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| << | < | > | >> |IndiceL'Autore IX Presentazione XI Introduzione XIII 1. Uomo scimpanzé 1 Alle origini del confronto 4 L'uomo e lo scimpanzé 8 Cultura e ambiente 13 Il linguaggio dei segni 17 2. Coscienza di sé 21 Il fascino della coscienza 25 Le scimmie antropomorfe 31 Cultura materiale e cognizione 37 3. Il conflitto 41 Antagonismo e inibitori conflittuali 46 Il conflitto nell'uomo 48 Vittorie, sconfitte e sopraffazioni 51 Eliminazione del nemico 52 4. Rivalità genitori/figli 55 Il sacro Hanuman 57 Investimento parentale 64 Rango e matriarcato 66 5. Origine della disuguaglianza umana e dell'uguaglianza animale 71 Illuminismo, empirismo e animali 73 Homme sauvage 77 Enfant sauvage 78 Pongos 80 6. Vita di gruppo 83 Evoluzione dell'organizzazione sociale 86 Pulizia reciproca del pelo 89 Gridi di allarme 93 7. Le scimmie del Canale 99 Isla Colón 102 Lago Gatún 106 Il Santuario dei Primati 109 Progetto reinserimento primati 112 8. La foresta del Quetzal 117 La cultura Maya 122 Scimmie e territorio 129 Il Petén 130 9. La terra degli uomini liberi 133 Le scimmie urlatrici 135 The Baboon Sanctuary 140 10. Karibu tena 147 Il grande fiume (Ruaha) 149 Selous Park 152 Zanzibar: la "terra dei neri" 155 La foresta di Jozani 158 Un'alimentazione particolare 165 11. Scimmie ed epidemie 167 Il prezzo da pagare 171 Scimmie e vaccini 173 Appendice 177 Bibliografia 191 Indice analitico 203 |
| << | < | > | >> |Pagina XIIIL'uomo scimmia non racconta una storia. Non parla nemmeno del comportamento delle scimmie, come comunemente s'intende. I capitoli di questo libro toccano diversi argomenti i cui contenuti sembrano non essere collegati tra loro, ma che, nella realtà, hanno un filo conduttore in comune, vale a dire il rapporto tra l'uomo e le scimmie. Questa grande affinità può essere argomento di molte provocazioni, di cui in parte parleremo, nel senso che noi uomini spesso dimentichiamo le nostre origini, ci asteniamo dal giudicare noi stessi e ci ergiamo sopra tutte le altre specie animali (comprese le scimmie) facendo da padrone, come se ritenerci più intelligenti degli altri possa giustificarci da tutte le nostre nefandezze. Questo sarebbe il male minore (almeno per l'uomo). Il fatto è che noi uomini facciamo del male anche a noi stessi. Diciamo di distinguere ciò che è buono da ciò che è cattivo, decidiamo quali siano le specie animali utili da quelle inutili alla nostra sopravvivenza, decidiamo di distruggere foreste e bacini idrici naturali, pensiamo che siamo l'unico essere ad avere e diffondere cultura e pensiamo di essere l'unica specie cosciente delle proprie azioni, crediamo di essere giusti, di avere il senso della morale, di essere nobili sia nei sentimenti, sia nei fatti, e di non avere dubbi e incertezze sul futuro nel Mondo. Quando qualche milione di anni fa l'uomo comparve sulla faccia della Terra, non potevamo prevedere dove andasse a parare la nostra evoluzione. Certo è che abbiamo fatto grandi progressi. Da un lato, abbiamo sviluppato velocemente il nostro corpo e la nostra mente, abbiamo cominciato a occupare nicchie ecologiche che ci hanno salvaguardati dal pericolo di estinzione. Abbiamo combattuto, ci siamo difesi, opportunisticamente abbiamo preso dalla natura il meglio che ci potesse servire e abbiamo cominciato a invadere tutte le terre emerse. Alla fine, abbiamo avuto successo. Ma tutto ciò che abbiamo fatto negli ultimi 5-6 milioni d'anni, per collocarci al di sopra degli altri, spesso ci si è ritorto contro. Abbiamo cominciato a perdere la "dimensione animale" che ci caratterizzava nei primi momenti dell'evoluzione. Abbiamo assunto sempre più una dimensione umana, ma che d'umano, aveva, e ha, solo la parola. Abbiamo perso il senso dello sviluppo, non riflettendo che senza memoria evolutiva, non c'è futuro. Abbiamo dimenticato i nostri legami con il Regno Animale, soprattutto con quello delle nostre cugine: le scimmie, con le quali abbiamo percorso un lungo cammino evolutivo comune. Con molta difficoltà abbiamo accettato l'idea che le capacità cognitive e intellettive delle scimmie fossero, nella quantità e non nella qualità, diverse dalle nostre. Non abbiamo accettato assolutamente la somiglianza con questi esseri e non siamo stati disposti tanto facilmente a comunicare con loro, a chiedere che cosa desiderassero, soprattutto che cosa pensassero dell'uomo. Fino a qualche decennio fa abbiamo creduto che fosse stato possibile comunicare con loro unicamente attraverso il linguaggio articolato. Vi sono altri strumenti per la comunicazione interspecifica (vedi il linguaggio dei segni), ma quando sono stati usati e con successo, si è subito detto che fossero una sorta di stimoli condizionati e che le risposte delle scimmie fossero dovute a processi di associazione, risposte condizionate e che non dimostrassero nessuna creatività da parte delle scimmie. L'uomo ha sempre cercato di discriminare gli altri, sia che appartenessero alla stessa specie, sia che appartenessero a specie diverse. "Nobili e selvaggi" è una dicotomia che ha sempre influenzato il pensiero dell'uomo, sin dalle origini. Selvaggi erano gli uomini di Neandertal (Homo neandertaliensis) per gli invasori delle loro terre, i Cro-Magnon (Homo sapiens), perché non ne condividevano la cultura, le usanze, il modo di cacciare e soprattutto la stanzialità (Tattersall, 1995, 1998). | << | < | > | >> |Pagina 1L'umiltà è una tradizione culturale che è sempre esistita in tutte le società cacciatrici-raccoglitrici ed egalitarie del passato. L'uomo moderno ha cessato d'essere umile perché non vive più questa socialità. Cinque o sei milioni di anni fa, in una pianura sconfinata dell'Africa orientale, ricca di animali primitivi, di elefanti, di rinoceronti, di giraffe, di coccodrilli e di scimmie di vario genere, visse un primate, dal quale poi si sarebbero originati molti Ominidi, che molti antropologi sostengono assomigliasse moltissimo al nostro cugino più attuale, vale a dire lo scimpanzé comune (Pan troglodytes) (Fig. 1.1). Circa un milione di anni prima, questo essere occupò, molto probabilmente, una posizione intermedia, di mezzo ominide e mezzo scimpanzé, quella, insomma, di un uomo-scimmia, un essere che, tuttavia, può essere stato l'antenato comune dell'uomo, in pratica che si fosse trattato del famoso anello mancante di cui molti paleontologi parlano, discutono e di cui vorrebbero trovare più reperti che dessero la certezza della sua collocazione e delle sue caratteristiche genetiche mezze umane e mezze scimmiesche. C'è, infatti, chi dice che l'anello mancante, non solo non sia un anello, ma che forse non ci sia mai stato. Un noto primatologo americano, Craig Stanford (1999), sostiene che nulla di simile o qualcosa di rassomigliante a questo ipotetico punto di incrocio tra l'uomo e lo scimpanzé esiste. Nulla è, tuttavia, ancora definito. I resti fossili non sono sufficienti a dimostrare fatti concreti. Ciò che si può dire è che questo "essere" si alzò sui due piedi, 5-6 milioni di anni fa, mentre lo scimpanzé continuò a utilizzare tutti e quattro gli arti a terra e a ergersi saltuariamente. Aveva le dimensioni di uno scimpanzé, era alto quanto uno scimpanzé, aveva un cervello come quello di uno scimpanzé e probabilmente anche un'intelligenza come quella di uno scimpanzé attuale. Si sarebbe evoluto molto velocemente, avrebbe sviluppato uno scheletro, un'arcata dentaria e un cervello più vicino a quello dell'uomo che a quello dello scimpanzé. Avrebbe passato gran parte del suo tempo in piedi e specializzato le mani e le dita per svolgere nuovi compiti, per raccogliere il cibo, per tenere al seno la prole e per costruire strumenti, ma soprattutto per renderle più adeguate alla manipolazione degli oggetti che sarebbero poi stati trasformati in armi, sebbene all'inizio molto rudimentali. In effetti, gli strumenti litici, "chopping tools", in altre parole le scheggiature di pietre atte a ottenere bordi taglienti, sarebbero comparsi in una fase più avanzata della nostra evoluzione, cioè quando si passò definitivamente al Genere Homo, vale a dire al nostro genere, tra 2,3 e 3,9 milioni di anni fa (Johanson e Shreeve, 1990; Fedele, 1992; Schick e Toth, 1993; Giusti, 1994; Santangelo, 1998; Chiarelli, 2003). Alcune teorie sostengono che l'uso delle mani, nei primi Ominidi, abbia avuto addirittura una funzione sociale importantissima. L'azione del porgere cibo con le mani dei maschi alle femmine avrebbe favorito la ripartizione dei ruoli in base al sesso. Le femmine avrebbero avuto piu tempo per accudire la prole e i maschi per andare a caccia. Il tutto si sarebbe svolto grazie anche a una trasformazione dell'ambiente, che si è spogliato sempre di più della vegetazione che caratterizza oggi le regioni equatoriali, luoghi in cui tuttora vivono molti scimpanzé, e si sarebbe passati a un ambiente più aperto (la savana), che ha favorito l'evoluzione della nostra specie: l' Homo sapiens. In campo aperto, l'uso delle mani avrebbe favorito una raccolta del cibo più organizzata, allargata a molti membri del gruppo e svolta per lunghe distanze e in luoghi diversi. La savana avrebbe favorito anche un'eventuale e veloce ritirata dal campo aperto verso la foresta dei primi Ominidi per difendersi dai predatori. In un certo senso, è quello che oggi vediamo fare dagli scimpanzé che passano dalla foresta primaria, densa di vegetazione, al campo aperto della savana, e viceversa, senza problemi. Con questa forma di locomozione, in cui le mani non sono più d'impaccio all'andatura, si è favorito uno sfruttamento più vantaggioso delle risorse alimentari. I primi Ominidi hanno inoltre iniziato a cercare la carne, quindi a cacciare, sebbene ancora in modo molto rudimentale, con poca cooperazione e senza strumenti offensivi efficaci, proprio quando hanno cominciato a ergersi su due piedi e a praticare la locomozione bipede. Infatti, il consumo della carne è iniziato nel Pliocene, ossia circa 2,5 milioni di anni fa. | << | < | > | >> |Pagina 4Non ci sono più dubbi. Che l'anello mancante esista o non esista, noi e le scimmie antropomorfe dobbiamo aver avuto, per forza di cose, un antenato in comune. Non era una scimmia, come purtroppo molti luoghi comuni sostengono, ma un essere a essa molto simile, molto più vicino all' Homo sapiens e allo scimpanzé attuale che a qualsiasi altra specie di scimmia. È a circa 6 milioni di anni fa che possiamo farne risalire il distacco, il distacco dal ramo della famiglia dei Grandi Ominidi, cioè dei nostri antenati umani: Australopithecus (A. afarensis, A. africanus, e A. robustus), Homo habilis, Homo erectus e Homo sapiens neanderthalensis. Sono molti 6 milioni di anni? Evolutivamente no, e ciò che ora sembra si possa dire, con una certa fondatezza, è che il progenitore dello scimpanzé sia stato anche il progenitore dell' Homo sapiens, quel progenitore che ha spinto un noto primatologo americano, Jared Diamond (1991), a definire l' Homo sapiens uno scimpanzé umano o il terzo scimpanzé. Per Diamond gli altri due sono lo scimpanzé comune (Pan troglodytes) (vedi Fig. 1.1) e il bonobo (Pan paniscus) (Fig. 1.2). Che cosa sono 6 o, al massimo, 10 milioni di anni, rispetto al tempo intercorso tra l'origine della vita sulla terra, a oggi? Praticamente nulla. Ammesso che la vita sulla terra per originarsi e svilupparsi al livello attuale abbia impiegato 4,5 miliardi di anni (a 3-4 miliardi di anni fa risalgono le prime cellule fossili), questo periodo di tempo (6-10 milioni) rappresenterebbe solo lo 0,0013% del totale! È un tempo così breve e insignificante che non si può credere che in questo periodo si siano potute tanto stravolgere e differenziare la biologia comportamentale e la psicologia dell'uomo da quelle dello scimpanzé. Questo fatto, insieme a molte altre scoperte, fece riflettere molto coloro che credevano che la discendenza delle scimmie avesse dato origine, circa 20 milioni di anni fa, da un lato, al gruppo delle scimmie antropomorfe (Orango, Gorilla e Scimpanzé) e, dall'altro, a quello dell' Australopithecus (con tutte le sue varie specie), fino ad arrivare all' Homo sapiens. In fasi evolutive diverse, da un unico ceppo, che possiamo far risalire a 25-40 milioni, si è distaccato l'orango (10-15 milioni di anni fa) e il gorilla (6-9 milioni di anni fa). l' Australopithecus (4-6 milioni di anni fa) da cui poi si sarebbe evoluto l' Homo sapiens. Stiamo parlando dello stesso ceppo alle cui radici troviamo lo scimpanzé. Se così stanno le cose, lo scimpanzé è un Ominide a tutti gli effetti e non una scimmia del Vecchio Continente (l'Africa). I progenitori del gorilla (6-9 milioni) e quelli dello scimpanzé sono, pertanto, anche i progenitori dell'uomo, con la sola differenza che questa nostra parentela, cronologicamente, ci avvicina molto più a quella dello scimpanzé che a quella del gorilla, o dell'orango o a quella di tutte le scimmie del Vecchio Mondo (babbuini, macachi, colobi, cercopitechi ecc.). Ecco detto perché l'affinità dell'uomo con lo scimpanzé, prima di essere comportamentale, è genetica, ed ecco anche spiegato perché il 98% circa del patrimonio genetico di uno scimpanzé (cioè il DNA) è simile a quello dell'uomo. In conclusione, è ragionevole sostenere che lo scimpanzé moderno sia molto più vicino all'uomo che al suo antico progenitore: dall'uomo sarebbe lontano da un minimo di 6 milioni a un massimo di 10 milioni di anni, mentre dal nostro progenitore lo sarebbe di ben 25 milioni di anni. È solo ciò che rimane, per passare dal 98% al 100%, che caratterizza la differenza tra il comportamento dell'uomo e quello dello scimpanzé? Non c'è da meravigliarsi, ma sembrerebbe proprio di si e probabilmente questa piccola differenza ha determinato la nascita e lo sviluppo del linguaggio articolato nell'uomo. Per il resto, le affinità sono troppe per porre dei limiti e anche dei confini cognitivi e intellettivi tra noi e lo scimpanzé. | << | < | > | >> |Pagina 21Il noto filosofo e scienziato cognitivista americano Daniel Dennett (1969, 1991, 1995, 1996), che definisce la coscienza, metaforicamente, come un teatrino cartesiano in cui le storie degli uomini non sono che illusioni, in nome dell'oggettività scientifica, nega l'esistenza delle sensazioni soggettive e qualitative dell'individuo e quindi della coscienza. Secondo Dennett, la nostra mente viene esclusivamente governata da meccanismi materiali del nostro cervello e non da materiale spirituale, non da una res cogitans, come l'aveva chiamata Cartesio. Dennett immagina la coscienza come una macchina virtuale, una "pompa intuitiva" attraverso la quale si può capire l'attività della mente. Per Dennett, in fondo, la coscienza è stata sempre un'illusione filosofica. Vi sono però altri pensatori, soprattutto tra i massimi filosofi del linguaggio e John Searle (1976, 1992, 1997) è uno di questi, che pensano che la coscienza sia un'altra cosa da quella sostenuta da Dennett. Per Searle la coscienza ha un posto nella natura e deve essere collocata all'interno di una concezione scientifica del Mondo. Searle, provocatoriamente, giunge ad affermare che la coscienza è una proprietà biologica determinata da processi neurobiologici che si manifestano all'interno del cervello, non solo degli uomini, ma anche degli animali. Per Searle, in sostanza, la coscienza è un falso problema posto dalla filosofia. Searle sostiene che se non esiste alcun ostacolo allo studio del funzionamento del cervello, così deve essere anche per la coscienza. La coscienza è causata da attività nervose che si manifestano nel cervello e quindi la coscienza, dal momento che da essa dipende, è una caratteristica del cervello stesso. Dennett e Searle sono quindi su due posizioni abbastanza diverse, posizioni che arrovellano le menti di coloro che si chiedono che cosa sia veramente la coscienza, se sia ciò che sostiene il primo o se sia una cosa distinta, come sostiene il secondo, su quale sia la sua vera natura e quella degli stati mentali in generale, se sia come un calcolatore che possa pensare oppure no, o addirittura che sia, come sosteneva Aristotele, l'anima intellettiva. Altri studiosi si chiedono se noi uomini ci comportiamo sulla base di situazioni emozionali, di desideri e credenze o se vi siano addirittura delle leggi che collegano questi stati mentali a quelli materiali oppure che non esistano né volizioni coscienti, né tanto meno libertà cosciente di scegliere e che quindi, in realtà, sia tutto un'illusione (Di Francesco, 1996, 2000; Carli, 1997, 2003; Bignetti, 2001). Molto più tardi di Cartesio, ma molto prima di Dennet e Searle, il filosofo americano William James (1890), padre della scuola psicologica del funzionalismo notevolmente influenzata dalle teorie evoluzionistiche di Darwin, affermò che la coscienza poteva essere oggetto di studio psicologico, anche se era chiaro che i processi mentali "coscienti", al pari di quelli fisici, dovevano aver subito un lungo processo evolutivo e come tali dovevano essere indagati. Fino ai primi decenni del XX secolo, la coscienza si studierà secondo le teorie funzionalistiche, però poi, con il behaviorismo o comportamentismo americano (altra scuola psicologica di rilievo che nasce ufficialmente nel 1913, cioè l'anno in cui il fondatore John B. Watson, tra l'altro allievo di James, proporrà, in un manifesto, un nuovo modello di studio delle attività mentali) le cose cambieranno radicalmente. Con il behaviorismo non si parlerà più e tanto meno si studierà la "coscienza" in quanto tale. Per i behavioristi watsoniani la coscienza non esisteva. Non poteva essere oggetto di studio psicologico e tanto meno sperimentale. Quello che ora possiamo dire, indipendentemente dalla diatriba e dalla conoscenza di come siano andate le cose, è che nulla di più e nulla di meno si è potuto aggiungere alla convinzione che anche gli scimpanzé possono avere una coscienza, o meglio se siano, o non siano, coscienti sé. Noi siamo convinti che la coscienza non solo esista e possa essere oggetto di indagine scientifica, ma che esista anche negli scimpanzé. In sostanza, un approfondimento della discussione sulla coscienza o mente cosciente, cioè se essa esista o non esista come esperienza che sopravviene sul fisico, in base a proprietà biochimiche, o addirittura, come sostengono diversi scienziati, in base a proprietà atomiche quantistiche e il modo in cui certe strutture fisiche possano dar luogo all'esperienza cosciente, sarebbe molto interessante, ma ci porterebbe fuori tema. A tale riguardo, non possiamo fare a meno di accennare a un ultima ipotesi, tanto straordinaria quanto bizzarra, del famoso scienziato premio Nobel per la Medicina nel 1962, Francis Crick (1994). Egli sostiene che i correlati neurali della nostra coscienza siano addirittura costituiti da onde elettromagnetiche corticali che oscillano a 40 Hertz e che tutte le nostre esperienze siano in effetti rintracciabili in questa attività fisica e neurale della corteccia. La coscienza per Crick è una proprietà che emerge da un fenomeno neurale, da un'attività nervosa, di cui il neurone è l'elemento funzionale essenziale. Un altro neuroscienziato, insignito, anche lui, di un Premio Nobel per la Medicina e Fisiologia nel 1972, Gerald Edelman (1992), sostiene, invece, che la mente possa essere compresa solo per mezzo di un modello neuro-scientifico di tipo evoluzionistico, anche se noi uomini siamo convinti che la coscienza sia una proprietà ad alto livello e non dovrebbe quindi sopravvenire a niente, né tanto meno a fenomeni fisici. In definitiva, si potrebbe considerare la coscienza un "incidente della natura" che nel corso dell'evoluzione non ha subito grandi trasformazioni. Potrebbe trattarsi di una scomoda appendice di altri fenomeni biologici e mentali che nel corso dei millenni si è però adattata sempre di più e meglio all'ambiente o, per meglio dire, alle esigenze sociali dell'uomo per dominare sulle altre specie animali. In conclusioni, la coscienza potrebbe essere tutto e il contrario di tutto. Ciò che comunque sorprende, ogni volta che la "si tira in ballo", è che in psicologia sperimentale molto spesso se ne potrebbe benissimo fare a meno. Non interessa stabilire che cosa sia in senso stretto, se sia distinta dalla mente o se ne faccia parte, se sia un insieme di operazioni del cervello, ma piuttosto come noi uomini e le scimmie perveniamo alla Conoscenza del Mondo. Se così stanno le cose, nulla ci vieta di credere che le nostre cugine possano pensare e avere una conoscenza delle cose. Esistono molti esempi che dimostrano l'esistenza della loro capacità di pensare come gli uomini. In sostanza, se la coscienza esiste, indipendentemente che essa sopravvenga, o non sopravvenga al mondo fisico, che si possa indagare o non indagare scientificamente, non è fondamentale, importante è che essa ci consenta di essere consapevoli delle nostre esperienze, delle nostre emozioni e soprattutto dei nostri sentimenti, esattamente come nelle scimmie. Se un sentimento si traduce in un'idea che noi ci facciamo del nostro corpo nel momento in cui emozionalmente lo proviamo, non dovremmo sorprenderci che anche uno scimpanzé possa provare lo stesso. | << | < | > | >> |Pagina 30Negli scimpanzé è stata inoltre dimostrata un'intenzionalità individuale e collettiva, cioè di gruppo. Nella caccia con i bastoncini alle termiti Macrotermes, le femmine di scimpanzé sono più diligenti dei maschi, si impegnano di più e più a lungo, soprattutto quando ci vuole più pazienza, cioè nei periodi in cui la caccia è più difficile perché i termitai sono più duri e hanno poche vie di accesso in cui infilare l'esca (il bastoncino). Le intenzionalità, come le regole del comportamento, servono per agire in accordo sociale e secondo la ripartizione dei ruoli che negli scimpanzé è molto marcata. Data la complessità della vita sociale di questi animali, ma anche di molti altri primati non umani, è inimmaginabile un controllo collettivo casuale e istintivo del gruppo. Le relazioni sociali di uno scimpanzé sono molto più complicate di quelle che si stabiliscono, per esempio, in un formicaio (per quanto la distribuzione dei ruoli in questi animali sia molto articolata). La complessità sta soprattutto nell'imprevedibilità degli accadimenti a cui i comportamenti degli scimpanzé si devono modellare. Se non avessero questa flessibilità, troverebbero difficoltà a rispondere adeguatamente a nuove esigenze ambientali e sociali. A uno scimpanzé si può far cambiare il suo menù, farlo passare da un tipo di alimentazione a un altro. Questo è più difficile farlo con un altro mammifero, assolutamente impossibile con un insetto.| << | < | > | >> |Pagina 31[...] Inoltre, sappiamo che nello stadio pre-linguistico del bambino, il comportamento intenzionale è appena abbozzato. Nello scimpanzé, non è diverso né il comportamento intenzionale né la fase pre-linguistica che assomiglia perfettamente a quella del bambino. Diverso dal bambino è solo lo strumento di cui lo scimpanzé (né da piccolo, né da adulto) può morfologicamente disporre. Più semplicemente, l'anatomia della bocca dello scimpanzé non consente materialmente l'emissione dei suoni o dei fonemi adeguati. Nel bambino, invece, con il dominio graduale degli strumenti (bocca, lingua, faringe, laringe, glottide, palato) aumenta la padronanza del linguaggio e aumenta anche quella del comportamento intenzionale. È pertanto assolutamente sbagliato ritenere che si possano attribuire stati intenzionali solo agli individui che sappiano parlare, cioè l'uomo.Per quanto riguarda la comunicazione, tra noi e lo scimpanzé lo scarto è solo di qualità. Certo, con uno strumento più sofisticato si potrebbe migliorare la qualità della comunicazione, sebbene quella umana rimanga articolata, quella dello scimpanzé gestuale. Tutto ciò, però, non toglie che, come aveva ben intuito Darwin, la gestualità, non la vocalizzazione, non sia stata la strada iniziale su cui si è evoluto il linguaggio articolato. In questo senso, il gesto sarebbe molto più antico della parola (Tartabini, 2001, 2002, 2003). | << | < | > | >> |Pagina 60Come ha osservato Bluffer-Hrdv (1977) nell'entello, i piccoli venivano uccisi violentemente e con un solo colpo, con un morso alla scatola cranica o spezzandogli l'osso del collo. In altri casi venivano presi violentemente per i piedi e sbattuti come stracci al suolo o sui rami degli alberi. Perché nell'entello si arriva a tanta atrocità e sangue? Certo, il comportamento infanticida dell'entello non si può paragonare a quello umano. Da questo punto di vista, noi uomini dovremmo vergognarci, molto più dell'entello, di appartenere alla specie umana. Tutta la nostra storia è costellata di raccapriccianti violenze rivolte verso l'infanzia, di false statistiche, pregiudizi, ideologie politiche ed economiche di comodo per coprirle e, quel che è più grave, di violenze basate su un travisamento delle stesse teorie darwiniste e sulla mistificazione del concetto di istinto femminile relegandolo a uno stereotipo di donna come progettata passivamente dalla natura ad assumere il ruolo materno (Bluffer-Hrdy, 1981, 1999; Small, 1984). L'uomo ha spesso cercato di nascondersi dietro a un dito. È ipocrita dire che tutto fa parte di un disegno e che i più forti sopprimono i più deboli, perché è una legge della natura. Darwin (1859, 1871) non ha mai sostenuto ciò. Grazie a Dio, la natura non ha alcun disegno. Non progetta e non prevede il futuro. Se andiamo poi a vedere bene, è vero che l'infanticidio è presente in diverse specie animali, ma, a parità di densità di popolazione, di risorse alimentari e di diverse altre variabili fondamentali, negli animali è certamente meno diffuso che nell'uomo.
L'entello non commette mai infanticidio su larga scala. In nessuna specie
animale ciò avviene e in nessuna diventa una questione razziale, perché gli
animali, sebbene siano consapevoli e coscienti delle loro azioni, abbiano
buona memoria e intenzionalità, non si lasciano influenzare dalle differenze
razziali, anche perché, nel loro mondo, le razze non esistono. Negli animali
la razza è il risultato di una selezione artificiale imposta dell'uomo. Le razze
non sorgono spontaneamente. La razza animale è stata un'invenzione dell'uomo. È
contronatura. Volutamente questo concetto è stato sempre confuso con quello di
variabilità biologica, che è un'altra cosa, che ci rende gli uni diversi dagli
altri, con capacità immunitarie distinte, con potenzialità adattive e culturali
diverse e che non possono essere volutamente soppresse o omogeneizzate. Il
concetto di razza è antitetico e i criteri per definire l'appartenenza a una
razza variano da una parte all'altra del mondo (Marshall, 1998; Templeton, 1998;
Bamshad e Olson, 2004). Tanto più il concetto di razza umana si rafforza, tanto
più l'uomo va verso la divisione e la guerra.
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