Copertina
Autore Salvatore Veca
Titolo Saggio sul programma scientifico di Marx
EdizioneBruno Mondadori, Milano, 2005 [1977], Sintesi , pag. 144, cop.fle., dim. 145x210x12 mm , Isbn 978-88-424-9213-9
LettoreRenato di Stefano, 2006
Classe filosofia , economia politica
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Indice


 IX Prefazione
  1 Premessa
  7 1. Programmi scientifici
 31 2. I classici e la produzione
 51 3. I classici e il valore
 69 4. Il programma di Marx
103 5. Marx e il valore
115 Appendice. Sulla critica dell'economia politica
129 Riferimenti bibliografici
141 Indice dei nomi


 

 

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Pagina IX

Prefazione


Ho accettato con entusiasmo l'invito del direttore editoriale della Bruno Mondadori, che è un mio vecchio amico, a pubblicare una nuova edizione del Saggio sul programma scientifico di Marx. Sandro d'Alessandro mi ha convinto con buone ragioni, ma senza troppa fatica. Il libro uscì nel 1977, quasi trent'anni fa. Per me era la conclusione di una lunga ricerca, che avevo avviato agli inizi degli anni settanta. Una ricerca che mirava a un'interpretazione del programma di Marx nei termini della critica dell'economia politica. Nel 1973 avevo consegnato a un altro libro, Marx e la critica dell'economia politica, i primi esiti dell'indagine.

Ricordo l'insoddisfazione che ben presto provai nei confronti di quegli esiti. Avevo l'impressione che ci fosse qualcosa che non tornava, qualcosa di sbagliato nelle mie tesi centrali che immunizzavano Marx, il grande critico dell'economia politica classica, nei confronti della critica, di qualsiasi critica. Mi sembrava che le mie tesi finissero per canonizzare Marx, attribuendo alla sua prospettiva teorica la capacità di dare risposte a qualsiasi questione o problema fosse generato dal mutamento sociale. Certo, mi ero impegnato in un esame attento degli sviluppi della teoria economica e sociale dopo Marx, mettendomi alla prova — in particolare — con le prospettive di Max Weber, Joseph Schumpeter e John M. Keynes, ma restava il fatto che il riferimento all'impresa scientifica di Marx rendeva in ogni caso disponibile l'ultima parola. Cominciavo a esercitare il sospetto nei confronti della credenza che la teoria di Marx fosse, in qualche modo, un corpo di verità su noi e sul mondo sociale, che illuminavano e orientavano linearmente l'agire politico e sociale, grazie a una sorta di incommensurabilità con qualsiasi altro approccio teorico o sapere della società. In virtù di una coupure epistemologica, per usare il gergo althusseriano di Leggere il Capitale. Bene, tutto ciò mise in moto la ricerca che mi condusse alla stesura del Saggio. Così, almeno mi sembra oggi di poter dire.

L'indagine, come sostiene John Dewey, nasce dalle perplessità. E ricordo che la mia perplessità era accompagnata dalla sensazione del tedio della certezza. Sembrava che i marxisti disponessero di un passepartout o di un arsenale di risposte già date, rispetto alle trasformazioni sociali e a un mondo di incessante deformazione. E che qualsiasi evento o fenomeno o processo inaspettato e inedito, opaco rispetto alla teoria, potesse essere sbrigativamente sistemato con un aggiustamento ad hoc, o con un'ennesima glossa ermeneutica, esercitata con sottile perizia sulle sacre scritture. Per i devoti, nessuna sorpresa. I devoti erano allora per lo più, nel giro di boa degli anni settanta, neofiti. Avevano prevalentemente conosciuto esperienze recenti di conversione o avevano aggiornato gli articoli della fede nella salvezza mondana. Il revival del marxismo, consistente nell'identificazione di un "vero" Marx, in contrasto e in conflitto con la variegata tradizione dei marxismi e dei differenti tentativi di contaminazione fra aspetti dell'opera di Marx e altre tradizioni di ricerca filosofica o sociologica, storica, economica o antropologica, caratterizza la lunga fase di ideologizzazione che investì, dalle nostre parti, le culture dei movimenti collettivi, insorti sull'onda delle controculture contestative della fine degli anni sessanta. (Anche a me accadde di pagare un prezzo alle richieste della devozione ideologica, e di questo risentivano alcune delle analisi e, soprattutto, delle tesi proposte nel libro del 1973. Di qui, perplessità e tedio della certezza.)

L'esperienza del tedio della certezza, del resto, è intrinsecamente associata alla dimensione propriamente ideologica di quegli impieghi del discorso marxiano. Nel senso che una delle funzioni della produzione di discorsi ideologici è, com'è noto, quella della generazione di beni d'identità per i seguaci. E così, molto semplicemente, che può accaderti di provare la sensazione che conferma l'aurea massima di Alessandro Pizzorno, secondo cui «chi vuole che la lotta continui vuole che la teoria si fermi».

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Pagina XV

Vi sono naturalmente più modi di interpretare questa condizione. che chiamo la condizione dell'essere eredi. ( Etienne Balibar ha recentemente sostenuto che nel XXI secolo non ci sarà spazio per una filosofia marxista, ma che l'importanza di Marx per la filosofia e la teoria politica sarà durevole e influente. Guido Carandini ha richiamato ancora una volta l'attenzione sulla familiare tensione fra il Marx del messianismo rivoluzionario e il Marx della scienza sociale, evocando "un altro Marx". Io penso, al contrario, che Marx sia proprio riconoscibile per l'impasto inestricabile fra la corrente calda del messianismo e la corrente fredda dell'analisi e della teoria. E l'analisi epistemologica del Saggio mira a rendere conto di ciò.) Resta in ogni caso il fatto che, quale che sia il grado di accettazione devota, di ricezione critica, di decostruzione, di ricostruzione o di rifiuto sdegnoso del retaggio, non è una buona massima per la condotta intellettuale far finta che le cose non stiano così. La damnatio memoriae non si addice alla chiarezza di pensiero, alla cura per il mondo e alla semplice responsabilità intellettuale.

Ora, possiamo dire, il programma di Marx con la sua portata e i suoi limiti è una tessera importante e cruciale del mosaico o dello sfondo della nostra modernità. Lo sfondo, in cui possiamo riconoscere con Derrida che le filiazioni sono più d'una, perché "una filiazione unica non è una filiazione", e in cui ci impegniamo in esercizi di genealogia congetturale nel senso chiarito da Elster. Lo sfondo, su cui si tratteggiano i percorsi dell'indagine e dell'esplorazione di modi di convivere che siano più degni di lode e meno intollerabilmente esposti alla critica sociale e al biasimo morale. Nel gran mosaico della nostra ingarbugliata eredità intellettuale, il programma di Marx non è più che una tessera importante e cruciale, naturalmente. Ma, per favore, nulla di meno.

[...]

settembre 2005

Salvatore Veca

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Pagina 71

4. Il programma di Marx


4. Il nucleo metafisico del programma di Marx è costituito da ciò che tradizionalmente chiamiamo "materialismo storico". Esso consiste in una serie di assunzioni profonde intorno alla continuità della riproduzione materiale della società e alla discontinuità dei modi in cui tale riproduzione, considerata secondo una prospettiva nettamente dinamica, ha luogo.

Il punto di vista "dinamico" che governa l'ottica della riproducibilità, dipende da una presa di posizione intorno alla razionalità dell'espansione, razionalità condizionata dall'ipotesi che non sia desiderabile – e quindi non accettabile come valore – qualsiasi stato entropico o degenerativo dei sistemi della riproduzione sociale. D'altra parte il punto di vista dinamico dipende dalla registrazione della transizione e dall'estrapolazione di un sistema o serie di transizioni.

Il riorientamento del quadro concettuale classico ha luogo esattamente in questa forte dilatazione del campo teorico. In altri termini, il nucleo del programma di Marx deriva da una sorta di "generalizzazione" delle nozioni strategiche dei classici. Il concetto di produzione viene sottoposto in modo particolare a questa operazione di approfondimento. Viene messo in relazione a più termini e a più contesti di quanto non avvenisse nel quadro classico. Esso, come abbiamo visto, costituiva un dato centrale per i classici. Diventa il problema centrale per Marx. Ma diventa un problema in quanto si assume che i processi di produzione dei beni materiali, su cui i classici avevano concentrato l'attenzione, abbiano nel loro insieme un ruolo "pervasivo" e strategico per la configurazione stessa della dinamica dei sistemi sociali.

Si tratta evidentemente di una generalizzazione, nel senso che, se il termine "produzione" era individuabile nel quadro classico solo in rapporto a schemi categoriali pertinenti all'"economia politica", nel quadro concettuale di Marx esso vale in rapporto a molteplici schemi categoriali che individuano come oggetto l'intero complesso dei sistemi sociali e le regole della loro formazione e trasformazione (il sistema delle transizioni).

La generalizzazione del termine "produzione" va insieme appunto alla generalizzazione del termine "transizione". Anche questo avviene mediante una significativa dilatazione del campo di riferimento. La transizione viene messa in rapporto a più contesti. Le due generalizzazioni interagiscono ovviamente fra loro. Si può parlare di più contesti rispetto a cui vale il termine "produzione" in quanto è raggiungibile una nozione generale di serie di transizioni. Il continuum della produzione materiale viene in tal modo attraversato dai contesti o modi di produzione e si presenta come una serie di cambiamenti di stato o transizioni del sistema sociale.

La transizione, che per i classici costituiva il limite da cui partiva il progetto e si definiva l'oggetto, per Marx è insieme il limite a cui tende l'oggetto e si orienta il progetto. Il passaggio o, appunto, la transizione da una configurazione (o stato) all'altra del sistema di produzione materiale della società è evidentemente connesso al problema dei limiti, delle soglie critiche dello stato del sistema. In altri termini, una volta dato o assunto un dispositivo di espansione, il sistema in esame si trova via via in configurazioni che garantiscono l'espansione o sono con essa incompatibili.

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Pagina 76

4.2. Alcuni luoghi celebri dell' Ideologia tedesca di Engels e Marx ci forniscono, come è noto, i lineamenti essenziali della "metafisica influente" all'opera nel progetto scientifico. In essi possiamo, in particolare, ritrovare le nozioni strategiche di produzione, sviluppo (espansione), limiti o contraddizioni ("intralci"), continuum materiale e modi di produzione ("forme di relazione"), transizioni, che abbiamo introdotto in 4.

Marx e Engels definiscono l'insieme di presupposti che presiedono all'analisi. Qui troviamo i "selettori" o "sistematori".

Questo modo di giudicare non è privo di presupposti. Esso muove dai presupposti reali e non se ne scosta per un solo istante. I suoi presupposti sono gli uomini non in qualche modo isolati e fissati fantasticamente, ma nel loro processo di sviluppo, reale e empiricamente constatabile, sotto condizioni determinate.

Il predicato base della producibilità è immediatamente formulato, dati questi presupposti. Si sottolinea la rilevanza della selezione di questo predicato e la sua priorità.

Anche riducendo la sensibilità al minimo, magari a un bastone come nel caso di San Bruno, essa presuppone la attività della produzione di questo bastone. In ogni concezione della storia dunque il primo punto è che si osservi questo dato di fatto fondamentale in tutta la sua importanza e in tutta la sua estensione e che gli si assegni il posto che gli spetta.

Si presenta una prima, elementare configurazione del dispositivo di espansione che finisce per costituire l'elemento cui imputare la "messa in moto", l'elemento propulsivo dello sviluppo.

Il primo bisogno soddisfatto, l'azione del soddisfarlo e lo strumento già acquistato di questo soddisfacimento portano a nuovi bisogni: e questa produzione di nuovi bisogni è la prima azione storica.

Le decisioni intorno alla "desiderabilità" dell'espansione dipendono dall'ottica della producibilità rispetto a quella della scarsità.

D'altra parte questo sviluppo delle forze produttive è un presupposto pratico assolutamente necessario anche perché senza di esso si generalizzerebbe soltanto la miseria e quindi col bisogno ricomincerebbe anche il conflitto per il necessario e ritornerebbe per forza tutta la vecchia merda, e poi perché solo con questo sviluppo universale delle forze produttive possono aversi relazioni universali fra gli uomini.

Il processo di interazione fra uomini e natura, il continuum della riproduzione materiale, ha luogo secondo regole del gioco differenti a seconda del modo determinato di produzione. L'interazione tra uomini e natura implica, entro ogni reale o virtuale contesto, forme di relazione interumana in cui, come ben sapevano i classici, sono riconoscibili le variabili istituzionali, i rapporti tra le classi sociali.

Il continuum viene così attraversato da contesti discreti, la cui configurazione è identificabile ricorrendo alle regole del gioco (in termini di potere, controllo e disposizione) che presiedono ai rapporti tra le classi. Dal punto di vista analitico questi rapporti (che nell' Ideologia tedesca vengono definiti mediante l'operatore della «divisione del lavoro») designano, per così dire, la forma in cui avviene il processo di riproduzione materiale.

Ora, data l'ipotesi dell'espansione, è facile vedere che queste forme (che coincidono con la configurazione del sistema) possono essere compatibili o incompatibili con lo sviluppo. Di qui, anche, la possibilità di iscrivere un qualsiasi stato determinato del sistema (in cui vigono determinate regole del gioco e in cui si dispone di un aggregato determinato di risorse) entro una "serie coerente". Il processo, dicevamo, è orientato; è un progresso (cfr. 2.1).

Scrivono Marx ed Engels:

[...] una serie coerente di forme di relazione, la cui connessione consiste in questo, che al posto della forma di relazione precedente, diventata un intralcio, ne viene sostituita una nuova, corrispondente alle forze produttive più sviluppate e quindi al modo più progredito di manifestazione personale degli individui, e questa à son tour diventa poi un intralcio e quindi viene sostituita con un'altra. Poiché a ogni stadio queste condizioni corrispondono allo sviluppo contemporaneo delle forze produttive, la loro storia è altresì la storia delle forze produttive che si sviluppano e che sono riprese a ogni nuova generazione, e pertanto è la storia dello sviluppo delle forze degli individui stessi.

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Pagina 91

4.7 Credo sia ormai chiaro come siano rinvenibili, nella teoria del valore lavoro di Marx, le tracce significative delle assunzioni e delle decisioni metodologiche che compongono il nucleo metafisico del programma. Soprattutto, se teniamo conto dell'esame del quadro concettuale dei classici e in particolare della distinzione tra costo sociale reale dei prodotti e valore normale di scambio dei prodotti in quanto merci, rinvenuta in Smith e Ricardo. Infine, se pensiamo al problema della rappresentazione in termini fisici del processo di produzione come processo circolare.

Anche in Marx, come nei classici, il valore presenta una natura anfibia. Marco Lippi, cui è dovuto a mio parere uno dei più importanti contributi analitici sulla teoria del valore marxiana, osserva:

Il valore si delinea così come una categoria mista. Da una parte, la determinazione della sua grandezza proviene dalla considerazione della produzione in generale, a prescindere dai rapporti storici in cui tale produzione si svolge; essa nasce su un terreno naturale-sociale, come il principio smithiano e ricardiano del prezzo reale. D'altra parte, il valore è la forma entro cui tale grandezza si manifesta quando i prodotti del lavoro sono merci: Smith e Ricardo hanno compreso, secondo Marx, cosa sia la grandezza del valore, ma non ne hanno mai analizzato la forma.

Dal lato della continuità, della riproduzione fisica, incontriamo quindi la nozione di costo sociale reale dei prodotti. Essa indica qualcosa che è invariante al variare dei contesti, dei modi di produzione. È invece nei diversi contesti, nei modi di produrre (che dipendono dalle forme di distribuzione del potere e dalla distribuzione delle decisioni tra le classi sociali) che troviamo la nozione di valore normale di scambio, come la forma che la sostanza dei prodotti assume quando tali prodotti — come nel contesto capitalistico — siano merci. Dal lato del continuum, la "natura"; l'artificio, la "storia" da quello del discontinuo. Il costo sociale reale è iscritto nella fascia di permanenza, governata per così dire da un principio di conservazione. La conservazione della sostanza implica perciò la variazione della forma. Quest'ultima dipende dalle regole del gioco che presiedono al modo determinato di produzione.

Questo campo teorico, che nel caso di Marx — a differenza dei classici — ospita varianti virtuali e alternative, oltre che reali, al modo di produzione capitalistico, è quello in cui si iscrive la nozione di lavoro.

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Pagina 115

Appendice.

Sulla critica dell'economia politica


1. Nel suo fortunato lavoro sulla struttura delle rivoluzioni scientifiche Thomas S. Kuhn ci ha insegnato a esaminare con attenzione i momenti anormali dello sviluppo scientifico, in cui un paradigma entra in crisi e un altro si fa strada nella comunità scientifica. Si possono in queste fasi distinguere alcuni comportamenti propri dei ricercatori che gettano luce sul complesso processo di transizione da un paradigma all'altro. Se sullo sfondo procede il lavoro di scienza "normale", da un lato assistiamo ai tentativi tendenti a conservare o rafforzare il paradigma in crisi e dall'altro agli sforzi innovativi che metteranno capo al nuovo quadro concettuale. A quelle innovative si affiancano strategie parallele che in diversi modi hanno come effetto l'allentamento dei vincoli del vecchio paradigma. Non è necessario che queste ultime operazioni siano dirette al cuore del problema o dei problemi su cui si è avvertita l'anomalia. Si tratta di tentativi in qualche modo diversivi che cercano di attaccare il vecchio paradigma su tutti i fronti, anche quelli apparentemente più lontani dalla zona patologica. L'effetto desiderato è appunto quello di indebolire la capacità di tenuta del quadro concettuale da dissolvere e di preparare l'ambiente alla formulazione di quello nuovo, da istituire.

Le rivoluzioni scientifiche devono in genere il loro successo all'azione coordinata dei comportamenti descritti. La crisi che segna la fase tra un paradigma e l'altro, funziona in tal modo nello sviluppo; designa le condizioni di una rottura, di un salto nella crescita per accumulazione delle teorie scientifiche.

Nel caso della crisi della teoria economica, le cose sono complicate dal fatto che il campo patologico dei fenomeni reali che inducono la crisi dei paradigmi coinvolge, con un'altissima complessità, la comunità scientifica in modo affatto particolare. La distinzione tra chi tende a conservare e chi si impegna nella trasformazione riguarda anche qui le relazioni tra la teoria scientifica e il suo oggetto. In genere, nel campo delle scienze sociali, innovazione e trasformazione da un lato, conservazione e stabilizzazione dall'altro sono termini che indicano anche importanti assunzioni che motivano e organizzano l'elaborazione concettuale e strumentale delle teorie. Uno dei meriti non minori della critica dell'economia politica di Marx sta proprio nel fatto di aver considerato rilevanti e pertinenti le ragioni di queste assunzioni e nella simultanea denuncia di sistemi teorici che proprio quelle ragioni non potevano (quando non volevano) rendere esplicite.

Nell'ambito specifico della crisi della teoria economica il contrasto tra innovazione e conservazione riguarda quindi anche, necessariamente, una zona che può apparire estranea alla teoria stessa. Ciò conferisce una specifica complessità al problema e sembra suggerire l'utilità di una strategia altrettanto complessa che si fondi su un approccio combinato di eresia e spregiudicatezza. È ovvio, naturalmente, che questo vale per gli innovatori, nel duplice senso che qui abbiamo visto assumere al termine nel campo delle teorie sociali.


1.2 Marx, Keynes e Sraffa sembrano in qualche modo essere i termini di riferimento centrali di un dibattito impegnato, più o meno consapevolmente, ad allentare i vincoli del paradigma dominante e a far intravvedere, come in controluce, i lineamenti di un quadro concettuale diverso e più potente. Sullo sfondo, la ininterrotta produzione di scienza normale cui è adibita la grande e sofisticata macchina neo-classica. I fenomeni patologici: la dinamica dei sistemi capitalistici, il modo del loro sviluppo, le condizioni e la fisionomia di una crisi strutturale di grande portata.

Non c'è dubbio che l'individuazione di questi tre nodi decisivi sia plausibile e ampiamente motivata dal contributo innovativo da essi apportato al corpo teorico che dovrebbe permettere di definire, comprendere e prevedere le regole del gioco dei sistemi capitalistici. Molti dubbi, a mio avviso, possono sorgere se si considera l'uso che di Marx, Keynes, Sraffa è stato fatto o si fa; nel senso che tale uso dipende dalle previe assunzioni intorno alla natura delle loro teorie. Può essere utile perciò provare a distinguere, anche sommariamente, le peculiarità degli apporti forniti nei grandi momenti di svolta che coincidono appunto con l'intervento di Marx, Keynes e Sraffa.

Un buon modo per mostrare chiaramente le caratteristiche e i tratti distintivi propri delle teorie indicate, può essere quello di provare a formulare le domande principali cui quelle teorie sono state incaricate di rispondere. Nulla vieta naturalmente di sondare anche il campo delle domande e delle risposte secondarie che a volte possono essere tanto significative da implicare ricchissimi e imprevedibili sviluppi; ma, se si è interessati all'individuazione dei tratti distintivi di una teoria, conviene attenersi al criterio della maggiore rilevanza di alcuni punti rispetto ad altri. Inoltre, la percezione più o meno raffinata della giusta domanda cui dover rispondere coincide anche, nella maggior parte dei casi, con il vero cuore innovativo della teoria presa in esame.


1.3 Credo si possa ragionevolmente affermare che la teoria del capitalismo formulata da Marx dovesse sostanzialmente rispondere alla domanda concernente la "legge di movimento" del modo di produzione capitalistico. In altri termini, il problema per Marx è quello di riuscire a definire le regole di formazione e di trasformazione del capitalismo. Ciò dipende dall'assunzione intorno alla particolare natura della dinamica capitalistica: Marx ha in mente qualcosa come una "teoria dello sviluppo" i cui elementi legge nella storia pratico-materiale del decollo capitalistico e ritrova, a un livello più o meno alto di concettualizzazione sia nella Political Economy classica sia nella metafora filosofica di Hegel. Sulla base di questa teoria dello sviluppo Marx può individuare per quali vie il sistema capitalistico ha potuto decollare e per quali vie si espande; per quali vie, infine, è portato a vincoli e strozzature e, quindi, in qual modo è possibile, entro le (e grazie alle) condizioni complessive prodotte dallo sviluppo, uscirne, cioè trasformarlo.

L'intero corpus marxiano consiste perciò nel tentativo di formulare un insieme di categorie atte a definire e spiegare la morfologia e la fisiologia del modo di produzione capitalistico: questo, com'è noto, vale da requisito fondamentale per poter trasformare il capitalismo stesso. È impossibile saper trasformare il capitalismo senza conoscerne le regole del gioco; ma all'inverso – e qui sta uno dei momenti di grande originalità di Marx – è impossibile conoscere le regole del gioco del capitalismo se non si dispone la strumentazione concettuale in vista della trasformazione.

È forse utile chiarire che questa seconda condizione (quella distintiva della scienza di Marx) non dipende a sua volta dal "desiderio", dalla "volontà" o dalle assunzioni "ideologiche" dello scienziato del capitalismo, bensì dall'accertamento delle maggiori capacità esplicative, della maggiore potenza teorica (cognitiva e previsiva) che il quadro categoriale così fondato può esibire rispetto agli altri (nel caso: l'economia politica classica). Qui Marx vede di più dei classici. Aggiungo infine che proprio quest'ultima relazione (Marx e i classici) è quella da indagare se si vuol rendere conto della necessità per Marx di presentare come critica dell'economia politica il progetto scientifico di comprensione, spiegazione e trasformazione del modo di produzione capitalistico.


1.4 Keynes, del resto, ha formulato a fini di persuasione il suo programma nei termini di un'evasione dai vecchi modi di pensiero. Il nucleo della sua Teoria generale è definito in contrapposizione ad alcuni postulati cruciali della teoria economica ortodossa. Se prescindiamo dai modi con cui la rivoluzione keynesiana è stata attuata dallo stesso Keynes e, ovviamente, dai modi con cui è stata usata dai keynesiani – dalla restaurazione, per intenderci –, il problema centrale che Keynes avverte di dover risolvere, la domanda cui deve rispondere, concerne alcuni modi del funzionamento, della fisiologia della macchina capitalistica, a partire dalla rilevazione di anomalie e disfunzioni di enorme gravità. Come per la critica dell'economia politica di Marx, si tratta per Keynes di entrare nello spazio dei meccanismi che organizzano il comportamento del sistema capitalistico reale, a una certa fase del suo sviluppo. Keynes si interroga sulla specificità del sistema capitalistico; ritiene che, per intervenire, sia necessario conoscere.

Questa tensione politica organizza l'apparato concettuale della sua teoria; per questo è necessario criticare gli assiomi dell'economia "euclidea", allentare i vincoli e dissolvere l'inerzia operativa del paradigma neoclassico. Diversamente da Marx, Keynes ritiene che la trasformazione del capitalismo non implichi la fuoriuscita dai suoi limiti. La teoria di Marx ha in qualche modo un margine di incompatibilità tra sviluppo e limiti capitalistici molto forte e ampio, mentre Keynes vi allude solo in negativo, debolmente. L'economia politica di Keynes, forse l'unico caso rilevante di Political Economy postclassica, mentre richiede critica della teoria economica, non tollera di essere insieme critica dell'economia politica.


1.5 È proprio nello spazio determinato della critica della teoria economica che si dispone il contributo di Sraffa. Per quanto sia costretto a una terribile semplificazione, credo che per lo meno la domanda principale cui risponde Produzione di merci a mezzo di merci riguardi, per dir così, più la sintassi che la semantica. E, ovviamente, non sfiori – almeno direttamente – la pragmatica.

È indubbio che sul piano della sintassi sia Marx sia Keynes siano piuttosto scadenti: ciò dipende probabilmente da molti fattori tra cui senz'altro si possono indicare la grandissima e peculiare complessità del campo oggettuale delle loro teorie, la tensione politica innovativa dei loro tentativi e, naturalmente, almeno nel caso di Marx, lo stato degli strumenti linguistici a disposizione. In altri termini, l'impegno principale delle teorie di Marx e Keynes è semantico. La preoccupazione sintattica non è certo assente, ma è significativamente prevalente nei casi in cui sono necessarie critiche dissolutrici delle altre teorie economiche. Il livello prevalente del contributo di Sraffa mi sembra invece essenzialmente sintattico. Sraffa non smonta e rimonta meccanismi reali di funzionamento del sistema capitalistico; si dedica severamente alla scomposizione dei meccanismi linguistici con cui una teoria (quella neoclassica) parla o dice di parlare del mondo. Quella di Sraffa è un'operazione di accertamento della coerenza di linguaggi della teoria economica. La terapia riguarda un paziente che non è, come nel caso di Keynes, il sistema capitalistico, ma alcune procedure cruciali che fanno capo al paradigma neoclassico. L'esito è negativo per il paziente: Sraffa prova i trucchi linguistici di un paradigma, ne mette definitivamente in luce l'inconsistenza.

Tralasciando di esaminare qui da un lato gli usi che di Sraffa sono stati fatti, e dall'altro le incredibili risorse di recupero e di contropiede della teoria neoclassica (anche se da battere, comunque da non sottovalutare), resta decisivo il fatto che lo spazio della critica delle condizioni di possibilità della teoria economica operata da Sraffa sia quello pertinente su cui acquisire il suo contributo innovativo. Ex negativo ciò implica che non si possa chiedere legittimamente di più a Sraffa. Difficile, cioè, trovarvi risposte a domande rilevanti intorno al funzionamento del modo di produzione capitalistico. Necessario, invece, acquisire il suo contributo che segna i limiti logici irreversibili posti alla teoria economica: un'operazione in sostanza fondamentale di allentamento dei vincoli del paradigma neoclassico.


1.6 Possiamo concludere che con Marx abbiamo a che fare con una teoria del capitalismo che vuole fornire una spiegazione del suo funzionamento, della sua dinamica nella direzione della sua trasformazione (in questo senso, critica dell'economia politica). Quello di Keynes ci si presenta come un corpus teorico finalizzato alla comprensione dei meccanismi di funzionamento del capitalismo, tendente alla sua riproduzione (in questo senso, un'economia politica con critica della teoria economica incorporata). Sraffa, infine, esibisce, per così dire allo stato puro, il progetto di una critica della teoria economica.

Queste differenze — che certo dipendono dall'individuazione delle sole domande principali e non tengono appositamente conto della costellazione di domande secondarie — sono utili per evitare usi illegittimi dei diversi contributi nel progetto della nuova critica dell'economia politica, dovuti a sostanziali trasgressioni delle regole di significato.

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