|
|
| << | < | > | >> |IndiceVII Prefazione di Sergio Moravia XV Nota storica di Riccardo Fubini 3 I Breve storia della morte di Giovanni Calas 11 II Conseguenze del supplizio di Giovanni Calas 13 III Idea della Riforma del secolo sedicesimo 17 IV Se la tolleranza è pericolosa e presso quali popoli è permessa 23 V Come può essere ammessa la tolleranza 27 VI L'intolleranza è un diritto naturale o un diritto umano? 29 VII Se l'intolleranza fu conosciuta dai Greci 31 VIII Se i Romani sono stati tolleranti 37 IX Dei martiri 47 X Del pericolo delle false leggende e della persecuzione 53 XI Abuso dell'intolleranza 59 XII Se l'intolleranza fu di diritto divino nel giudaismo e se fu sempre praticata 73 XIII Estrema tolleranza degli ebrei 81 XIV Se l'intolleranza è stata insegnata da Gesù Cristo 87 XV Testimonianze contro l'intolleranza 91 XVI Dialogo tra un morente ed un uomo che sta bene 93 XVII Lettera scritta al gesuita Le Tillier da un beneficiato, il 6 maggio 1974 97 XVIII Gli unici casi in cui l'intolleranza è un diritto umano 99 XIX Relazione di una disputa teologica in Cina 101 XX Se è utile mantenere il popolo nella superstizione 105 XXI La virtù è più importante della scienza 107 XXII Della tolleranza universale 111 XXIII Preghiera a Dio 113 XXIV Poscritto 117 XXV Seguito e conclusione 121 XXVI Articolo aggiunto recentemente in cui si rende conto dell'ultima sentenza pronunciata a favore della famiglia Calas |
| << | < | > | >> |Pagina VIIQualche tempo fa si è svolta in Italia un'interessante discussione sull'essere e il «che fare» della filosofia oggi. Una voce autorevole ha perorato con particolare vigore la causa dello specialismo e dell'autoreferenzialità. Nell'era del sapere tecnologico successful – e successful in quanto concentrato su questioni strettamente delimitate e trattate con metodo scientifico –, anche il filosofare deve far propria la stessa scelta di una determinazione/elaborazione precisa e rigorosa dei propri temi. Senza, soprattutto, cedere agli appelli e lusinghe provenienti dalla società, che vorrebbe coinvolgere i filosofi nei propri problemi – tanto complessi quanto, assai spesso, indeterminati e «impuri». Problemi che è meglio lasciare a giornalisti e divulgatori, la «vera» filosofia avendo ben altro di cui occuparsi. Ovviamente non è qui il caso di partecipare, neppure limitatamente, a tale dibattito. Confesso solo che, rileggendo il magistrale saggio di Voltaire riproposto in questa collana, mi sono trovato quasi costretto a ripensare ad esso. Fu Voltaire vero filosofo? Probabilmente, per certuni, non lo fu. Troppo poco attento e profondo relativamente ai temi canonici della speculazione. Troppo impegnato, invece, nelle questioni, le esigenze, i drammi ideali e reali del suo tempo. E poi quel suo stile espositivo... Così poco sensibile all'esattezza dei termini e dei concetti. Così proclive a intrecciare il fuoco del pathos civile alle geometrie del logos teoretico. Per non dire infine (ma è l'addebito più severo) della sua irresistibile vocazione ad occuparsi di fatti, di eventi, finanche di scandali situati in un territorio così lontano da quello della Filosofia tradizionale (accademicamente) considerata come tale. Non dirò, a questo punto, che tutti gli studiosi dell'illuminismo (quorum ego) potrebbero senza difficoltà menzionare centinaia di pagine in cui Voltaire affronta proprio quei Massimi Problemi che per certuni costituirebbero il Canone della Filosofia. Non menzionerò tali pagine anche perché non credo che il filosofo, per meritarsi questa definizione, debba occuparsi (solo) di quei Problemi. E poi perché, lo confesso, mi piace moltissimo l'idea di un Voltaire saggista (o addirittura journaliste, il neologismo risale proprio all'età dei Lumi) engagé nelle questioni anche pratiche del suo mondo. Mi piace anzitutto in quanto, dal punto di vista dell' essere umano (non del Vero), la distinzione tra questioni esclusivamente pratiche e questioni esclusivamente teoretiche risulta, almento talvolta, un po' artificiosa, se non secondaria. E poi perché, se ci si pensa bene, ciò che i lettori di un testo si aspettano non è tanto l'astratta Verità quanto la concreta Rilevanza. Di che cosa parla il Trattato sulla tolleranza e quanto, di esso, ci interessa? Quali tesi particolari e generali sostiene, e quanto ci coinvolgono? In qual misura tali tesi hanno concorso a trasformare nel tempo un certo modo d'essere dell'uomo? Queste (senza escludere ovviamente altre, magari più speculative) sono le domande che chi si accosta al saggio voltairiano a buon diritto solleva. E se le relative risposte avranno un concetto positivo, allora non sarà a mio avviso illegittimo affermare che il Trattato è «filosofico». A ben guardare esso offre anzi una filosofia — dell'uomo e dell'umana fratellanza, della pluralità delle sue credenze e delle sue pratiche, dei valori della comprensione e della tolleranza.— che per molti (di nuovo, me compreso) è di buona, di buonissima lega. Una filosofia meditata la quale avvertiamo in noi il profilarsi di un nuovo sentire teorico intorno a questioni di capitale importanza. Non è questo un riconoscimento assai alto per il testo di uno scrittore reputato un «non specialista» di questioni filosofiche? Vediamo ora insieme, in modo necessariamente assai sintetico, gli aspetti e i contenuti centrali del saggio voltairiano. Sotto un primo profilo esso è, non sorprendetevi, un giallo — o più esattamente il frutto (geniale) di un'inchiesta giudiziaria. Il 9 marzo 1762 Marc-Antoine Calas, figlio di un negoziante ugonotto di Tolosa, viene trovato impiccato nella casa di famiglia. Era notoriamente un giovane istruito ma un po' «disturbato» – «un tipo inquieto, cupo e violento». Non era mai riuscito a trovare un'occupazione – anche perché, pur volendo dedicarsi all'avvocatura, vi aveva dovuto rinunciare in quanto, nella «libera» Francia, «occorrevano all'uopo certificati di cattolicità» evidentemente preclusi a un ugonotto. Di qui forti crisi, forse qualche cattiva frequentazione, certo il vizio del gioco. Poco tempo prima dell'insano gesto aveva anzi perso una considerevole somma di denaro. E giusto allora, del proprio disegno di porre fine ai suoi giorni si era confidato con un amico. Dopo la tragedia i familiari — la madre, il padre Jean, i fratelli (uno dei quali convertito senza problemi al cattolicesimo: i Calas non erano certo dei protestanti bigotti) — probabilmente chiesero solo di esser lasciati soli col loro dolore. Ma così non fu. Nell'atmosfera sovreccitata del drammatico evento animi prevenuti avanzarono ipotesi terribili, presto trasformate in condizioni assolutamente infondate. Molti cominciarono a parlare apertamente di delitto — anzi di uno dei più atroci tra i delitti, giacché il primo colpevole fu indicato (senza la minima prova) nel papà Jean — col concorso, da determinare, della madre, del fratello Pierre e di un amico che quella sera era a cena in casa Calas. Ma le cause, i moventi? Niente di preciso, naturalmente. Però... Intorno a questi «però» i prevenuti di cui sopra tirarono fuori tutti i loro pregiudizi religiosi. Ah, questi maledetti ugonotti. Minoranza, sì, ma di eretici perversi. Solitamente, è vero, mansueti e tranquilli. Ma come dimenticare il fanatismo e la crudeltà di cui, un tempo, avevano dato prova? E il fanatismo e la crudeltà, si sa, sono duri a morire. Eccoli riapparire — almeno la crudeltà — in questo orribile fatto di sangue. Pochi finora, certo, i riscontri fattuali a carico di Jean Calas — ma domani chissà. E poi, degli ugonotti – degli eretici, dei diversi – bisogna sempre dubitare. Potessimo liberarcene... Sembra incredibile (anzi no, per nulla). Ma il fatto è che, ispirati dall' animus di cui s'è detto, varie persone fabbricarono un meccanismo di prove contro la madre, il figlio e soprattutto il padre dell'impiccato tanto gratificante (per gli anti-ugonotti) quanto traballante per il diritto. E i giudici? I giudici – succedeva anche questo, allora (e ora?), – si fecero prendere la mano dalla pressione dei tanti colpevolisti. Fino al punto di trasformare un suicidio in un omicidio, più esattamente in un omicidio premeditato, compiuto (aggravante orrenda) dagli stessi familiari. La sentenza fu, secondo i più, esemplare: condanna (eseguita) al supplizio mortale della ruota per Jean Calas. Ed eccoci a Voltaire – il Philosophe per il quale la filosofia, oltre che occuparsi di questioni teoretico-metafisiche, deve anche intervenire, con la luce della ragione e le armi della critica, nelle vicende terrene degli umani. Voltaire riflette sull' affaire Calas e perviene a due conclusioni: (1) che il caso particolare della condanna è stato così iniquo da reclamare un nuovo processo, naturalmente non a Tolosa ma possibilmente a Parigi; (2) che la questione particolare si inseriva in un caso più generale che investiva il problema della tolleranza (religiosa, ma anche intellettuale e civile). Come era logico, il Trattato è diventato una delle opere più caratteristiche di Voltaire, e dell'illuminismo in genere, soprattutto per la seconda conclusione. È dunque a qualche considerazione sul principio voltairiano della tolleranza che questo «Invito alla lettura» è dedicato. La prima avvertenza da trasmettere al lettore è che la tolleranza selon Voltaire è qualcosa di considerevolmente diverso da quella di cui perlopiù si discute oggi. Oggi il principio in questione viene sostenuto e approfondito soprattutto in ambito epistemologico ed etico-comunicativo. La tolleranza appare connessa con una ben precisa concezione della conoscenza e della relazione comunicazionale coll'altro. Se il sapere è un'impresa costitutivamente limitata e fallibile, elementi di tolleranza procedurale devono essere accettati per il progresso stesso delle conoscenze. Se (in secondo luogo) Ego è costitutivamente diverso da Alter, la tolleranza appare una precondizione necessaria per accettare, nel segno di un mutuo rispetto morale, componenti di incomprensione che occorre, appunto, tollerare e non già vivere in modo antagonistico-conflittuale. Non basta. Oggi è assai diffusa anche una vera e propria critica della tolleranza. Non solo perché il concetto risulta difficilmente impiegabile dinanzi a certe pratiche umane (tollerare l'infibulazione?) e a certe politiche imperialistico-fondamentalistiche (tollerare lo sfruttamento, la violenza, gli stermini di massa?). Non solo per questo, dunque, ma anche per una ragione più «filosofica» che è la seguente. Si costruisca la più modesta frase molecolare col verbo «tollerare»: quella, ad esempio, del tipo «io ti tollero» – o noi tolleriamo che voi... Non è chi non veda il forte monocentrismo, aggravato da un altrettanto forte autoritarismo, insito in tali enunciati. Il verbo in discussione appare compromesso ab imis fundamentis da una sorta di cripto-dogmatismo di fondo. Riconosciamolo: a nessuno di noi piacerebbe essere semplicemente tollerato dagli «altri». Tutto giusto, tutto vero. È avvenuto però che qualche critico contemporaneo della tolleranza si sia un po' dimenticato della storia che ci sta alle spalle. In particolare proprio di quella storia che, sotto vari profili, consente a lui oggi di esprimere liberamente rilievi anche assai severi sul concetto in questione. Cosa vuole quel critico? Dimenticare, svalutare le drammatiche e insieme meravigliose vicende attraverso le quali il pensiero tra i secoli XVI e XVIII ha faticosamente elaborato e diffuso il grande principio della tolleranza? Sarebbe un'iniquità prima ancora che un errore. Bisognerà invece ricordare al lettore che, senza risalire (come pur si dovrebbe) a certi movimenti evangelico-riformati del Cinquecento, l'idea moderna di tolleranza nasce col complesso movimento deista, raggiunge il primo traguardo di sicuro rilievo con la celebre Epistola sulla tolleranza (1689) e con La ragionevolezza del cristianesimo (1695) di John Locke, per poi trovare la propria brillante e fortunata conferma (in termini di eco e di diffusione europea) proprio col Trattato sulla tolleranza di Jean-Marie Arouet, più noto sotto il nome di Voltaire. | << | < | > | >> |Pagina 3L'assassinio di Calas, compiuto a Tolosa con la spada della giustizia, il 9 marzo 1762, è uno dei più singolari avvenimenti che meritano l'attenzione del nostro tempo e dei posteri. Si dimentica presto la moltitudine infinita dei morti che è caduta in battaglia, non soltanto perché è una fatalità inevitabile della guerra, ma perché coloro che muoiono colpiti dalle armi potevano anche uccidere i loro nemici, e non sono morti senza la possibilità di difendersi. Cessa lo sbigottimento là dove il pericolo e il vantaggio sono uguali, e la stessa pietà si affievolisce; ma se un padre di famiglia innocente è caduto nelle mani dell'errore o della passione o del fanatismo; se l'accusato non ha altra difesa che la sua virtù; se gli àrbitri della sua vita, facendolo sgozzare, non corrono altro rischio che quello di ingannarsi; se possono impunemente uccidere con una sentenza, allora la protesta popolare si leva; ognuno teme per sé stesso; si vede che nessuno è sicuro della propria vita davanti a un tribunale istituito per vegliare sulla vita dei cittadini, e tutte le voci si uniscono per chiedere vendetta. In questo strano affare si trattava di religione, di suicidio, di parricidio; si trattava di sapere se un padre e una madre avevano strangolato il loro figlio per piacere a Dio, se un fratello aveva strangolato il fratello, se un amico aveva strangolato il suo amico, e se i giudici dovevano rimproverarsi di aver fatto morire con il supplizio della ruota un padre innocente, o di aver risparmiato una madre, un fratello, un amico colpevoli. Giovanni Calas, di sessantotto anni, esercitava la professione del commerciante a Tolosa da più di quarant'anni ed era considerato un buon padre di famiglia da tutti quelli che lo avevano conosciuto. Era protestante come sua moglie e i suoi figli, eccettuato uno che aveva abiurato l'eresia e al quale il padre corrispondeva una piccola pensione. Era così lontano da quell'assurdo fanatismo che spezza tutti i vincoli dell'umano consorzio, che aveva approvato la conversione del figlio Luigi Calas, e da trent'anni teneva in casa una domestica fervente cattolica, che aveva allevato tutti i suoi figli. Marc'Antonio, uno dei figli di Giovanni Calas, era un letterato: passava per uno spirito inquieto, cupo e violento. Questo giovane, non potendo riuscire né a introdursi nel commercio, per il quale non si sentiva adatto, né a essere nominato avvocato, perché gli mancavano quei certificati di cattolicità che non era riuscito a ottenere, si decise a mettere fine ai suoi giorni, e fece presentire a uno dei suoi amici questo suo proposito; fu convinto a questa risoluzione dalla lettura di tutto ciò che era mai stato scritto sul suicidio. Infine, avendo un giorno perduto al giuoco il suo denaro, scelse quel giorno per mettere in atto il suo proposito. Un amico suo e della famiglia, chiamato Lavaisse, un giovane di diciannove anni, noto per il candore e la dolcezza del carattere, figlio di un celebre avvocato di Tolosa, era arrivato da Bordeaux la vigilia e andò per caso a cena dai Calas. Il padre, la madre, il figlio maggiore Marc'Antonio e il secondogenito Pietro mangiarono insieme. Dopo cena si ritirarono in un salottino. Marc'Antonio sparì e quando infine il giovane Lavaisse volle andar via, egli e Pietro Calas, scesi a pianterreno, trovarono laggiù, vicino al magazzino, Marc'Antonio in camicia, che pendeva impiccato a una porta, e il suo vestito piegato sopra il banco. La camicia non aveva neppure una piega, i capelli erano ben pettinati; sul suo corpo non c'era né una ferita né un livido. Sorvoliamo sui particolari che hanno riferito gli avvocati; non possiamo descrivere il dolore e la disperazione del padre e della madre: le loro grida furono udite dai vicini. Lavaisse e Pietro Calas, fuori di sé, corsero a cercare un medico e un rappresentante della giustizia. Mentre i due giovani assolvevano questo dovere, mentre il padre e la madre piangevano e singhiozzavano, la popolazione di Tolosa si affolla intorno alla casa. È un popolo superstizioso e violento; guarda come mostri i suoi fratelli che non sono della stessa religione. Proprio a Tolosa si ringraziò solennemente Dio per la morte di Enrico III, e si giurò di trucidare il primo che dicesse di riconoscere il grande e buono Enrico IV. Questa città solennizza ancora tutti gli anni con una processione e con fuochi di artificio, il giorno in cui massacrò quattromila cittadini eretici, due secoli fai. Invano sei decreti del consiglio hanno proibito questa festa odiosa: gli abitanti di Tolosa hanno continuato a celebrarla come se si trattasse dei Giuochi Floreali. Qualche fanatico in mezzo alla folla si mise a gridare che Giovanni Calas aveva impiccato suo figlio Marc'Antonio. Quel grido ripetuto divenne unanime in un momento; altri aggiunsero che il morto avrebbe dovuto abiurare il giorno dopo e che i suoi e il giovane Lavaisse lo aveva strangolato in odio alla religione cattolica. Un momento dopo non vi fu alcun dubbio: tutta la città era convinta che per i protestanti sia un articolo di fede che un padre e una madre debbano assassinare i figli che vogliono convertirsi. Gli animi, una volta eccitati, non si calmano più. Si immaginò che i protestanti della Linguadoca si fossero riuniti la vigilia; che avessero scelto, a maggioranza, uno della setta come carnefice e che la scelta fosse caduta sul giovane Lavaisse; che questo giovane in ventiquattr'ore avesse ricevuto la notizia della sua elezione e fosse arrivato da Bordeaux per aiutare Giovanni Calas, la moglie, il figlio Pietro a strangolare un amico, un figlio, un fratello. Il signor David, capitoul di Tolosa, eccitato da queste voci e volendo farsi notare con una pronta esecuzione, fece una procedura contro tutte le regole e le ordinanze. La famiglia Calas, la domestica cattolica, Lavaisse furono messi ai ferri. Si pubblicò un monitorio non meno vizioso della procedura. Si andò ancora più lontano. Marc'Antonio Calas era morto calvinista e, se aveva attentato alla sua vita, il suo corpo doveva essere trascinato sul graticcio: invece fu inumato con la più gran pompa nella chiesa di santo Stefano, nonostante le proteste del parroco per una tale profanazione. | << | < | > | >> |Pagina 20Usciamo dalla nostra piccola sfera ed esaminiamo il resto del nostro mondo. Il Gran Sultano governa in pace venti popoli di diverse religioni; duecentomila Greci vivono sicuri a Costantinopoli; il muftì stesso nomina e presenta all'imperatore il patriarca greco; vi è anche tollerato un patriarca latino. Il sultano nomina alcuni vescovi latini per alcune isole della Greciaa; ed ecco la formula di cui si serve: «Io gli ordino di andare a risiedere come vescovo nell'isola di Chio, secondo il loro antico costume e le loro vane cerimonie». Questo impero è pieno di giacobiti, di nestoriani, di monoteliti; vi sono copti, cristiani di San Giovanni, ebrei, ghebri, baniani. Gli annali turchi non ricordano nessuna rivolta suscitata da qualcuna di queste religioni.Andate in India, in Persia, in Tartaria: vi troverete la stessa tolleranza e la stessa tranquillità. Pietro il grande nel suo vasto impero ha protetto tutte le religioni: il commercio e l'agricoltura ci hanno guadagnato e il corpo politico non ne ha mai sofferto. Il governo della Cina non ha adottato, da quattromila anni, da quando lo si conosce, che il culto dei noachidi, e cioè l'adorazione di un solo Dio: tuttavia tollera le superstizioni di Fô e una moltitudine di bonzi, che sarebbero pericolosi se la saggezza dei tribunali non li avesse tenuti sempre a bada. È vero che il grande imperatore Jung Cing, forse il più saggio e il più magnanimo imperatore che la Cina abbia avuto, fece scacciare i gesuiti; ma non perché fosse intollerante, al contrario: perché lo erano i gesuiti. Essi stessi riferiscono, nelle loro Lettere curiose, le parole che disse loro quel buon principe: «So che la vostra religione è intollerante; so quello che avete fatto nelle Filippine e in Giappone; avete ingannato mio padre: non sperate di ingannare anche me». Si legga tutto il discorso che tenne loro, lo si giudicherà il più saggio e il più clemente degli uomini. Poteva egli, infatti, ospitare dei fisici europei che, sotto il pretesto di far vedere a corte termometri ed eolipili, avevano già fatto insorgere un principe del sangue? E che cosa avrebbe detto quell'imperatore se avesse letto le nostre storie e conosciuto i tempi della Lega e della congiura delle polveri? Era abbastanza per lui conoscere le indecenti controversie dei gesuiti, dei domenicani, dei cappuccini, dei preti secolari, mandati da un capo all'altro dei suoi Stati. Venivano a predicare la verità e si offendevano reciprocamente. L'Imperatore, quindi, non fece altro che mandar via dei perturbatori stranieri; ma con quale bontà li licenziò! Quali cure paterne non ebbe per il loro viaggio e per impedire che non fossero offesi per via! Il loro stesso bando fu un esempio di tolleranza e di umanità. I Giapponesi erano gli uomini più tolleranti del mondo: dodici religioni pacifiche erano praticate nel loro impero; i gesuiti vennero a fondare la tredicesima, ma presto non volendo tollerarne un'altra, accadde ciò che si sa; una guerra civile, non meno atroce di quella della Lega, devastò il paese. La religione cristiana fu alla fine annegata in un mare di sangue; i Giapponesi chiusero il loro impero al resto del mondo, e ci considerarono come bestie feroci, simili a quelle da cui gli Inglesi hanno liberato la loro isola. Invano il ministro Colbert, rendendosi conto del bisogno che avevamo dei Giapponesi, che al contrario non hanno bisogno di noi, tentò di stabilire un commercio con il loro impero: li trovò inflessibili. Così dunque tutto il nostro continente ci dimostra che non bisogna né predicare né esercitare l'intolleranza. Gettate uno sguardo sull'altro emisfero: vedete la Carolina, della quale fu legislatore il saggio Locke. Bastano sette padri di famiglia per costituire un culto pubblico approvato per legge: questa libertà non ha provocato alcun disordine. Dio ci liberi dal citare questo esempio per spingere la Francia a imitarlo! Lo si ricorda, soltanto per far vedere che l'eccesso più grande a cui possa arrivare la tolleranza non è stato seguito dal più piccolo dissenso; ma ciò che è utilissimo e ottimo in uno Stato nascente, non si addice a un vecchio regno. E che dire dei primitivi che furono chiamati quaccheri per derisione e che, forse con usanze un po' ridicole, sono stati così virtuosi e hanno invano insegnato la pace al resto degli uomini? In Pennsylvania sono centomila; la discordia, le controversie sono sconosciute nella patria felice che si son fatta; e il solo nome della loro città di Filadelfia, che ricorda loro in ogni momento che gli uomini sono fratelli, è un esempio e una vergogna per quei popoli che non conoscono ancora la tolleranza. Infine la tolleranza non ha mai suscitato una guerra civile; l'intolleranza ha coperto la terra di massacri. Si giudichi ora fra queste due rivali: fra la madre che vuole che si sgozzi il figlio e la madre che lo cede perché esso viva. | << | < | > | >> |Pagina 24Vi fu un tempo in cui ci si credette obbligati di emanare decreti contro coloro che insegnavano una dottrina contraria alle categorie di Aristotele, all'orrore del vuoto, alle quiddità, all'universale in rapporto alla cosa. In Europa abbiamo più di cento volumi di giurisprudenza sulla stregoneria e sul modo di distinguere gli stregoni falsi da quelli veri. Gli esorcismi contro le cavallette e gli altri insetti nocivi alle messi sono stati molto in uso, ed esistono tuttora in molti rituali; l'usanza è passata, si lasciano in pace Aristotele, gli stregoni e le stregonerie. Gli esempi di queste gravi demenze, una volta così importanti, sono innumerevoli: e di quando in quando ne affiorano altre; ma quando hanno fatto il loro ciclo, quando se ne è stanchi, si distruggono da sé. Se qualcuno, oggi, decidesse di essere carpocratiano o euticheo, monotelita, monofisita, nestoriano, manicheo ecc. che cosa succederebbe? Se ne riderebbe come di un uomo vestito all'antica con il collaretto e il giustacuore.La nazione cominciava ad aprire gli occhi, quando i gesuiti Le Tellier e Doucin fabbricarono e mandarono a Roma la bolla Unigenitus.
Credettero di essere ancora in quei tempi di ignoranza, in cui i popoli
accettavano, senza esame, le asserzioni più assurde. Osarono mettere al
bando la proposizione seguente, che è d'una verità universale, in tutti i
casi e in tutti i tempi: «Il timore di un'ingiusta scomunica non deve impedire
di fare il proprio dovere». Voleva dire mettere al bando la ragione, le libertà
della chiesa gallicana, e il fondamento della morale; era come dire agli uomini:
«Dio vi ordina di non far mai il vostro dovere, finché avrete timore
dell'ingiustizia». Mai si era combattuto contro il buon senso con maggiore
sfrontatezza. I consultori di Roma non ci fecero caso. La corte di Roma fu
persuasa che quella bolla era necessaria e che la
nazione la desiderava; fu scritta, sigillata e spedita. Se ne conoscono le
conseguenze. Certamente se si fossero previste, si sarebbe mitigata la
bolla. Le dispute sono state vivaci; il buon senso e la bontà del re le hanno
infine calmate.
|