Copertina
Autore George Steiner
Titolo I libri hanno bisogno di noi
EdizioneGarzanti, Milano, 2013, Saggi , pag. 86, cop.ril.sov., dim. 13x20x1,2 cm , Isbn 978-88-11-68490-9
OriginaleLes livres ont besoin de nous [2003]
TraduttoreEmanuele Lana
LettoreCristina Lupo, 2013
Classe libri , scrittura-lettura , paesi: Israele , religione
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Indice


1. Quelli che brùciano i libri...            7

2. «Popolo del Libro»                       23

3. I dissidenti del libro                   43


 

 

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Pagina 9

Quelli che bruciano i libri, che mettono al bando e uccidono i poeti, sono ben consapevoli di ciò che fanno. Θ incalcolabile il potere indeterminato dei libri. Ed è tale proprio perché il medesimo libro, la medesima pagina può avere sui lettori gli effetti più disparati. Può esaltare o avvilire; sedurre o suscitare disgusto; stimolare alla virtù o alla barbarie; accentuare la sensibilità o banalizzarla. In modo davvero sconcertante può ottenere indifferentemente questi risultati, quasi nello stesso tempo, nello slancio di una risposta così complessa, così rapida nella sua alternanza e così ibrida che non esiste ermeneutica, né psicologia in grado di prevederne la forza o di misurarla.

A seconda delle fasi della vita un libro susciterà nello stesso individuo reazioni del tutto differenti. Nell'esperienza umana non si ha fenomenologia più complessa di quella degli incontri fra testo e percezione, o, come osservò Dante, fra le forme del linguaggio che oltrepassano la nostra capacità d'intendere e i livelli di comprensione rispetto ai quali il nostro linguaggio si dimostra insufficiente: la debilitate de lo 'ntelletto e la cortezza del nostro parlare.

Ma in questo dialogo sempre imperfetto – gli unici libri comprensibili fino in fondo sono quelli effimeri e opportunisti; gli unici di cui si possa cogliere appieno il significato potenziale – si può leggere un invito alla violenza, all'intolleranza, all'aggressione sociale e politica. Céline è il solo di noi destinato a durare, diceva Sartre.

Esiste una pornografia del teorico, perfino dell'analitico, così come una della suggestione sessuale. Le citazioni di libri cosiddetti «rivelati» – il libro di Giosuè, l'epistola di san Paolo ai Romani, il Corano, il Mein Kampf, il Libretto rosso di Mao – sono il preludio e la giustificazione del massacro. La tolleranza e il compromesso richiedono un contesto immenso.

L'odio, l'irrazionalità, la libido di potere si leggono velocemente. Il contesto svanisce nella violenza dell'assenso. Da qui nasce il dilemma veramente fastidioso e problematico della censura. Θ un po' come soccombere all'ipocrisia liberale quando sorge il dubbio che vi siano testi, libri o periodici capaci di provocare l'erotismo; in grado di condurre direttamente alla mimesis, all' imitatio, tanto da attribuire a vaghe pulsioni masturbatorie una terribile concretezza e un urgente bisogno di essere soddisfatte. Come possono i libertari giustificare il diluvio di erotismo sadico che oggi invade le librerie, le edicole e la Rete? Con quali mezzi condannare questa letteratura programmatica delle sevizie ai bambini, dell'odio razziale e della criminalità cieca con cui ci martellano incessantemente gli orecchi, gli occhi e la coscienza? I mondi del cyberspazio e della realtà virtuale saranno invasi da programmi di grafica e rivestiti di una pseudo-autorità, di suggestioni e di esempi che giustificano la bestialità nei confronti di altri esseri umani, di noi stessi (la ricezione, il piacere del trash è un'automutilazione dell'anima). Θ forse il segnale che siamo del tutto fuori strada riguardo all'ideale platonico della censura?

In realtà, i libri sono la chiave d'accesso di cui disponiamo per arricchire la nostra esistenza. La loro capacità di suscitare questa trascendenza ha sollevato dibattiti, allegorizzazioni e decostruzioni che non hanno mai visto la parola fine. Le implicazioni metaforiche dell'icona giudaico-ellenistica del Libro di Vita, dell' Apocalisse, dell'identificazione della divinità nel Logos, hanno origini millenarie e sono illimitate.

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Pagina 17

Il concetto di lettura, considerato un processo che fondamentalmente appartiene alla collaborazione, è intuitivamente convincente. Il lettore impegnato collabora con l'autore. Comprendere un testo, «illustrarlo» nel quadro della nostra immaginazione, della nostra memoria e della nostra rappresentazione combinatoria, equivale, seppur nei limiti delle nostre capacità, a ricrearlo. I più grandi lettori di Sofocle e di Shakespeare sono gli attori e gli sceneggiatori che animano le parole. Imparare una poesia a memoria è come incontrarlo a metà strada nel viaggio ogni volta sorprendente della sua venuta al mondo. In una «lettura ben fatta» (Péguy), il lettore lo rende qualcosa di paradossale: un'eco che riflette il testo e contemporaneamente entra in sintonia con esso attraverso le percezioni, i bisogni e le sfide che lo caratterizzano. I nostri momenti d'intimità insieme con un libro, dunque, sono a tutti gli effetti dialettici e reciproci: leggiamo il libro, ma, più profondamente forse, è il libro a leggere noi.

Ma perché l'arbitrio, la natura sempre discutibile di questi momenti d'intimità? I testi che ci trasformano possono essere, sul piano sia formale sia storico, delle banalità. Come un ritornello alla moda, il romanzo poliziesco, la notizia trascurabile, l'effimero può presentarsi d'improvviso alla nostra coscienza e penetrare nella profondità di noi stessi. Il canone dell'essenziale varia a seconda dell'individuo, della cultura, ma anche della fase della vita. Vi sono libri considerati capolavori durante l'adolescenza e che in seguito diventano illeggibili, o altri improvvisamente riscoperti sulla scena letteraria o nella vita privata.

La chimica del gusto, dell'ossessione, del rifiuto è strana e indecifrabile quasi come quella della creazione estetica. Individui molto simili tra loro per le origini, la sensibilità o l'ideologia in comune possono adorare il libro da tutti detestato, considerare kitsch ciò che altri considerano un capolavoro. Coleridge parlava di «hooked atoms» della coscienza che s'intrecciano nelle forme più imprevedibili; Goethe parlava delle «affinità elettive» – ma sono soltanto immagini.

Le complicità tra l'autore e il lettore, tra il libro e la lettura, sono imprevedibili, volubili, hanno radici misteriose come quelle dell'eros. O, forse, dell'odio; esistono infatti testi indimenticabili che ci trasformano e che arriviamo al punto di odiare: a teatro non sopporto, e tantomeno posso insegnare, l' Otello di Shakespeare, la versione di Verdi invece mi sembra, sotto diversi punti di vista, la più coerente, quasi un miracolo dell'uomo.

Il paradosso dell'eco vivificante tra libro e lettore, dello scambio vitale improntato alla reciproca fiducia, è legato a particolari condizioni storiche e sociali. «L'atto classico della lettura», secondo la definizione che ho cercato di fornire nel mio lavoro, richiede silenzio, intimità, cultura letteraria (literacy) e concentrazione. In mancanza di tali elementi, una lettura seria, una risposta ai libri che sia anche responsabilità è inconcepibile.

Leggere, nel vero senso del termine, una pagina di Kant, un poesia di Leopardi, un capitolo di Proust, significa avere accesso a momenti di silenzio, alla salvaguardia dell'intimità, a un certo livello di formazione linguistica e storica pregressa. E poi avere a portata di mano strumenti che aiutino nella comprensione quali dizionari, grammatiche e opere d'importanza storica e critica. Dall'epoca dell'Accademia ateniese fino a metà del XX secolo, molto schematicamente, una condizione simile coincideva con la definizione di cultura. In misura maggiore o minore, essa costituì sempre il privilegio, il piacere e l'obbligo di un'élite. Dalla biblioteca di Alessandria alla cella di san Girolamo, dalla torre di Montaigne all'ufficio di Karl Marx presso il British Museum, le arti della concentrazione – che Malebranche definiva come la «devozione naturale dell'animo» – hanno sempre avuto un ruolo centrale nella vita del libro.

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Pagina 28

Il ruolo del Libro, della Torà e degli innumerevoli commenti che il Libro ha richiesto e ispirato, è stato primordiale. Finché poteva portare con sé le Scritture, studiarle instancabilmente, annotarle, interpretarle, commentarle, l'ebreo riusciva a preservare la propria identità, rendendola produttiva. Da qui un vero e proprio scandalo: il primo e inviolabile comandamento halakhico non è «Onorerai il Signore Dio tuo», né «Ama il tuo prossimo», ma «Ogni giorno studierai la Torà» (le delizie di Leibowitz). Finché un ebreo lo farà, né lui né la sua comunità scompariranno dalla faccia della terra.

La nostra vera patria non è un angolo di terra cintato da un filo spinato o difeso con il ricorso alle armi; zone come queste prima o poi scompariranno e perdurano soltanto nell'ingiustizia. Ieri, oggi, domani la nostra vera patria sarà sempre un testo.

Il valore morale, la dignità intellettuale della condizione «libresca» dell'ebreo è fuori discussione. Tuttavia, c'è sempre stato un elemento negativo.

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Pagina 32

Ma l'accusa è più profonda. Socrate e Gesù di Nazaret non scrivono. Molto probabilmente Gesù era analfabeta. Le scoperte filosofiche, nel caso del primo, le rivelazioni d'ispirazione divina, nel caso del secondo, sono orali. Nascono dall'incontro personale, dalla vitalità metaforica della parola pronunciata. Sulla base di questa differenza il cristianesimo istituirà quella tra lettera e spirito. La sinagoga è accecata dal «letteralismo», dalla chiusura nelle immobili minuzie del testo e del commento, dall'idolatria per la lettera. Il cristianesimo, in simbiosi con il neoplatonismo, cerca il libero pneuma dello spirito, il Geist che racchiude in sé il soffio stesso vitale. L'ebreo si dedica continuamente all'ingrato compito filologico; il cristianesimo e i suoi eredi o dissidenti filosofici seguono la via maestra dell'essere animato. Θ stata una critica che ha colpito nel segno. La sensibilità ebraica ne è rimasta ineluttabilmente ferita.

Queste cicatrici possono condurre a risultati sconcertanti. Tutto il movimento del decostruzionismo, oggi prevalente negli studi umanistici, muove da una ribellione giudaica contro l'autorità, la stabilità e le pretese trascendentali della testualità, quelle del discorso razionale o a sua volta ispirato. Più o meno consapevolmente in rivolta contro una fede e una morale incapaci di evitare l'orribile barbarie della Shoà, di mettere in guardia contro di essa, il decostruzionismo derridiano e il postmodernismo, che a essa s'ispira, si sforzano di abolire il contratto tra la Parola e il Mondo, tra il Logos e il significato, che è stato il fondamento della promessa di Dio a Israele. Ci viene detto che non esistono né inizi né bereshit, non c'è più la minima equivalenza duratura o garantita tra significante e significato, tra intenzionalità e significato dimostrabile. I marcatori semantici, continua Derrida, non possono avere un significato stabile, condiviso, «a meno che siano rivolti verso Dio» – condizione ormai ritenuta assurda. Qualunque affermazione è continuamente soggetta a fraintendimenti, a cambiamenti repentini, ad alterazioni di significato in un eterno gioco autoriflessivo dei possibili. Per ricorrere a un concetto della psicanalisi — la scienza cristiana degli ebrei — il decostruzionismo è una rivolta edipica, un omicidio del padre. Essa mira a demolire il logocentrismo patriarcale che, lungo millenni spesso tragici, ha imposto alle tradizioni ebraiche, ma non soltanto, i loro imperativi pre-scrittivi.

Bisogna rompere una seconda volta le Tavole della legge. Il terzo esemplare resterà non scritto; qui la parola chiave è «cancellazione». Non ci fu «Verbo in principio»; e non ci sarà alla fine.

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Pagina 45

In una Casa del Libro si è fatto presto a dimenticare che i libri non sono qualcosa di universale né di inevitabile. Che a tutti gli effetti corrono il rischio di essere cancellati e distrutti. Che hanno una storia particolare, come tutto ciò che l'uomo può realizzare: una storia che fin dai primi passi non ignora la possibilità, l'eventualità di una conclusione.

Di questi primi passi abbiamo poche notizie. In Cina testi di natura rituale o didascalica sono databili senza dubbio al secondo millennio prima della nostra era. Le tavolette amministrative e commerciali dei sumeri, i protoalfabeti e gli alfabeti del Mediterraneo orientale ci parlano di un'evoluzione complessa, di cui ancora oggi sfuggono molti dettagli cronologici. Nella nostra tradizione occidentale i primi «libri» sono delle tavolette sulle quali erano riportate transazioni commerciali, ricette mediche o mappe del cielo. Resoconti storici, strettamente legati all'architettura trionfalista e alle commemorazioni vendicatrici sono certamente anteriori a tutto ciò che noi annoveriamo come «letteratura». Risalgono a un'epoca successiva all'epopea di Gilgamesh, i primi frammenti databili della Bibbia ebraica, più vicini all' Ulisse di Joyce che non alle loro origini coincidenti con quelle del canto arcaico e del racconto orale.

Tutto ruota intorno a questo. La scrittura è un arcipelago disperso negli immensi oceani dell'oralità umana e, per non parlare del libro nelle sue diverse forme, costituisce un caso a parte, una tecnica particolare in un ambito semiotico prevalentemente orale. Decine di migliaia di anni prima che fossero elaborate delle forme scritte, l'umanità si dedicò alla narrazione, trasmise dottrine religiose e magiche, compose incantesimi d'amore o anatemi. Sappiamo dell'esistenza di una moltitudine brulicante di comunità etniche, di mitologie sofisticate e di tradizioni popolari naturali prive di literacy, nelle quali non si può parlare di vera e propria «letteratura». Non conosciamo alcuna popolazione sul pianeta che ignori la musica. Che sia sotto forma di canto o di composizione strumentale, sembra essere davvero universale. Θ l'idioma fondamentale con cui comunicare sensibilità e significato. Ancora oggi, le statistiche sull'alfabetizzazione devono essere lette con cautela. Gran parte dell'umanità è costretta ad accontentarsi di testi rudimentali, nella migliore delle ipotesi. Non legge libri, ma canta e danza.

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Pagina 49

Al testo scritto, che si tratti della tavoletta di argilla, del marmo, del papiro o della pergamena, di un osso inciso, di un rotolo o di un libro, si riconosce una certa autorevolezza (parola che nella sua origine latina, auctoritas, ha la stessa radice di «autore»). Il semplice fatto che sia scritto e trasmesso in questa forma implica la pretesa che sia magistrale e canonico. L'autorevolezza del testo scritto appare evidente nei documenti teologico-liturgici, nei codici giuridici, nei trattati scientifici, nei manuali tecnici. Sebbene in maniera più sottile, addirittura autosovversiva in composizioni comiche o di breve durata, è presente anche nei testi di natura contrattuale. L'autore e il lettore sono vincolati dalla garanzia di un senso.

Proprio per la sua natura intrinseca la scrittura è normativa. Θ «prescrittiva», se vogliamo ricorrere a una parola che, per la ricchezza delle proprie connotazioni e del proprio significato più profondo, richiede una particolare attenzione. «Prescrivere» significa ordinare, anticipare e circoscrivere (altra parola densa di significato) un campo d'azione, d'interpretazione, di consenso intellettuale o sociale. «Iscrizione», «scritto», «scriba», come l'ampia area semantica a cui si richiamano, intimamente, in maniera inevitabile, collegano l'atto dello scrivere a forme di governo. La «proscrizione», un termine appartenente alla stessa famiglia lessicale, proclama l'esilio o la morte. Sotto ogni punto di vista, anche dietro un'apparente leggerezza, gli atti della scrittura e la loro consacrazione nei libri manifestano dei rapporti di forza. Il dispotismo esercitato sugli analfabeti e i subanalfabeti dai sacerdoti, da un clero entrato in politica e dalla legge, non è altro che la manifestazione di questa verità assolutamente fondamentale. L'autorità implicata dal testo, il suo possesso e gli usi da parte di un'élite colta sono sinonimi di potere. I tomi sotto chiave delle biblioteche monastiche medievali hanno qualcosa di sconvolgente. La scrittura capta il significato (con san Girolamo il traduttore riporta nella cultura di arrivo il significato, come il vincitore ritorna con i prigionieri).

I despoti non amano e, a fortiori, non lanciano sfide né accettano contestazioni. Lo stesso vale per i libri. Quando si scrive un secondo testo ci si sforza di sottoporre a domande, di confutare o d'indebolire il primo. Ne deriva la logica inerziale del commento, a cui segue un altro commento in una catena infinita, già prevista nella cupa predizione di Qohelet, quando si legge che «non si finisce mai di scrivere libri». (Il disagio di Freud di fronte all'«analisi interminabile» ha perpetuato un dilemma di natura evidentemente talmudica.)

All'opposto, nel concetto platonico, lo scambio orale rende possibile, addirittura autorizza una sfida immediata, segnata da controdichiarazioni e correzioni. Esso permette all'interlocutore di correggere le proprie tesi, se necessario di capovolgerle, alla luce di una ricerca e di un'esplorazione condivise. L'oralità aspira alla verità, all'onestà dell'autocorrezione, alla democrazia, per così dire, dell'intuizione condivisa (la cosiddetta «ricerca comune» di F.R. Leavis). Il testo scritto, il libro chiuderebbe definitivamente la questione.

Il secondo punto illustrato dal mito di Fedro è altrettanto eloquente. Il ricorso allo scritto, al testo «scritturale», indebolisce l'efficacia della memoria. Ciò che è scritto e archiviato — pensiamo alle «banche dati», alla «memoria» dei nostri computer — non deve più essere appreso a memoria. Una cultura orale si alimenta di rimemorazione incessantemente rinnovata: un testo o una cultura del libro autorizza (ancora una volta il termine assume diversi significati) ogni sorta di oblio. Questa distinzione tocca il cuore dell'identità umana e della civilitas. Dove la memoria è dinamica, dove essa costituisce lo strumento della trasmissione psicologica e comunitaria, il patrimonio ereditario si attualizza, diventa presente.

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Pagina 68

Tra noi vi sono sempre stati dei dissidenti, dei nemici del libro. Gli uomini e le donne del libro, bookmen e bookwomen — se mi è lecito ampliare questa civile categoria vittoriana — raramente si riservano il tempo di considerare la fragilità della propria passione.

Nel 1821, in Germania, commentando un'ondata di autodafé nazionalisti, Heine osservò: «Là dove si bruciano libri si finisce per bruciare anche gli uomini». In ogni momento della storia sono stati dati alle fiamme dei libri. Molti sono rimasti danneggiati irrimediabilmente. Nell'agosto del 1992 circa sedicimila incunaboli e manoscritti miniati, che non erano ancora stati riprodotti, sono andati distrutti nel bombardamento della biblioteca di Sarajevo.

I fondamentalisti più accaniti istintivamente vogliono bruciare libri. Per esempio, i musulmani che conquistarono Alessandria, appiccando il fuoco alla sua biblioteca leggendaria, avrebbero dichiarato: «Se contiene il Corano, ne abbiamo comunque altre copie; altrimenti non vale la pena conservarla». Non una sola copia della Bibbia degli albigesi è giunta fino a noi, né del grande trattato antitrinitario di Michel Servet, che Calvino condannò a essere incenerito sulla pubblica piazza. I manoscritti, i dattiloscritti dei maestri moderni sono ancora più vulnerabili. Messo in difficoltà dalle minacce staliniane, Bachtin trasformò le pagine del trattato di estetica in carta per sigarette, la cui mancanza si faceva sentire crudelmente. Preoccupata all'idea di urtare tabù sessuali, la fidanzata di Bόchner gettò nel camino il manoscritto del suo Aretino (probabilmente il capolavoro di colui che, poco dopo i vent'anni, aveva già scritto la Morte di Danton e Woyzeck).

Esistono però anche esecuzioni a fuoco lento. La censura è vecchia e onnipresente come la scrittura. Ha accompagnato il cattolicesimo romano lungo tutta la sua storia. Ha caratterizzato ogni tirannia dalla Roma di Augusto ai regimi totalitari di oggi. Non vi è assolutamente alcuna possibilità di valutare l'immensità dei testi così castrati, purgati, falsificati o decisamente ridotti al silenzio. Ma le nostre sedicenti democrazie non sono poi meno colpevoli. Classici e opere di letteratura contemporanea sono stati censurati, addirittura ritirati dagli scaffali delle biblioteche pubbliche o scolastiche in nome di un politically correct tanto puerile quanto degradante. Nell'Africa del sud vi sono quelli intenzionati a togliere dalla circolazione alcuni importanti romanzi di Nadine Gordimer, per timore che i suoi lettori neri sospettino qualche tacito accordo dietro le sue conclusioni lucide e umane. In buona parte del mondo moderno, Cina, India, Pakistan, ovunque prevalga l'eredità spettrale del fascismo e dello stalinismo, in stati più o meno di polizia, nelle teocrazie dell'islam e, talvolta, in America latina, vengono censurati i libri, gettati in prigione gli autori, lanciate le fatwa.

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Pagina 76

Le bestialità del nazismo, preparate, organizzate e compiute nell'Europa del XX secolo, sono state perpetrate nei centri stessi della grande cultura. In nessun paese come in Germania la vita intellettuale, la produzione e la comprensione dei libri, la cultura delle materie umanistiche all'università e tra la gente comune ricevevano onori e appoggio. Le forze della cultura e della ricezione di stampo umanista non hanno mai fallito di fronte al trionfo della barbarie. Negli anni del Reich sono state promosse ricerche di prim'ordine in filologia, in storia antica e medievale, in storia dell'arte, in musicologia. Come ha detto Gadamer, ricorrendo a un'espressione davvero spaventosa, era sufficiente comportarsi manierlich (usare buone maniere, mostrarsi rispettosi delle convenzioni) verso il regime nazista per poter condurre una brillante carriera da insegnante e continuare a studiare i classici. Una sola precauzione indispensabile: non avere commesso lo sbaglio di essere ebrei!

Uno dei filosofi più originali e influenti del pensiero occidentale ha scritto dei testi fondamentali durante gli anni della guerra. La storia di questa felice coesistenza tra la disumanità eretta a sistema e l'indifferenza o la simpatia capaci di creare alta cultura resta ancora da chiarire. Inoltre, non si limita alla Germania nazista. Durante l'occupazione, Parigi vide la pubblicazione di libri e opere oggi considerate tra le più importanti della letteratura francese moderna.

Lo scandalo non si limita alla coesistenza. Il genio letterario e filosofico ha flirtato con il momento più buio dell'uomo, gli ha prestato un orecchio attento e l'ha sostenuto. Non è possibile dissociare l'evidente splendore delle opere di Pound, di Claudel o di Céline dalle scelte politiche infernali che hanno compiuto. Per quanto complicata, sotto diversi aspetti, per quanto «privata» fosse, la relazione di Heidegger con il nazismo e il suo silenzio opportunista dopo il 1945 hanno qualcosa di agghiacciante. Allo stesso modo del sostegno attivo di Sartre al comunismo sovietico, prolungatosi anche dopo la rivelazione dei campi di detenzione o delle violenze inflitte agli scrittori e agli intellettuali della Cina maoista o a Cuba durante il regime di Castro. «Ogni anticomunista è un cane, nessuno mi distoglierà da questa convinzione», così proclamò Sartre, uno dei grandi pensatori dell'epoca.

Il clero intellettuale, gli studiosi e i topi di biblioteca non sono fatti per l'eroismo. Salvo rare eccezioni, ci si è adattati pavidamente alla tempesta del maccartismo – assai meno pericolosa di qualunque totalitarismo fascista o staliniano. Allo stesso modo il ricatto del politically correct ha incontrato poca resistenza, poca dignitas tra gli universitari. Sono dunque stati molti coloro che si sono adattati alle circostanze. E, come risultato, ne sono rimasti inghiottiti.

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