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| << | < | > | >> |IndiceXI Prefazione di Gian Carlo Caselli 3 Capitolo 1 Classi dirigenti e associazioni mafiose dall'Unità alla nascita della repubblica (1861-1947) – 1. Perchè scrivere ancora sulla mafia, p. 3 – 2. L'inchiesta di Franchetti e Sonnino, p. 5 – 3. Il dibattito nello Stato liberale. Il caso Notarbartolo, p. 9 – 4. Dall'età giolittiana alla dittatura fascista, p. 14 21 Capitolo 2 Dal fascismo alla repubblica – 1. La caduta del fascismo. Luci e ombre del quadro internazionale, p. 21 – 2. La transizione italiana tra il 1943 e il 1946, p. 27 – 3. I primi passi della repubblica. La strage di Portella della Ginestra, p. 42 53 Capitolo 3 Il primo quarantennio repubblicano (1947-1989) – 1. La lotta dei governi centristi e della Democrazia cristiana contro la commissione d'inchiesta parlamentare sulla mafia, p. 53 – 2. L'ascesa delle associazioni mafiose nell'Italia del «miracolo» e della crisi degli anni Settanta, p. 64 – 3. Il lavoro delle commissioni antimafia nei primi trent'anni della repubblica, p. 75 – 4. Le guerre di mafia e le trasformazioni di Cosa Nostra. Il compromesso storico, p. 86 – 5. Il pentapartito e l'agonia del vecchio sistema politico, p. 95 109 Capitolo 4 Le stragi politico-mafiose degli anni Novanta e l'ultimo decennio – 1. Il biennio terribile 1992-1993 e la trattativa dei ROS con la mafia; p. 109 – 2. L'ascesa di Silvio Berlusconi e la polemica contro i giudici, p. 116 – 3. La lunga bonaccia (1994-2007), p. 120 133 Capitolo 5 Mafia e politica: le ragioni di fondo – 1. Cosa Nostra, classe politica e Vaticano nel mondo finanziario, p. 133 – 2. I caratteri storici della società italiana e gli italiani, p. 150 – 3. Una conclusione provvisoria, p. 162 165 Indice dei nomi |
| << | < | > | >> |Pagina XIPiù di un secolo fa, nel suo saggio Che cosa è la mafia Gaetano Mosca scriveva: «E strano notare come coloro che discorrono e scrivono di mafia [...] raramente abbiano un concetto preciso ed esatto della cosa, o delle cose, che colla mafia vogliono indicare». Un vecchio vizio, tutto italiano, che per fortuna contempla vistose e importanti eccezioni. Tra queste — indubbiamente — le ricerche e gli studi di Nicola Tranfaglia, ormai patrimonio consolidato per tutti coloro che di mafia vogliano sapere qualcosa di più serio rispetto alle... fiction televisive di moda. L'ultima fatica di Nicola Tranfaglia (preziosa come le precedenti) si intitola Perché la mafia ha vinto. In realtà si tratta di una storia della mafia che ci aiuta a capire meglio che cos'è la mafia oggi, nel terzo millennio, a quindici anni dalle tremende stragi palermitane del 1992. L'Autore sa bene che sempre più si deve parlare di «mafie », anziché di «mafia», perché accanto alle mafie «tradizionali» (Cosa Nostra siciliana, 'Ndrangheta calabrese, Camorra napoletana e Sacra corona unita pugliese) il nostro Paese, aduso ad «esportare» anche il crimine organizzato, si trova nell'inedita situazione di dover ospitare nuove mafie d'importazione (russa, albanese, cinese, nigeriana ecc.), che in questi ultimi anni si sono insediate nel territorio e che talora interagiscono con le più antiche organizzazioni mafiose nazionali. Mentre il processo di globalizzazione finanziaria ha inevitabilmente influito sulle più recenti forme di manifestazione dell'economia criminale, imponendo una più spiccata interazione fra le varie organizzazioni mafiose del mondo, i cui interessi e capitali illeciti si incontrano nel mercato globale del grande riciclaggio internazionale, con evidenti intrecci fra la macrocriminalità del riciclaggio e parte consistente di quel potere finanziario — più o meno «grigio» – che ormai opera, spesso senza adeguati controlli, nell'intero ambito planetario. Oggi, pertanto, la base di partenza di qualunque ragionamento sulle mafie è che esse, pur nella radicale continuità con se stesse, pur mantenendo (in molti casi) un evidente radicamento localistico, sono ormai in grado di condurre attività illecite in una dimensione globale e reticolare. Così da costituire una vera e propria impresa multinazionale, che produce ricchezza attraverso mille traffici e affari illeciti, cui si affiancano imprese legali di copertura o riciclaggio. Ma non volendo – né potendo – scrivere un'enciclopedia sterminata, Tranfaglia ha giustamente scelto di limitarsi a seguire un «filo centrale», incentrandolo su «Cosa Nostra» ed in particolare sui suoi rapporti con le classi dirigenti del Paese. Constatando innanzitutto come questa organizzazione criminale sia oggi capace – forse più che nel passato – di mimetizzarsi e scomparire. La mafia siciliana, infatti, dopo avere attuato ed esibito con le stragi del 1992 una violenta e spietata strategia d'attacco frontale allo Stato, ha dovuto subire un'efficace reazione (latitanti arrestati come mai in precedenza, per numero e caratura criminale, tra cui gli autori materiali di quelle stragi; beni mafiosi sequestrati per decine di miliardi; veri e propri arsenali di armi requisiti). E ha subìto anche la stagione dei processi, che per i suoi affiliati si sono conclusi con pesantissime condanne. Ed ecco che la mafia, duramente colpita, sceglie di attuare una sorta di «strategia della tregua» finalizzata, fra l'altro, a far dimenticare la sua tremenda pericolosità. Niente più stragi, niente più omicidi eclatanti; regna lo spirito di mediazione anziché la logica dello scontro aperto. Bernardo Provenzano, regista di questa nuova stagione, adotta la tecnica del «cono d'ombra», con l'obiettivo, appunto, di rendere invisibile l'organizzazione, di inabissarla. Si fa ricorso alle armi soltanto come extrema ratio e si riduce, di conseguenza, il numero dei regolamenti di conti interni. Quando si elimina qualcuno, il suo cadavere viene fatto sparire (le cosiddette «lupare bianche»), così da rendere più difficile la percezione dell'entità della violenza omicida messa in atto. La mafia di Provenzano è sempre più una mafia degli affari: l'intromissione di Cosa Nostra in tutti gli appalti di un certo rilievo serve a presentarsi come volano di un'economia che altrimenti – si vuol far credere – resterebbe inerte e improduttiva. In questo modo Cosa Nostra cerca di dissimulare il suo volto più feroce, per recuperare e sviluppare spazi di intervento e per rafforzare i meccanismi di accumulazione di capitale illecito. Con una peculiarità che complica le cose perché, secondo tradizione, essa tende anche a proporsi come soggetto politico-sociale capace di controllare l'economia e di esercitare una funzione di (apparente) sviluppo, anche sostituendo o integrando le competenze pubbliche. La strategia con la quale la mafia ha affrontato il nuovo millennio è quindi meno sanguinaria, ma più insidiosa, perché favorisce l'affievolirsi dell'attenzione sulla questione mafia in conseguenza del calo «statistico» dei fatti di sangue conosciuti. Ma è proprio nei periodi di pax mafiosa che Cosa Nostra dimostra maggiore forza, capacità di infiltrarsi nel tessuto economico-sociale e di intrecciare nuove relazioni anche sul versante dell'intermediazione fra popolazione meridionale e luoghi decisionali della cosa pubblica. È allora che essa amplia la propria sfera di intervento, mirando ad influenzare anche gli orientamenti politici (a partire da quelli elettorali) nelle zone sottoposte al suo controllo. È a partire da questi dati che Tranfaglia arriva alla conclusione che «la mafia ha vinto». Mi sembra importante, però, elencare anche i cambiamenti in positivo che l'antimafia ha registrato nel corso degli anni (soprattutto gli ultimi 15), per verificare come la celebre riflessione di Giovanni Falcone — con la quale lo stesso Tranfaglia apre il suo libro — secondo cui «la mafia è un fenomeno umano, e come ha avuto un inizio così avrà una fine» non fosse una frase fatta, buona solo per esorcizzare il problema. Indicava un percorso possibile, lungo il quale ci sono compiuti passi anche significativi. La strada è certo ancora lunga ed impervia. Il cammino compiuto fino ad oggi è insufficiente per molti profili. E tuttavia ci sono stati momenti positivi, dei quali innanzitutto vorrei parlare. Non dimentichiamo che c'era una volta in cui la mafia... neppure esisteva. Anzi peggio: il Procuratore generale della Corte di cassazione Giuseppe Guido Lo schiavo, il più alto magistrato italiano, su una rivista giuridica (negli anni Cinquanta) scriveva testualmente: «si è detto che la mafia disprezza polizia e magistratura, è una inesattezza. La mafia ha sempre rispettato la magistratura e la giustizia e si è inchinata alle sue sentenze e non ha ostacolato l'opera del giudice. Nella persecuzione dei fuorilegge e dei banditi ha addirittura affiancato le forze dell'ordine. Oggi si fa il nome di un autorevole successore nella carica tenuta da Don Calogero Vizzini, in seno della consorteria occulta. Possa la sua opera essere indirizzata sulla via del rispetto delle leggi dello Stato e del miglioramento sociale della collettività». Se oggi qualcuno, Procuratore generale o no, si esprimesse in questi termini, l'invettiva che Grillo ha fatto diventare di moda sarebbe assolutamente scontata. Oggi sono i mafiosi che devono scendere in piazza per far sapere che la mafia non esiste. Roberto Saviano torna in Campania a Casal di Principe e Nicola Schiavone (padre del boss Francesco, il famigerato Sandokan) in piazza deve gridare – feroce, minaccioso, ma in una certa misura anche patetico – che la camorra non esiste e se l'è inventata Saviano per vendere più copie del suo libro... Altri cambiamenti si registrano sul piano degli strumenti di contrasto investigativo-giudiziario. Una volta c'era soltanto il 416, l'associazione a delinquere semplice, ed era – di nuovo parole di Falcone – «come dover combattere contro un carro armato, la mafia, con una cerbottana». Si perdeva. Adesso invece, sia pure con grave ritardo e soltanto dopo la morte di Pio La Torre e del generale Dalla Chiesa, abbiamo il 416 bis: uno strumento mirato, calibrato sulla realtà specifica delle associazioni mafiose. Abbiamo la Procura nazionale Antimafia con la sua banca dati, uno strumento davvero importantissimo, un patrimonio inestimabile di conoscenze formato acquisendo tutti i dati significativi ovunque disponibili. Abbiamo la DIA (direzione investigativa antimafia). Abbiamo un uso massiccio ormai della tecnologia: in particolare le intercettazioni telefoniche e ambientali, che consentono il monitoraggio continuo dei punti «sensibili», anche per la ricerca dei latitanti: che conseguentemente non possono non vivere costantemente sotto tensione, braccati di continuo come sono, mentre una volta non venivano neppure cercati. E dopo le stragi del 1992, abbiamo avuto la legge sui «pentiti» e la legge sul trattamento carcerario di giusto rigore dei mafiosi detenuti: strumenti che sono stati decisivi per risalire la china quando il terrorismo stragista dei mafiosi sembrava incontenibile. Quando nel nostro Paese si era verificato qualcosa di simile all'11 settembre di New York: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino come le Torri Gemelle, simboli abbattuti da una violenza politica totalizzante, con obiettivi proiettati ben oltre le vittime immediatamente colpite. Quest'immagine (che è di Andrea Camilleri) esprime bene il gravissimo pericolo che si abbatté sull'Italia: il pericolo di diventare uno stato-mafia, un narco-stato di tipo colombiano, dominato da un'organizzazione criminale stragista. Per fortuna, con il concorso di tutti (istituzioni, società civile, forze dell'ordine e magistratura), invece di precipitare in un abisso senza fondo, siamo riusciti a resistere. Per certi profili, sul piano investigativo-giudiziario facciamo persino scuola. E non è un caso che la nuova convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità trans-nazionale firmata a Palermo, nel dicembre 2000, preveda tutta una serie di misure pensate con riferimento alla realtà specifica delle organizzazioni criminali, quale emersa dall'esperienza di contrasto maturata sul campo soprattutto nel nostro Paese. Ecco allora, in questa convenzione ONU, la previsione come reato della partecipazione ad un gruppo criminale organizzato, la confisca dei beni dell'associazione, la protezione dei testimoni, l'assistenza delle vittime, l'incentivazione dei «pentimenti». Noi oggi, condizionati da una certa black propaganda, quando parliamo di «pentiti» ci tappiamo il naso, o peggio. In questa convezione ONU c'è invece scritto che i «pentimenti» devono essere incentivati mediante sconti di pena, fino all'immunità per quegli ordinamenti che l'immunità prevedano. Piuttosto va detto (e lo vedremo meglio in seguito) che mentre facciamo da modello, esportando le nostre esperienze, poi tendiamo incredibilmente ad arretrare per quanto riguarda noi stessi. Altre novità positive si possono riscontrare sul piano della lotta all'estorsione, un punto di forza delle mafie (come si sa), sia per l'accumulazione di profitti illeciti, sia per il controllo del territorio. Ricordiamo tutti la vicenda di Libero Grassi, che aveva denunciato il racket, aveva pubblicamente dichiarato che non avrebbe pagato. E però Grassi fu a sua volta denunciato dal presidente degli industriali di Palermo, che gli intimò di smetterla perché: «i panni sporchi si lavano in casa». Così Grassi restò isolato e venne ucciso. Ancora recentemente, non più di due anni fa, una inchiesta del Censis ha accertato che il 42,5% degli imprenditori del sud interpellati riteneva che senza mafia avrebbe potuto fortemente incrementare il proprio fatturato. Ma è con amarezza che il Censis rilevava come gli imprenditori siciliani detenessero un singolare primato con i colleghi calabresi: quello di avvertire di meno o addirittura di negare il problema della mafia. Evidentemente pensavano che i padrini garantissero più sicurezza delle forze dell'ordine e che se c'era da pagare una tassa era (come dire) un costo di gestione da accettare senza fare troppe storie. Oggi dei cambiamenti (pochi, fragili e precari fin che si vuole: ma pur sempre significativi) ci sono. La positiva esperienza antiracket di Tano Grasso che va estendendosi dalla Sicilia in altre parti del Paese; la Confindustria siciliana che espelle chi paga il pizzo, con l'appoggio della Confindustria nazionale; altri importanti segnali di recupero in Calabria. Finalmente, anche se con fatica, qualcosa si muove. Poi ci sono novità sul piano dell'aggressione ai patrimoni dei mafiosi. Ieri (lo testimoniano i diari del Consigliere Chinnici) la situazione era questa: quando nell'Ufficio istruzione del Tribunale di Palermo, diretto appunto da Chinnici, si affaccia un giovanissimo magistrato a quei tempi assolutamente sconosciuto, di nome Giovanni Falcone, Chinnici (che ne intuisce subito le grandi capacità) gli affida alcune inchieste di mafia. Ora, è scritto nei diari di Chinnici che immediatamente un altissimo magistrato palermitano si precipita nel suo ufficio e in sostanza gli dice: «Ma che combini? Perché affidi a questo Falcone processi di mafia? Caricalo di processi bagatellari, di processi da niente, che non abbia il tempo di occuparsi di mafia: perché altrimenti rovina l'economia siciliana». Chinnici chiaramente non ci sta, continua ad investire su Falcone e anche per questo suo coraggio la mafia lo uccide. Ma se indagare sulla mafia equivaleva a... rovinare l'economia, conseguentemente non c'era — non poteva esserci — nessuna legge che aiutasse ad operare sul versante dell'aggressione dei patrimoni mafiosi. Oggi invece abbiamo la legge La Torre, che ha escogitato questo grimaldello formidabile che è imporre ai mafiosi l'onere di provare la provenienza legittima dei loro beni, perché altrimenti si presumono di provenienza illecita e quindi vengono sequestrati e confiscati. Successivamente abbiamo avuto (grazie anche al milione di firme raccolto da «Libera», l'efficacissima forma di organizzazione della società civile guidata da Luigi Ciotti e agli inizi anche da Rita Borsellino) la legge 199/1996 per l'impiego a fini socialmente utili dei beni confiscati. Importanti novità, oggi da affinare e potenziare e tuttavia ormai in campo, concretamente operanti. Ettari ed ettari di terre confiscate ai mafiosi sono oggi lavorati da Cooperative di giovani coordinate da «Libera», che ha saputo costruire un'imponente rete di collegamento sull'intero territorio nazionale, un ponte tra Sud e Nord formato da oltre 1500 gruppi, uniti dal comune interesse sui temi della legalità e della giustizia. La pasta, l'olio, il vino prodotti sui terreni confiscati alla mafia in varie regioni italiane sono la materializzazione della legalità come restituzione del «maltolto», cioè di parte delle ricchezze accumulate dalla mafia mediante un sistematico drenaggio delle risorse e la «vampirizzazione» del tessuto economico legale (a forza di estorsioni, usure, truffe, appalti truccati, tangenti ecc.). I prodotti di «Libera», in altre parole, sono la dimostrazione che l'antimafia è recupero di legalità che «paga» anche in termini di nuove opportunità di lavoro e di nuove occasioni di iniziative imprenditoriali. Sono un baluardo della democrazia contro i ricatti e le umiliazioni dei mafiosi, sintesi di dignità ed indipendenza conquistate col lavoro: il modo più efficace per coinvolgere la società civile in un effettivo impegno antimafia, senza più deleghe esclusive alle forze dell'ordine e alla magistratura, inevitabilmente indebolite se lasciate sole. Per cui è proprio su questo versante – del coinvolgimento e dell'impegno della società civile, che si possono registrare i segnali più rilevanti, comprendendovi anche i ragazzi di Locri e i ragazzi «no pizzo» di Palermo. Segnali che si stagliano in un quadro ancora molto cupo, e tuttavia importanti. | << | < | > | >> |Pagina XVIIQuel che non cambia o che cambia troppo poco è la politica, o perlomeno certa politica. E qui il pessimismo di Tranfaglia (Perché la mafia ha vinto) può pescare a piene mani.Va premesso che il contrasto di «Cosa Nostra» per quanto concerne l'ala cosiddetta militare dell'organizzazione ormai registra una forte e rassicurante continuità: dall'arresto di Riina e soci fino agli arresti di Provenzano e dei Lo Piccolo e alla mega-inchiesta «Old bridge» del febbraio 2008 in cooperazione fra Italia e USA, ecco tutta una serie di importanti interventi che dimostrano come l'apparato investigativo-giudiziario antimafia si sia stabilmente assestato su livelli di assoluta eccellenza. Non altrettanta continuità, però, è dato di registrare sul versante del contrasto alle cosiddette «relazioni esterne», vale a dire le complicità, coperture e collusioni con pezzi del mondo legale (politica, affari, imprenditoria, istituzioni...) che rappresentano la spina dorsale, il nerbo del potere mafioso. Se tali coperture non sono aggredite con forza e appunto continuità, senza sconti o scaltrezze, «Cosa Nostra» non è certo onnipotente, ma continuerà a trovare sostegni preziosi se non decisivi anche nei momenti più difficili. Se persiste il malvezzo di applaudire quando si arrestano capimafia e gregari, per gridare al teorema o al complotto quando si cerca di far luce più in profondità, allora avrà ancora una volta ragione chi sostiene che si possono anche arrestare boss su boss, ma l'alt ad andare oltre, in forma anche esplicita e non solo sottintesa, rimane: e pesa come un macigno. Persino il pool di Falcone e Borsellino dovette piegarsi a questa «regola». Con il maxi-processo, il pool aveva posto fine (nel rispetto rigoroso delle regole, delle prove, delle procedure) al mito dell'invulnerabilità di Cosa Nostra. La mafia poteva essere finalmente sconfitta, e invece si dovette registrare un fatto che rappresenta una colossale vergogna della nostra storia nazionale. Il pool, invece di essere sostenuto nella sua azione, venne letteralmente spazzato via. Siamo 4-5 anni prima delle stragi, ed una tempesta di polemiche tanto violente quanto ingiuste si scatena sul pool: professionisti dell'antimafia, uso spregiudicato dei pentiti, uso della giustizia a fini politici di parte, pool trasformato in centro di potere. Per effetto di queste aggressioni, alla fine il pool di fatto scompare e il suo metodo di lavoro – vincente – viene cancellato. E ciò proprio nel momento in cui il pool comincia ad occuparsi non solo di mafiosi di «strada », ma anche dei cugini Salvo, di Ciancimino, dei Cavalieri del lavoro di Catania (vale a dire dei rapporti della mafia con pezzi della politica, delle istituzioni, del mondo degli affari...). È allora che il pool non va più bene. Perché sta traducendo in cifra operativa quel che aveva sostenuto nella ordinanza-sentenza conclusiva del primo maxi-processo del 1985, quando denunziava «una singolare convergenza fra interessi mafiosi e interessi attinenti alla gestione della cosa pubblica, fatti che non possono non presupporre tutto un retroterra di segreti e inquietanti collegamenti che vanno ben al di là della mera contiguità e che devono essere individuati e colpiti se si vuole davvero voltare pagina». È nel momento in cui il pool comincia a «voltare pagina» che si moltiplicano – furibondi – gli attacchi che ne causano la delegittimazione e poi la scomparsa, con azzeramento del suo metodo di lavoro. La tecnica è semplice: ripetere ossessivamente (a forza di ripeterle, anche le menzogne diventano credibili) che le indagini riguardanti i rapporti tra mafia e politica sono invenzioni di magistrati politicizzati, asserviti a strategie eterodirette. Ovviamente è un'assurdità, comprensibile soltanto se a propagandarla è Cosa Nostra, che difatti la sostenne contro il pool di Falcone, quando Antonino Salvo, uomo «d'onore» riservato della famiglia di Salemi, per difendersi dalle accuse del pool proclamava di essere «sotto il mirino dei politici e, in particolare, anzi, soltanto del Partito Comunista italiano». Una falsità che sarà poi ripresa pari pari da Salvatore Riina, pronto ad inveire pubblicamente (24 Maggio 1994, Corte di Assise di Reggio Calabria) contro i «comunisti» che complottano ai suoi danni anche nella Procura della Repubblica di Palermo. Ma quel che interessa sottolineare è che Salvo e Riina non parlavano e non parlano a caso, ma lanciano trasparenti messaggi, magari rivolgendosi a settori che immaginano, sperano, disposti a riceverli. Interessa sottolineare, inoltre, che la storia (almeno in parte) si ripete, nel senso che anche dopo le stragi del 1992 le cose vanno bene, per il pool dei magistrati inquirenti della Procura di Palermo, finché ci si occupa soltanto di Riina e soci. Ma quando – non in base a teoremi politico-sociologici ma a fatti ed emergenze probatorie – si aprono e si sviluppano anche procedimenti a carico di imputati «eccellenti» appartenenti alla borghesia politica, imprenditoriale e professionale (cioè a settori che da sempre hanno un ruolo centrale nella storia della mafia), ecco che – pur di scongiurare il salto qualitativo nell'azione di accertamento dei legami e delle collusioni con Cosa Nostra – sono molti coloro che accettano di perdere una guerra che si sarebbe potuta vincere. Le tappe di questa strategia rinunciataria sono note e già sperimentate contro il pool di Falcone: la definizione della ricerca della verità come inaccettabile «cultura del sospetto»; l'insinuazione di uno scorretto rapporto tra «pentiti» e inquirenti; la conseguente delegittimazione pregiudiziale dei «pentiti» (cosa – inutile dirlo – tutt'affatto diversa dalla doverosa prudenza nella valutazione delle dichiarazioni degli stessi); l'accusa a pubblici ministeri e giudici di costruire teoremi per ragioni politiche o, più brutalmente, di «essere comunisti o amici dei comunisti». Risultato? Proprio mentre l'incalzare dell'azione della Procura stava disgregando l'organizzazione criminale, proprio quando l'isolamento di Cosa Nostra (grazie anche alle indagini sui collusi) andava profilandosi come ormai irreversibile, ecco inscenarsi un «processo» alla stagione giudiziaria che ha seguito le stragi del 1992. E se le persone da mettere sotto accusa sono i magistrati, ad avvantaggiarsene – obiettivamente – è la criminalità. Cosa Nostra fa meno fatica a risorgere, ha più tempo e più spazio per ricostruire le fortificazioni sbrecciate. Sembrava fatta, Cosa Nostra ed i suoi complici stretti in un angolo, sotto una gragnola di colpi portati con rigoroso rispetto delle regole e delle garanzie, e invece... Certo, l'azione degli inquirenti non viene bruscamente interrotta come ai tempi del pool di Falcone, ma la strada si fa più in salita. Continuano i «successi» sul versante militare dell'organizzazione, ma l'indispensabile lotta alle collusioni rallenta e si inceppa. Ed è proprio qui che si può registrare quanto sopra anticipato: molte cose sono cambiate in positivo nell'impegno antimafia; quel che invece non cambia mai — o cambia troppo poco — è la politica, perlomeno certa politica. Vorrei ancora fissare alcuni punti: 1. Larga parte della politica oggi (anche trasversalmente) considera troppa giustizia e troppa legalità come un fastidio. Gli viene l'orticaria. Non si identifica con l'Italia delle regole quanto piuttosto con l'Italia dei furbi, degli affaristi o degli impuniti. 2. In democrazia, il primato della politica è un assioma. Spetta alla politica, soltanto alla politica, operare le scelte di governo nell'interesse — si spera — di tutti. Non spetta a nessun altro, meno che mai ai giudici (la storiella del governo dei giudici è bieca propaganda). Ma proprio perché non può esservi dubbio alcuno su questo primato, la politica deve viverlo ed interpretarlo nella consapevolezza della sua importanza effettiva, non con attenzione alla sola facciata. Allora, se ci sono delle inchieste giudiziarie che rivelano fatti dando indicazioni preziose in tema di corruzione e collusione fra mafia e politica, ecco che la politica dovrebbe esercitare il suo primato intervenendo con nuove leggi, con controlli più adeguati. E invece di tutto questo abbiamo avuto ben poco dal 1990 ad oggi. Si avverte invece una certa tendenza (trasversale) a mal concepire il primato della politica, a farne la base per pretendere una sorta di sottrazione dei politici ai controlli, alla legge che dovrebbe essere uguale per tutti. Ecco allora che la giustizia nel nostro paese non funziona, ma invece di chiedere più giustizia si chiede meno giustizia, tutte le volte che si incrociano determinati interessi. Ecco allora che alla magistratura si chiede di fare un passo indietro, invece di potenziarne gli strumenti e le possibilità di intervento.
3. Usa dire che l'antimafia e l'anticorruzione non portano voti.
Chissà... Sta di fatto che antimafia e anticorruzione nell'agenda politica,
quando ci sono, sono in posizioni non primarie.
Per quanto riguarda la mafia ciò accade a partire dal 1996,
con vari sussulti successivi di tipo emergenziale: nel senso che
soltanto dopo un fatto clamoroso che ci sveglia, con una forte
tendenza a dimenticare presto e rimettere la questione mafia
ai margini dell'agenda.
Ma se questo è lo scenario di fondo, non stupisce che tanti uomini politici, amministratori, imprenditori, operatori economici, professionisti (con frequente predilezione per il settore della sanità), non stupisce che tanti, troppi soggetti ancora oggi intrattengano rapporti di affari o di scambio con mafiosi o paramafiosi. Ancora oggi, dopo le terribili stragi del 1992 e del 1993, ancora oggi ci sono personaggi che vivono e operano nel mondo legale, talora con responsabilità istituzionali di altissimo rilievo, che sono disposti a trescare, a trattare con mafiosi o paramafiosi come se nulla fosse, come se fosse cosa assolutamente normale. Questa è una totale vergogna, che dovrebbe fare drizzare i capelli in testa a tutti. Invece quelli che si indignano sono sempre di meno. E chi viene colto con le mani nel sacco può sempre contare sulla solidarietà dei propri capi cordata, sia locali sia nazionali. E allora ecco che invece dell'indignazione o della giusta tensione ci sono passività e rassegnazione. Ci si convince che così va il mondo, che c'è poco o nulla da fare. La questione morale e la responsabilità politica diventano reperti archeologici, favole per i gonzi. E la mafia obiettivamente e inesorabilmente cresce. Mentre è sempre più difficile agganciare i giovani con discorsi credibili in termini di impegno per la legalità. L'impressione è che la buona politica sia stata soppiantata o rischi di essere sempre più soppiantata da una politica che va facendosi poco compatibile con la verità. Politica e verità stanno imboccando strade sempre più diverse. Una certa politica (oltre ad essere autoreferenziale, oltre a trasformare il confronto in perenne rissa ideologica) costruisce verità virtuali per conservare e consolidare il suo potere. Nasce anche di qui la perenne autoassoluzione di se medesima da parte di una certa politica, anche quando sono evidenti ed indiscutibili clamorose responsabilità, se non giudiziarie, certamente politico-morali. La strada maestra ormai è confondere deliberatamente assoluzione con prescrizione. Non sono la stessa cosa, anche se confonderle ormai è la regola. Se una sentenza – magari una sentenza definitiva di cassazione come quella relativa al «caso» Andreotti – elenca come provati e commessi fatti gravissimi (scambi di favori con mafiosi; incontri con boss per discutere di fatti criminali, compresi omicidi; senza mai denunziare niente di niente; contribuendo in questo modo ad un sostanziale rafforzamento della organizzazione criminale), se in quella sentenza si dice – una prova dopo l'altra – che tutto questo è stato commesso fino a una certa data e che costituisce reato, non punibile ancorché commesso solo perché prescritto, questa non è assoluzione! È un'altra cosa. Confondere la prescrizione di un reato provato come effettivamente commesso con la prescrizione è prima di tutto un errore tecnico. Ma non solo. È anche, è soprattutto un grave errore politico. Perché se si dice che c'è stata assoluzione, a fronte di fatti gravissimi accertati in una sentenza, questi fatti vengono cancellati, sbianchettati. Ma cancellando questi fatti (come se non fossero mai accaduti, come se fossero invenzioni di giustizialisti, di magistrati politicizzati al servizio di una fazione...), si legittima di fatto un certo modo di fare politica che contempla anche rapporti organici con la mafia. E questo modo di fare politica si legittima per il passato, per il presente e anche per il futuro. Tutto ciò è di una gravità inaudita, perché significa cancellare il confine tra lecito ed illecito, tra morale ed immorale. Ma se cade questo confine, non c'è convivenza civile al mondo che possa reggere più di tanto. Prima o poi si va a sbattere. Tutti. E tutti ci si può ritrovare sotto un bel cumulo di macerie. Oppure si va alla deriva e si finisce chissà dove. E intanto la mafia non può non approfittarne, magari per superare momenti difficili e riemergere, fino a dare quella sensazione di vittoria che esprime il titolo del libro di Tranfaglia. | << | < | > | >> |Pagina XXIIIn questo quadro, si capiscono tante cose, a partire dallo scarto (di cui abbiamo già parlato) fra la continuità ormai acquisita sul versante del contrasto della mafia «militare» e la discontinuità dell'azione che voglia colpire la spina dorsale del potere mafioso, le relazioni esterne. Su questo versante si riesce a rimanere ad un certo livello — quando lo si raggiunge — per non più di due, tre anni. Poi stop. Allora si capisce come la nostra antimafia — ripetiamolo — sia quella del giorno dopo: se non succede qualcosa che ci costringe ad intervenire e finalmente ci sveglia dal nostro torpore, non ce ne occupiamo. Allora si capiscono la drastica revisione della legislazione antimafia; la minore efficienza del circuito carcerario differenziato per i boss; la nuova disciplina legislativa della collaborazione con la giustizia che ha prodotto effetti tutt'altro che incentivanti; le profonde riforme del processo penale che, seppure introdotte per tutelare sacrosanti diritti di garanzia, hanno finito per inceppare ulteriormente il funzionamento e allungare ancora i tempi del processo penale. Si capisce — in sostanza — come lo strumentario normativo antimafia risulti oggi un'arma meno incisiva se confrontato con quello varato all'indomani delle terribili stragi del 1992. Allora si capisce perché quel punto nevralgico dell'antimafia che è la gestione snella ed efficiente dei beni confiscati ai mafiosi stia subendo — lentamente ma inesorabilmente — vischiosità ed inceppamenti che rischiano di svuotare e rendere sempre meno credibile una delle conquiste più importanti dei nostri tempi. Allora si capiscono le amnesie: per esempio l'anagrafe dei conti bancari, una legge del 1993 che non è mai stata attuata. Allora si capiscono le gaffes di chi dice che con la mafia bisogna convivere. E magari dice cose che tanti altri pensano anche se lo negano, ma poi le praticano.E attenzione: è proprio questo contesto che favorisce scelte disastrose. Una recente ricerca Svimez, e prima ancora una ricerca del Censis, dimostrano lo zavorramento dell'economia delle aree meridionali ad opera delle mafie. Zavorramento che significa 180.000 posti di lavoro perduti ogni anno; zavorramento che significa produzione di ricchezza in meno pari a 7,5 miliardi di euro ogni anno; vale a dire che senza le mafie il PIL pro-capite del mezzogiorno sostanzialmente sarebbe identico a quello del centro-nord. Ma non basta. Il Censis ha anche denunciato che il potere criminale è sempre più potere economico, al punto che sta trasformando radicalmente il mercato e la concorrenza in scatole vuote. Perché l'imprenditore mafioso — rispetto a quello onesto — gode di vantaggi enormi: capitali a costo zero (il mafioso è ricco di suo, grazie al denaro illecito che continuamente riempie le sue tasche); possibilità, proprio perché già immensamente ricco di suo, di offrire prezzi molto più bassi, non avendo come obiettivo immediato quello del profitto ma la conquista di pezzi di mercato. E infine, se ci sono dei problemi l'imprenditore mafioso, rispetto all'imprenditore normale, ha il vantaggio di poterli risolvere — questi problemi — coi sistemi che sono nel suo DNA di mafioso: la corruzione, la suggestione, l'intimidazione e la violenza. Vantaggi che spiazzano ogni concorrente pulito, ne comprimono gli affari o lo espellono dal mercato. Oppure lo spolpano fino a svuotarlo, consentendo ai mafiosi o ai prestanome dei mafiosi di impadronirsi di quelle attività. Così, il libero mercato e la legale competizione economica diventano scatole sempre più vuote e la situazione è tale che bisogna soltanto sperare che Francesco De Gregori, quando cantava: «legalizzare la mafia sarà la regola del 2000», non fosse — mentre faceva della intelligente ironia — un profeta. Di fatto le mafie oggi sono ancora un'enorme questione nazionale, ancorché questo dato di fatto sia da molti — anche a sinistra — negato. La drammatica realtà delle mafie, oggi, è che esse hanno costruito una vera e propria «economia parallela» che pian piano risucchia nel suo gorgo commerci, imprese e forze economiche sane, che spesso trovano difficoltà enormi nel costruire le loro sorti ed il loro futuro sul rispetto delle pratiche legali. Così l'economia illegale inesorabilmente avanza e si espande, come un'onda che si insinua dovunque e cerca di impadronirsi di tutto. Essa si presenta, purtroppo, spesso come vincente, a fronte di uno Stato che troppe volte dà l'impressione di rinunziare a combattere (o di non combattere con sufficiente energia) una battaglia che si potrebbe invece sostenere e vincere. Di qui la necessità (che percorre come un filo rosso l'intiero libro di Tranfaglia) di superare quel limite culturale che da sempre inceppa l'azione antimafia: quello di percepire la mafia come un problema esclusivamente di ordine pubblico, cogliendone la pericolosità soltanto quando mette in atto strategie sanguinarie; quello di trascurare i rischi della convivenza con la mafia quando essa adotta strategie «attendiste», dimenticando la sua lunga storia di violenze e quella straordinaria capacità di condizionamento che ha fatto di un' associazione criminale un vero e proprio sistema di potere criminale, oggi sempre più potere economico. Tutto ciò presuppone decisi interventi soprattutto sul piano della politica, azioni positive e convincenti (sia rispetto all'illegalità in generale sia rispetto al crimine organizzato in particolare) da parte di chi dovrebbe offrire il buon esempio. Azioni condotte con energia e solerzia, mentre la storia della mafia registra, oltre a vere e proprie complicità, il prevalere — salvo alcune «parentesi» — di un atteggiamento di sostanziale lassismo (che Gaetano Mosca chiamava «fiaccona»), capace di contribuire non poco al rafforzarsi del potere mafioso. La «fiaccona» e le complicità sono da sempre i migliori alleati della mafia. Questo in definitiva dimostra il libro di Tranfaglia. E se la «fiaccona» e le complicità persistono, la mafia — appunto — vince. Gian Carlo Caselli | << | < | > | >> |Pagina 31. Perché scrivere ancora sulla mafia Scrivere un nuovo saggio sulla mafia a quindici anni dalle grandi stragi che scelsero come vittime Giovanni Falcone e Paolo Borsellino con le loro scorte che segnarono l'ultimo, vano tentativo di rivolta dei siciliani e degli italiani contro la coabitazione tra mafia e politica nel nostro paese, ha senso se c'è ancora la speranza di comprendere le ragioni della sconfitta dello Stato nel tentativo di risolvere il problema, una volta per sempre. Giovanni Falcone ne era convinto. Se si tratta di un fenomeno umano, diceva, ha avuto un inizio e avrà una fine. Un ragionamento limpido e rigoroso ma che deve misurarsi oggi con una realtà politica, sociale e culturale (per non dire economica) che in questi anni è parsa andare in gran parte nella direzione opposta. Ma quali sono le ragioni storiche che spiegano la rilevanza e la persistente centralità del fenomeno mafioso nel nostro paese, anche se oggi è più difficile da analizzare da parte dell'opinione pubblica, sembra essersi rituffato (con l'eccezione della 'Ndrangheta) in una dimensione sotterranea o, come qualcuno ha scritto, «invisibile»? Il titolo di questo saggio può sembrare troppo categorico e rivelare un pessimismo eccessivo, con assai poche speranze ma il fatto resta: dopo oltre centocinquanta anni da quando il fenomeno opera nella realtà nazionale (è probabile che le origini siano più lontane, come alcune ricerche attendibili ormai suggeriscono) di fronte a tre epoche (e regimi) distinti della nostra storia, quella liberale, quella fascista e infine la repubblicana, non si può negare che abbia vinto di fronte a chi l'ha combattuta nei vari periodi. Ha vinto la sua guerra e occorre prenderne atto, se si vuol cambiare strategia per sconfiggerla, cosa che finora non siamo mai riusciti a realizzare. La mafia, a quanto possiamo constatare, ha sostituito alla strategia terroristica degli anni Ottanta e Novanta una dimensione anzitutto finanziaria, immersa nella globalizzazione internazionale. E, in questa nuova veste, ha vinto, almeno per ora, la sua lunga guerra contro lo stato di diritto? Ecco, questo è l'interrogativo che si impone ancora una volta a chi analizza e interpreta da molti decenni la storia d'Italia e ha incontrato troppo spesso sul suo cammino, non soltanto in Sicilia ma, in maniera meno visibile in tutta la penisola, la presenza e l'influenza della mafia e, con essa, la difficoltà crescente di fondare e consolidare nel nostro paese lo stato di diritto, inteso come il governo delle leggi. E, insieme, la persistenza e anzi l'espansione in Italia di metodi e pratiche pubbliche e private che hanno a che fare con La mafia come metodo (titolo di un mio libro edito nel 1991), oltre che come organizzazione criminale. Qualcuno tra i lettori si chiederà se ha senso parlare di vittoria della mafia o bisognerebbe dire piuttosto di stallo nella lotta alla mafia ma io credo che si possa, e si debba parlare, di vittoria perché, negli oltre cent'anni (ormai quasi 150) in cui si dipana la storia postunitaria, in nessun periodo (eccetto brevi momenti), le classi dirigenti italiane non hanno mai intrapreso in maniera adeguata una lotta coerente alla mafia, coniugando la repressione all'educazione degli italiani e allo sviluppo economico e civile del Mezzogiorno e tentando quindi di sradicare il fenomeno dalla cultura collettiva della popolazione e si sono quindi in un certo senso arresi alla fatale vittoria della mafia. Possiamo e dobbiamo dunque parlare di vittoria del fenomeno in una società che accetta di coabitare con essa e consente che essa si espanda e diventi sempre più attiva e pericolosa. | << | < | > | >> |Pagina 1623. Una conclusione provvisoriaGiunti a questo punto, vale la pena riassumere le tesi di fondo che hanno guidato questa analisi sintetica che ha ripercorso le tappe essenziali dei comportamenti tenuti dalle classi dirigenti della penisola con le inevitabili approssimazioni in un discorso che ha messo da parte la narrazione storica e ha insistito sui momenti di svolta che hanno caratterizzato il periodo che va dall'Unità al momento attuale. Ho lasciato da parte gli anni precedenti al processo di unificazione nazionale anche se resto convinto del fatto che la nascita delle organizzazioni mafiose affonda le sue radici nel periodo preunitario. Purtroppo le ricerche storiche sono ancora assai poche e risentono l'assenza di studi esaurienti che utilizzino tutte le fonti pur esistenti negli stati preunitari (in particolare in Sicilia, in Calabria, in Campania, essenzialmente cioè nel Regno borbonico delle due Sicilie) e, se si escludono gli studi ancora pioneristici che riguardano i secoli precedenti di Orazio Cancila, Umberto Santino e pochi altri, mancano le basi necessarie per allargare e precisare il discorso. Preparando questo lavoro sono stato a lungo incerto se concentrare, come poi ho fatto, l'analisi sulla mafia siciliana o parlare anche, nella medesima chiave ma con le differenziazioni opportune, della «'Ndrangheta» calabrese e della Camorra napoletana, ma, alla fine, ho deciso di limitarmi a seguire il filo centrale, costituito senza dubbio dai rapporti tra Cosa Nostra e le classi dirigenti del paese. Ho deciso alla fine di limitarmi, pur con qualche accenno sporadico, a quel filo centrale per non rendere il discorso troppo complesso e a raccontare ancora una volta rispetto ad altri studi attendibili (come quelli di Sales e Di Fiore per la Campania e a quelli di Ciconte e Gratteri per la Calabria) che narrano le vicende attinenti a quelle organizzazioni mafiose che, pur con differenze anche rilevanti si rifanno in qualche modo al modello siciliano. Del resto, se ci si chiede come si può definire il fenomeno mafioso senza troppe parole e ricomprendendo nella definizione non soltanto Cosa Nostra ma anche le altre principali organizzazioni mafiose, ci si può riferire senza tema di sbagliare a quel che disse lo scrittore Leonardo Sciascia di cui abbiamo già parlato e con il quale si può essere (come è capitato anche a me) non sempre d'accordo, ma che, nella sua opera, ha sempre mostrato una grande lucidità. In un discorso pronunciato alla Camera il 29 febbraio 1980, Sciascia dettò una definizione che a me pare, ancora oggi, accettabile. «Anni fa – disse allora l'autore de Il giorno della civetta – ho tentato, il più sinteticamente possibile, di dare una definizione della mafia, ho detto che essa era un'associazione a delinquere, con fini di illecito arricchimento per i propri associati, che si poneva come intermediazione parassitaria con mezzi di violenza fra la produzione e il consumo, tra il cittadino e lo Stato». A questo bisogna aggiungere che la situazione è ancora peggiorata nel nuovo secolo e che oggi ben tre regioni della penisola sono di fatto governate sul piano economico ma anche su quello politico-istituzionale e territoriale dalle organizzazioni mafiose. Lì la mafia ha già vinto da ogni punto di vista. Se si è ormai arrivati a questa situazione assai grave che vede, ad esempio in Calabria la maggioranza numerica dei membri del consiglio regionale inquisita per reati comuni, molti dei quali legati in qualche modo alla questione mafiosa, la responsabilità è delle classi dirigenti della penisola, del parlamento nazionale e dei governi. Si è, infatti, proceduto negli ultimi quindici anni non soltanto con la disattenzione sistematica verso il problema ma anche con un alleggerimento della repressione giudiziaria che, con la partecipazione del centro-destra come del centro-sinistra, ha collegato con sempre maggiore insistenza l'applicazione di un generico garantismo alla questione mafiosa. Si tratta (come si potrà analizzare in altra sede) dell'introduzione di norme, che applicano anche ai processi di mafia, come non era mai avvenuto prima, attenuazioni di pena o scappatoie insidiose che hanno contribuito a render più difficile per la magistratura perseguire i sospetti mafiosi. Manca ancora, a livello di studio scientifico, un'indagine che mostri i risultati ottenuti sia nella guerra contro i giudici sia attraverso le modifiche introdotte nelle norme processuali in questi anni dalle Camere. E su questo aspetto, che pure è di notevole importanza, i mezzi di comunicazione, tranne eccezioni assai rare, hanno eretto un muro di silenzio che ha reso impossibile sia lo sviluppo di un dibattito sia la reazione dell'opinione pubblica di fronte all'opera dell'esecutivo come del parlamento. Ancora una volta l'alleanza tacita dell'organo legislativo come di quello esecutivo, come degli organi di controllo a cominciare dalla corte costituzionale che, peraltro per intervenire, ha sempre bisogno di essere chiamata a decidere per iniziativa essenzialmente di un giudice ordinario, ha prodotto nell'ultimo quindicennio effetti rilevanti sulla repressione.
Se si tiene presente che, sull'altro pedale che è necessario pigiare per una
lotta efficace, quello dell'educazione e della cultura, l'orizzonte si è
parallelamente oscurato e le iniziative sono
state scarse e inefficaci, si può capire perché la mafia si è sempre
meglio insediata nella società italiana e lo Stato che rappresenta
tutti gli italiani ha perduto.
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