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| << | < | > | >> |IndiceRingraziamenti 7 Introduzione 9 1. Origini durature 15 2. Pioggia di fuoco 43 3. Magnificus 65 4. Maître à penser 91 5. Sul suolo natio 119 6. Intelletto che non invecchia 141 Postfazione 167 Indice dei nomi 173 |
| << | < | > | >> |Pagina 9Dopo aver insegnato per mezzo secolo, in numerosi paesi e in differenti sistemi di educazione superiore, ho sentito crescere in me l'incertezza riguardo alla legittimità, alle verità sottostanti, di questa «professione». Metto questa parola tra virgolette per segnalarne le radici complesse, che affondano in antecedenti religiosi e ideologici. Il mestiere del «professore», un termine in qualche misura di per sé opaco, abbraccia ogni sfumatura possibile tra gli estremi di una vita di routine, disincantata, e un esaltato senso di vocazione. È un termine che comprende diverse tipologie, da quella del pedagogo distruttore di anime a quella del maestro carismatico. Immersi come siamo in forme quasi infinite di insegnamento - elementare, tecnico, scientifico, umanistico, morale e filosofico - raramente assumiamo la distanza necessaria a considerare il prodigio della trasmissione, le risorse della falsità, insomma quel che chiamerei, in attesa di una definizione più precisa e materiale, il mistero della cosa. Che cosa autorizza un uomo o una donna a istruire un altro essere umano? Dove risiede la fonte dell'autorità dell'insegnamento? Reciprocamente, quali principali ordini di risposta appartengono ai discenti? La questione tormentava sant'Agostino ed è diventata scottante nel clima libertario dei nostri giorni. Semplificando, si possono identificare tre principali scenari o strutture di relazione. I maestri hanno distrutto i loro discepoli sia psicologicamente sia, in qualche caso, fisicamente. Ne hanno spento gli spiriti, consumato le speranze, sfruttando la loro dipendenza e la loro individualità. Il dominio dell'anima ha i suoi vampiri. Come contrappunto, discepoli, allievi, apprendisti hanno rovesciato, tradito e rovinato i propri maestri. Di nuovo, questo dramma ha attributi sia mentali sia fisici. Appena eletto Rettore, un trionfante Wagner allontanerà con sdegno un Faust morente, già suo magister. La terza categoria è quella dello scambio, di un eros di reciproca fiducia e invero d'amore («il discepolo amante» nell'Ultima Cena). Attraverso un processo di interazione, di osmosi, il maestro apprende dal discepolo mentre gli insegna. L'intensità del dialogo genera amicizia nel più alto senso della parola. Prevede sia la chiaroveggenza, sia l'irragionevolezza dell'amore. Si pensi a Socrate e Alcibiade, Abelardo ed Eloisa, Heidegger e Arendt. Ci sono discepoli che si sono sentiti incapaci di sopravvivere ai loro maestri. Ciascuna di queste modalità di relazione, e le illimitate possibilità di incroci e sfumature tra di esse, hanno ispirato testimonianze religiose, filosofiche, letterarie, sociologiche e scientifiche. Questo materiale resiste a ogni rassegna comprensiva, essendo veramente planetario. I capitoli che seguono cercano di fornire un'introduzione estremamente sommaria; sono selettivi quasi fino all'assurdo. In gioco ci sono questioni che sono sia radicate in circostanze storiche sia perenni. Gli assi del tempo si incrociano più volte. Che cosa significa trasmettere (tradendere), e da chi a chi è legittima questa trasmissione? I rapporti tra traditio, «quel che è stato tramandato», e ciò che i greci chiamavano paradidomena, «quel che ci è stato tramandato ora», non sono mai trasparenti. Potrebbe non essere un caso che le semantiche di «tradimento» e «traduzione» non siano così distanti da quelle di «tradizione». A loro volta, queste vibrazioni di senso e di intenzione sono fortemente operative nel concetto - che costituisce di per sé una sfida costante - di «traduzione» (translatio). L'insegnamento è forse, in qualche senso fondamentale, una modalità di traduzione, un esercizio tra le righe, come sembra suggerire Walter Benjamin quando assegna all'interlineare virtù eminenti di fedeltà e trasmissione? Vedremo che sono disponibili molte risposte diverse. Si è ritenuto che l'insegnamento autentico fosse una .cor imitatio di un atto d'apertura trascendente, o più precisamente divino, di quell'interno dispiegarsi e ripiegarsi di verità che Heidegger attribuisce all'Essere (aletheia). Il sillabario o il testo di studio avanzato secolari sono mimesi di un modello sacro, canonico e originale che, secondo letture filosofiche e mitologiche, era comunicato in quanto tale oralmente. L'insegnante non è niente di più, ma anche niente di meno, di un uditore e di un messaggero, la cui ricettività ispirata, e poi coltivata, lo ha reso capace di apprendere un Logos rivelato, la «Parola che era all'inizio». È questo, essenzialmente, il modello che conferisce validità all'insegnante della Torà, all'interprete del Corano, al commentatore del Nuovo Testamento. Per analogia - e quante perplessità affiorano negli usi di questo analogo! - tale paradigma si estende all'impartimento, alla trasmissione e alla codificazione della conoscenza secolare, della sapientia o della Wissenschaft. Nei maestri della Sacra Scrittura e nella sua esegesi troviamo ideali e pratiche che si moduleranno nella sfera secolare. Così che sant'Agostino, Akiba e Tommaso d'Aquino sono parte di ogni storia della pedagogia. Diversamente, si è sostenuto che l'unica licenza onesta e verificabile per l'insegnamento, per l'autorità didattica, si ottenga grazie all'esempio. L'insegnante dimostra allo studente la propria comprensione del materiale, la sua capacità di eseguire l'esperimento chimico (il laboratorio ospita dei «dimostratori»), o di risolvere l'equazione sulla lavagna, o di abbozzare dal vivo il modello in gesso o il nudo nell'atelier. L'insegnamento esemplare è una messa in atto, e può essere muto. Forse deve esserlo. La mano guida quella dell'allievo sui tasti del pianoforte. L'insegnamento valido è ostensibile. Si mostra. L'«ostensione», che tanto interessava Wittgenstein, è inscritta nell'etimologia: il dicere latino, che significa «mostrare», e solo più tardi «mostrare dicendo»; l'inglese medio token e techen con le sue connotazioni implicite di «ciò che mostra». (L'insegnante, in fin dei conti, non sarà forse uno showman?) In tedesco deuten, nel senso di «indicare», è inseparabile da bedeuten, «significare». La contiguità costringe Wittgenstein a negare la possibilità di ogni istruzione testuale onesta in filosofia. Rispetto alla moralità, solo la vita effettiva del maestro ha forza dimostrativa; Socrate e i santi insegnano mediante la loro esistenza. Entrambi questi scenari potrebbero essere idealizzazioni. Per quanto possa apparire semplicistica, la prospettiva di Foucault ha una sua pertinenza. L'insegnamento potrebbe essere considerato un esercizio, aperto o nascosto, di relazioni di potere. Il maestro possiede un potere psicologico, sociale, fisico. Può premiare e punire, escludere e promuovere. La sua autorità è istituzionale o carismatica, oppure entrambe le cose. È sostenuta da promesse e minacce. La conoscenza, la prassi, definite e trasmesse da un sistema pedagogico, da strumenti di scolarizzazione, sono in quanto tali forme di potere. In questo senso, anche i modi di istruzione più radicali sono conservatori e impregnati dei valori ideologici della stabilità (tenure, in francese, significa «stabilizzazione»). Le odierne «controculture» e le polemiche New Age, con le loro ascendenze nel dissidio con i libri, proprio del primitivismo religioso e dell'anarchia pastorale, bollano la conoscenza formale e la ricerca scientifica come strategie di sfruttamento, di dominio di classe. Chi insegna che cosa a chi, e con quali scopi politici? Come vedremo, questo schema di dominio, di insegnamento come potere bruto, portato al livello dell'isteria erotica, viene satireggiato in La lezione di Eugène Ionesco. Non vengono quasi mai esaminati i casi in cui ci si rifiuta di insegnare, in cui si nega la trasmissione. Il maestro non trova discepoli, non trova chi sia degno di ricevere il suo messaggio, la sua eredità. Mosè distrugge le prime Tavole, proprio quelle scritte dalla mano stessa di Dio. Nietzsche è ossessionato dalla mancanza di discepoli adatti, proprio quando il bisogno di trovare chi l'ascolti diventa straziante. Questo tema è la tragedia di Zarathustra. O può essere che la doxa, la dottrina e il materiale da insegnare, siano giudicati troppo pericolosi per essere trasmessi. Sono sepolti in qualche luogo segreto, che non deve essere riscoperto per lungo tempo o, più drasticamente, devono morire con il maestro. Esempi di questo genere si trovano nella storia dei miti cabalistici e alchemici. Più spesso, solo una manciata di eletti, di iniziati, riceverà il vero intendimento del maestro. Al pubblico comune sarà data in pasto una versione diluita, volgarizzata. Questa distinzione tra versioni esoteriche ed essoteriche anima le letture di Platone proposte da Leo Strauss. È possibile trovare dei paralleli nella biogenetica o nella fisica delle particelle di oggi? Esistono ipotesi considerate troppo minacciose (socialmente, umanamente) per essere testate, o scoperte che non devono essere pubblicate? I segreti militari potrebbero essere la maschera farsesca di un dilemma più complesso e clandestino. Può anche verificarsi una perdita, una sparizione accidentale, o dovuta a un'autoillusione - Fermat aveva davvero risolto il suo teorema? - o a un'azione storica. Quanta saggezza e scienza orali - botaniche o terapeutiche, per esempio - sono andate irrimediabilmente perdute, quanti manoscritti e quanti libri sono stati bruciati, da Alessandria a Sarajevo? Delle scritture albigesi sopravvivono solo brandelli sospetti. È una possibilità tormentosa che certe «verità», che certe metafore e intuizioni feconde, specialmente nelle scienze umane, siano andate perdute, siano state distrutte irrevocabilmente (Aristotele sulla commedia). Oggi non siamo in grado di riprodurre, se non fotograficamente, certe tinte di Van Eyck. A quanto si dice, non siamo in grado di eseguire un certo tricordo che Paganini si rifiutò di insegnare. E in che modo furono trasportate quelle pietre ciclopiche a Stonehenge, e come furono erette le sculture dell'Isola di Pasqua? Ovviamente, le arti e gli atti dell'insegnamento sono, nel senso proprio di questo termine abusato, dialettici. Il maestro impara dal discepolo ed è modificato da questa interrelazione in quanto essa diventa, idealmente, un processo di scambio. Il dono diventa reciproco, come nei labirinti dell'amore. «Io sono più completamente io quando sono te», scrive Celan. Vi sono maestri che ripudiano i propri discepoli perché li trovano indegni o sleali. Il discepolo, a sua volta, sente di aver superato il proprio maestro, sente che deve abbandonare il proprio maestro per diventare sé stesso (Wittgenstein gli ingiungerebbe di farlo). Questo superamento del maestro, con le sue componenti psicoanalitiche di ribellione edipica, può causare una drammatica afflizione. Come nell'addio di Dante a Virgilio nel Purgatorio o come nel Maestro di go di Yasunari Kawabata. O può essere fonte di soddisfazione vendicativa sia nella finzione - Wagner trionfa su Faust - sia nella realtà - Heidegger prevale su Husserl e lo umilia. Ora, è ad alcuni di questi diversi incontri nella filosofia, nella letteratura, nella musica, che voglio volgermi. | << | < | > | >> |Pagina 141Abbiamo appena sfiorato l'argomento. Non esiste comunità né, credo, disciplina o arte senza i suoi maestri e discepoli, insegnanti e apprendisti. La conoscenza è trasmissione. Nel progresso, nell'innovazione, per quanto siano incisivi, il passato è presente. I maestri salvaguardano e fanno valere la memoria, madre delle Muse. I discepoli accentuano, diffondono o tradiscono il vigore personale e sociale dell'identità. Abbiamo appena visto quanto siano interattive queste dinamiche. L'idea di un maestro autistico, incapace e contrario a condividere la sua dottrina è plausibile sul piano della logica, ma rasenta la contraddizione. Cosa ne possiamo sapere di un «Milton muto» (anche se abbiamo notato casi in cui ci si rifiuta di trasmettere la doxa o la scoperta, per timore che cada in mani malvage)? «Coprire» questo campo sarebbe un'ambizione assurda. I linguaggi richiesti, la conoscenza etnografica, antropologica, storica e scientifica necessarie vanno molto al di là di qualsiasi testimonianza individuale. Il profondo sapere dello sciamano, dei narratori quasi liturgici del Kalahari o del Sud del Pacifico, l'iniziazione all'apprendistato, spesso esoterica e negata all'osservatore esterno nella cultura africana, in quella dell'Asia sudorientale e in quella islamica sono accessibili, tutt'al più, a una manciata di specialisti. Anche le professioni di fede più affermate e globali, le ideologie, le speculazioni e le tecniche scientifiche, sono solo le punte più visibili di un iceberg della didattica la cui massa recondita affonda nelle profondità dell'esperienza umana. Il numero degli astrologi supera di gran lunga quello degli astrofisici, e può anche essere che i primi esercitino un'influenza assai superiore dei secondi sulle più fondamentali e «organiche» parti della coscienza. Nonostante ciò, due tradizioni (sarebbe meglio dire due «mondi», tale è la loro vetustà e la loro ricchezza) vanno prese in considerazione; e tuttavia la mia mancanza di competenza dei linguaggi appropriati e dei testi di rilievo renderanno i miei riferimenti del tutto inadeguati. «Senza la didattica», dice Sawl Bellow, «l'identità ebraica sarebbe impossibile». Il giudaismo è pedagogico in senso assoluto. L'istanza didattica è inerente al monoteismo ebraico: l'incessante dialogo tra Dio e l'ebreo ha rivelato, sin dai tempi di Abramo, tutti gli aspetti del rapporto del maestro con una comunità per natura credente, sediziosa, obbediente, recalcitrante e soprattutto inquisitiva. La Torà dettata a Mosè e da lui promulgata, i Salmi ispirati a David e i libri di profezie e proverbi, costituiscono un corso, un manuale di istruzione e uso quotidiani. L'ebreo è messo in esame in perpetuo, in modo differente dall'assioma della vita esaminata di Socrate. La sua educazione dura tutta la vita. Caratteristica di questa relazione didattica è l'ampiezza del dialogo, che va dalla venerazione estatica e dalla sottomissione estatica, alla più aspra ironia e alla protesta etica, come in Giobbe; comprende la risposta del celebrante, che fa da eco alla voce di Dio nella liturgia, al dis- senso e perfino all'accusa (come nel disperato «contro-Salmo» di Paul Celan). In senso più concreto, la sopravvivenza del giudaismo è dipesa da questo scambio millenario, in classe o in sinagoga, nella scuola talmudica come in quella lezione binomica privata, spesso misteriosa, all'interno della coscienza individuale. Come dice la storiella ebraica: «non mi parlare quando ti interrompo». Il Dio di Israele è il preside di una schul che è il mondo. | << | < | > | >> |Pagina 147La fascinazione per la «luce dell'Est», la speranza di rivelazioni occulte che vengano dall'Asia, per tecniche di purificazione e di meditazione che diano accesso al trascendentale, sono perennemente esistite nella cultura occidentale. Sappiamo dell'incanto gettato dagli arcana egiziani e persiani sulle scuole pitagorica e platonica. La parola «guru» ci arriva attraverso l'uso hindu e sikh. Successive modalità di interesse europeo e angloamericano hanno dato forma ai propri «passaggi in India» (si confrontino le connotazioni di questa espressione in Walt Whitman ed Edward M. Forster), le proprie immagini del taoismo, del buddhismo e dello zen. La malia odierna risale al «parlamento delle religioni» tenutosi a Chicago nel 1893. Attraverso accoliti quali Hermann Hesse e Aldous Huxlev, queste visioni hanno animato la letteratura, le arti, la musica e la psicoterapia. Sono connesse, specie dopo la loro diffusione nella California degli anni Cinquanta, al nirvana dei narcotici, dello yoga, dell'ascetismo e della réverie comunitaria. Caratterizzano quanto c'è di autentico e di kitsch nella New Age. Un certo sogno a occhi aperti «da Pacific Coast», saturo di quelle che sono prese per rivelazioni indiane, cinesi e dell'Estremo Oriente, abita nel cuore irrequieto della modernità e nel suo horror vacui.Il problema è questo. Il materiale è così vario, così colorato da dilettantismo parassitario, pretenzioso e di seconda mano, che la sua origine autentica è fuori portata. Una dozzina di linguaggi e alfabeti di estrema difficoltà, una certa familiarità con millenni di storia religiosa, filosofica e sociale, oltre a una relativa sottomissione personale a sistemi di sensibilità e di disciplina del corpo alieni a quasi tutte le pratiche occidentali, sono il requisito essenziale di qualsiasi comprensione attendibile. Anche gli orientalisti occidentali più qualificati, gli etnografi e gli studiosi di religioni comparate, come per esempio Charles Malamoud, possono esaminare solo una frazione del territorio. Buddhismo e confucianesimo proliferano in forme diverse, indiana, cinese, tibetana, cingalese, birmana e giapponese, e ognuna di queste è a sua volta suddivisa in ulteriori ramificazioni, esoteriche e pubbliche, ermetiche e dichiarate. Studiosi e traduttori occidentali hanno cercato di interpretare per noi i significati del tao, dei riti fondamentali del confucianesimo e dei rituali veda, di come questi si manifestino «all'interno dei testi e oltre i testi», per usare il titolo di Michael Witzel. Un numero ristretto di uomini e donne occidentali ha sperimentato in prima persona il monachesimo in Asia, specie quello shintoista. Tali autentici studiosi e adepti guardano con un disprezzo più o meno cortese al pellegrinaggio con zaino in spalla e al compendio del giornalista. Un numero discreto di maestri zen considerano come un preliminare indispensabile, benché inadeguato, parecchi anni di meditazione silenziosa. Non conoscendo quelle lingue né quel contesto spirituale e comunitario, posso solo toccare, e incidentalmente, quelle che senza dubbio sono delle banalità elementari e di seconda mano. Al di là c'è un mondo quasi impenetrabile. Il rapporto maestro-discepolo è lo strumento del confucianesimo cinese e del suo complesso sfondo religioso e rituale. Gli archetipi a noi familiari abbondano. Di quale più grave tradimento si possono macchiare i discepoli Tse-lou e Yen-Houei, domanda Confucio, se non di morire prima del maestro, essendo i più dotati a portare avanti la sua dottrina? Rimane aperto l'interrogativo se la dottrina del maestro possa essere espressa e trasmessa verbalmente. Che cosa, allora, costituisce una lezione perfetta? «Il maestro ha appena pronunciato due parole che il discepolo si addormenta e comincia a russare. Il maestro ne è estasiato: "Il corpo del mio discepolo è come legno morto, il suo cuore cenere fredda. La sua conoscenza è ora veritiera! Egli si è separato da quanto ha appreso. Ignorante e nell'oscurità, non ha più pensiero: non si ha più la necessità di discutere con lui! Ah! Che individuo superiore!"». Lo scopo è il raggiungimento di quella assenza di individualità e di spirito che, sola, fa accedere alla meditazione e al nucleo dell'essere. | << | < | > | >> |Pagina 153Citando Max Brod e il suo racconto su Tycho Brahe e Keplero, ho accennato alla scienza. Nell'antichità, nelle discipline medievali, non esiste un discrimine essenziale: rapporti analoghi tra maestri e discepoli, tra magister o magus e apprendista, si riscontrano sia nelle materie classiche sia nelle scienze. Rivalità tra scuole filosofiche e cosmologiche o «alchemiche» obbediscono a un modello comune. Nell'Accademia dopo Platone e Aristotele, nelle scuole di medicina dopo Galeno, nei laboratori dell'alchimista e nella torre di osservazione dell'astrologo, le dinamiche di fedeltà o sedizione, di successione o esclusione sono fondamentalmente le stesse. La relazione Faustus-Wagner riflette questa congiunzione di convenzioni teologiche, filosofiche e scientifiche (scienza è «filosofia naturale» come lo è stata per Lucrezio). Sarà soprattutto durante il XVII secolo, e solo con il raggiungimento di uno statuto autonomo per le scienze, che si svilupperanno delle differenze significative. Quando però tentiamo di definirle, vediamo che la questione non è così netta.La «tecnica» riguarda le arti, la musica, la grammatica o la logica filosofica non meno che le scienze esatte e quelle applicate, e deve essere trasmessa con la teoria e con l'esempio. C'è però una differenza. Il «tecnologico» nel suo senso più ampio non si offre infatti a un dissenso spontaneo o a una confutazione allo stesso modo di un progetto filosofico o morale, inteso anch'esso in senso ampio. Esiste una sintonia determinante tra l'impartire la capacità di osservazione e quella di sperimentazione, e il crescendo di difficoltà è caratterizzato, il più delle volte, dalla concomitante familiarità con strumenti matematici sempre più sofisticati. Ma il talento individuale è importante. Il tecnico al tavolo del laboratorio, il professore durante l'esame, riconosceranno doti eccezionali e un potenziale erede. Molto più frequenti ed evidenti sono i prodigi in matematica e nelle scienze, rispetto a, per dire, poesia e metafisica (e di qui quelli che sono considerati i legami sotterranei tra la matematica, la musica e gli scacchi). Le gelosie, i cuori spezzati in laboratorio o in osservatorio sono altrettanto penosi di quelli nell'atelier o nel seminario. Ma di nuovo esiste una differenza, anche se è difficile formularla. Quale che sia il peso di fattori psicologici e di «affinità elettive» - un concetto che deriva dalla chimica - l'emergere di una star è oggettivamente dimostrabile. Il ruolo dei sentimenti e dell'irrazionale è più manifesto nel rapporto maestro-discepolo nelle discipline umanistiche. L'effetto dell'eros, lo abbiamo visto, è molto più verosimile. Ma anche qui la scienza fornisce i suoi esempi. Nessuna esperienza umana è completamente priva di valori. Un granello di ideologia, di condizionamento socio-storico, può trovarsi anche nella più pura astrazione. Solo un dispotismo folle, tuttavia, vedrà la «corruzione ebraica» nella teoria della relatività, o tenterà di sradicare la genetica mendeliana in nome dello stalinismo. Per quello che è umanamente possibile, il teorema matematico, il processo di congettura e confutazione nella scienza, cercano di dimostrare delle «verità» - un concetto, una parola della più vulnerabile fragilità - indipendenti da interessi etnici, religiosi e politici. Non è data una soluzione socialista o comunista alle equazioni non lineari. È un'oscenità sottomettere una scoperta della biogenetica alle condizioni del ricavo economico, come lo è censurare la ricerca matematica e fisica in nome di esigenze militari. Quando si avvicina a un ideale di progresso disinteressato e condiviso, la scoperta scientifica è il prodotto più maturo della libertà umana. Anche questo rende differenti il processo dell'insegnamento e dell'apprendimento nelle scienze da quello nelle materie classiche. Può esistere una certa sovversione a livello personale da parte del discepolo, a causa della sua confutazione del maestro e della sua adozione del modello evolutivo darwiniano contro quello lamarckiano. Ma ciò scaturirà da necessità inerenti alla scienza stessa. Anche se spesso non riconosciuto, l'autentico trionfo del maestro è di essere confutato e superato dalla scoperta del suo allievo. Si tratta di distinguere nell'allievo un potere e un avvenire che vanno oltre i propri. Isaac Barrow si dimette dalla sua cattedra di professore lucasiano in favore di Isaac Newton. David Hilbert non mette veramente in questione Kurt Gödel al viva celebrativo di quest'ultimo. Sono uomini al servizio di un mandato assai superiore a loro stessi. Questa neutralità della verità è connessa all'anonimità e all'impersonalità delle scienze pure e di quelle applicate. Il genio individuale appartiene tanto alla storia della scienza quanto a quella della letteratura e delle arti. Ma nelle prime ha assai meno importanza. La Commedia non sarebbe esistita senza Dante, né le Variazioni Goldberg senza Bach. La morte, estremamente prematura, di Schubert, lascia vuoti spazi di sensibilità. Non si può affermare lo stesso per la matematica e le scienze. Si dice che un lavoro di algebra possa rivelare uno stile personale. Un altro matematico, tuttavia, avrebbe risolto ugualmente il teorema di Fermat o sarebbe arrivato alla congettura di Riemann. Darwin fu solo il più profondo e conseguente di un magnifico gruppo di zoologi e geologi tutti simultaneamente alle soglie della teoria dell'evoluzione e della selezione naturale. Una dozzina di centri di ricerca e di atom smashers oggi si danno da fare intorno agli stessi enigmi della fisica delle particelle e della cosmologia. Alcune pubblicazioni su riviste scientifiche e alcuni annunci alla comunità scientifica su internet spesso recano trenta o più firme. Teorie, scoperte e soluzioni matematiche sono, in senso fondamentale, insieme anonime e collettive, quale che sia la reputazione che il caso o le pubbliche relazioni donano a questo o quell'individuo. Questo lavoro di équipe e il senso dell'inevitabile - se non oggi, il risultato sarà conseguito domani - è molto differente da quello provato dal discepolo del filosofo o dal compositore agli inizi di un corso avanzato. Non c'era niente di inevitabile nelle teoria delle Idee di Platone o nella Cappella Sistina. Il materiale è diffuso. Lo si può trovare nelle biografie di eminenti scienziati, nelle loro autobiografie o nelle loro memorie, che non sono particolarmente abbondanti. L'impersonalità, l'ideale anonimità della ricerca scientifica tende alla discrezione. C'è inoltre una difficoltà di comunicazione. Solo pochi scienziati, per non parlare dei matematici, sono stati in grado di narrare le loro fatiche al profano. C'è l'ostacolo delle nozioni tecniche e del loro idioma, in larga parte matematico, che rendono artificiale e, fin troppo spesso, erronea la traduzione letterale del lavoro scientifico. La metafora non è un sostituto adeguato dell'equazione. Vi sono romanzieri, tra cui Thomas Mann e Robert Musil, che hanno reinventato per noi questo o quel punto della teoria e della scoperta scientifica. The Search, del primo Charles P. Snow, rimane valido. Occasionalmente, la fantascienza vi si avvicina molto. E questa rarità che fa di Sta scherzando, Mr. Feynman! (1985), il corrusco e colorito autoritratto di Richard Feynman, qualcosa di simile a quello che fisici e astrofisici chiamano una «singolarità». Feynman, un teorico e matematico incredibilmente dotato, come Benjamin Franklin o Thomas Edison, aveva una genialità per le cose pratiche, per la penetrazione nel meccanismo - «Come funziona, e come potremmo farlo funzionare meglio?» - da cui può emergere una fondamentale comprensione teorica. Poco più che adolescente, Feynman si trovò a parlare davanti ai maestri. John Wheeler, Henry Norris Russell, John von Neumann e Wolfgang Pauli, lo andavano ad ascoltare. Einstein si unì a loro. «Queste menti mostruose davanti a me, in attesa!». Subito dopo, avviene il miracolo: «Il momento che comincio a pensare alla fisica, e devo concentrarmi su quello che spiego, niente più mi occupa la mente, sono completamente immune dal nervosismo. In questo modo, dopo che ho cominciato, non so più chi è nella stanza: sto solo spiegando un'idea, tutto qui». Princeton e Los Alamos portano a incontri ravvicinati con i giganti. Ma fu la sua collaborazione con loro, piuttosto che un insegnamento formale, a ispirare Feynman. Gli esperimenti istruivano lui. Anche camminando con von Neumann nei canyon, o servendo da cassa di risonanza a Niels Bohr, Feynman poteva perseguire la sua irriverente originalità, senza mai accettare prima facie quel che diceva il grand'uomo. A sua volta, divenne un professore di fama: «Non credo che ce la farei senza insegnare». Ma le ragioni sono psicologiche la compulsione a dare «un qualche contributo» quando era bloccato nella sua ricerca. Imparando a disegnare, Feynman concluse che in fisica «abbiamo così tante tecniche, così tanti metodi matematici, che non smettiamo mai di dire agli studenti come fare le cose. Il maestro di disegno, invece, ha paura di dirti qualsiasi cosa... L'insegnante non ti vuole spingere in una particolare direzione. Così, il maestro di disegno si pone il problema di comunicare per osmosi e non per istruzioni, mentre il docente di fisica ha sempre il problema di insegnare le tecniche, più che lo spirito, di come procedere per risolvere un problema di fisica». Sant'Agostino si sarebbe trovato d'accordo. | << | < | > | >> |Pagina 167Gli ordini del rapporto tra maestri e discepoli, così come li ho illustrati, dureranno? L'esigenza di trasmettere conoscenza e abilità e il desiderio di acquisirle sono delle costanti della condizione umana. Essere maestri ed essere discepoli, l'istruzione e la sua acquisizione devono continuare fino a che esisteranno delle società. La vita così come la conosciamo non potrebbe andare avanti senza di esse. Ora, però, ci sono dei significativi cambiamenti in corso. Il ruolo e l'autorità esponenziali delle scienze e della tecnologia negli affari del pianeta arrivano assai più in profondità dei livelli economici e pragmatici. Costituiscono un movimento tettonico, uno spostamento gravitazionale altrettanto pervasivo della graduale erosione, nella mentalità adulta, di prospettive religiose; un'erosione correlata, precisamente, al dominio della scienza. Ho fornito indicazioni sufficienti a vedere come le energie e l'eccellenza intellettuali siano state già investite nelle scienze più che in ogni altra impresa. Questo nuovo equilibrio sarà generalizzato. Calcolo, teoria informatica e banche dati, l'ubiquità di internet e del web globale mettono in atto molto di più che una rivoluzione tecnologica. Comportano trasformazioni di coscienza, di abitudini percettive ed espressive, di sensibilità reciproca che stiamo a malapena cominciando a calibrare. Vari terminali e sinapsi entreranno in connessione con il nostro sistema nervoso (se possibile analogo) e con le strutture cerebrali. I software diverranno, per così dire, interni e la coscienza dovrà forse produrre una seconda pelle. L'impatto sul processo di apprendimento è già imponente. Alla sua consolle, lo scolaro si espande in nuovi mondi. Come fanno lo studente con il suo portatile e il ricercatore che naviga in rete. Nuove condizioni nello scambio cooperativo e nel dibattito, nell'immagazzinamento della memoria, nella trasmissione immediata e nella rappresentazione grafica hanno già riorganizzato numerosi aspetti della .cor Wissenschaft. Il monitor può insegnare, esaminare, dimostrare, interagire con una precisione, una chiarezza e una pazienza che superano quella dell'insegnante umano. Le risorse dello schermo possono essere disseminate e sfruttate a volontà. Lo schermo non conosce né pregiudizio né stanchezza. L'allievo, a sua volta, può fare domande, obiettare e rispondere secondo una dialettica il cui valore pedagogico è possibile superi quello del discorso parlato. Come per reazione, il ricorso al saggio terapeutico, al guru e allo sciamano più o meno secolarizzato è diffuso, particolarmente nell'insonne Occidente. Guaritori, mediatori dell'occulto, consiglieri (la designazione mafiosa qui è appropriata) spirituali, o furbi ciarlatani non sono mai stati così numerosi. Ho fatto allusione alla spesso artificiosa ma innegabile ondata di «orientalismo» e misticismo. Ancora più influenti sono i reticoli della psicoanalisi, le rivalità tra i suoi maestri, le congreghe di dipendenze e apostolati che colorano così tanti aspetti del nostro idioma e dei nostri costumi. Qui, anche se sotto una forma che si avvicina al travestimento, prosperano i motivi classici di magistero e apprendistato. In certo modo, la new age e il clima successivo postfreudiano, sono presocratici. Pitagora ed Empedocle si sentirebbero a casa. L'aura carismatica del docente ispirato, la favola di una figura nell'atto pedagogico sicuramente dureranno. A un livello più serio, comunque, gli ambiti in cui ciò troverà spazio sembrano sempre più ristretti. Sempre di più, la trasmissione di conoscenza e di techne farà leva su altri mezzi e modalità. La fedeltà umana e il tradimento, i comandamenti di amore e ribellione di Zarathustra, con il loro reciproco esigersi, sono estranei all'ambito elettronico. Le donne-maestro sono state poche, anche se eminenti. Da Siracusa, Atene e Antiochia in poi, le discepole hanno invece abbondato. Questa «demografia» sta ora cambiando. Nello studio della letteratura e delle lingue moderne, le ragazze superano i ragazzi. La femminizzazione si sta allargando a tutte le materie umanistiche e alle arti liberali. Le donne si stanno battendo per il loro legittimo posto al sole nelle scienze e nella tecnologia. La struttura patriarcale inerente al rapporto maestro-discepolo sta perdendo importanza. Identità e discrimine sessuali si confondono. Nonostante ciò, i costrutti di fedeltà e tradimento, di auctoritas e sedizione, di mimesi e rivalità cui abbiamo guardato sono destinati a cambiare. Per quanto riguarda il suo seguito maschile - anche il termine «discepolo» può assumere una differente risonanza -, la donna-maestro svilupperà riflessi, aspettative e mosse simboliche di tipo nuovo e complesso. A sua volta, l'allievo maschile perverrà ad atteggiamenti a un tempo di devozione e, in certo senso, di neutralità. Le allieve di altre donne potranno trovarsi in una situazione semplificata e instabile, anche ignorando del tutto la pulsione dell'eros, che complica le cose. Finora la letteratura è frammentaria e marginale. Ho citato quanto si sa su Nadia Boulanger e Simone Weil. Ci sono premonizioni nella narrativa di Iris Murdoch. È un materiale che di certo crescerà. Per ora si possono solo fare congetture su valori e tensioni che non hanno precedenti. La terza mutazione è la più importante. È la più difficile da definire. Quale che sia il contesto etnico o la civiltà dominante, il rapporto maestro-discepolo ha le sue profonde radici nell'esperienza religiosa e nel culto. In origine, la lezione del maestro era quella del sacerdote. Questa modulazione, nella filosofia presocratica e classica, fu quasi impercettibile. Il magisterium del maestro medievale e rinascimentale fu formalmente quello del dottore in teologia, con Tommaso d'Aquino o san Bonaventura in cattedra. Il retaggio teologico si indebolì, ma le sue convenzioni rimasero forti durante tutta la modernità laica. Queste forme, queste convenzioni dello spirito furono sottoscritte da una reverenza pressoché indiscussa, lampante. Riverire il proprio maître rispondeva al codice innato e naturale del rapporto. Qualora «reverenza» e deferenza si affievoliscano, restano il rispetto, la sottomissione volontaria. In senso comprensivo, e la sua definizione nell'Occidente risale ad Aristotele e Cicerone, il dinamismo è quello dell'ammirazione, dell'ammirato orgoglio per la statura del maestro e per il suo averci accettati come discepoli. «This is our master, famous calm and dead, Borne on our shoulders». Chiamerei, quella attuale, l'età dell'irriverenza. Le cause di questa profonda trasformazione sono dovute a rivoluzioni politiche, a sommosse sociali (la notoria «rivolta delle masse» di José Ortega y Gasset) e allo scetticismo che le scienze portano con sé. L'ammirazione, per non parlare della reverenza, è passata di moda. Siamo assuefatti all'invidia, alla denigrazione e a un livellamento verso il basso. I nostri idoli devono esibire una testa d'argilla. Quando aleggia dell'incenso, va in direzione di atleti, pop star, gli ossessi del denaro o i re del crimine. La celebrità, nel modo in cui satura la nostra esistenza mediatica, è il contrario della fama. Il numero esibito per la milionesima volta sulla maglia dell'asso del football o la pettinatura del cantante sono il contrario dell'apostolato. Sullo stesso piano, la nozione di saggio rasenta il risibile. La coscienza è populista ed egualitaria, o finge di esserlo. Qualsiasi manifesto si rivolga a una élite, o a quell'aristocrazia dell'intelletto così evidente per Max Weber, è quasi prescritto dalla democratizzazione del sistema di consumo di massa (e, pure, questa democratizzazione comporta, senza dubbio, liberazioni, onestà e speranze di prim'ordine). L'esercizio della reverenza sta ritornando alle sue remote origini nell'ambito della sfera religiosa e rituale. Attraverso tutte le relazioni mondane e laiche, la nota prevalente, spesso tonificante in un modo tipicamente americano, è quella dell'impertinenza provocatoria. Gli «unaging monuments of intellect», forse anche i nostri cervelli, sono coperti di graffiti. Di fronte a chi si alzano in piedi gli studenti? «Plus de maîtres», proclamava una delle scritte sui muri della Sorbona nel maggio del 1968. Scientismo; femminismo; la democrazia di massa e i suoi media. Può, deve «la lezione dei maestri» sopravvivere al loro impeto travolgente? Credo che ci riuscirà, anche se ciò avverrà in forme imprevedibili. Credo che debba riuscirci. Libido sciendi, desiderio sfrenato per il sapere, brama per il comprendere, è un motto inciso negli uomini e nelle donne migliori. Tale è pure la vocazione del maestro. Non esiste una professione di maggiore privilegio. Risvegliare in un altro essere umano forze e sogni superiori alle proprie; indurre in altri l'amore per quello che amiamo; fare del proprio intimo presente il loro futuro: è una triplice avventura senza pari. Quando si allarga, la famiglia dei propri studenti somiglia al ramificarsi, al rinverdirsi di un tronco che sta a sua volta invecchiando (io ho studenti in cinque continenti). E una soddisfazione incomparabile quella di essere il servitore, il corriere dell'essenziale, anche sapendo perfettamente quanto pochi, pochissimi, possano essere i creatori e gli scopritori di prim'ordine. Anche a un livello modesto, come quello di maestro di scuola, insegnare, e insegnare bene, significa essere complici di possibilità trascendenti. Una volta risvegliato, quel bambino esasperante nell'ultima fila potrà scrivere pagine o concepire teoremi che terranno impegnati per secoli. Una società, come quella basata sul profitto sfrenato, che non fa onore ai propri insegnanti, è difettosa. Può essere che qui stia il senso più radicale della pornografia infantile. Laddove uomini e donne si affannano, scalzi, a trovare un maestro (è, frequentemente, un tropo chassidico), la forza vitale dello spirito è salvaguardata.
Abbiamo visto che il magistero è fallibile, che gelosia, vanità, falsità e
tradimento si intromettono quasi inevitabilmente. Ma quelle speranze sempre
rinnovate, l'imperfetta meraviglia della cosa, ci conducono alla
dignitas
della persona umana, al suo approdo alla parte migliore di sé. Nessun mezzo
meccanico, per quanto rapido, nessun materialismo, per quanto trionfante, può
cancellare il nuovo giorno che viviamo quando abbiamo compreso un maestro.
Quella gioia non allevia certo la morte. Ma ci rende furiosi per il suo spreco.
Non c'è tempo per un'altra lezione?
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