e sozzo è l'atto che ne deriva. Belli solo in poche circostanze usa il verbo fottere, che nella derivazione da Catullo rimanda al godimento sessuale, preferendo invece ricorrere all'animalesco ingrufare. L'atto del coito è reso in maniera dispregiativa con la metafora del maiale che si getta con voracità sulle sozzure, che rappresenterebbero gli organi sessuali femminili dopo il contatto con l'uomo. Nell' Accademia delle Dame una maritata descrive a una vergine gli «effetti del matrimonio»: se inizialmente la cosa, fessura, fiore, porta dell'orto, «tramanda un fiato puro e soave qual dalla vermiglia bocca», la pratica sessuale col marito la trasforma in una caverna, voragine, bocca dell'inferno «larga e aperta» che «produce de' fiori molto puzzolenti» e «offende colla puzza il naso». In pieno Ottocento Théophile Gautier, in una poesia del 1864, tratteggia un'immagine ributtante sia dell'atto sessuale sia dell'apparato genitale femminile paragonato a una latrina. Del resto il richiamo del Belli al maiale non nasce dal nulla. Un precedente autorevole lo si ritrova in Pier Damiani, monaco e poi cardinale, vissuto nell'XI secolo. Nell'opuscolo Sul celibato del clero raccomanda ai suoi interlocutori di proteggersi dalle donne belle e attraenti, alla stessa maniera con cui si proteggerebbe «un bambino dal fuoco». Infatti esse sono «l'esca del demonio», «il veleno per le anime degli uomini», «locande per le anime impure», «il piacere di sozzi maiali», definizione ripresa, come si è visto, ottocento anni più tardi dal poeta romano. Da Pier Damiani e dallo «sconcio flagello del contagio carnale» di Gregorio VII, prende dunque corpo una cultura popolare fatta di credenze, favole, proverbi che inquadreranno la donna come «un genio del male, volgare, maleodorante, senza valore alcuno, carne che procura all'uomo molte sofferenze, poiché nel suo organo sessuale brucia continuamente il veleno e all'interno la vagina è ardente» e, in qualche variante, ospita addirittura un cane pronto a mordere il sesso maschile [Corso 2001].
Ma il problema non è così semplice e lineare, perché partendo dalle
stesse premesse, altri approdano a conclusioni ben diverse. Alla fine
del XVI secolo, nel pieno delle misure repressive della Controriforma,
il teologo Giordano Bruno considera il rapporto amoroso fra uomo e
donna «un Circeo incantesimo al serviggio della generazione», un
puzzo,
uno
schifo,
un
sepolcro,
un
cesso,
«un mercato di quante sporcarie, tossichi e veneni abbia possuti produrre la
nostra madrigna natura», di cui però non potrebbe fare a meno. Un secolo dopo,
il trattato di Nicolas Vanette,
Tableau de l'amour,
usa nei confronti del clitoride, normalmente definito «capezzolo del diavolo» o
«stigma diabolicum», la definizione «bouton d'amour». Bernard de Mandeville nel
1724 non apostroferà il sesso femminile in termini dispregiativi. Se i libertini
provvedono a rivalutare le parti sessuali femminili, il
secolo dell'Illuminismo sarà definito anche il «secolo delle donne».
Dopo le "pastorali macabre", il corpo insomma non è più soltanto l'elemento
ostile al cammino dell'anima, ma comincia anche a essere
rivalutato in chiave estetica e dal punto di vista igienico-olfattivo.
Che l'uomo sia vissuto per secoli in profonda simbiosi di vita e di lavoro con asini, cavalli, maiali, buoi e vacche, conigli e galline è un elemento troppo scontato: un saggio di Ercole Sori [2001] trasuda di immagini di questo tipo e ci restituisce i cattivi odori delle case, delle strade e delle città del passato. Ci sono attori però che sono sempre sfuggiti all'analisi dello storico: mi riferisco a pulci, pidocchi, escrementi. Eppure il loro ruolo "sociale" come compagni della umana vita quotidiana rivestiva una grande importanza e spesso faceva la differenza fra l'essere sani e l'essere ammalati. Si pensi al ruolo della zanzara nella malaria, della pulce nella peste, del pidocchio nel tifo, degli escrementi nella diffusione delle malattie gastroenteriche. In ogni caso, questi "scarti della storia" hanno profondamente segnato le caratteristiche dell'esistenza degli uomini camminando di pari passo con le attenzioni igieniche e il rapporto con l'acqua nelle diverse epoche. Se è difficile ricostruire gli eventi del passato; se è ancora più difficile entrare nel mondo mentale dei nostri predecessori, potrebbe sembrare quasi impossibile ricostruirne i contorni olfattivi, capire fino a che punto gli ambienti e le modalità della loro esistenza provocavano repulsione, fastidio o indifferenza, in realtà le testimonianze sono tante e così disparate (pagine letterarie e raffigurazioni pittoriche) che l'impresa alla fine risulta meno ardua del previsto e in grado non soltanto di offrirci una gamma di cattivi odori, ma anche di indicarci una scorciatoia per entrare a contatto con quelli che erano i parametri su cui si basavano le visioni del mondo e in fondo anche il rapporto con la propria corporeità. Avere pidocchi e pulci è un evento che oggi fa rabbrividire di disgusto, ma, per secoli, fu un fatto naturale, perché — si diceva — tutti gli animali li avevano. Una canzone popolare lettone mostra che l'attrazione fisica di una giovane nei confronti dell'innamorato non è condizionata più di tanto dal parassita, quanto da altri fattori: «Per amore morivo di voglia / di baciare il mio Gianni / ma ogni volta che offrivo le labbra / trovavo i pidocchi di Gianni. / Pazienza i dannati pidocchi / ma il moccolo non mi andava giù» [Shorter 1984]. | << | < | > | >> |Pagina 149La storia è la disciplina del contesto; la memoria è "il presente del passato". Sulla base di questa differenziazione contenutistica e concettuale si è alimentata da parte della storiografia tradizionale una diffidenza verso le esperienze di "storia orale" della seconda metà del secolo scorso. Certo, in molti casi si è trattato di improvvisazioni ingenue o di strumentali scelte in contrapposizione alla storiografia "dei vincitori" e delle classi dominanti, ma non vanno neppure sottovalutati l'impegno e le finalità che certa "storia orale" si prefiggevano: il recupero di testimonianze su capitoli di storia contemporanea i cui documenti ufficiali giacevano in archivi non consultabili. Per la legge dei "70 anni", pagine come quelle della Resistenza e dell'antifascismo, della shoà e degli eccidi nazifascisti difficilmente potevano essere studiate sui documenti d'archivio e in questi casi la "storia orale" ha svolto un ruolo importante e imprescindibile. Tuttavia, la nascita dei nuovi strumenti di comunicazione di massa, come la televisione, il computer, o Internet non ha modificato solo il modo di fare storia, ma ha ridefinito la stessa memoria collettiva, generando attraverso l'utilizzo di immagini, filmati, registrazioni sonore una memoria visiva e virtuale che si è giustapposta a quella scritta e orale. Ecco che allora, ricalcando le orme di ciò che è stato fatto dal Settecento in poi in tutte le nazioni europee con la costituzione di musei, archivi, biblioteche nazionali, si può veramente pensare alla possibilità di far convivere a fianco degli archivi cartacei ufficiali, istituzionali e privati, "banche" e "archivi" virtuali: files di voci e di immagini per tramandare e quindi far confluire anche la memoria del passato nei documenti della storia. La storia del "secolo breve" è tuttora in parte recuperabile attraverso la memoria, e oggi che di memoria si parla assai più che di storia, il recupero e la considerazione della prima appare come un transito obbligato verso la conoscenza della seconda. In fondo un archivio delle memorie non sarebbe nient'altro di più e nient'altro di meno di un qualsiasi archivio di "documenti/monumenti", e quindi parimenti legittimato a essere usato e consumato – beninteso con le stesse cautele e metodologie – dalla storiografia di oggi e di domani.La rivoluzione metodologico-documentaria e la rivoluzione tecnologico-mediatica che hanno investito la società e (anche) il lavoro storico negli ultimi decenni, hanno mutato il rapporto stesso che correva tra storia e memoria, ma hanno anche modificato l'immagine stessa del passato che, pur in presenza di una dotazione ed elaborazione continua di elementi informativi, appare sempre più labile e meno attraente. Soprattutto di fronte alla considerazione dei giovani che hanno ormai perso il senso della memoria (quella che conservava e tramandava in primis la famiglia) e l'interesse verso la storia. Anche se questo non è una novità; già Friedrich Nietzsche sosteneva che la storia era «un'occupazione da vecchi», un «culto dei morti», e che era proprio dei vecchi «guardare indietro», «cercare conforto nel passato». Ma a parte la provocazione del filosofo, il passato c'era, incombeva e i giovani ne erano consapevoli. Invece perché i giovani oggi dovrebbero interessarsi alla storia? Perché lo studio del passato dovrebbe attirarli? Secondo Augusto Placanica la storia è «il solo mezzo per farsi un'idea di uomini e di cose» del passato e questo permetterebbe di comprendere i problemi del presente. Far capire come e perché la società di oggi è diventata quella che è, e dunque come siamo fatti noi, uomini dei nostri giorni, è l'obiettivo dell'insegnamento e dell'apprendimento della storia. Altrimenti nulla giustificherebbe il «conoscere e studiare cose vecchie e sepolte». Ma siamo sicuri che ai giovani basti questa motivazione per appassionarsi alla storia? In fondo l'affermazione di Nietzsche, almeno fino al 1968 ha coinciso con la concezione di una storia intesa come strumento del potere «per educare le nuove generazioni all'obbedienza, al rispetto delle gerarchie sociali». Venute meno le «identità collettive», le nuove generazioni (e forse non solo loro) si sono assuefatte «ad un oggi senza passato». E proprio su questo «oggi senza passato» [Prodi 1999] si sofferma Piero Bevilacqua, secondo il quale la «crescente insensibilità» giovanile nei confronti della storia è indice di un loro «mutamento psicologico e culturale» che si basa su un «nuovo modo di sentire il passato». Un modo che trova terreno fertile nei cambiamenti che ha subito la famiglia negli ultimi sessant'anni, fino a essere qualcosa di profondamente diverso dalla «cellula da cui si generava la necessità della ricostruzione storica»: attraverso la trasmissione dei nomi e íl «dialogo fra generazioni» (da nonni, genitori e figli all'interno della casa); attraverso «l'elaborazione del ricordo» e con «l'attivazione della memoria» (ricorrenze, ricordi, volti, dialetti, soprannomi, feste). La famiglia come un insieme di identità sociali in cui «il passato non veniva quotidianamente buttato via [ma] occupava un posto rilevante, costituiva una parte integrante, emotivamente viva, dell'esperienza di vita di ognuno».
Tutto ciò ha subito una trasformazione attraverso i nuovi ritmi di
vita, di lavoro, di svago e di studio che impediscono la rielaborazione
dei ricordi e delle esperienze. Alla "rielaborazione" familiare è subentrato
l'«eccesso di informazione», in cui i fatti sono «senza storia», isolati nel
tempo e nello spazio: «senza vincoli, senza passato e
senza futuro». Ma Bevilacqua non chiama in causa solo la famiglia: è
l'intero corpo sociale e culturale che, con i suoi cambiamenti, minaccia la
memoria e la storia. Con «l'affievolirsi dell'attitudine religiosa»,
con il «declino delle grandi ideologie del XX secolo», con l'indebolimento dello
Stato-nazione, «formidabile contenitore di memorie collettive», infatti è venuto
meno anche il bisogno del racconto storico e
«il passato ha perso la sacralità» o ha cessato «di essere una premessa
indispensabile per l'avvenire». In questa maniera «agli occhi di un
numero crescente di ragazzi, la storia finisce con l'apparire un grottesco e
insensato culto dei morti». La storia in fondo, ricorda ancora
Bevilacqua, «non è che il racconto di imprese collettive. Se si indebolisce il
senso dello stare insieme, se l'individualismo rimane l'unica
bussola [...], la memoria del comune passato viene abbandonata.
Non ha più senso» [Bevilacqua 1997].
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