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| << | < | > | >> |Indice1 Prefazione 7 1. Prosperità in mare Il mondo mediterraneo 21 2. Dove sono quei giorni? La formazione di un pirata 45 3. Preludio all'inferno Diventare "turchi" sulla costa della Barberia 59 4. La terra gli va troppo stretta Danseker l'Olandese 75 5. Rinato agli occhi di Vostra Maestà Amnistie e pragmatismo sotto Giacomo I 99 6. Ricchi forzieri ricolmi di coraggio Reagire ai pirati 115 7. Intenti proditori Gli inglesi inviano una flotta contro Algeri 141 8. Pescatori di uomini Il sacco di Baltimore 159 9. Il giogo del servaggio Storia di uno schiavo 179 10. La massima calamità per gli algerini L'occupazione di Tangeri 197 11. Accordi fatti e disfatti Fare pace con la Barberia 221 12. Il gioco non vale la candela L'evacuazione di Tangeri 233 13. L'ultimo corsaro Colonialismo, conquista e fine dei pirati barbareschi 259 Ringraziamenti 261 Note 279 Bibliografia 291 Indice analitico |
| << | < | > | >> |Pagina 1PrefazioneI pirati sono storia. La storia della mia ossessione personale per loro risale a circa dieci anni fa, in un periodo in cui stavo svolgendo ricerche su una famiglia inglese del XVII secolo, i Verney. Nel 1608, un gentiluomo di campagna, Sir Francis Verney, litigò con la sua matrigna e andò nel Nord Africa dove si fece musulmano e si dedicò a una breve ma spettacolare carriera come pirata della costa della Barberia. E io volevo sapere perché e come fosse accaduto. Altri inglesi sono diventati "turchi" come Sir Francis? Ho scoperto di sì. E quindi mi sono chiesto quale fosse la vita di questa comunità di rinnegati che agivano nello iato tra cristianesimo e islam, una comunità che sembrava muoversi senza sforzo tra questi due mondi. Nel tentativo di rispondere a tali domande, ho scoperto le storie che compongono questo libro – racconti di audacia, brutalità e tradimento, in cui eroi e mascalzoni cambiavano ruolo con una facilità pari a quella di certi romanzi di spionaggio della guerra fredda. Ho constatato che la rapina in alto mare era lungi dall'essere quell'iniziativa privata che immaginavo fosse. Dietro a essa, c'era un complesso sistema di crimine socializzato, autorizzato e regolato dallo stato, un primo ed efficace esempio di compartecipazione tra pubblico e privato. E sono giunto a capire l'enorme dimensione del traffico mediterraneo di schiavi, un commercio che ha privato della libertà circa un milione di europei e almeno altrettanti nordafricani durante il XVII secolo. Mentre stavo lavorando all'intreccio di narrazioni che compongono Pirati, sui media sono apparse storie di pirateria moderna. Inizialmente si è parlato dell'Indonesia, poi si sono avute notizie di pirati nigeriani che si servivano di piccole imbarcazioni veloci per depredare pescherecci lungo le coste dell'Africa occidentale. Nel 2007 la media era di due attacchi alla settimana, che sono diventati due al giorno nei primi mesi del 2008. A calamitare la mia attenzione sono stati i somali. Adottando le stesse tattiche dei nigeriani — le stesse tattiche, in effetti, di quei pirati della Barberia di cui stavo scrivendo —, gruppi di miliziani somali hanno cominciato a saccheggiare navi mercantili lungo le coste della Somalia, che con i suoi 3025 chilometri è la più lunga dell'Africa. Alcune delle loro armi erano diverse, vecchi kalashnikov e arrugginiti lanciagranate al posto di colubrine e coltellacci, ma altre non sono cambiate in quattrocento anni. Si affidano ancora, per esempio, alla sorpresa, all'intimidazione e alla forza fisica. Nel 2008 si sono così avute centotrenta tra rapine e tentate rapine compiute in alto mare da pirati somali. Un cargo ucraino, carico di pezzi antiaerei, granate, missili e carri armati russi, è stato saccheggiato in settembre, e due mesi dopo i pirati si sono impossessati della Sirius Star, una superpetroliera del costo di 150 milioni di dollari e grande tre volte una portaerei. I pirati sono storia? La storia si sta ripetendo. Mentre scrivevo di come un pugno di uomini, servendosi di piccole imbarcazioni, scale di corda e nudo coraggio, sia riuscito a ricattare il mondo del XVII secolo, vedevo alla tv un pugno di uomini che, servendosi di piccole imbarcazioni, scale di corda e nudo coraggio, sono riusciti a ricattare il mondo nel XXI secolo. E le somme coinvolte erano enormi. I proprietari del cargo ucraino, la motonave Faina, hanno dovuto spendere 3,2 milioni di dollari per riavere il loro battello. La Sirius Star con il suo equipaggio e il carico di due milioni di barili di petrolio è stata restituita in cambio di 3 milioni di dollari. Durante l'inverno 2008-2009, i rappresentanti delle compagnie di assicurazioni marittime di tutto il mondo si sono riuniti a Londra per discutere il problema della pirateria africana. Personaggi importanti hanno condannato i pirati somali quali flagello della marineria moderna, definendoli «feccia» ed esigendo una risposta concertata da parte della comunità internazionale — esattamente come avevano fatto nella Londra del XVII secolo. Nel frattempo, gli armatori hanno cominciato a evitare il golfo di Aden — esattamente come quattro secoli prima avevano evitato le coste della Barberia. Gli armatori di enormi petroliere, quelle indicate con la sigla VLCC (Very Large Crude Carriers), si sono rifiutati di servirsi del canale di Suez. Le navi sono state costrette a doppiare il Capo di Buona Speranza o a percorrere il Passaggio a Nordest russo, navigabile senza l'ausilio di rompighiaccio per la prima volta nella storia in conseguenza del riscaldamento globale. Le Filippine hanno vietato ai loro cittadini di imbarcarsi su navi che avrebbero dovuto transitare al largo della Somalia, e ad altri marinai è stata aumentata la paga a fronte del pericolo. Si sa di cittadini iraniani e pachistani che si sono uniti ai somali, facendo balenare lo spettro del jihad e di connessioni con Al-Qaeda. Nell'estate del 2009 un deputato repubblicano ha proposto al congresso americano un disegno di legge che attribuiva l'immunità a qualsiasi marittimo americano avesse ferito o ucciso un pirata in risposta a un attacco. Mentre le comunità dei pirati li consideravano eroi, la comunità internazionale ha fatto intervenire le proprie navi da guerra. Nel 2009 la marina degli Stati Uniti ha formato una task force multinazionale incaricata di condurre operazioni antipirateria nel golfo di Aden e nei dintorni. Alle navi da guerra appartenenti alla Task Force Combinata 151 (CTF-151) della Quinta flotta della marina americana si sono unite quelle dell'Operazione Atalanta, la prima operazione antipirateria in assoluto dell'Unione europea, che ha affidato alle navi da guerra il compito di «mettere fine ad atti di pirateria e rapine a mano armata eventualmente compiuti nelle zone in cui sono presenti». Norvegia, Cina, Russia e Corea del Sud hanno inviato navi e lo stesso hanno fatto India, Turchia e Pakistan. E alla Croazia, bramosa di partecipare all'Operazione Atalanta per favorire la sua entrata nella Ue, è stato concesso di inviare una nave solo previa promessa di rispettare i diritti umani di eventuali pirati catturati dalle sue forze. Il Giappone ha rinunciato in parte al suo pacifismo costituzionale per poter inviare due cacciatorpediniere. Nell'estate del 2009 navi da guerra, velivoli e personale militare di ventidue nazioni stavano pattugliando circa sei milioni di chilometri quadrati di oceano nella più grande operazione antipirateria che il mondo abbia mai visto. È stato un fallimento, e continua a esserlo esattamente per le stesse ragioni per cui tali operazioni non andavano a segno in passato: come mostra la storia dei pirati della Barberia, la soluzione a lungo termine del problema va cercata in terraferma, e può essere ottenuta soltanto introducendo trasformazioni fondamentali in una cultura che considera la pirateria un'attività legittima. Tra i corsari della costa della Barberia del XVII secolo e i pirati somali del XXI c'è un altro parallelismo. In Occidente né gli uni né gli altri sono stati in grado di raggiungere la fama dei bucanieri americani – gli Henry Morgan e i Capitan Kidd, gli Errol Flynn spacconi dei vecchi romanzi di avventura. Quei pirati sono stati trasformati dagli storici in eroici ribelli senza causa, allegri anarchici e ardenti democratici, protomarxisti e protocapitalisti, assertori di principi di uguaglianza sociale e razziale, lodevoli dissidenti anziché farabutti. I pirati dell'Africa, passati e contemporanei, non hanno avuto la stessa sorte. Il mondo occidentale li ha considerati irreconciliabilmente altri – non ribelli contro l'autorità ma meri criminali, non coraggiosi Robin Hood (cosa che farebbe di noi occidentali altrettanti sceriffi di Nottingham) ma ladri e vigliacchi. Laddove i pirati nordafricani della Barberia si definivano mujahidin, impegnati in un jihad marittimo contro l'invadente cristianesimo, dal canto suo il cristianesimo li dipingeva come demoni, tesi al dominio del mondo. Quando i capi pirati somali del giorno d'oggi affermano che i veri banditi sono coloro che depredano le loro risorse ittiche e inquinano le loro acque costiere, noi li comprendiamo ma poi inviamo navi da guerra. Un sotteso razzismo e un più scoperto anti-islamismo rende difficile immaginare un Capitan Blood o un Jack Sparrow in veste di musulmano nordafricano. E quale film sui moderni pirati potrebbe essere in preparazione a Hollywood mentre scrivo, un thriller su una coraggiosa banda di somali o un Black Hawk Down sulle forze americane che combattono con scarse probabilità di successo nel golfo di Aden? A voi la scelta. I pirati sono storia. Che cosa ci mostra la storia della pirateria sulla costa degli stati barbareschi o su quella del Corno d'Africa? Che non impariamo mai la lezione? Che inventiamo i nostri eroi? Che quelli a cui noi assegniamo la parte dei demoni lo fanno anche troppo bene? Tutte queste cose insieme. E soprattutto, ci mostra che anche i demoni sono esseri umani. | << | < | > | >> |Pagina 71. Prosperità in mare
Il mondo mediterraneo
In una gelida giornata del dicembre 1609 un solenne gruppo di uomini percorreva in battello il Tamigi, con lentezza e dignità, dalla prigione di Marshalsea a Southwark verso Wapping. Con la bassa marea, la prima barca accostò e il rumore dell'acqua che lambiva i piedi della scalinata e sciabordava sul denso fango puzzolente era sommerso dalle grida di una folla che si era raccolta davanti alle gru di legno e ai magazzini. Gli uomini che erano a bordo si fecero strada tra il fitto assembramento, in direzione di una forca che proiettava la sua lunga, sinistra ombra sulla riva del fiume. In testa alla processione avanzava uno sceriffo dell'Alta Corte dell'Ammiragliato che impugnava come bastone di comando un piccolo remo d'argento. Era seguito da un boia, da una cappellano della prigione, da conestabili e da diciassette uomini che camminavano a testa bassa e con le mani legate strettamente. Questi ultimi erano tutti pirati della Barberia e nessuno di loro quella sera avrebbe visto il sole tramontare. La pirateria è un duro mestiere. Per essere un buon capitano di pirati sono indispensabili un'eccellente abilità marinaresca, un'ottima capacità di comando, una buona dose di brutalità e un'indifferenza per la moralità convenzionale. E, dal momento che per vivere si deve affrontare costantemente la morte, bisogna essere audaci. Quegli uomini lo erano. Mentre affrontavano da soli la morte, in quella fredda giornata d'inverno, ciascuno di loro doveva avere rabbrividito al pensiero di ciò che avrebbe potuto fare di diverso – una strada non imboccata, una pietra non capovolta. Nessuno di loro si rendeva conto – e come avrebbero potuto? – di essere protagonista di una tradizione che condizionava i rapporti tra il cristianesimo e l'islam nel XVII secolo. Una tradizione che continua tutt'oggi a influenzare questi rapporti. Quei pirati della Barberia non avrebbero potuto volgere lo sguardo oltre il tramonto. Il primo a rivolgersi alla folla rumorosa fu il capitano John Jennings, la cui cruenta carriera nel Mediterraneo occidentale e nell'Atlantico era durata un decennio prima che il suo equipaggio lo tradisse e lo consegnasse alle autorità. Due dei suoi uomini gli erano rimasti fedeli: la loro ricompensa consistette nel pendere dalla corda con lui. E fu a loro, più che agli spettatori schiamazzanti, che il capitano Jennings rivolse il suo ultimo discorso. I due lo avevano seguito «per i gradini della trasgressione sulla terra», ricordò loro, dove «pallottole fitte come grandine avevano fischiato alle loro orecchie», e ancora dovevano seguirlo. «Io vi precedo sulla strada della mia salvezza in cielo, dove ci ritroveremo tra le schiere degli angeli.» Con questa alquanto ottimistica predizione si voltò e salì la scala del patibolo. Uno alla volta gli altri sedici pirati lo seguirono, alcuni incupiti, altri pentiti, tutti spaventati e ben decisi a morire con coraggio. William Longcastle, William Taverner e John Moore, che avevano già negato di aver depredato una nave mercantile al largo del Marocco, resero piena e pubblica confessione: Taverner lo fece tenendo costantemente gli occhi al cielo e dichiarando, mentre saliva sul patibolo, che «questa è la scala di Giacobbe dai cui gradini so per certo che sarò portato in cielo». Il capitano James Harris, nativo di Bristol, capo di una banda che saccheggiava le navi mercantili lungo la costa della Barberia dal Marocco a Tunisi, andò spavaldamente incontro al Creatore strappandosi con gesto noncurante il cappello mentre saliva la scaletta. A voce alta intonò salmi, e quando qualcuno tra la folla chiese se non avesse notizie di una grazia da parte del re, rispose: «Nessuna, Sir, ma l'ho avuta dal Re dei Re». Fra gli ultimi a venire impiccati furono i fratelli John e Thomas Spencer, entrambi uomini della ciurma del capitano Harris. John morì compostamente, ma l'atroce lentezza della morte di Thomas azzittì i lazzi della folla dato che, mentre soffocava, oscillava furiosamente al breve canapo, tempestando di pugni il petto del fratello morto.
Le diciassette esecuzioni vennero compiute in un'ora. Harris, il
cui cadavere era stato comprato da un parente, fu calato dal patibolo
e portato a cristiana sepoltura. Gli altri furono lasciati appesi, tradizionale
ammonimento, finché l'alta marea li dilavasse per tre volte.
Poi vennero venduti per la dissezione o incatramati e chiusi in gabbie
lungo il Tamigi, dove i loro corpi rimasero a oscillare dolcemente alla
brezza, come promemoria, per i marinai di passaggio, della spaventosa punizione
assegnata alla pirateria.
Il capitano Harris aveva reso piena confessione, copie della quale a poche ore dalla sua morte erano in vendita in tutta Londra. Aveva raccontato di come si era dedicato alla pirateria dopo essere stato catturato e imprigionato a Tunisi. Di come aveva predato piccole navi mercantili che facevano vela nei cosiddetti Mari Stretti, ossia la Manica, il mare d'Irlanda e lo Stretto del Mare del Nord che separa l'Inghilterra dall'Olanda. Raccontò di avere percorso i mari dalla costa atlantica della Spagna allo stretto di Gibilterra nella speranza di imbattersi in navi di ritorno dal Vicino Oriente, magari un'imbarcazione rimasta isolata della Flota de Indias, l'annuale convoglio che portava argento, oro e gemme dalle Americhe alla Spagna. «Assicurandomi la felicità a spese delle miserie di altri uomini» continuò «ho pensato che la prosperità in mare fosse salda nella mia stretta quanto sulla mia lingua la capacità di parlare.» La carriera di Harris finì all'inizio del 1609, quando fu sorpreso da una nave del re mentre attraccava per rifornirsi a Baltimore, sulla costa irlandese. Spesso i pirati cercavano rifugio in remote cale e porti dell'Irlanda sudoccidentale dove i nativi erano amichevoli e pronti a offrire ospitalità di ogni genere, con grande indignazione dei rappresentanti inglesi della corona. La prostituzione era diffusa, e pezzi da otto reales spagnoli e ducati della Barberia erano accettati in taverne e botteghe al pari degli scellini inglesi. «Finché le coste non saranno abitate da soggetti più onesti e i porti meglio difesi» ebbe a dire nel 1608 il Lord Deputy, il governatore d'Irlanda, Sir Arthur Chichester, non ci sarebbe stata speranza di risolvere il problema. L'Irlanda «può venire giustamente definita l'asilo e il deposito dei pirati» dichiarò l'ex pirata Henry Mainwaring. Una sola nave del re era permanentemente di stazione nella zona, la Tremontane, di ben ventidue anni, ormai decrepita, che poteva essere sconfitta da qualsiasi nave pirata. Inoltre il governatore provinciale dell'Irlanda sudoccidentale, Sir Henry Danvers, aveva adottato un approccio piuttosto lassista nei confronti della pirateria. Dopo che un gruppo di pirati era apparso sulla costa della contea di Cork e se ne era andato indisturbato, a Londra si era diffusa la voce che Danvers si fosse chissà come procurato venti casse di zucchero e quattro casse di corallo. I suoi superiori conclusero che era un indizio di eccessiva familiarità e lo richiamarono in patria. Per i pirati, il problema con l'Irlanda consisteva nel fatto che di tale condiscendenza non ci si poteva fidare, come aveva dovuto constatare a proprie spese il capitano Harris. Uno dei compagni di patibolo del capitano a Wapping, John Jennings, aveva avuto anch'egli la carriera troncata durante una visita in Irlanda. Era stato catturato a Limerick ubriaco al punto di non essere in grado di trascinarsi alla sua nave; nel frattempo i suoi compagni avevano fatto un patto con le autorità ed erano salpati lasciandolo al suo destino. L'effettivo terreno di caccia di pirati come Harris e Jennings era il Mediterraneo, il «mare in mezzo alle terre». Andando dallo stretto di Gibilterra a occidente alla Terra Saryfa a oriente, con un'estensione complessiva di quasi tre milioni di chilometri quadrati, era non soltanto «il luogo d'incontro di molti popoli, e la convergenza di molte storie», come lo ha definito il grande storico francese Fernand Braudel, ma anche il più grande mercato del mondo. Le sue maree si alzavano e abbassavano lungo le rive di oltre trenta regni e repubbliche, sultanati, beilicati, principati e ducati. Quelle acque erano percorse da navi di tutte le forme e dimensioni: galeoni a tre alberi addetti al traffico di legname da Venezia e Ragusa, l'attuale Dubrovnik; piccole caravelle a vela latina per la navigazione costiera; rapide, snelle galee con banchi di remeggio e schiere di schiavi sudanti e con le teste rasate; polacche che facevano la spola tra le isole; saettie, scialuppe e barchi. I loro carichi consistevano in tutto quanto potesse essere comprato, venduto o scambiato, dagli stoccafissi pescati sulle coste di Terranova agli schiavi nubiani catturati lungo le rive del Nilo. La potenza dominante nel Mediterraneo e insieme il mercato più vasto era l'Impero ottomano, un conglomerato di territori conquistati e stati vassalli che si estendeva per migliaia di chilometri dalle rive del mar Caspio a est fino quasi all'Atlantico, e a sud fino al Mar Rosso e al golfo Persico. Il suo centro era Istanbul, e abitanti dell'Algeria, di Atene e dell'Armenia pagavano tributo al sultano ottomano nel palazzo Topkapi; lo stesso facevano la Bulgaria e Baghdad, Il Cairo e la Crimea, l'Ungheria e lo Yemen. L'Europa cristiana era spaventata dall'Impero. Da quando gli eserciti del sultano Mehmet II avevano conquistato Costantinopoli nel 1453, la Spagna e Venezia, le maggiori potenze cattoliche del Mediterraneo, avevano dovuto far fronte alla minaccia rappresentata dai turchi per l'identità culturale dell'Europa cattolica. In parte, le stesse angosce assillavano le nazioni dell'Europa settentrionale. In Germania, congregazioni protestanti pregavano che Dio «ci preservi con la sua grazia dai mostruosi disegni del Turco», mentre i loro ministri del culto predicavano paura e odio dal pulpito e ricordavano che «il Turco è un nemico che ci depreda di denaro e beni, di mogli e bambini, e maltratta i popoli in maniera orribilissima, ma il cui vero scopo e intento è di sradicare il nome di Cristo per mettere al Suo posto il suo proprio diavolo, Maometto». Nel 1575 l'ecclesiastico inglese Thomas Newton scrisse che turchi e saraceni erano un tempo «lontanissimi dal nostro clima e regione e pertanto meno temibili, mentre adesso sono alle nostre porte e pronti a entrare nelle nostre case». All'inizio del XVII secolo l'islam cominciava a essere definito «l'odierno terrore del mondo». La cultura cristiana demonizzava i musulmani come crudeli, aggressivi e depravati, e legittimava coloro che volevano far loro del male. Gli attacchi alla navigazione musulmana nel Mediterraneo, ideologicamente motivati dall'ordine religioso e militare dei Cavalieri di San Giovanni, erano una delle espressioni della mentalità crociata che insegnava essere dovere dei cristiani combattere, come dice il vescovo di Carlisle nel Riccardo II di Shakespeare, «per Gesù Cristo nel glorioso campo cristiano, avventando l'insegna della croce cristiana contro pagani neri, turchi e saraceni». L'Impero ottomano rispondeva per le rime. Giannizzeri percorrevano marciando le rive del Danubio, minacciavano Vienna, si scontravano con la Spagna, toglievano prima Cipro e poi Creta ai veneziani. E nel Mediterraneo Istanbul permetteva ai suoi satelliti, a volte incoraggiandoli attivamente, di condurre guerre per procura contro l'avanzante cristianesimo facendo base lungo la costa della Barberia nel Nord Africa, che si estendeva per duemila miglia dal Marocco, dove il Sahara occidentale si incontra con l'Atlantico, a nord oltre le colline ai piedi dell'Atlante fino allo stretto di Gibilterra e verso est fino al margine meridionale del Mediterraneo, dove si prolunga nel golfo della Sirte al limite del deserto libico. Nei primi anni del XVI secolo due fratelli si erano distinti come figure di primo piano nella lotta musulmana contro le ambizioni cristiane nel Nord Africa. Noti in Europa come i Barbarossa per via del colore della loro barba, Oruç e Hizir erano i figli di un ufficiale di cavalleria turco a riposo che si era dedicato a una fruttuosa produzione di terraglie sull'isola greca di Lesbo. Stando a una fonte, Oruç era stato attaccato dai Cavalieri di San Giovanni mentre sulla nave di suo padre con un terzo fratello, Ilyas, rientrava da un viaggio d'affari nel Levante. Ilyas era morto nello scontro e Oruç era stato catturato e abbancato come schiavo di una galea. | << | < | > | >> |Pagina 1599. Il giogo del servaggio
Storia di uno schiavo
«Al sorgere del mattino scorgemmo tre navi a circa tre o quattro leghe sottovento.» Le vittime della pirateria della costa della Barberia hanno lasciato decine di racconti di prigionia. Per lo più sono strazianti. Alcuni sono eroici. I pochi che fanno eccezione sono carichi di odio. Ma ognuno di essi contiene una frase come questa. Il ricordo della paura è palpabile, onnipervasivo, comune a tutti. Il momento è sempre lo stesso. Questo momento particolare, che coincideva con il sorgere del sole sull'oceano Atlantico sabato 10 agosto 1639, riguarda William Okeley, autore della più notevole di tutte narrazioni di prigionia. La nave di Okeley, la Mary di Londra, stava portando stoffe e coloni all'isola di Providencia, uno stanziamento al largo dell'odierno Nicaragua. La Compagnia dell'Isola di Providencia era stata fondata nel 1629 da un gruppo di aristocratici puritani inglesi, il cui sogno era di creare un santuario timorato di Dio dove i protestanti potessero adorarlo a modo loro, senza interferenze da parte della Chiesa o dello Stato. D'altra parte, furono proprio loro a creare qualche interferenza. Nella sua breve esistenza, Providencia era già diventata celebre per i suoi bucanieri, crociati anticattolici che depredavano le flotte dell'argento spagnole. Da promettente abitante di Providencia, Okeley era permeato di una buona dose di xenofobia puritana e ce l'aveva con cattolici, turchi ed ebrei, «miracoli menzogneri», preti, frati, ateismo, orgoglio e impudenza. Quando quel mattino d'estate apparvero i pirati, la Mary era a sei giorni di vela dall'isola di Wight, e faceva parte di un convoglio con altre due navi dirette al Nuovo Mondo. Ormai in pieno Atlantico e lungi dalle più abituali zone di caccia dei corsari, la Mary avrebbe dovuto essere al sicuro. Aveva però vissuto un periodo sfortunato da quando era salpata in giugno da Gravesend. Per cinque frustranti settimane era rimasta abbonacciata nei Downs al largo della costa del Kent. Poi, quando finalmente il vento era tornato a soffiare e la nave aveva avuto modo di doppiare la costa meridionale dell'Inghilterra alla volta dell'isola di Wight, la birra era risultata inacidita. L'equipaggio aveva dovuto gettarla fuoribordo e accontentarsi di aggiungere aceto all'acqua per il resto del viaggio. La Mary salpò dall'isola di Wight domenica 4 agosto 1639 – e immediatamente si arenò su un banco di sabbia, dove dovette attendere che la marea la riportasse a galla. Turbati dalle loro sfortune, equipaggio e passeggeri invocarono un vento favorevole – e sei giorni dopo furono travolti da un ciclone in forma di tre corsari algerini. Dio ha scelto di accogliere le nostre invocazioni proprio nel momento in cui saremmo finiti nelle fauci dei nostri nemici, notò Okeley. Non appena le tre navi sconosciute vennero segnalate, i capitani di quelle inglesi si scambiarono messaggi preoccupati, convenendo che la soluzione migliore era di restare assieme, fermarsi e aspettare che quegli estranei si avvicinassero. Il giorno passò, le navi si fecero più vicine, e perfino quando fu palese che erano pirati e che intendevano intercettarli gli inglesi decisero di restare e combattere. Al crepuscolo i corsari erano ancora a una certa distanza; il capitano della Mary si innervosì e impartì l'ordine di alzare le vele. Approfittando del buio il bastimento quasi riuscì a svignarsela, ma all'alba risultò che i pirati si avvicinavano rapidamente. Dopo un breve scontro in cui sei inglesi restarono uccisi e altri feriti, i pirati si impadronirono della Mary. I superstiti vennero uniti agli equipaggi e ai passeggeri di due altre navi, entrambe catturate nottetempo. Furono tenuti sottoponte in una delle navi corsare per cinque o sei settimane, intenti a «condolersi delle proprie miserie» nella maleodorante oscurità della stiva e a imparare la lingua franca. La descrizione di William Okeley dell'arrivo ad Algeri in catene si legge come una sconcertante pagina di una guida: Algeri è una città molto opportunamente sita sul fianco delle colline sovrastanti il Mediterraneo, di cui resta a nord, e drizza la sua fiera testa così imperiosamente da sembrare che sfidi la sovranità di quei mari e si aspetti íl pagamento di tributi da chiunque compaia al di qua dello Stretto. Algeri si trova a trenta gradi di longitudine e poco meno di trentacinque di latitudine nord. La città è di notevole grandezza, le mura che la circondano misurano circa cinque chilometri e sono ornate e rinforzate da cinque porte. Le case sono belle, aggiungeva Okeley, e gli edifici di culto magnifici. I castelli sono ben fortificati e i bagni sontuosi. Ma non c'è nessuna prigione accogliente. E alla fine Okeley ammette che, per quanto bella sia Algeri, «ai nostri occhi era bruttissima e detestabile». I prigionieri trascorsero la loro prima notte a terra «in un profondo, nauseante sotterraneo», uno dei recinti per animali nei pressi della banchina. Il mattino dopo furono portati in massa alla sala delle udienze del palazzo e fatti sfilare al cospetto del pascià, Yusuf II, che sedeva a gambe incrociate su cuscini blu con indosso un abito di seta rossa e un grande turbante. Il pascià aveva diritto a uno ogni dieci prigionieri quale suo dividendo (certi resoconti parlano di uno su otto o persino di uno su cinque) e, con la mente volta ai riscatti, di solito sceglieva quelli che sembravano o affermavano di essere di buoni natali. Okeley non lo era, per cui tornò con gli altri prigionieri al "bagnio", dove attesero il giorno del mercato. Fu un momento spaventoso. Al disorientamento e allo sconforto si aggiungeva l'apprensione dei prigionieri, memori di racconti di atroci crudeltà, stupri maschili e conversioni forzate, battiture e torture «per conventirli in turchi o costringerli a partecipare alle loro oscenità». Cose che accadevano davvero. I padroni di schiavi li maltrattavano deliberatamente prima di permettere loro di scrivere a casa per chiedere i soldi del riscatto, al puro scopo di rendere più pressanti le loro richieste di denaro. La sodomia, consensuale o meno che fosse, era più comune in Nord Africa che in Gran Bretagna, sia pure non onnipresente come gli europei si compiacevano di sostenere. E mentre gran parte delle descrizioni di prigionieri costretti con la tortura a convertirsi all'islam si basano su dicerie o sono esasperate da una forte componente di propaganda anti-islamica, non c'è dubbio che i padroni più credenti esercitassero pressioni per indurli a farsi musulmani. L'introduzione di Okeley nella società algerina fu meno drammatica di quanto avesse temuto, ma comunque profondamente umiliante. Dopo il suo incontro con il pascià lui e gli altri prigionieri furono condotti al mercato all'aperto, il bedestan, dove schiavi e mercanzie frutto di rapina erano offerti in vendita. Era stato lì che, otto anni prima, curiosi osservatori avevano visto gli sconvolti prigionieri fatti da Murad Raïs a Baltimore sfilare su e giù, e aggrapparsi l'uno all'altro piangendo mentre le mogli venivano strappate ai mariti e i bambini separati dai genitori. Adesso un vecchio mercante con un bastone costringeva ciascuno degli schiavi a marciare avanti e indietro, mentre potenziali acquirenti palpavano e premevano. Esaminarono i denti di Okeley — «una buona e robusta chiostra farà aumentare notevolmente il prezzo» -, gli palparono braccia e gambe e fecero particolare attenzione alla condizione delle sue mani. Le callosità erano riprova che un uomo era abituato alla fatica, elemento favorevole, ma paradossalmente quelli che avevano mani delicate e tenere potevano avere un prezzo maggiore, dal momento che i compratori «sospetteranno che si tratti di gentiluomini o mercanti, e che la speranza di un buon prezzo di riscatto li renderà facilmente vendibili». Dopo essere stati attentamente esaminati, i prigionieri vennero fatti sedere in cerchio a terra; il vecchio li fece alzare uno alla volta e li portò al mercato, gridando ad alta voce: «Chi offre il massimo?». I prezzi variavano enormemente a seconda della professione del prigioniero o delle condizioni fisiche della donna e della potenzialità di riscatto. Cannonieri e abili artigiani erano particolarmente richiesti. Un soldato professionista poteva essere venduto a duecento talleri spagnoli, equivalenti a quasi cinquanta sterline. Concluso l'affare, gli schiavi venivano riportati al palazzo del pascià con i prezzi di vendita scritti su di un cartello appeso al collo o su un biglietto infilato nel copricapo. Yusuf non soltanto si teneva la sua percentuale di prigionieri, ma aveva anche un diritto su ciascuno dei restanti schiavi se fosse stato disposto a versare il prezzo offerto nel bedestan. Okeley venne venduto a un morisco — non dice a che prezzo — e immediatamente ricevette una dura lezione di deferenza. Il suo nuovo padrone lo portò a casa dal palazzo e lo lasciò alle cure del vecchio padre, il quale si divertì facendosi beffe della fede cristiana di Okeley. «Il mio collo non era ancora piegato, né il mio cuore schiacciato dal giogo del servaggio», ricorda il puritano. Reagì mimando un ciabattino intento a cucire, per suggerire che l'islam non era che un mosaico di insensatezze fatto di colori e forme diversi rattoppati dal Profeta, dal monaco nestoriano Sergio e da un dottore ebreo chiamato Abdallah. Si riferiva a una leggenda anti-islamica e antisemitica diffusa nell'Europa seicentesca, stando alla quale Maometto era stato quasi convertito al cristianesimo da Sergio e il Corano alterato da Abdallah dopo la morte del Profeta. Potrà sembrare che fosse una scena alquanto inopportuna. Di sicuro il vecchio fu di questo parere poiché andò su tutte le furie, tempestando di pugni e calci Okeley. Quando suo figlio rincasò e udì quel che era accaduto, puntò un coltello alla gola di Okeley, e gli fu impedito di ucciderlo soltanto da sua moglie. Il nuovo schiavo ricavò due lezioni dall'episodio. In primo luogo non era buona idea criticare la religione altrui; in secondo luogo, «se un uomo è in catene secondo l'aspetto esteriore, la lingua non può costituire un'eccezione». Nei primi sei mesi della sua cattività Okeley lavorò come domestico nella casa del padrone, finché nella tarda primavera del 1640 venne all'improvviso rimandato in mare. Al pari di tantissimi ricchi cittadini algerini, il suo padrone finanziava la pirateria, contribuendo alle spese di viaggio in cambio di una percentuale delle prede. | << | < | > | >> |Pagina 23313. L'ultimo corsaro
Colonialismo, conquista e fine dei pirati barbareschi
Il mattino di sabato 17 giugno 1815, una vedetta sulla nave da guerra statunitense Constellation avvistò una fregata che navigava in solitaria a trentatré chilometri dalla costa spagnola al largo di Capo de Gata. Inalberava la Union Jack, la bandiera nazionale britannica, ma il comandate della Constellation, Charles Gordon, sospettò che si trattasse in realtà di un corsaro algerino che navigava sotto falsi colori. Ordinò al suo equipaggio di spiegare le bandiere per segnalare "nemico a sudest" al comandante della squadra a bordo della Guerriere, commodoro Stephen Decatur, e le otto navi americane che la componevano si diedero all'inseguimento. La fregata mantenne la propria rotta, ma era pronta allo scontro, e quando il troppo zelante capitano Gordon spiegò la bandiera a stelle e strisce, la fregata se ne allarmò e «fu immediatamente in una nuvola di tele», per dirla con un giovane aspirante guardiamarina che stava seguendo gli eventi dal ponte della Guerriere. Mentre gli americani si avvicinavano alla fregata, questa cambiò rotta e fece dietrofront sorprendendoli con la sua abilità marinara – e con la mira dei suoi cecchini, che abbatterono parecchi marinai saliti sui pennoni. Ma era in inferiorità per numero di uomini e di armamenti e venne sopraffatta. La Constellation si mise a portata di tiro e aprì il fuoco; poi lo stesso fece la Guerriere. In meno di un'ora la fregata si arrese. La squadra di arrembaggio americana che se ne impadronì liberò 406 prigionieri, molti dei quali feriti. Se ne stavano seduti in silenzio nel sottoponte, «intenti a fumare lunghe pipe con la solita compostezza». I caduti erano una trentina, tra i quali il comandante della fregata, e soltanto allora gli americani si resero conto di ciò che avevano fatto. Quel comandante non era altri che il leggendario Hamidou Raïs, il più famoso combattente della marina algerina. Per anni era stato celebrato in tutta la Barberia quale il signore dei mari, il campione della guerra santa contro gli infedeli. E adesso era morto.
Gli americani avevano ucciso l'ultimo dei grandi corsari.
Nei centotrent'anni che erano trascorsi dai trattati conclusi negli anni ottanta del Seicento, i rapporti tra le potenze europee e gli stati della Barberia erano giunti a un incerto equilibrio, una situazione nella quale ai pirati spettava un ruolo sempre meno importante. La Gran Bretagna, la Francia e l'Olanda, seguite dai danesi, dagli svedesi e dai veneziani, avevano scoperto che se la firma e il rinnovo delle clausole di pace erano accompagnati da donativi e da cospicui versamenti in contanti, i corsari si mostravano più zelanti nel rispetto di tali clausole. Le somme versate variavano, ma erano sempre notevoli. Attorno al 1780 la Gran Bretagna versava ad Algeri circa 1000 sterline all'anno a garanzia della pace, equivalenti grossomodo a 1,2 milioni di odierne sterline. Gli olandesi pagavano circa 24 000 sterline e gli spagnoli ben 120 000. Algeri esigeva il "pizzo" più alto, dal momento che rappresentava la massima minaccia per i mercantili europei, ma anche gli altri stati richiedevano contributi. Spagna, Austria, Venezia, Olanda, Svezia e Danimarca consegnavano tutte grosse somme al bey di Tunisi. Venezia versava oltre 3500 ducati a Tripoli; la Svezia l'equivalente di 20 000 talleri. Un colonnello inglese che viveva in Marocco negli anni ottanta del Settecento riferì che il sultano aveva resa nota la sua intenzione di dichiarare guerra agli olandesi «se la loro ambasciata (vale a dire, le loro donazioni) non si fa viva al più presto [...] È un tributo» ammetteva l'inglese «e tutti noi gli siamo tributari». C'erano buone ragioni perché le potenze europee tollerassero tale spiacevole metodo, consistente nel pagare per poter commerciare. Era più facile e meno costoso che predisporre spedizioni punitive, organizzare convogli di mercantili per o dal Levante e mantenere in permanenza costosi squadroni. E, cosa assai meno encomiabile, assicurava che i corsari della Barberia dedicassero la loro attenzione a concorrenti commerciali più poveri, che non erano in grado di corromperli. E quanto mai indicativo era che, se un singolo stato si sottraeva a quella che un diplomatico americano eloquentemente definiva «la fosca nube di vergogna che copre le grandi potenze europee nella loro docile sottomissione alle piraterie di quei barbari senza principi», si sarebbe trovato in svantaggio rispetto ai rivali. Un atto di ribellione sull'altra sponda dell'Atlantico portò, indirettamente, al crollo di quel sistema tributario. Quando nel 1776 le colonie americane dichiararono la loro indipendenza dalla Gran Bretagna, questa ritirò i salvacondotti di cui le navi mercantili americane erano dotate in tutto il Mediterraneo. Vennero stampati nuovi lasciapassare, ma, comprensibilmente, i coloni americani furono cancellati dall'elenco. Per l'America era un brutto colpo. Tra le ottanta e le cento navi delle tredici colonie solcavano il Mediterraneo, esportando farina, grano, pesce essiccato, legname e altre mercanzie e importando vino, sale, olio e pellami marocchini. Nel solo anno 1770, le esportazioni americane dirette all'Europa meridionale e al Nord Africa ammontarono a 707 000 sterline. E ciascuna delle navi che partecipavano agli scambi contava sul fatto di esibire lasciapassare dell'Ammiragliato britannico, qualora venisse fermata da corsari. Finita la guerra di Indipendenza americana, il Congresso continentale fece del suo meglio per assicurarsi nel Mediterraneo la protezione di altri stati amici — dapprima la Francia e poi l'Olanda. Entrambe si mostrarono cortesi, ma niente affatto disposte ad aiutare. Ridotto alla disperazione, il congresso chiese persino alla Gran Bretagna di prestare aiuto nei negoziati con gli stati della Barberia a beneficio delle sue ex colonie. L'Inghilterra rifiutò. Agli Stati Uniti non restò che avviare negoziati per proprio conto. | << | < | > | >> |Pagina 256Nel XVIII secolo la pirateria era al tramonto, non soltanto tra i sudditi britannici ma dappertutto, e lo si doveva al fatto che marine da guerra ben armate si erano rivelate meglio capaci di imporre la legge in alto mare e la potentissima marina da guerra britannica aveva continuato una vigorosa politica di proibizione della schiavitù. Nel 1856 la maggior parte delle nazioni marittime, compreso l'Impero ottomano, aveva firmato la Dichiarazione di Parigi che metteva fuori legge le attività di corsa e l'emissione di lettere di marca, mettendo fine a 350 anni di pirateria mediterranea semilegale.Mentre la potenza navale di Algeri e degli altri stati della Barberia si indeboliva e la loro capacità di mettere una contro l'altra le potenze europee declinava, la storia del Nord Africa entrava in una nuova fase. Il 14 giugno 1830, sei mesi prima che Davis e Watts morissero sul Molo delle esecuzioni, reparti francesi forti di 34 000 soldati al comando del maresciallo Louis Auguste Victor, conte di Ghaisne e Bourmont, erano sbarcati a Sidi Ferruch sulla costa algerina, a una trentina di chilometri da Algeri. Il pretesto dell'invasione francese era il celebre affaire de l'éventail del 1827, quando Hasan, il dey di Algeri, aveva perso il controllo con l'arrogante console francese, Pierre Deval, e lo aveva schiaffeggiato con il suo scacciamosche al cospetto di decine di militari e diplomatici nel corso di una pubblica festività celebrante la fine del Ramadan. L'effettivo movente dell'invasione era di sostenere l'impopolare governo del sovrano francese Carlo X — un tentativo destinato a fallire miseramente, dal momento che le notizie della vittoria francese erano giunte a Parigi proprio quando Carlo fu deposto dalla Tre Gloriose Giornate di luglio. Ma ormai era troppo tardi per Algeri. Una ritirata francese avrebbe comportato un'imbarazzante perdita d'immagine, e la forza d'invasione restò dov'era. Da lì a vent'anni l'intera Algeria fu sotto il dominio francese. Nel 1881, l'ormai unificata Italia volgeva sguardi cupidi su Tunisi, ma i francesi si avvalsero delle incursioni compiute in Algeri da tribù tunisine come pretesto per estendere la loro influenza in direzione est. Un esercito di 30 000 uomini varcò il confine con la Tunisia il 9 aprile 1881, entrando sedici giorni dopo nella capitale senza affrontare un'effettiva resistenza, e nel giugno 1883 Tunisi venne ufficialmente dichiarata protettorato francese. Il Marocco e Tripoli mantennero l'indipendenza ancora per qualche anno; ma nel 1914 il Marocco era stato spartito tra la Francia e la Spagna, e Tripoli ceduta all'Italia dall'Impero ottomano, assieme a quella che oggi è la Libia. È qui all'opera un'evidente ironia della sorte. La paura di conquiste europee trasformò gli stati della Barberia in regni in primo luogo pirateschi, inducendo Oruç e Haradin Barbarossa e i loro corsari del XVI secolo a dare inizio al jihad marittimo. Se non fosse stato per la paura della conquista europea, la pirateria della costa della Barberia mai sarebbe cresciuta al punto di diventare il flagello della cristianità, e i suoi adepti mai sarebbero diventati le truppe d'assalto della difesa del mondo islamico. E in fin dei conti l'unico modo escogitabile dall'Europa per affrontare quella calamità sarebbe consistito nel conquistare la Barberia, travolgendo i corsari con un'ondata di colonialismo.
Alla fine del discutibile poema di Byron intitolato
Il corsaro,
Conrad, l'eroe eponimo, scompare nella notte dopo aver perduto l'amore
della sua vita. I pirati della sua ciurma esplorano caverne e grotte,
perquisiscono mare e riva, ne gridano il nome finché «l'eco diviene
esile»; ma mai lo trovano. Conrad è svanito nell'aria, lasciandosi alle
spalle null'altro che l'epigramma di Byron:
Egli lascia alle future età un nome di Corsaro legato a un'unica virtù e a innumeri delitti. Gli altrettanto problematici pirati della Barberia si sono lasciati alle spalle migliaia di delitti. La loro unica virtù, che fossero rinnegati cristiani fuggiaschi o devoti musulmani guerrieri di Dio, era il coraggio. Deprecatene i crimini, senza mezzi termini.
Ma ricordatene il valore.
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