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| << | < | > | >> |Indice5 Ciao Vittorio, maestro del raccontare di Ezio Mauro 11 Anche le cose hanno un'anima 15 1. Lettera 22 27 2. La piada 39 3. La Bianchina 53 4. Betamosca 65 5. L'isola portatile 79 6. Phantom 91 7. Vox 107 8. Il wafer del deserto 119 9. La radio 133 10. La mostarda 147 11. La teiera di Hiroshima 161 12. La lunga strada bianca 177 13. Spillary 191 14. Piombo 205 15. La stanza 223 16. Libri |
| << | < | > | >> |Pagina 5Anche quella forza della natura giornalistica che era Vittorio si è fermata. La forza della scrittura, l'impeto del narrare, l'energia della raffigurazione, la potenza della costruzione. E insieme, la felicità ogni volta del capire e del raccontare, una sorta di abbandono responsabile e vigile al richiamo della storia, qualcosa di quasi fisico, materiale, dove la vicenda lo dominava possedendolo: finché il suo giornalismo soggiogava la realtà, la penetrava attraversandola, e intanto ricreava un mondo. Questa capacità di evocare ogni volta un quadro, un paesaggio, un ambiente in cui far muovere come in una pièce teatrale i personaggi con le corrette proporzioni della vita era la sua cifra, la qualità specifica del suo lavoro, che portava il giornalismo un po' più in là dei suoi confini normali. Viveva per raccontare. E attraverso il racconto, capiva e aiutava a capire, cioè muoveva il meccanismo dell'interpretazione e dell'analisi, che in lui sembrava nascere dai fatti, in un'informazione che era insieme grande cronaca, narrazione e commento. Viveva il giornalismo, non lo interpretava. | << | < | > | >> |Pagina 11Un giorno chiamo Carlo al telefono e gli dico: "Mi è tornata la voglia di scrivere un libro". Era ora, mi risponde lui. Su che cosa? "Sulle cose." Quali cose? Ascoltami. Le cose, le cose, insomma gli oggetti, la radiolina, la prima auto, il primo computer portatile, il motorino Velosolex, i miei cani che pure non sono certamente cose, sai, che hanno fatto la mia vita e l'hanno resa un poco più bella. Tutti scrivono della mamma, del primo amore, della paura, della tristezza, della morte, delle gioie, tutti rigurgitano saggi su dove va il mondo che neppure loro sanno dove vada, ma io vorrei fare un'autobiografia delle cose che raccontano la nostra vita. Che ci aiutano a vivere. Ci fu una pausa di silenzio, all'altro capo del telefono, come se Carlo si stesse chiedendo se avessi perso la ragione, ma avevo in serbo la proposta che non si può rifiutare. E non voglio neanche essere pagato. "Mi sembra una bellissima idea, dai che la facciamo." Bellissima l'idea di non essere pagato? "Ma no, l'idea del libro." Firmammo il contratto e Carlo insistette anche perché accettassi un modesto anticipo che probabilmente sprecherà, perché questo libro non venderà niente. Chi vuole pagare per leggere storie di cose qualsiasi, senza sesso, sangue, rivelazioni, politica, denunce, scandali, gossip, odio, tutte spaventosamente normali? Se avevo improvvisamente deciso, dopo una dozzina di libri e molti anni di astinenza e di nausea, di rimettermi a scrivere, era perché mi ero improvvisamente ricordato di qualche cosa che proprio Carlo mi aveva detto in passato, che si dovrebbero scrivere soltanto i libri che si hanno voglia di scrivere. La voglia era tornata compiendo uno di quei riti che a una certa età si fanno, quando i figli se ne sono fortunatamente andati - fortunatamente per loro - e si ruzzola con la moglie dentro una casa diventata troppo grande, come un paio di biglie dentro una scatola di latta. Il rito delle pulizie e dello sgombero. Nel mettere le mani nei detriti di una vita, nel decidere che cosa dare al robivecchi e che cosa tenere, mi ero reso conto di quanta parte abbiano avuto le cose. Di quanto avessero segnato i momenti, le lune, lo scorrere del tempo e di come anche loro avessero assunto un'anima, che era poi la mia. Anche i ricordi delle persone più amate, quelli che appassiscono negli anni, erano legati a oggetti, che me le facevano rivivere. Il nonno è lontanissimo nel tempo, ma il sapore della focaccina croccante con i ciccioli di prosciutto che mi portava per farsi voler bene è ancora in bocca. L'Unione Sovietica non esiste più da decenni, ma il Vcr, il videoregistratore che aiutava mia moglie Alisa e Chiara e Guido piccolini a sopravvivere alle notti di Mosca era ancora vivo e pronto a far girare quelle cassette che si erano ammucchiate nella polvere. E non posso mangiare un wafer, biscottino friabile che ho sempre aborrito, senza tornare nella piazza di Kuwait City a sgranocchiarne uno per fame, ascoltando il tonfo delle cannonate vicinissime nell'ultimo duello fra carri americani e iracheni, accanto a Oriana Fallaci. C'era in me, come capita agli esseri umani quando sentono che la vita si accorcia e il domani è sempre meno garantito, quel sentimento che si chiama depressione. Era scattato la sera del martedì 8 novembre 2016, quando, attorno alla mezzanotte, era apparso inevitabile che un uomo inverosimile chiamato Donald Trump era riuscito a diventare presidente degli Stati Uniti e con lui tutto il peggio che da sempre dorme nel ventre di una nazione era affiorato e aveva affermato, con pieno diritto, il desiderio di invertire il movimento della storia e di lanciare l'ultimo urrà, l'ultima carica di un'America rancorosa, cattiva e sconfitta. Fui assalito da un pensiero angoscioso: forse non avrei vissuto abbastanza per vederlo passare, come avevo visto passare altri, forse non avrei avuto il tempo per vedere l'America, nella quale avevo scelto di vivere e di trapiantare la mia famiglia, risollevarsi. Restavano, per scuotermi dalla depressione, le cose, il ricordo di quegli umili oggetti che avrebbero potuto raccontarmi del tempo più bello, della speranza, delle illusioni. E non conoscendo altra terapia antidepressiva che non fosse lo scrivere, scrissi. Scrivo, quindi sono. Riempio pagine e pagine di ricordi che si fanno ogni giorno più nebbiosi e inafferrabili, aggrappato alle cose che ancora mi parlano e mi raccontano la loro vita, che poi è la mia. Del sonno che tarda a venire, nel caldo di un cuscino arroventato, ma sorretto dalla speranza che dall'altra parte del guanciale ci sia sempre un lato più fresco. Sul quale finalmente appoggiare le fronte sudata e dormire. Che faccio, Carlo, scrivo? Scrivi. Scrivo. | << | < | > | >> |Pagina 15Le gocce battevano metalliche sul tetto della mia insonnia come chicchi di grandine sulla lamiera di un pollaio, eppure mi cullavano e mi rassicuravano nella paura della notte. Non riuscivo a dormire, ma se la Olivetti Lettera 22 di mio padre batteva, significava che l'universo era in pace con se stesso. Non c'era bisogno di dormire, bastava sognare. C'è chi ha bisognò di orsacchiotti e cagnolini di peluche per addormentarsi. Io avevo la Lettera 22. La parete di foratini che divideva la stanza di noi fratelli dallo studio di nostro padre ben poco poteva contro il ticchettio penetrante della tastiera sulla quali lui martellava, sempre e soltanto con due ditoni, scolpendo con la furia di un marmista le parole che avrebbero pagato per il nostro pranzo e per il mutuo. Il suono di una macchina per scrivere, per chi ancora lo ricordi nel tempo delle tastiere virtuali sfiorate sui tablet, è tra i rumori più atroci e insopportabili del mondo, insieme con i martelli pneumatici, i bassi della musica "dance" dalla finestra aperta di fronte, l'abbaiare dei cani e gli esercizi di un apprendista al violino. In quelle case della Milano fine anni cinquanta esplose come foruncoli sul volto di un teenager ed esteticamente spesso altrettanto offensive, l'insonorizzazione era l'ultima delle preoccupazioni dei costruttori e dei compratori. La fame, di soldi e di case, fa digerire tutto. Vivevamo in un palazzo di inevitabili piastrelline di klinker azzurre al numero 14 di piazza Firenze, nel quale i miei avevano gettato la speranza di futuri guadagni e la certezza di cambiali, e quella casa non faceva eccezione. Era come se mio padre picchiettasse sui tasti della portatile seduto accanto a me nel letto. Si sentiva tutto di tutti, da un piano all'altro, da una stanza all'altra. Soltanto ora, molto tempo più tardi, penso con raccapriccio e rimorso ai vicini, impiegati, insegnanti, piccoli commercianti dagli orari regolari e umani, che dovevano subire la gragnuola di battute fino all'una, spesso alle due, a volte alle tre, alle quattro, alle cinque del mattino. Fino a quando misericordiosamente per loro, ma non per lui, il picchio notturno doveva lasciare la macchinetta, alzarsi e imbarcarsi verso via Solferino, per prendere servizio nel primo turno dei redattori al "Corriere d'Informazione". Ma per me, che aspettavo invano il sonno invidiando e odiando insieme mio fratello Guido che invece sprofondava nell'oblio come un ferro da stiro in una piscina, la Lettera 22 era il cantico della normalità, la coperta rimboccata, il racconto della buonanotte che allora non era d'obbligo per padri e madri. Non era una piccola e meravigliosa macchina per scrivere creata fra il 1949 e il 1950 da un ingegnere chiamato Marcello Nizzoli, poi riconosciuto essere un genio del design e della tecnica - allora non la chiamavamo ancora "tecnologia" -, come oggi si dice di tutti. Era l'altarino del culto familiare, il totem attorno al quale nostro padre, e noi tutti, moglie, figli, fantesca, danzavamo la quotidiana danza propiziatoria perché da essa sgorgasse il nettare, anche se sotto forma di caffellatte e gnocco fritto per sfamarci nei momenti di magra. Se la Lettera 22 avesse taciuto, non avremmo mangiato. Semplice equazione. Veniva con noi al mare, sulla Riviera ligure, nell'appartamento di Arenzano, dove si posava sul tavolo da pranzo, sempre all'angolo accanto al telefono, sempre nello stesso punto. Le macchine per scrivere, a differenza dei tablet e dei computer portatili, erano abitudinarie, se le spostavi non sapevano più produrre niente e devono stare nel loro nido per funzionare. Ma non ci tradì mai, perché era un oggetto magico, infinitamente più formidabile dei processori, modem, schede video, schermi Hd che compongono uno smartphone. Non aveva T9 per completare le parole, correttore automatico per limitare gli sfondoni, copia e incolla per farcire con il lavoro altrui il proprio. Il suo motore di ricerca era dietro gli occhi di chi la guardava, la sua velocità di calcolo limitata dalle dita di chi picchiava sulla tastiera e dal numero di santi e madonne strappati al paradiso dagli autori presi dal blocco creativo e riconoscibili nella confraternita del pollicione e indice anneriti dal continuo intervento per sbloccare le leve dei caratteri accavallate nel momento della creatività eccitata. Ma da quell'oggetto magico sarebbero scaturite idee, personaggi, lacrime, storie e soprattutto risate, che di tutti gli incantesimi sono i più difficili. | << | < | > | >> |Pagina 39Sulla provinciale bergamasca numero 2, quella che seguendo il fiume Brembo da Piazza Brembana conduce alla stazione sciistica di Foppolo, che era la Cortina d'Ampezzo dei milanesi che non potevano permettersi Cortina d'Ampezzo, pioveva quella pioggia densa e oleosa che alla fine di agosto segnala Ia tristezza dell'autunno e, per i villeggianti, la fine delle vacanze. Pioveva molto, quel pomeriggio, anche più dei soliti, periodici scrosci che alimentano il Brembo e hanno permesso la nascita a valle del famoso stabilimento di acqua di fiume imbottigliata, San Pellegrino. Non era leggenda il poetico soprannome che i locali avevano affibbiato alla loro terra, la "Val Pisôna", la valle pisciona. Per il guidatore della Bianchina Panoramica bicolore, bianca e nera, che viaggiava a tavoletta sulla provinciale verso il Nord spremendo tutti i 22 cavalli che il motorino offriva, la pioggia non era una minaccia, ma una delizia. Ogni curva, sull'asfalto impiastricciato di polvere estiva e delle prime foglie trasformate in pappina dalla pioggia, era un'occasione per esibire il suo prodigioso talento di rallista. Ogni rettilineo era un richiamo alla vertigine della modesta velocità massima, cento chilometri all'ora, che i due cilindri del motore della 500 Fiat montato dall'Autobianchi potevano esprimere. Il pilota si sentiva un maestro dei motori, un virtuoso della strada suonata come un violino del quale la Bianchina era l'archetto. Derapate con l'auto per traverso, richiamata in extremis alla traiettoria corretta con il colpo di volante giusto. Punta-e-tacco giocando col piede destro tra freno e acceleratore per tenere sempre l'asmatico motorino al massimo dei giri anche frenando e così non perdere spinta. Cambi di marcia e scalate senza toccare la frizione, cogliendo a orecchio il canto dei giri del motore giusti per sincronizzare gli ingranaggi che gridavano disperati la loro sofferenza. Il tutto per l'ammirazione dei tre ragazzi e di Mariella, la ragazza bionda, che viaggiavano con lui, confezionati come carne Simmenthal (senza gelatina) dentro la scatolina di latta. Fu in una località chiamata Fondra, secondo il rapporto dei carabinieri, che le leggi indomabili della fisica ebbero ragione dell'incoscienza del diciottenne artista del volante. A un curvone a sinistra - nelle strade provinciali italiane c'è sempre da qualche parte un "curvone" anche quando è una banalissima curva - la Bianchina Panoramica e il signor Isacco Newton decisero che avevano avuto abbastanza di dérapage, punta-e-tacco, frenate, sterzate, controsterzate e stronzate. La scatolina densa di carne umana sbandò di lato rifiutando di rispondere alle disperate manovre del pilota per tornare in carreggiata e pattinando finalmente libera sulla strada. Urtò di fianco contro un paracarro che funzionò da rampa di lancio. L'automobilina decollò. Compì una piroetta di trecentosessanta gradi in aria per ricadere come una ginnasta olimpionica perfettamente sulle quattro ruotine, fermandosi sull'unico lembo di terra erbosa e soffice nel greto del Brembo tutto irto di macigni e sassi. Fosse ricaduta, dopo l'acrobazia, in qualsiasi altro punto del fiume, qualche metro prima, qualche metro dopo, sfasciandosi sui pietroni, probabilmente non sarei qui a raccontarvi la storia di un miracolo. Perché l'idiota al volante della Bianchina Panoramica, naturalmente, ero io.
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Ho acuto automobili italiane, francesi, russe, giapponesi, americane, tedesche, inglesi, svedesi, coreane. Ho guidato auto da corsa (malissimo) sugli ovali americani con le curve paraboliche e sfiatati catorci sulle mulattiere della Foresta Lacandona nel Chiapas. Ho provato Ferrari inavvicinabili, con i motori della Formula Uno appena depotenziati sulla pista di Fiorano, accanto a quei fossi dove mi rannicchiavo sperando di veder passare Enzo il Matto, prendendomi i rimproveri del collaudatore al mio fianco offeso dalla mia inettitudine, e ho sfasciato la fragile Moskvič di un postino russo pattinando sul ghiaccio di una strada di febbraio. E le automobili mi hanno accompagnato dalle guerre nel deserto ai parcheggi degli ospedali aspettando che venissero al mondo i miei bambini o che lasciassero il mondo i miei vecchi. So tutto dei danni all'ambiente, alla salute, ai nervi che quelle follie di scatole di ghisa o alluminio che regolano nel loro cuore l'esplosione della miscela di aria e carburante provocano e non ho rimorsi, perché per me, per un figlio della guerra, l'automobile è la cosa che ha segnato la traiettoria dell'ascesa e della caduta dell'economia italiana sopravvissuta al fascismo. È il mezzo che ha affrancato milioni di esseri umani dalla schiavitù della gleba, dalla condanna a nascere, vivere e morire nello stesso piccolo lembo di terra e di donne che nella libertà di movimento hanno trovato la prima manifestazione tangibile della loro indipendenza. Resto un incorreggibile "motorhead", uno con il motore in testa. Non sono un nostalgico del buon tempo antico e ho passato troppe ore dai meccanici per sistemare i nevrotici carburatori, per regolare l'isterico minimo del motore, per ingrassare e allineare, lubrificare e avvitare, per sostenere che non fanno più le auto di una volta. E sono rassegnato all'avvento dei robot, che, dopo aver imparato a progettare e a costruire le automobili, stanno imparando a guidarle e ogni giorno di più si intrufolano al nostro posto infilando circuiti integrati, microcamere, microchip e algoritmi ovunque e ben presto ci trasformeranno in bagaglio umano. Certamente, un robot non avrebbe mai affrontato il curvone della frazione Fondra a velocità eccessiva per le condizioni del tempo e della strada e non avrebbe dovuto correre a prendere una bottiglia di Vecchia Romagna Etichetta Nera sotto la pioggia. Ci salveranno la vita, aspettando che noi si decida che fare, di questa vita che ci hanno salvato. Nessuno dovrà mai deporre un santino per un robot. | << | < | > | >> |Pagina 79Il caldo era quello appiccicoso che avevamo immaginato al cinema, nelle sequenze grondanti di Apocalypse Now. Era asfissiante come i ricordi della storia, lì sulle rive del fiume Mekong. Caccia Phantom F-4, elicotteri Huey e bombardieri B-52 ci volteggiavano sulla testa, tra le grida dei bambini che ce li indicavano. Ridevano. Non facevano più paura. Costruiti con le lattine di Coca-Cola, Fanta, Sprite e birre varie disseminate a milioni sul territorio del Vietnam da undici anni di presenza americana, quei modellini fatti in casa erano venduti ai rari turisti dagli scugnizzi nelle vie di Saigon, inutilmente ribattezzata dai vincitori Thành phô Hô Chí Minh, Città Ho Chi Minh. Erano i detriti puliti di una guerra sporca, trasformati in souvenir nel 1995, nel ventennale dell'arrivo delle truppe del Nord e della riunificazione del paese. "American! American!" ci rincorrevano insistenti i nugoli di bambini scalzi agitando i loro aeroplanini di latta. Quando rispondevo che ero italiano, sbuffavano irritati e si disperdevano alla ricerca di un altro straniero con gli occhi tondi. Era la prima volta, in decenni di viaggi attraverso il mondo, che dichiararmi "italiano", anziché "americano" suscitava fastidio e indifferenza. Abitualmente, accadeva il contrario. Invece, proprio in Vietnam, nella nazione che era costata milioni di vite, forse due, forse tre, neppure il governo di Hanoi è mai riuscito a fare un conteggio attendibile dei caduti civili e militari, proprio nel Vietnam sul quale l'aviazione degli Stati Uniti aveva sganciato sette milioni e mezzo di tonnellate di bombe, il triplo del totale della Seconda guerra mondiale, i figli di quella guerra giocavano coi modellini degli aeroplani che li avevano tormentati e spesso li avevano resi orfani. Rimpiangevano i loro invasori. Sognavano di rivedere tra di loro, in pace, quegli americani che avrebbero voluto, nelle parole del generalissimo della US Air Force, Curtis LeMay, "riportare il Vietnam all'età della pietra" a furia di bombe. Naturalmente comperai, per pochi dông, la moneta locale che valeva frazione di frazione di dollari, uno di quegli aeroplanini di latta. Era la riproduzione sorprendentemente accurata di un Phantom F-4, fatto per la maggior parte di strisce rosse di Coca-Cola con qualche accento arancione di Fanta e le ali dorate della birra Miller. Era fragilissimo e trasportarlo a casa fu un'impresa di confezioni e imbottiture con carta igienica e ovatta per proteggerlo in valigia, ma arrivò intatto. Lo appesi a un filo sottile, una lenza, al soffitto della stanza dove lavoravo, lo "studio", come pomposamente si chiama a volte. Era talmente leggero e tanto aerodinamico da restare in equilibrio orizzontale e fremere, tentando di alzare il muso, quando il soffio dell'aria del condizionamento lo investiva e danzava appeso alla lenza. Era una quotidiana lezione, utile a ricordarmi quanto sanguinosamente effimere, quanto provvisoriamente crudeli e dimenticabili siano le imprese che sembrano storiche mentre accadono e finiscono in aeroplanini di latta. Una delle tante "cose" poco importanti che nella mia vita cercavano di raccontarmi cose importanti. La più tragica, la più oscena delle guerre, ammesso che esista una graduatoria di oscenità, la più atroce delle dittature, depositano quando si ritirano morene di detriti, sedimenti di orrori che divengono ciarpame, rottami, giocattoli o curiosità, come un ghiacciaio in ritirata, per le generazioni che non ne hanno memoria diretta. A più di un secolo dalla fine della Inutile Strage, della Prima guerra mondiale, ancora i turisti in passeggiata trovano sui monti della frontiera orientale italiana elmetti, mostrine, bossoli, badili, schegge di proiettili d'artiglieria, brandelli di uniformi, resti umani affiorano dalla terra del Carso, dell'Isonzo, dell'Altopiano di Asiago, come in Francia lungo la Valle della Marna, lungo il mattatoio umano leggiadramente chiamato "Chemin des Dames" o sulla Via Sacra attorno a Verdun. Non tutti i rottami sono sempre innocui come i jet venduti dai bambini di Saigon.
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Per terribile che sia stato, per enormi che siano state le sue colpe, il passato sempre si rincarna in cose inutili, grottesche o fraintese. I patetici e ingordi "centurioni" e "gladiatori" che infestano le rovine della Roma imperiale importunando turisti per una foto sono la messa in burla di glorie rivisitate, ma spente e innocenti. Meno innocenti sono le riesumazioni di altri oggetti e simboli che riprendono vita nelle intenzioni di chi li esibisce, come il ciarpame del nazismo e del fascismo che riappare nelle strade e negli stadi sportivi. Nelle "highway" americane rotolano migliaia di "biker", di motociclisti in sella ai loro "chopper", le Harley-Davidson con la forcella anteriore "chopped", segata e poi esageratamente allungata, che portano in testa gli "Stahlhelm", gli elmetti militari tedeschi. Eccellenti coperture di acciaio al molibdeno, create per proteggere la testa e il collo dei soldati da schegge e da proiettili vaganti di piccolo calibro, imitati più tardi anche dagli americani e dagli eserciti della Nato che ne hanno ripreso la forma, gli "Stahlhelm" da Sturmtruppen sono inutili, se non controindicati, come caschi da motociclista. Ma non è la protezione il motivo che spinge migliaia di "biker" americani a calcarseli in testa. "È una cosa da ribelli, tu non puoi capire," mi licenziò un corpacciuto motociclista con annessa corpacciuta compagna a un raduno a Nashville, nel Tennessee. È un segnale di rifiuto dell'autorità inviato indossando il simbolo più famoso e truce di un regime ferocemente autoritario come il nazismo. Un paradosso storico che al motociclista evidentemente sfuggiva. Nella più completa confusione di idee e di immagini contraddittorie, gli stessi cavalieri motorizzati che esibiscono elmetti da SS sulle highway si incollano e si cuciono poi sui gilet di pelle bandiere americane e insegne di famose unità dell'esercito americano, quelle che proprio contro coloro che quegli elmetti indossavano combatterono e morirono. I biker americani portano gli elmetti d'acciaio del terrore hitleriano, così come tifosi di squadre di calcio sventolano croci, bandiere, vessilli, emblemi, gagliardetti nazisti e fascisti, per "far paura", per manifestare la loro diversità dagli altri, facendo delle atrocità di ieri una buffonata. Ma è inutile e ipocrita ergersi a moralisti, pronunciare sentenze contro chi riutilizza i simboli delle guerre per giocare. | << | < | > | >> |Pagina 119Metallica e sottile attraverso i forellini della custodia di plastica bucherellata, la voce del radiocronista incollata al mio orecchio lottava con il brontolio di fondo dello stadio di San Siro e con le esplosioni di esaltazione o delusione. Che ha detto? Chi ha segnato? Cosa fa la Juve? La Roma è ancora pari? Mi tempestavano gli amici e i vicini di Gradinata Popolari, essendo io allora l'unico depositario delle vitali informazioni in tempo reale, come si sarebbe detto decenni più tardi, sulla giornata di campionato. Ero troppo teso, nel tifo travolgente dei quindici anni, troppo assorbito nel timore della immancabile "maldinata", la distrazione del grande Cesare Maldini, nell'ammirazione per l'intelligenza calcistica di Nils Liedholm e per le squisitezze dell'uruguaiano "Pepe" Schiaffino per rendermi conto di quale rivoluzione culturale stringessi fra le dita. Era una delle prime radioline tascabili a transistor e alimentate a batteria arrivate in Italia. Un'azienda giapponese chiamata Tokyo Tsushin Kogyo aveva cominciato a esportarle nel mondo, dopo avere saggiamente cambiato il nome nel più pronunciabile "Sony". Era una composizione, in caratteri latini, scelta dal fondatore Aldo Morita, perché ricordava insieme il "Sonus" romano e il confidenziale "Sonny", figliolo, inglese, figlio del suono. Per ragioni a me oscure, i miei genitori, scarsamente tecnofili, ancora equipaggiati in casa con apparecchi radio monumentali con il nome di irraggiungibili emittenti sul vetro, Lipsia, Stoccarda, Praga, Monaco, Vienna... me l'avevano regalata per Natale. Quell'oggetto, pesante appena un paio di etti, tascabile con un po' di sforzo - la Sony aveva barato fornendo ai suoi dipendenti camicie con i taschini più larghi per infilarci l'apparecehietto - mi aveva spalancato il mondo e lo aveva reso privato. La radio non era più uno strumento da usare collettivamente, con la famiglia o con gli amici, per ascoltare musica, notizie, radiodrammi, sketch comici. Era diventata individuale ed esclusiva, da utilizzare magari con l'auricolare, ovunque, a letto sotto le lenzuola per sfuggire al coprifuoco domestico delle luci spente dopo Carosello, in bagno senza il timore di morire fulminati se fosse caduta in acqua, a passeggio e soprattutto allo stadio. La nascita, e l'esplosione del programma Tutto il calcio minuto per minuto lanciato dalla Rai nel 1959 e arrivato alla punta mostruosa di venticinque milioni di ascoltatori, coincise con la diffusione delle radioline. Il matrimonio perfetto, la ragione provvidenziale per la quale sembrava essere stata creata dalla Sony, era il campionato di calcio, erano quelle due ore allo stadio che il "transistor", come si diceva allora, aveva spalancato al consumo spasmodico dei tifosi. L'unità classica di "tempo, azione e luogo", che già Aristotele aveva teorizzato per il dramma prima di sapere che cosa fosse una radio, si era spezzata e l'orizzonte di un ragazzo allo stadio si era allargato a tutti gli stadi, in collegamento istantaneo. La mia adorata radiolina con le due rotelline dentate, una per la sintonia, l'altra per il volume, era il progenitore, l'antenato logico e inevitabile della stirpe di apparecchi che lei avrebbe generato, walkman, iPod, telefonini, smartphone, tablet, sposando computer, transistor, circuiti integrati, schermi, app, motori di ricerca, posta, macchine fotografiche, registratori audio. Tutti figli di quella scatolina dalla quale pigolavano la voce dallo "studio centrale" e le interruzioni dai campi. Non che a me, ignaro delle potenzialità rivoluzionarie aperte dalla miniaturizzazione della radio rinchiusa dentro una scatolina di plastica, degli sviluppi futuri importasse niente, oltre alla possibilità di seguire i risultati di altre partite mentre guardavo il Milan a San Siro, in una versione primordiale di quello che poi si sarebbe chiamato "multitasking", fare cose diverse simultaneamente. La radiolina aveva inchiodato all'orecchio la passione divorante per il calcio e il tifo per la "squadra del cuore", come indicava lo spot radiofonico del brandy Stock 84, e offerto il solito surrogato ai propri fallimenti atletici. Il calcio praticato non era stato molto generoso con me. Troppo lento per essere un difensore fluidificante, come si dice dei terzini che corrono avanti e indietro e degli sciroppi contro il catarro, troppo pigro per essere un centrocampista, troppo basso per essere un buon portiere, avevo pagato il mio inevitabile tributo al dio pallone, quando era ancora una faccenda semplice. Lo si giocava nelle piazze, negli oratori e in campi di polvere e di ghiaia grattugia-ginocchia, come il giustamente chiamato "Nuvolone" di Milano. Con i cappotti ammucchiati a terra per far da pali, la traversa virtuale collocata in funzione della statura del portiere e la legge dell'"ogni tre corner un rigore", consumavo i guanti di pelle comperati da mia madre che non riusciva a capacitarsi del perché si logorassero tanto rapidamente. Nulla sapendo delle mie prestazioni da portiere - il ruolo sempre riservato al più scarso - lamentava la qualità della pelle e la disonestà dei merciai che quei guanti le avevano venduto. Mancava ancora una generazione alla condanna di madri e padri affranti e spossati nella transumanza quotidiana di figli tra nuoto, scherma, balletto, calcio, basket, teatro e tutte le attività organizzate che il benessere avrebbe rovesciato sulle famiglie. In casa mia, lo sport era guardato semplicemente come tempo sottratto allo studio e con molta diffidenza politica da parte di mio padre, reduce dal nazionalismo atletico del fascismo e dalle obbligatorie sbornie ginnico-sportive in onore del Duce. Il calcio mi avrebbe portato al mio primo reato, la multa di lire cento per aver giocato al pallone nei praticelli del giardinetti di piazza Firenze a Milano, ma non mi aveva reso ricco o famoso. | << | < | > | >> |Pagina 147Piccolo io, piccola mia moglie, piccolissima la nostra amica, giapponese, riuscivamo a stare comunque stretti nella microscopica Sushi-ya dove lei ci aveva invitato a pranzo. Tutto era in miniatura, lì dentro, come in un presepe, noi avventori, il banco, 1'"itamae", lo chef che preparava silenzioso di sua iniziativa e senza aspettare ordini, come si deve fare in segno di rispetto per lui, le palline di riso per il nigiri sushi. Era come se qualche strega indispettita o qualche scienziato pazzo avessero condannato quel luogo a restringersi, tipo "tesoro, mi si è ristretto il ristorante". Visto dove eravamo, ero disposto a credere a incantesimi e sortilegi crudeli, a chiedermi superstiziosamente se quei bocconcini di sushi fossero addirittura radioattivi anche cinquant'anni dopo. Perché eravamo a Hiroshima. Ero già stato più volte nella prima città che avesse conosciuto gli effetti di un attacco atomico, lavorando in Giappone per "La Stampa". Ne avevo sempre riportato una strana sensazione di gelo, un brivido di freddo nonostante il suo clima umido e quasi tropicale, che segnava un tiepido ventotto gradi alle 8.15 del mattino del 6 agosto 1945, l'ora in cui l'esplosione di "Little Boy" avrebbe alzato la temperatura al suolo a seimila gradi centigradi. Hiroshima non è solenne, non è ambiziosa come Berlino, trasformata dai tedeschi in una palestra miliardaria per esibizioni architettoniche. È una protesi urbana applicata a una città amputata della propria storia troncata quella mattina. Era stata ricostruita con fretta e con furia, con la sovrumana diligenza di superstiti e di soccorritori che quattro giorni dopo la bomba avevano rimesso in fuzione le pompe dell'acquedotto; otto giorni dopo avevano riallacciato qualche linea telefonica e undici banche locali avevano riaperto, in comune sotto una tenda militare all'aperto con tavolini pieghevoli, i loro "sportelli" per rimettere in circolazione i contanti necessari per vivere anche nell'ora delle catastrofi. La schiacciante normalità del cemento e dell'asfalto con i finanziamenti e le agevolazione fiscali che il governo nipponico aveva concesso era stata rovesciata addosso a una città che non c'era più e aveva perduto settantamila dei suoi novantamila edifici in dieci minuti, per coprire in un sudario urbano il pensiero di quel giorno. E per non sentire i lamenti dei forse centocinquantamila, nessuno conosce il numero esatto, che continuarono a morire negli anni, aggiungendosi agli ottantamila vaporizzati o carbonizzati all'istante. Hiroshima è oggi una ciambella di cemento costruita attorno a un buco centrale. Una muraglia di normalità eretta a protezione del memoriale della Bomba, progettato e disegnato dal grande Kenzo Tange. Sta, il parco, come un cratere magnetico che attrae con la sua fredda mancanza di retorica o di magniloquenza monumentale chiunque ancora ricordi che cosa significhi Hiroshima. È in quel museo che si incontra la Bomba. È lì che si vedono il triciclo contorto sul quale pedavala un bambino vaporizzato, i gradini della Banca Sumitomo con la silhouette nera del cliente che li stava salendo e divenne ombra impressa per sempre dal flash del sole artificiale, l'uniforme di grosso, ruvido panno blu con ancora la mostrina della scuola al colletto di una scolara, tutto quello che rimase della bambina dissolta dentro. "La conoscevo," dice la voce della donnina piccina picciò accanto a me nella Sushi-ya tascabile, "eravamo nella stessa scuola." E in quelle parole, in quella donnina, in quel minuscolo ristorante davanti a pezzettini di pesce crudo miniaturizzato come si prepara alla maniera di Hiroshima, la storia diventò per me vita, la Bomba prese un corpo, il suo. Lei c'era, la mattina del 6 agosto 1945. Era andata all'inferno in tram ed era tornata. Si chiamava Hiroko Nakamoto e ci eravamo conosciuti per caso. Quando avevamo lasciato Mosca per aprire il primo ufficio di corrispondenza di un quotidiano italiano in Giappone, l'agenzia immobiliare ci aveva trovato un appartamento nel quartiere di Moto-Azabu, la zona bene dove molti "gaijin", i non giapponesi, si concentravano, attorno alle scuole internazionali e ai supermercati con alimentari importati. La proprietaria della palazzina era una signora di squisita gentilezza, di pronto e indecifrabile sorriso sul volto sempre perfettamente in ordine, che abitava al piano superiore. In tre anni di vicinanza, non credo di averla mai vista una sola volta spettinata o scomposta. Era una cura personale spiegata non soltanto dall'amor proprio, ma dalle limousine Nissan nere con il piccolo crisantemo dorato dipinto sulle portiere, il simbolo della casa imperiale, che spesso si fermavano davanti al portone della palazzina. Hiroko aveva tra i clienti del suo studio di arredamento e architettura d'interni anche la famiglia imperiale e non si può ricevere una parente del Tennō in ciabatte, bigodini e vestaglia. Soltanto al momento della nostra partenza dal Giappone mi aveva rivelato il segreto che nascondeva dietro tutto quel make-up, quella spasmodica cura personale e sotto le calze spesse e opache che le fasciavano le gambe: le orrende, indelebili cicatrici lasciate dalle radiazioni che aveva assorbito, i cheloidi. "Sono di Hiroshima," ci aveva confessato, con il pudore della vittima che si sente in colpa abbracciando i miei bambini piccoli, Chiara-chan e Guido-chan, come li chiamava lei che non aveva potuto avere figli, usando il vezzeggiativo rispettosamente affettuoso di "chan". "È stato bello avere bambini in questa casa," ci lasciò. Ci saremmo rivisti tredici anni dopo, nel luogo dove Hiroko Nakamoto era andata senza saperlo a un altro appuntamento, quello con un bombardiere americano B-29 battezzato con il nome della madre del pilota Paul Tibbets, Enola Gay. Non sapevo, quando le avevo telefonato dagli Stati Uniti, se avrebbe accettato di rivivere per me quel giorno atroce, cinquant'anni dopo, se avrebbe avuto la generosità di scrivere con le sue parole il pezzo sull'anniversario e risparmiarmi la solita, fritta e rifritta retorica della commozione e della rievocazione. Accettò subito, come se ci fossimo salutati la sera prima, come se lei avesse sempre saputo che sarei tornato a cercarla, dopo avermi rivelato di essere figlia di Hiroshima. La incontrammo alla stazione ferroviaria, all'uscita dello Shinkansen, il primo treno Tav al mondo inaugurato nel 1964, per le Olimpiadi che scossero il Giappone e lo proiettarono all'ammirazione del mondo. Ci aspettava con una grossa Mazda nera noleggiata con autista, perché nelle auto grandi lei stentava a raggiungere i pedali. "Posso invitarvi a pranzo?" Domanda retorica, ovviamente, mai avremmo potuto rifiutare o fare sceneggiate all'italiana sul conto, che l'avrebbero umiliata. Il tempo era perfetto. Esattamente come lo era quella mattina del 6 agosto 1945 alle 7 e 30, quando il capitano William Parsons, l'ufficiale incaricato di armare "Little Boy", la Bomba a bordo dell'Enola Gay, aveva ricevuto dal servizio meteorologico dell'Esercito - allora l'Air Force, l'aviazione, non era ancora un'Arma indipendente - il messaggio che attendeva: "Tempo sull'obiettivo primario perfetto" e aveva inserito la carica esplosiva che avrebbe provocato la fissione nucleare. Parsons, che il resto dell'equipaggio aveva soprannominato "La Balia", annotò sul suo diario: "Rotta su Hiroshima". Diecimila metri sotto di lui, lungo la strada che la signora Nakamoto ci faceva ripercorrere lentamente verso la minuscola Sushi-ya, Hiroko la bambina di tredici anni aveva guardato il suo orologino e cominciato a correre nel panico. "Ero in ritardo e correvo come una disperata per raggiungere il tram, cercando di non sentire il fastidio dei calzoni di lana ruvida dell'uniforme che mi irritavano le gambe." Era stata arruolata per forza, insieme con tutte le bambine di Hiroshima, per lavorare nella grande fabbrica di munizioni che ancora, in quell'agosto del 1945, quando la guerra era inesorabilmente perduta, pompavano proiettili per il Dai-Nippon Teikoku Rikugun, l'Esercito del Grande Impero giapponese deciso a resistere fino all'ultimo uomo alla prevista invasione. Hiroshima era stata risparmiata dai bombardamenti quotidiani che notte dopo notte avevano consumato Tokyo trasformandola in un braciere. Era intatta e la sola ansia della bambina di Hiroshima era di non riuscire a prendere il tram dove le sue compagne come sempre l'aspettavano, insieme con militari in uniforme, perché ai civili era proibito usare i mezzi pubblici. "Vuole provare le ostriche tostate?" interrompe tra molte scuse il racconto lo chef dietro il banco. "Sono coltivate qui, nel Mare interno di Seto, una specialità locale." Il Mare di Seto. Fu sopra quel mare interno che il B-29 con la Bomba aumentò i giri dei suoi quattro motori e si arrampicò alla quota prevista di undicimila metri per l'ultimo volo verso Hiroshima e per sganciare "Little Boy", avendo la speranza di sfuggire, se i calcoli di ingegneri, fisici nucleari e meteorologi senza precedenti ai quali aggrapparsi erano corretti, agli effetti di quello che stavano per fare. Hiroko non ce la fece. Nonostante la lingua fuori, il tram con le compagne di ogni mattina le era sfuggito e lo vide traballare sferragliando via verso il ponte a "T" a tre braccia che collegava le sponde del fiume Ota. Era una struttura inusuale, orgoglio dei padri della città che lo avevano costruito nel 1932 per raggiungere un altro degli edifici dei quali le autorità andavano fiere: il palazzo dell'esposizione industriale con la sua lucente cupola di rame sopra la struttura di acciaio, progettato, chissà perché, da un architetto boemo trent'anni prima. Era su quel ponte che Hiroko e il bombardiere avevano il loro appuntamento. "Qui, dove adesso c'è questo stand che vende soba, zuppa," mi aveva detto facendo rallentare l'autista, "c'era la fermata e vidi il tram che avevo mancato avviarsi verso il ponte e scoppiai a piangere, di rabbia e di vergogna, per quello che i militari mi avrebbero detto vedendomi arrivare in ritardo. Hiroko preferisce dormire anziché servire l'Imperatore, Hiroko è troppo pigra per fare la sua parte, Hiroko non vuoi bene ai nostri soldati che muoiono per difendere la patria..." Hiroko salì sul tram successivo, dieci minuti dopo, ansimando per la corsa e per il presentimento amaro dell'umiliazione. "O-Cha?" Tè verde? "Rinfresca e pulisce il palato per gustare meglio i sapori che vengono dopo," s'informa premurosa. Grazie, sì tè verde. Beviamo in silenzio, quel tè servito sempre rovente dalle teiere di ghisa. "Sul tram che riuscii finalmente a prendere c'era il solito pigia pigia di soldati e di bambine ed eravamo sballottati sulle rotaie, tutti muti, senza scambiare una parola." Non conversavano neppure gli uomini in cielo sopra di lei che puntavano verso il ponte a "T". La rotta era affidata ormai al bombardiere, il maggiore Thomas Ferebee, un ragazzo di ventisei anni curvo sopra il mirino "Norden", il sistema di puntamento con cui cercava di mettere a fuoco il ponte nel visore. Dal tram, Hiroko sentì ululare le sirene dell'antiaerea, che segnalavano il "cessato allarme". "Se chiudo gli occhi le sento ancora," sorride con il suo sorrisino timido, un po' storto. Tutti gli "hibakusha", i superstiti di quel giorno, ricordano ogni dettaglio, hanno riscontrato gli psicologi. I suoni, le immagini, le sensazioni. Si sono impressi indelebilmente nella loro memoria, come l'ombra sui gradini della banca. L'apparizione di un solo bombardiere nel mattino, sopra una città che non era mai stata colpita, aveva tranquillizzato i militari. Da giorni, aerei come quello, sempre soli, avevano attraversato il cielo di Hiroshima, indisturbati da una contraerea che non aveva comunque cannoni capaci di far male a quella quota né più aerei da caccia da lanciare. Erano B-29 gemelli dell'Enola Gay, mandati in missione per controllare la rotta, calibrare il puntatore, verificare le comunicazioni, fare prove generali in attesa che sull'Isola di Tinian, duemilacinquecento chilometri a sudest di Hiroshima, finissero di assemblare la Bomba. I bambini correvano sui marciapiedi seguendo il cammino dell'aereo e le scie di vapore. Lo additavano eccitati e divertiti, come se vedessero un aquilone volare. "Li sentivo strillare B-san! B-san!", l'onorevole "B", affascinati da quel giocattolo d'argento scintillante contro il cielo. Le 8 e 5 minuti. Sul brogliaccio di bordo, il bombardiere Ferebee annota: "Bersaglio inquadrato". Il ponte a "T" era a fuoco nel Norden, il meccanismo di puntamento. Le 8 e 14: il B-29 spalanca la pancia e la bomba comincia la sua caduta libera in un volo di quarantaquattro secondi, diretta sul tram che la bambina seduta accanto a me a sorseggiare tè e assaporare ostriche tostate aveva perduto e che si avviava ballonzolante verso il ponte. "Scesi dal tram accanto a un omone grosso, o almeno mi sembrava grosso perché io ero molto piccolina. Pensai che mi avesse dato uno spintone violento, ma poi cominciai a volare." L'omone che l'aveva spintonata era lo spostamento d'aria di un ragazzo, di "Little Boy", il soprannome della bomba esplosa sulla verticale del ponte - e del tram - a seicento metri di altezza, secondo le istruzioni del detonatore barometrico programmato a quella quota per estendere al massimo la distruzione. "Volavo come se una mano mi portasse e atterrai dietro un muro di cemento cadendo su una pila di futon", di materassini. Il tram che aveva perduto si era disintegrato. Il suo era un carcassa che si stava sciogliendo, come si erano istantaneamente sciolte le tegole di rame sulla cupola del palazzotto dell'esposizione, lasciando quello scheletro di acciaio che diventerà il monumento funebre di Hiroshima. "Poi fui avvolta dalla luce, un sudario di luce come avevo visto soltanto cercando di guardare per un secondo il sole." E da silenzio. Mentre il fungo di fumo e di vapore si alzava fino a ventimila metri inseguendo il B-29 che il comandante Tibbets freneticamente virava per sfuggire all'effetto di quello che aveva prodotto, un silenzio scendeva sui resti della città. Non ci sono registrazioni audio di quei momenti eppure tutti i sopravvissuti ricordano lo strano silenzio che scese su Hiroshima, come in un film muto. "Non so quanto tempo passai dietro quel muro perché il tempo non esisteva più, il mio orologino si era fermato e io ero svenuta. Quando aprii gli occhi, vidi un uomo che mi guardava stupefatto. Credo che fosse stato accecato dal lampo, sbatteva gli occhi, non vedeva." I serventi della contraerea che avevano seguito diligentemente la caduta di "Little Boy" e guardato l'esplosione persero gli occhi, bruciati nelle orbite dal flash atomico. "Cominciò a piovere e non capivo, il cielo era sereno quando avevo preso il tram e ora cadeva una pioggia fitta, densa e nera, dopo quella luce." Sotto la "pioggia nera" , scatenata dall'effetto dell'esplosione atomica sull'umidità e sulle correnti termiche in quota e gonfia della polvere e del fumo, Hiroko si trascinò tra le rovine di quel deserto che mezz'ora prima era la sua città. Non c'erano più strade a guidare il suo cammino, soltanto il fiume. "Lo seguivo come una sonnambula perché ricordavo che la mia casa, la casa di mio padre e di mia madre era a monte del fiume. Abbassavo la testa e mi accorsi che non avevo più le scarpe e i piedi erano due strani grumi rossi attraversati da un cinturino rosa, che era la striscia di pelle mia rimasta intatta perché protetta dal cinturino di cuoio delle mie scarpe. Qualche straccio mi pendeva dal braccio sinistro, però poi vidi che non era stoffa ma pelle che mi pendeva addosso a brandelli. Ero imbarazzata perché ero quasi nuda, ma non avevo paura, né male. Non capivo niente, pensavo di sognare. Un minuto prima ero scesa dal tram. Ora la mia città non esisteva più." Sulle rive del fiume Ota, il corso d'acqua principale della città che non c'era, migliaia di moribondi si rotolavano e si buttavano per cercare salvezza, per calmare la sete, per lenire le ustioni. Bevendo l'acqua che li avrebbe uccisi. "C'era un poliziotto con l'uniforme lacera addosso che cercava di regolare la processione di gente che si muoveva in tutte le direzioni, prima di crollare anche lui. Da brava ragazza giapponese ero stata allevata a seguire le istruzioni dei superiori, ad aspettarmi che l'autorità si prendesse cura di noi, ma non c'erano superiori, autorità, anziani per guidarci." Ogni superstite, ogni essere umano sopravvissuto a una guerra, a una catastrofe, a un massacro - e ce ne sono sempre, anche dallo sterminio più diligente - ha una storia diversa da raccontare, con qualche cosa di comune a tutti loro: il caso. Non ci sono spiegazioni razionali e forse neppure scientifiche alla salvezza della bambina che proprio quel giorno aveva perso il tram che l'avrebbe vaporizzata, o al perché un'altra bambina si fosse trovata dalla parte sbagliata del muro che l'aveva protetta e si fosse dissolta. La sua compagna sul tram arrivato puntuale all'appuntamento con la Bomba svanì in una piccola nube di cenere. Lei era seduta accanto a me e mia moglie, mezzo secolo dopo, ad assaggiare bocconcini di sashimi e di sushi alla maniera di Hiroshima. Lei era figlia di un medico, che non era stato richiamato in servizio dall'Imperiale Armata perché era l'unico rimasto a occuparsi di un paese sulle colline. Ogni giorno Hiroko scendeva a valle con il treno locale e poi prendeva il tram verso la fabbrica di munizioni. "Mentre barcollavo e cercavo di non cadere anche io fra le rovine e i cadaveri sapendo che sarei rimasta lì per sempre, sentii una voce che mi chiamava, Hiroko-chan, Hiroko-chan, sei tu? La voce veniva da sotto una tenda che qualcuno aveva steso per fare un tetto contro la pioggia e riconobbi un medico, un giovane che avevo visto qualche volta a casa mia, in collina. Era circondato da feriti in agonia, da gente che si guardava stupefatta la pelle cadere e la carne consumarsi e lui non poteva fare niente per loro. Mi diede da bere, da una borraccia militare perché lui era in servizio, mi fece sedere e mi disse di aspettare, che lui avrebbe trovato un mezzo, una carretta per farmi uscire dalla città. C'era qualche veicolo militare che circolava tra le macerie e lui ne fermò uno caricandomi sopra e ordinando al soldato che lo guidava di portarmi fuori. Dove? Chiese il soldato. Fuori, lontano più che puoi, gli disse indicando le colline." Si salvò, sopravvisse, perché era di buona famiglia, perché era figlia di una "classe" privilegiata, si potrebbe dire, ma quali erano le probabilità che lei, tredicenne con le gambe corte e ustionate da quel fuoco che l'avrebbe marchiata per il resto della sua vita, trovasse un conoscente, un medico amico del padre, nel cratere radioattivo che aveva consumato il 70 per cento degli edifici? Quale protezione familiare le aveva fatto perdere il tram e mancare, proprio quella mattina del 6 agosto 1945, l'appuntamento con l'Enola Gay? "Mi riportarono a casa il giorno dopo. Avevo passato la notte in casa di sconosciuti, fuori da quello che restava della città e poi un contadino con un carretto trainato da un mulo mi aveva riportato da mio padre." Ci rimase per un anno, prima di riprendersi, curata dal padre che, come molti medici del suo tempo, non aveva mai visto un caso di avvelenamento da radiazione né avrebbe avuto i mezzi e la conoscenza per curarla, oltre ad assicurarsi che le sue piaghe non suppurassero, come lentamente si andavano cauterizzando le piaghe della città. Lo chef ha finito la sua esibizione. Con un breve cenno del capo, non proprio un inchino, ma un segnale di rispetto e gratitudine, si ritira, lasciandoci la teiera di ghisa arroventata. "Ancora O-Cha?" Ancora tè verde? No, basta, grazie. Ma la teiera era bella, elegantissima nel suo manico alto e nella superficie bugnata. Andiamo via. Un mese esatto dopo la Bomba, in settembre, un formidabile uragano tropicale si abbatté sulle macerie della città e fu un gesto di pietà degli dei, che non avevano mosso un dito per fermare la guerra e per dirottare il bombardiere. Non fu il vento divino e leggendario del "Kamikaze" che aveva fermato la flotta coreana d'invasione, ma una tempesta purificatrice che aiutò a lavare via e portare verso l'Oceano i detriti, le polveri, la radiazione. Andiamo via, ma prima di uscire e di riprendere la via della stazione, la signora parlotta con lo chef e proprietario della Sushi-ya tascabile. "Eccola, è per lei," mi dice porgendomi la teiera di ghisa, "un piccolo souvenir." Ce l'ho ancora, quella teiera.
Il ricordo del tè a Hiroshima.
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