Autore H. G. Wells
Titolo La guerra dei mondi
EdizioneMursia, Milano, 1986 [1966], LEM 1 , pag. 190, cop.fle., dim. 10,7x17,7x1,5 cm
OriginaleThe War of the Worlds [1898]
TraduttoreAdriana Motti
Classe fantascienza









 

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Indice


        LIBRO PRIMO: L'ARRIVO DEI MARZIANI

    I - La vigilia della guerra                       5
   II - La stella cadente                            12
  III - Nella landa di Horsell                       16
   IV - Il cilindro si svita                         19
    V - Il raggio ardente                            22
   VI - Il raggio ardente sulla strada di Chobham    27
  VII - Come raggiunsi casa mia                      29
 VIII - Venerdì sera                                 33
   IX - La battaglia ha inizio                       36
    X - Nella bufera                                 42
   XI - Alla finestra                                49
  XII - Ciò che vidi nella distruzione di Weybridge
        e Shepperton                                 55
 XIII - Come m'imbattei nel curato                   67
  XIV - A Londra                                     72
   XV - Ciò che era accaduto nel Suney               84
  XVI - L'esodo da Londra                            92
 XVII - La Thunder Child                            105

        LIBRO SECONDO: LA TERRA SOTTO I MARZIANI

    I - Sotto il loro tallone                       117
   II - Ciò che vedemmo dalla casa in rovina        124
  III - I giorni della prigionia                    134
   IV - La morte del curato                         140
    V - Il silenzio                                 144
   VI - Il lavoro di quindici giorni                147
  VII - L'uomo di Putney Hill                       151
 VIII - Londra morta                                167
   IX - I relitti                                   176

        Epilogo                                     181


 

 

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Pagina 5

LIBRO PRIMO
L'ARRIVO DEI MARZIANI





I
La vigilia della guerra



Alla fine del XIX secolo nessuno avrebbe creduto che le cose della terra fossero acutamente e attentamente osservate da intelligenze superiori a quelle degli uomini e tuttavia, come queste, mortali; che l'umanità intenta alle proprie faccende venisse scrutata e studiata, quasi forse con la stessa minuzia con cui un uomo potrebbe scrutare al microscopio le creature effimere che brulicano e si moltiplicano in una goccia d'acqua. Gli uomini, infinitamente soddisfatti di se stessi, percorrevano il globo in lungo e in largo dietro alle loro piccole faccende, tranquilli nella loro sicurezza d'esser padroni della materia. Non è escluso che i microbi sotto il microscopio facciano lo stesso. Nessuno pensava minimamente che i piú antichi mondi dello spazio potessero rappresentare un pericolo per gli uomini, o pensava ad essi soltanto per escludere la possibilità o anche solo la probabilità che esistesse sulla loro superficie una qualunque forma di vita. È curioso ricordare alcune idee di quei giorni lontani. Gli abitanti del nostro pianeta si figuravano al massimo che su Marte potessero esserci altri uomini, forse inferiori a loro e pronti ad accogliere a braccia aperte una missione di civilizzazione. Tuttavia, di là dagli abissi dello spazio, menti che stanno alle nostre come le nostre stanno a quelle degli animali bruti, intelletti vasti, freddi e spietati guardavano la terra con invidia e preparavano, lentamente ma con fermezza, i loro piani contro di noi. E agli inizi del XX secolo si ebbe il grande disinganno.

Il pianeta Marte — è appena necessario ricordarlo al lettore — gira intorno al sole a una distanza media di duecentoventicinque milioni di chilometri, e riceve dal sole esattamente la metà della luce e del calore che riceve il nostro mondo. Quel pianeta deve essere, se l'ipotesi delle nebulose è esatta, piú vecchio del nostro, e il corso della vita deve essere cominciato sulla sua superficie molto prima che la terra avesse finito di solidificarsi. Il fatto che il suo volume sia appena un settimo di quello della terra deve avere accelerato il suo raffreddamento fino alla temperatura in cui la vita può avere inizio. Esso è provvisto di aria e di acqua, e di tutto ciò che è necessario al mantenimento dell'esistenza animale.

Ma l'uomo è cosí vano e cosí accecato dalla propria vanità, che nessuno scrittore, sino alla fine del XIX secolo, espresse mai l'idea che lassú la vita intelligente si fosse potuta sviluppare molto di là dal livello umano. Pochi, infatti, capivano che, poiché Marte è piú vecchio della terra, misura appena un quarto della sua superficie, ed è piú lontano dal sole, ne segue che, non soltanto è piú lontano dall'origine della vita, ma è anche piú vicino al suo termine.

Il raffreddamento secolare che colpirà un giorno o l'altro il nostro pianeta è già molto avanzato nel nostro vicino. Le sue condizioni fisiche sono ancora quasi totalmente un mistero, ma sappiamo che anche nella sua regione equatoriale la temperatura meridiana raggiunge appena quella dei nostri inverni piú freddi. La sua atmosfera è piú rarefatta della nostra, i mari si sono ritirati sino a coprire solo un terzo della sua superficie, e seguendo il corso lento delle sue stagioni, grandi cappucci di neve si accumulano e si sciolgono intorno ai due poli inondando periodicamente le sue zone temperate. Quest'ultimo stato di esaurimento, che per noi è ancora incredibilmente lontano, è diventato un problema immediato per gli abitanti di Marte. L'urgenza della necessità ha stimolato i loro intelletti, aguzzato le loro facoltà, e indurito i loro cuori. Guardando attraverso lo spazio, con strumenti e intelligenze che noi non immaginiamo neppure, essi vedono, piú vicino di tutti gli altri, a cinquantacinque milioni di chilometri, simile a una stella mattutina della speranza, il nostro pianeta, piú caldo, con la vegetazione verde e le acque grigie, con un'atmosfera nuvolosa — chiaro indice di fertilità — con larghe estensioni di popolosi paesi e mari stretti solcati da bastimenti che di tanto in tanto s'intravedono tra le ondulanti masse di vapori.

E noi uomini, le creature che abitano questa terra, dobbiamo essere per loro tanto estranei ed infimi quanto per noi lo sono le scimmie e i lemuri. Intellettualmente, l'uomo già ammette che la vita è una lotta incessante per l'esistenza, e si direbbe che identica sia l'opinione delle intelligenze su Marte. Il loro mondo è molto avanti nel suo corso di raffreddamento, e il nostro mondo è ancora pieno di vita, ma soltanto della vita di coloro che essi considerano come animali inferiori. Portare guerra a chi sta piú vicino al sole è in realtà il loro unico scampo dalla distruzione che, decennio dopo decennio, li sta stringendo in una morsa.

Prima di giudicarli troppo severamente, dobbiamo ricordare quale spietata e completa distruzione la nostra specie ha compiuto, non solamente di animali, come lo scomparso bisonte e il dodo, ma delle stesse razze umane inferiori. I tasmaniani, nonostante le loro sembianze umane, furono completamente annientati in una guerra di sterminio sostenuta dagli immigrati europei per ben cinquant'anni. Siamo dunque apostoli di misericordia tali da lamentarci se i marziani combatterono con lo stesso spirito?

Si è portati a credere che i marziani abbiano calcolato la loro discesa con stupefacente minuziosità — la loro scienza matematica è evidentemente di gran lunga superiore alla nostra — e che abbiano effettuato i loro preparativi con un'unanimità quasi totale. Se i nostri strumenti lo avessero consentito, avremmo potuto scorgere la tragedia che ci si preparava assai prima della fine del XIX secolo. Uomini come Schiaparelli tenevano sotto osservazione il rosso pianeta — è curioso, fra parentesi, che per innumerevoli secoli Marte sia stato l'astro della guerra — ma non arrivarono a dare un significato all'aspetto mutevole dei diagrammi che pure sapevano tracciare cosí bene. Durante tutto quel tempo, i marziani devono essersi preparati.

Quando nel 1894 i due pianeti furono in opposizione, fu vista una gran luce sulla parte illuminata del disco, prima dall'Osservatorio di Lick, poi da Perrotin di Nizza, e da altri astronomi. Gli inglesi ne ebbero notizia dall'edizione di «Nature» del 2 agosto. Penso che quel fenomeno sia stato provocato dalla fusione dell'immenso cannone, vasto pozzo scavato nel loro pianeta, per mezzo del quale ci mandarono i loro proiettili. Durante le due opposizioni seguenti furono osservati, nelle vicinanze del luogo dove era avvenuta l'esplosione, dei fenomeni caratteristici, che tuttavia nessuno seppe spiegare.

Il cataclisma si abbatté su di noi sei anni or sono. Mentre Marte si avvicinava all'opposizione, Lavelle di Giava fece fremere i fili trasmittenti delle comunicazioni astronomiche con la straordinaria notizia di un'immensa esplosione di gas incandescenti sul pianeta. Il fenomeno si era verificato verso la mezzanotte del 12, e lo spettroscopio, al quale egli era ricorso immediatamente, aveva indicato una massa di gas infiammati, in massima parte idrogeno, che si dirigeva a velocità impressionante verso la terra. Quel getto di fuoco era scomparso alla vista circa a mezzanotte e un quarto. Egli lo paragonò a una colossale vampata sprigionatasi, improvvisamente e violentemente dal pianeta, «come il gas infuocato che scaturisce da un cannone».

La frase si dimostrò singolarmente appropriata. Tuttavia, il giorno seguente, sui giornali non se ne parlò affatto, se si eccettua una breve notizia sul «Daily Telegraph», e il mondo ignorò uno dei piú gravi pericoli che abbiano mai minacciato la specie umana. Io stesso avrei potuto non sapere nulla dell'eruzione, se non avessi incontrato a Ottershaw il notissimo astronomo Ogilvy. Era profondamente eccitato dalla notizia, e, ancora agitato, mi invitò per quella sera a fare un turno di osservazione con lui per guardare il rosso pianeta.

Nonostante tutto ciò che è successo da allora, ricordo perfettamente quella veglia: l'Osservatorio oscuro e silenzioso, la lanterna schermata, nell'angolo, che gettava un debole riflesso sul pavimento, lo scatto regolare del meccanismo a orologeria del telescopio, la piccola fessura sulla cupola, una profondità oblunga striata dal pulviscolo delle stelle. Ogilvy si aggirava lí intorno. Non lo vedevo, ma sentivo la sua presenza. Guardando attraverso il telescopio, si scorgeva un cerchio di turchino intenso, e il piccolo pianeta rotondo che navigava nel campo visuale. Sembrava tanto piccolo, splendente e tranquillo, appena segnato da strisce trasversali, e leggermente appiattito ai poli. Era cosí piccolo e di un argento cosí brillante, da assomigliare a una luminosa capocchia di spillo. Pareva che tremasse un poco, ma in realtà vibrava il telescopio per il movimento del meccanismo che seguitava a puntarlo sul pianeta.

Mentre stavo lí a guardare, sembrava che la piccola stella diventasse ora piú grande, ora piú piccola, che si avvicinasse e si allontanasse, ma era soltanto un'impressione dovuta alla stanchezza dei miei occhi. Sessanta milioni di chilometri ci separavano, piú di sessanta milioni di chilometri di vuoto. Pochi valutano l'immensità dell'abisso nel quale naviga la polvere dell'universo materiale.

Ricordo che accanto ad esso, nel campo visuale, si scorgevano tre puntini luminosi, tre piccole stelle infinitamente lontane, e tutt'intorno c'erano le tenebre impenetrabili dello spazio. Conoscete bene l'oscurità delle gelide notti stellate. Attraverso un telescopio appare ancor piú profonda. Invisibile ai miei occhi, perché era cosí lontana e piccola, volava in modo rapido e regolare verso di me attraverso quell'inconcepibile distanza, divorando a ogni minuto molte migliaia di chilometri, la cosa che essi ci mandavano, la cosa che doveva portare sulla terra tante lotte, calamità e morti. Non me lo sognavo nemmeno, mentre osservavo il pianeta; nessuno al mondo aveva la piú pallida idea di quel proiettile infallibile.

Anche quella notte si verificò un'eruzione di gas sul lontano pianeta. Io la vidi: una fiammata rossa agli orli, il disegno appena accennato dei contorni, proprio quando il cronometro segnava la mezzanotte. Avvertii subito Ogilvy, che prese il mio posto. La notte era caldissima e avevo sete; avanzai a tentoni, muovendomi goffamente nel buio, verso il tavolino dove c'era un sifone, mentre Ogilvy si abbandonava a esclamazioni di stupore osservando la scia di gas che avanzava verso di noi.

Quella notte un altro proiettile invisibile lanciato da Marte iniziava il suo viaggio verso di noi, a circa ventiquattr'ore di distanza dal primo. Ricordo d'essermi seduto sul tavolo, lí nell'ombra, mentre mi vedevo oscillare davanti agli occhi delle macchie verdi e rosse. Avrei voluto che ci fosse un fuoco per mettermi a fumare vicino ad esso, poco immaginando il significato del piccolo bagliore che avevo visto, e tutto quello che di lí a poco mi avrebbe portato. Ogilvy restò al telescopio fino all'una; a quell'ora smise, accendemmo la lanterna e ci dirigemmo verso la sua casa. Sotto di noi, nell'ombra, c'erano Ottershaw e Chertsey, e le loro centinaia di abitanti che dormivano in pace.

Ogilvy, quella notte, aveva la mente piena di teorie sulle condizioni di Marte, e rideva dell'idea diffusa secondo la quale lassú ci sarebbero stati degli abitanti che ci stavano facendo delle segnalazioni. Riteneva, invece, che sul pianeta si stesse scaricando una pioggia di meteoriti, o che fosse in atto un'enorme esplosione vulcanica. Mi spiegò quanto fosse inverosimile che l'evoluzione organica avesse preso la stessa direzione nei due pianeti adiacenti.

— Le probabilità contro l'esistenza di esseri simili agli uomini su Marte sono un milione contro una, — disse.

Centinaia di Osservatori videro la fiammata quella notte, poi la notte seguente, verso mezzanotte, e ancora la notte dopo, e cosí per dieci notti, una fiammata ogni notte. Perché quelle esplosioni cessarono dopo la decima, nessuno sulla terra ha saputo spiegarlo. Può darsi che i gas delle accensioni provocassero dei disturbi ai marziani. Dense nuvole di fumo o di polvere, visibili attraverso il telescopio piú potente come masse grigie, fluttuanti, si allargarono attraverso la limpidezza dell'atmosfera planetaria e oscurarono i suoi tratti piú noti.

Finalmente anche i quotidiani si occuparono di quei fenomeni, e ovunque apparvero cronache divulgative sui vulcani di Marte. Il settimanale semiumoristico «Punch», ricordo, se ne servi felicemente nella vignetta politica. Senza che nessuno ne avesse il minimo sentore, quei proiettili che i marziani avevano lanciato contro di noi venivano verso la terra, volando alla velocità di molti chilometri al secondo attraverso l'abisso dello spazio, ora dopo ora e giorno dopo giorno, sempre piú vicini. Ora mi sembra stupefacente, quasi incredibile, che, con quel fato sospeso sul nostro capo, gli uomini potessero seguitare a occuparsi delle loro meschine faccende. Ricordo com'era giubilante Markham quando riuscí a ottenere una nuova fotografia del pianeta per il giornale illustrato che dirigeva a quell'epoca. Quanto a me, ero molto occupato a imparare ad andare in bicicletta, e assorbito dagli articoli che scrivevo per tutta una serie di giornali che discutevano i probabili sviluppi delle idee corali a mano a mano che la civiltà progrediva.

Una sera (il primo proiettile poteva trovarsi allora appena a quindici milioni di chilometri) uscii con mia moglie per fare una passeggiata. Il cielo era stellato, e io le spiegai i segni dello Zodiaco, le indicai Marte, brillante punto luminoso che scivolava verso lo zenit, sul quale erano puntati tanti telescopi. Faceva caldo. Mentre tornavamo a casa, un gruppo di gitanti che venivano da Chertsey o da Isleworth ci passò accanto cantando e suonando. Le finestre dei piani superiori delle case erano illuminate, mentre la gente andava a letto. Dalla lontana ferrovia, giungeva il rumore dei treni che manovravano gli scambi, fischiavano e sferragliavano; attutito dalla distanza, pareva quasi una melodia. Mia moglie m'indicò lo splendore delle luci segnaletiche rosse, verdi e gialle, sospese su un sostegno contro il cielo. Tutto sembrava cosí tranquillo e sicuro!

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