Autore Corrado Stajano
Titolo Destini
SottotitoloTestimonianze di un mondo perduto
EdizioneArchinto, Milano, 2014, Il colore della vita , pag. 186, cop.fle., dim. 10,8x17,8x1,2 cm , Isbn 978-88-7768-669-5
LettoreCristina Lupo, 2014
Classe biografie , media , paesi: Italia: 1960












 

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Indice


   Prefazione                                     5

   Destini                                       13

 1 Caro Paolo                                    15

 2 Il giaccone di Peppino                        25

 3 È annegato coi suoi sogni di rivolta          37

 4 Il viaggiatore incantato                      45

 5 Il senatore di Trieste                        51

 6 L'ultima sera dei conti di Collegno           58

 7 Testimone di dignità perduta                  64

 8 Olmi, cammina cammina                         73

 9 Il guerrigliero della memoria                 78

10 Il frate rosso                                83

11 I1 ragazzo di bottega che umiliò Thomas Mann  89

12 L'umile cronista delle tute blu               93

13 L'editore di un'altra Italia                  99

14 L'amico della lava nera                      105

15 Il ribelle di Colle Val d'Elsa               114

16 Il notaio che inventò le toffolette          123

17 Un banchiere unico al mondo                  134

18 Una tovaglia di lino bianco                  158

Indice dei nomi                                 171


 

 

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1
Caro Paolo



Nel suo studio lucente non incuteva soggezione al giovane giornalista che lo incontrava per la prima volta quell'alto dirigente dell'Olivetti di Ivrea. Sembrava un compagno di scuola, uno di quelli che arrivavano dalla campagna dopo gli altri perché il treno era sempre in ritardo. Sorrideva, là dentro, tra i vetri e gli specchi, Paolo Volponi , con la sua testa contadina simile a un cubo, i capelli tagliati corti, gli occhi tondi, un buco nel mento, sorridente, del tutto diverso nel vestire, anche allora, più di quarant'anni fa, dai manager acchittati, figuriamoci dai finanzieri e dagli uomini di potere di oggi.

Lo studio dell'avvocato Volponi, direttore dei servizi sociali e culturali della Olivetti, era al primo piano del palazzo della direzione. Ci si arrivava da una scala di marmo, una gigantesca chiocciola che conduceva a una cupola rivestita da un mosaico di cristalli sfaccettati. Si vedeva guardando in su, sembrava un padiglione delle meraviglie o anche la specola di un astronomo.

Parlava con semplicità, Volponi, con infinita naturalezza. Dovevo fargli un'intervista sul suo romanzo La macchina mondiale, appena uscito, la storia di un filosofo contadino dei dintorni di Urbino, un autodidatta, uno spostato, autore di un trattato sulla genesi e la palingenesi del mondo, con l'ambizione di redimere gli uomini, di spronarli a ribellarsi alle istituzioni invecchiate a causa delle incessanti scoperte della scienza, vuote comici di un mondo inesistente.

Anteo Crocioni, il protagonista del romanzo, è al bando della società, perseguitato dalle loro eccellenze, dai preti, dai governanti, dai padroni, dai giudici. Il suo desiderio di rinnovare la gran macchina dell'universo lo fa sembrare un povero matto più che un uomo che chiede giustizia.

Fino a che punto Anteo Crocioni è il ritratto dello scrittore? Come domandarglielo nella timidezza di allora? Quel ribelle rappresenta la salvazione del mondo? Che ruolo poteva giocare la fabbrica dalla faccia bella creata da Adriano Olivetti, grande maestro di Volponi, industriale e uomo anomalo di vivida intelligenza, uno che vedeva l'industria al di là dell'indice dei profitti?

Volponi faceva dei disegnetti nervosi su un foglio e dal suo sguardo si capiva che voleva parlare subito, impaziente.

Sì, era convinto che i ribelli fossero il lievito della terra, gli unici a possedere la forza e il coraggio di protestare, al contrario dei più che non osano neppure criticare ciò che di orribile si trovano davanti agli occhi e subiscono tutto, impauriti, impiccati alla carriera, al guadagno, al successo. É la nevrosi la coscienza critica del mondo, la salvatrice. I ribelli dei suoi romanzi erano uomini liberi proprio perché nevrotici, mi disse di furia, come liberato da un peso.

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2
Il giaccone di Peppino



Nel ricordare Peppino mi viene subito in mente quel suo giaccone foderato d'agnello un po' sformato perché cacciava là dentro tutto quanto gli capitava in mano. Doveva piacergli moltissimo perché glielo vidi sempre addosso, da quando lo conobbi, negli ultimi anni Sessanta, a quando morì, nel 2003. D'inverno, naturalmente, ma se fosse stato possibile l'avrebbe indossato anche nelle altre stagioni. Con quel pesantissimo montone doveva sentirsi quel che veramente era, una specie di pastore sardo, solo un po' modernizzato.

Avevo letto subito, quando uscì, nel 1966, la sua Vita di Antonio Gramsci , pubblicata nell'Universale Laterza, ed ero rimasto strabiliato perché il libro rovesciava tutto quanto era noto del politico e pensatore sardo. Che cosa ci avevano raccontato mai? La verità era assai differente, l'opposto rispetto a quella ufficiale. Apparivano addirittura sconvolgenti i rapporti traumatici di Gramsci e i suoi contrasti con Togliatti, con il Pc dell'epoca e il suo radicale dissenso dal comunismo come si era realizzato nell'Unione Sovietica. Mi aveva colpito anche la limpida scrittura del libro. Allora la letteratura mi interessava più della politica, quel Giuseppe Fiori era uno scrittore nato, il suo non era soltanto un libro di storia. Non sapevo quasi niente di lui, forse avevo letto qualche suo articolo sul «Mondo» di Mario Pannunzio dove scrivevo anch'io. La quarta di copertina informava che Giuseppe Fiori, in passato redattore del quotidiano «L'Unione Sarda», giornalista e critico cinematografico, lavorava ora alla Rai di Cagliari. Aveva scritto anche un romanzo, Baroni in laguna, sulle lotte dei pescatori di Cabras per abbattere le servitù feudali che sopravvivevano in quel tratto di mare della Sardegna.

Poi, nel 1967, in occasione di un reportage, inviato a Cagliari dal settimanale dove allora lavoravo, «Panorama», conobbi Peppino. Era quello il suo vero nome, Giuseppe era il nome d'arte. Gliel'aveva imposto Giulio De Benedetti, il supercilioso direttore della «Stampa» dove collaborava con qualche articolo.

Erano gli anni del banditismo violento, un nuovo banditismo, fuori dagli schemi della tradizione barbaricina. Gli industriali milanesi, senza badare ai prezzi, avevano acquistato vaste estensioni di terreni soprattutto lungo le coste, imitati dai finanzieri svizzeri e belgi, dall'Aga Khan Karim, dal re inglese della birra. I villaggi della ricchezza nati dalla speculazione erano venuti su come funghi. Le feste della Costa Smeralda, i night di Porto Cervo, gli alberghi extra lusso di Cala di Volpe e di Liscia di Vacca avevano fatto da modello a un altro modo di vivere, un Eldorado. Non pochi pastori diventarono milionari. Si raccontava di certe stravaganti compravendite, i biglietti da mille contati davanti al notaio con l'aiuto delle castagne o dei grani del rosario che facevano da pallottoliere. Il denaro assumeva più di un tempo un immenso valore, un miraggio a portata di mano. Era nata allora una nuova criminalità, il più delle volte giovane, più spregiudicata, brutale, gangsteristica. Il vecchio banditismo aveva, se non altro, i suoi codici di vendetta decifrati dai libri di Antonio Pigliaru, e non sgarrava da quelli.

Gli assassinii, i sequestri di persona, le estorsioni si erano moltiplicati. A ogni angolo di paese si incontravano carabinieri e poliziotti coi mitra spianati, inviati a migliaia dal Continente. Ma non era sufficiente la repressione, mancavano i magistrati, mancavano i maestri, mancava un'opinione pubblica cosciente di quel che stava accadendo.

La preoccupazione era somma. I rastrellamenti indiscriminati non miglioravano di certo i rapporti con le fragili comunità. La connivenza di parenti, amici e compaesani, coinvolti in una fitta rete di traffici loschi grandi e piccoli, faceva da muro protettivo ai banditi.

Il più famoso era allora Graziano Mesina, pastore di Orgosolo, poco più che ventenne e già condannato a più riprese a quarant'anni di carcere per i suoi delitti. Rocambolescamente era evaso dalle prigioni di Sassari suscitando un'ammirata solidarietà. Le grotte della Barbagia facevano da rifugio ai latitanti, le taglie di milioni di lire poste sul loro capo servivano a poco, spesso soltanto ad alimentare altre catene di vendetta e di sangue.

Con un suo libro di anni prima, Sonetàula, Peppino Fiori aveva raccontato le ragioni della crisi della società pastorale e le sue temibili conseguenze. Nei suoi servizi e documentari televisivi denunziava le false credenze, i pregiudizi dell'arcaicità, la cattiva cultura che enfatizzava le gesta dei banditi. Andavano ancora a ruba le vite dei briganti dell'Ottocento stampate in dispense settimanali. Il suo giornalismo aveva la funzione del sentire civile e democratico, la sua voce calda e sonora, le rigorose immagini dei suoi documentari erano un'università popolare.

Peppino Fiori, uomo di grande generosità, mi aiutò molto, guida e maestro. Mi fece capire anzitutto com'era sbagliata la mitizzazione del bandito visto come un eroe romantico contro cui si batteva senza stanchezze. Mi raccontò le verità profonde, non facili da comprendere, della sua isola amata. Con Nandina, la sua colta e gentile moglie – i figli, Simonetta, la giornalista intelligente di «Repubblica», era una bambina bionda, Enrico, il chirurgo stimato del Policlinico Umberto I di Roma, un ragazzetto – mi condusse a vedere le bellezze allora intoccate della Sardegna, come lo stagno di Santa Gilla, non lontano da Cagliari, dove d'estate arrivavano i fenicotteri, bianchi, rosa e rossi, un nastro policromo sull'azzurro salutato dalle grida dei bambini festanti, «Su mangoni, su mangoni.»

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4
Il viaggiatore incantato



C'era anche Tiziano Terzani ai funerali di Pino Pinelli , nel dicembre 1969, a Milano. Camminava a passi lenti dietro le bandiere nere degli anarchici, portava sulle spalle Folco Mao nato da pochi mesi. La faccetta vispa e infreddolita del bambino spuntava sopra le teste del corteo, cupo, dolente e rabbioso. Franco Fortini, Giovanni Raboni, Vittorio Sereni marciavano accanto ai ragazzi incappucciati nell'eskimo e ai vecchi compagni di Pinelli con il cravattone nero della tradizione.

Terzani era arrivato da poco a Milano, lavorava al «Giorno», un grande quotidiano, allora, diretto da Italo Pietra dove era approdato dopo le segnalazioni di Paolo Volponi e di Vittorio Emiliani. Praticante giornalista, «faceva la notte» nella redazione esteri, imparava il mestiere, «passava» le notizie, qualche volta scriveva una «biro», 15 centimetri di piombo.

L'uomo vestito di bianco amato da moltitudini nei primi dieci anni di questo secolo cominciava così, da Milano, il lungo viaggio nelle spire del mondo, Singapore, il Vietnam, la Cina, il Giappone, l'India, l'Himalaya.


Tiziano Terzani nasce a Firenze il 14 settembre 1938 nel quartiere popolare di Monticelli, fuori dalle mura, lungo la vecchia via Pisana, suo padre è un operaio, comunista, la madre fa la cappellaia a Porta al Prato. Soldi in casa ce n'è pochi, capita talvolta che per arrivare alla fine del mese si debbano impegnare al Monte di pietà le lenzuola del corredo.

La scuola gli piace, fin da ragazzo. «Fatelo studiare» è il ritornello che padre e madre si sentono ripetere dai maestri e poi dai professori. Tiziano cresce ribelle, è uno di quei fiorentini vigorosi dipinti dal Masaccio, distante dai delicati modelli botticelliani. I genitori fanno dei sacrifici per quel figlio che è sempre il primo della classe. Studia al Liceo classico Galileo, agli esami di maturità la sua media è d'eccezione. La Banca Toscana gli offre un posto. I genitori sono estasíatí, il sogno della vita. Per Tiziano, invece, è la morte civile. Impiegato di banca? Ha altri desideri.

La Scuola Normale Superiore di Pisa mette in concorso, quell'anno, otto posti. I candidati sono duecento. Durante l'estate Tiziano studia come un dannato, la Normale rappresenta l'ultima speranza. Supera l'esame, si iscrive a Giurisprudenza. Da sempre ama i poveri, detesta l'ingiustizia e chi disprezza gli ultimi della terra. Farà l'avvocato, difenderà i senzadiritti.

La buona sorte lo accompagna. Trova subito lavoro alla Olivetti, un esempio di azienda irripetibile, lontano dai criteri padronali di allora e anche di oggi. Un'utopia, quella di Adriano Olivetti.

Per più di un anno Tiziano si occupa nel settore commerciale della selezione dei laureati da assumere. Poi gira il mondo – Sudafrica, Danimarca, Portogallo, Olanda – sempre per conto dell'Olivetti. Dal dicembre 1966, comincia a scrivere sull'«Astrolabio», il settimanale democratico di sinistra di Ferruccio Parri.

Poi gli Stati Uniti, la scoperta di un mondo. Terzani, che ha vinto la fellowship per due anni di studio, segue alla Columbia University i corsi di Storia cinese moderna, di Lingua cinese e di Affari internazionali. È un periodo esaltante della vita, «la fantasia al potere» del maggio francese ha contagiato anche i giovani americani. L'inquietudine è profonda, tra la rivolta dei neri, la protesta per la guerra del Vietnam, gli assassinii, nel '68, di Robert Kennedy e di Martin Luther King. Sua moglie, Angela Staude, figlia del pittore Hans-Joachim – di una famiglia tedesca colta e cosmopolita trasferitasi a Firenze nel 1925 – è l'anello forte. Senza di lei, con la sua protettiva pazienza, Tiziano sarebbe potuto finir vittima del suo egocentrismo e far della sua vita una trottola all'avventura.

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13
L'editore di un'altra Italia



Furono fertili quei primi anni del Novecento, tragico di guerre, rivoluzioni, i Gulag, la Shoah, la bomba atomica. Giulio Einaudi nasce a Torino proprio un secolo fa, il 2 gennaio 1912, in via Giusti, una stradina dalle parti della stazione di Porta Susa. Suo padre Luigi, il futuro presidente della Repubblica, è professore di Scienza delle finanze all'Università e scrive sul «Corriere della Sera» di Luigi Albertini.

Nascono allora, a distanza di pochi anni l'uno dall'altro, Bobbio, Leone Ginzburg, Pavese, Mila, Vittorini, Dionisotti, Vittorio Foa che incroceranno i loro destini con quello di Giulio. Al liceo d'Azeglio ha come insegnante Augusto Monti, non è uno studente modello. Ma, ancora ragazzo, è attratto dai libri, gli piace toccare la carta, osservare le rilegature, le copertine. Nei primi anni Trenta, Luigi Einaudi va a parlare di quel suo figlio che dice di voler fare l'editore, con Raffaele Mattioli, allora direttore centrale della Banca Commerciale italiana, e gli chiede consiglio e aiuto.

Mattioli, attento e generoso con chi vuole fare, è allora l'eminenza grigia della rivista «La Cultura», fondata da Cesare De Lollis, e nel 1934 la cede a Giulio Einaudi. Il direttore è Sergio Solmi e, dopo il primo numero, Cesare Pavese. Dapprima un po' riluttante, Mattioli regala a Einaudi anche il marchio tratto dal Dialogo delle imprese militari et amorose di monsignor Paolo Giovio, lo Struzzo e il suo motto: «Spiritus durissima coquit». È l'alba della casa editrice, simbolo della nuova cultura del Novecento.

Il banchiere, con grande passione e ostinazione, si interesserà fino alla morte di Giulio Einaudi, editore di ciò che più gli sta a cuore. (Se fosse stato vivo nel 1994 sarebbe certamente riuscito a salvarlo ancora una volta, inorridito dal mondo inconciliabile del miliardario di Arcore.)

Giulio Einaudi è stato uno dei più grandi editori, non soltanto italiani, del secolo passato. Ha pubblicato De Sanctis, Gobetti, Gramsci. Il catalogo, era solito dire anche negli anni dolenti della casa editrice, nessuno potrà mai cancellarlo. È l'architrave di un'Italia civile, che ha fede in se stessa e deve essere rispettata nel mondo. Basta sfogliarlo: lo popolano storici, critici, romanzieri di grande livello, oltre ai fondatori: Gianfranco Contini, Federico Chabod, Franco Venturi, Cesare Segre, Eugenio Montale, Vittorio Sereni, Elsa Morante, Natalia Ginzburg, Lalla Romano, Carlo Emilio Gadda, Leonardo Sciascia, Franco Fortini, Paolo Volponi, Italo Calvino, Vincenzo Consolo, Carlo Ginzburg, Ruggiero Romano, Corrado Vivanti, Nuto Revelli, Franco e Franca Basaglia, Carlo Levi, Primo Levi. E poi gli stranieri che Einaudi ha fatto conoscere agli italiani, Adorno, Sraffa, Benjamin, Borges, Brecht, Popper, Polanyi, tanti altri.

Sarebbe stato lieto, Giulio Einaudi (è morto nel 1999), dell'onore delle armi che gli ha reso un altro grande editore, Roberto Calasso, da sempre antagonista, con la sua Adelphi, della linea politica e culturale della Einaudi. Al convegno sull'editoria tenuto il primo dicembre del 2011 al Palais du Luxembourg, ha accomunato Giulio, unico italiano, a editori di tutti i paesi di riconosciuto lignaggio, differenti tra loro, ma ancorati tutti all'idea di una cultura nutrice, con i suoi saperi, della vita dell'uomo, che non ha nulla a che fare con le idee della maggior parte degli editori nostrani, omologati, privi di una propria identità, preoccupati solo della contabilità. (I «monitoranti» del libro-marketing non pubblicherebbero mai oggi un Italo Calvino che dei suoi primi libri vendeva 1500 copie.)

Con i difetti di cui menava vanto, il gusto di creare divisioni anche tra i più vicini collaboratori, le predilezioni fulminee e capricciose, un pizzico di crudeltà, il compiacimento che l'Einaudi fosse considerata un club esclusivo, Giulio aveva grandi qualità. La passione mascherata con l'indifferenza, la curiosità per tutto quel che succedeva nel mondo, la bravura di circondarsi degli uomini e delle donne adatti per le mutevoli stagioni.

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