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| << | < | > | >> |IndiceNota dell'editore VII Dal Prometeo di Eschilo all'Antigone di Sofocle - Eva Cantarella 3 La Lisistrata di Aristofane - Laura Pepe 9 La Repubblica di Platone - Luciano Canfora 14 L'Apocalisse di Giovanni - Brunetto Salvarani 20 L'editto di Caracalla - Giusto Traina 25 La città di Dio di Agostino - Maurizio Ferraris 31 L'Algorismus di Giovanni di Sacrobosco - Alessandro Vanoli 36 La Commedia di Dante - Piero Boitani 43 Il Portico dell'Ospedale degli Innocenti di Filippo Brunelleschi - Franco Farinelli 49 Il sogno del volo di Leonardo da Vinci - Antonio Forcellino 55 Il Principe di Niccolò Machiavelli - Maurizio Viroli 60 Utopia di Thomas More - Franco Cardini 66 L'oroscopo di Cristo di Girolamo Cardano - Elisabetta Scapparone 73 Lo Spaccio de la bestia trionfante di Giordano Bruno - Michele Ciliberto 79 Il Frammento sull'Atlantide di Condorcet - Roberto Mordacci 86 Frankenstein di Mary Shelley - Valeria Palumbo 92 Il Manifesto del partito comunista di Karl Marx e Friedrich Engels - Nadia Urbinati 100 L'origine delle specie di Charles Darwin - Guido Barbujani 107 Dalla Terra alla Luna di Jules Verne - Carlotta Sorba 113 Le meraviglie del Duemila di Emilio Salgari - Lorenzo Benadusi 120 L'abito Tanagra di Rosa Genoni - Maria Giuseppina Muzzarelli 126 Il Manifesto del futurismo di Filippo Tommaso Marinetti - Emily Braun 133 La sagra della primavera di Igor Stravinskij - Giovanni Bietti 141 Sulla teoria speciale e generale della relatività di Albert Einstein - Enzo Marinari 146 La politica come professione di Max Weber - Maurizio Ferrera 153 Mein Kampf di Adolf Hitler - Roger Griffin 159 Possibilità economiche per i nostri nipoti di John Maynard Keynes - Ignazio Visco 169 Tempi moderni di Charlie Chaplin - Amedeo Feniello 176 L'Eur - Alessandra Tarquini 185 Incubo ad aria condizionata di Henry Miller - Emilio Gentile 191 Il Manifesto di Ventotene di Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Eugenio Colorni - Simona Colarizi 199 Il rapporto Beveridge - Gianni Toniolo e Giovanni Vecchi 205 La Costituzione italiana - Gherardo Colombo 213 La Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo - Geminello Preterossi 218 La Olivetti Lettera 22 - Costantino D'Orazio 225 Chandigarh di Le Corbusier - Marida Talamona 230 La fine dell'eternità di Isaac Asimov - Alessandro Portelli 237 La parola piangere di Gianni Rodari - Vanessa Roghi 247 La lavatrice e altri elettrodomestici - Emanuela Scarpellini 253 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick - Alberto Crespi 258 Imagine di John Lennon - Alberto Mario Banti 264 Don Chisciotte di Marc Chagall - Anna Foa 270 Corviale - Vittorio Vidotto 275 L'uomo che voleva essere donna di Joyce Lussu - Silvia Ballestra 281 Wall Street di Oliver Stone - Marco Onado 287 Governare i beni collettivi di Elinor Ostrom - Fridays for Future - Italia 297 Gli ultimi giorni dell'umanità di Karl Kraus nella regia di Luca Ronconi - Claudio Longhi 304 La fine della storia e l'ultimo uomo di Francis Fukuyama - Giulio Azzolini 315 Matrix di Lana e Lilly Wachowski - Juan Carlos De Martin 320 Grande Fratello - Daniela Cardini 326 Black Mirror di Charlie Brooker - Luca Barra 332 Gli Obiettivi di sviluppo sostenibile - Donato Speroni 339 Il Next Generation EU - Scomodo 346 Fratelli tutti di papa Francesco - Andrea Riccardi 353 Gli autori 359 |
| << | < | > | >> |Pagina 0Nel corso dei secoli, donne e uomini hanno immaginato il futuro con audacia o timore, con l'intenzione di progettarlo e con la speranza di costruirne uno migliore. In questo libro la storia dell'idea del futuro è raccontata attraverso le opere dell'ingegno umano. Si parte dalle tragedie antiche e dai trattati filosofici per continuare con i manifesti politici e le opere scientifiche, spaziando tra cinema, teatro, arte, architettura e musica, e arrivando alla fantascienza e alle serie televisive. Ogni idea di futuro rivela qualcosa del mondo in cui viene concepita. Conoscere il futuro di ieri forse può aiutarci a pensare il futuro oggi. | << | < | > | >> |Pagina 14L'amplissimo dialogo di Platone intitolato Politeia (la corrente, fuorviante, traduzione italiana è Repubblica o, peggio, La Repubblica) ha la sua effettiva conclusione al termine del IX libro. È in quella pagina finale che Platone dichiara, in modi semplici ed efficaci, quale futuro egli veda per l'ordinamento comunistico della società delineato - in toni anche combattivi - nei libri precedenti. Il nucleo propositivo di cui si discorre nei libri precedenti (in modo molto movimentato nel V) consiste nell'abrogazione dei due istituti che alimentano l'egoismo individualistico: la famiglia e la proprietà. Gli audaci rivolgimenti che l'instaurazione di tali propositi comporterebbe vengono bersagliati con feroce parodia nelle Donne all'assemblea popolare di Aristofane , e con sprezzanti considerazioni nel II libro della Politica di Aristotele. Tanto accanimento sembra discendere - tra l'altro - dal proposito di denunciare e stigmatizzare preventivamente ogni (eventuale) tentativo di mettere in pratica la società comunistica delineata da Platone. Ma rientrava davvero nella visione platonica la possibilità di passare dal progetto alla sua attuazione? E a questa domanda che Platone risponde nel finale del IX libro. Siamo alla conclusione di un serrato dialogo tra Socrate e Glaucone (fratello di Platone), nel quale ha largo spazio il tema dell'educazione. Dell'uomo «migliore» che risulterà da una equilibrata educazione, Glaucone dice: «Non vorrà certo svolgere attività politica [...], se è di questa che vuol prendersi cura» (592a). Socrate reagisce spiazzandolo: «Ne farà, e anche molta, nella città che gli è propria, non però forse nella sua patria, a meno che non sopravvenga una qualche sorte divina». Glaucone comprende e rende esplicito il pensiero espresso da Socrate: «Capisco: intendi dire nella città della cui fondazione siamo venuti discutendo»; e precisa: «quella che sta nei discorsi, perché non penso che esista da qualche parte sulla terra». Ed è qui che Socrate manifesta il concetto forse più alto e carico di futuro nella lunga storia dei tentativi di dar vita a una società migliore popolata da uomini resi migliori: «Essa [città di cui discorriamo] forse è posta in cielo come un modello [...] offerto a chi voglia vederlo, e - avendolo di mira - insediarvi sé stesso». Si tratta dunque di comportarsi - noi diremmo di "militare" -, per quel che riguarda ogni singolo, come se quella città esistesse. Di qui l'apparente paradosso: insediarsi in una città che non c'è. E l'ulteriore commento chiarificatore: «Non fa alcuna differenza se essa esista da qualche parte o se esisterà in futuro»; l'uomo "nuovo" agirà «solo in vista della politica di questa città, e di nessun'altra» (592b). Il futuro incomincia già oggi se si incomincerà ad agire in conformità di quel «paradigma in cielo», che forse non si attuerà mai nella sua interezza: ma sarà lo sforzo di adeguarsi ad esso che ne determinerà una più o meno parziale attuazione nelle forme e nei limiti "provvisori" inerenti all'agire umano. Fare in concreto la politica della città giusta prima dell'avvento (ipotetico) della città giusta. Chi parla di Platone come "utopista" dovrebbe meditare questa pagina. Essa potrebbe ben definirsi l'archetipo di tutte le forme dell'agire politico incentrate sull'idea-forza che la Kallipolis non si compie mai del tutto ma è alimento di mutamento in meglio. Il futuro non arriva d'un tratto ma si costruisce operando alla luce e avendo di mira un grande paradigma, che a sua volta - mentre si attua la marcia in avanti - si allontana, come la linea dell'orizzonte per chi si muove in mare. Questa straordinaria idea dinamica è alla base di un'altra fondamentale pagina platonica, questa volta dei Nomoi. È la pagina (793b) in cui Platone intuisce e descrive il grande fenomeno dell'evoluzione del diritto: la costituzione "materiale" (le «leggi non scritte»), che prende corpo nell'agire stesso degli uomini, è il "legame" (...) tra le leggi vigenti e quelle future. È una concezione modernissima del diritto come corpo vivente proiettato verso il futuro, come "marcia" dei diritti in un costante divenire. | << | < | > | >> |Pagina 36La numerazione di qualsiasi numero attraverso qualsiasi possibile figura è una rappresentazione artificiale. È un problema di figura: della forma con cui il numero è scritto. Ed è anche un problema di differenza, cioè del riuscire bene a distinguere ogni figura l'una dall'altra. Ma anche di luogo, di locus, perché ogni numero deve poter esser collocato in uno spazio definito... Siete alla metà del XIII secolo e vi trovate a studiare arti liberali all'Università di Parigi; siete dunque circondati da uno stuolo di ragazzini seduti tutt'attorno. Perché a quei tempi si accede alla facoltà attorno ai quattordici anni, con tutto da imparare: il trivium di grammatica, retorica e dialettica; e il quadrivium di aritmetica, geometria, astronomia e teoria della musica. I vostri riferimenti sono naturalmente classici, perché la scuola di Parigi è uno dei più grandi centri del pensiero teologico e filosofico: letteratura latina soprattutto, con in testa autori come Cicerone o poeti come Virgilio, Orazio e Ovidio. E se si tratta di matematica o scienze naturali, allora gli autori di riferimento sono sempre i soliti: Boezio, Plinio e magari Macrobio. Quando contate usate i numeri romani e l'abaco: I, II, III, IV... fino ad ora. Perché quello che state ascoltando adesso vi suona a dir poco nuovo, così nuovo che fate fatica persino a rappresentarlo nella mente:
Nove figure significative dunque, le quali rappresentano nove dita, e che
sono 9, 8, 7, 6, 5, 4, 3, 2, 1. La decima, 0, è chiamata teca, circolo, cifra
[cyfra] o la "figura del niente" [figura nichilis], dato che appunto significa
"niente". Ma a seconda del luogo che occupa conferisce ad altri un significato.
E qualsiasi numero può dunque essere rappresentato da queste nove figure,
aggiungendo una o più cifre dove servano; e rendendo non più necessario trovare
più figure...
Una tale novità che avete bisogno di imparare tutto dalle basi: come si scrivono i numeri, in che ordine si mettono. E soprattutto come usare la cifra: quella cosa che poi si chiamerà zero, ma che ora state imparando che da una parte significa "niente" e dall'altra vi permette di scrivere e pensare più semplicemente qualsiasi numero e qualsiasi calcolo. Sfogliate nuovamente il manoscritto che avete sotto gli occhi ed è a dir poco snello, qualche migliaio di parole in tutto: Algorismus, anche se lo chiamano pure De arte numerandi. L'autore ce l'avete davanti: Johannes de Sacrobosco , un monaco giunto dall'Inghilterra portando con sé una conoscenza che viene da ben più lontano. E voi non lo potete capire fino in fondo, ma in quelle pagine che ora ripetete sforzandovi di usare dieci dita e non più nove, ci sono le basi più concrete su cui la cristianità sta imparando a pensare il futuro.
Ma siccome le innovazioni vengono spesso da lontano
e hanno storie complicate, permettete che ora io faccia un
lungo passo indietro. Sino all'inizio, a un tempo e un luogo
lontanissimi da queste aule di Parigi.
Era forse il III secolo a.C., al tempo dell'imperatore Ashoka, quando in India fecero la loro comparsa i numerali cosiddetti brahmi, scritti da destra a sinistra, che presentavano simboli distinti per 1, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, e le potenze e i multipli di 10 e di 100; con forme già abbastanza simili a quelle dei numerali utilizzati oggi in Occidente. Quel sistema di calcolo continuò ad essere sviluppato, ma su una scala sostanzialmente locale; sino almeno all'VIII secolo d.C., quando l'islam nella sua espansione giunse sino all'India e alle strade dell'Asia centrale. A quei tempi, gli arabi ancora non conoscevano l'uso di simboli per rappresentare i numeri e furono proprio le conquiste e le nuove esigenze amministrative a modificare profondamente la loro cultura. All'inizio fu l'influenza di greci, siriaci, copti a portare le prime innovazioni, facendoli ricorrere alle lettere dell'alfabeto per rappresentare le cifre del sistema decimale. Poi arrivarono ai testi indiani, da cui venne l'introduzione dello zero e della notazione posizionale (il sistema di numerazione in cui i numeri sono espressi mediante un numero finito di simboli, che assumono un valore diverso a seconda della posizione occupata nel numero stesso). La cosa non fu né semplice né immediata: gli scienziati arabi incontrarono notevoli resistenze da parte di scribi e funzionari, ma questa convenzione era talmente semplice ed efficace che finì rapidamente per imporsi. In questa storia il primo autore degno di menzione è Muhammad ibn Musa al-Khawarizmi , che visse nella prima metà del IX secolo. Uno studioso originario della Corasmia, l'attuale Uzbekistan, come dice il suo nome; ma che passò gran parte della sua vita a Baghdad presso la corte del califfo, dove divenne primo astronomo e direttore della biblioteca annessa alla Casa del Sapere, dove a quel tempo convergeva una parte importante dell'attività di studio e di traduzione. Non fu certo l'unico matematico del tempo, ma fu sicuramente tra i più importanti, non solo per i destini di quel sapere nel mondo islamico, ma anche perché sarebbe stata proprio la sua opera a cambiare in gran parte le conoscenze del mondo latino.
[...]
Insomma, non è poi così strano che fosse un mercante il
primo a mostrare l'importanza del nuovo sistema di calcolo e
a introdurre una seria riflessione sullo zero e sulle sue applicazioni. Si
chiamava
Leonardo Fibonacci
ed era nato a Pisa nel 1170 circa, nel pieno di quella nuova spinta commerciale
e culturale che stava attraversando la penisola italiana e buona parte
dell'Europa latina. Ancora bambino aveva accompagnato il padre a Béjaïa, sulle
coste dell'attuale Algeria, dove
lavorava come rappresentante dei mercanti pisani. E là fu
introdotto a quella tecnica di calcolo «per mezzo delle nove
figure degli Indiani», come raccontò egli stesso. Quella tecnica che poi avrebbe
mostrato e illustrato nel suo
Liber Abaci,
pubblicato per la prima volta nel 1202. Un libro che gli diede
così tanta fama da valergli anche l'accesso alla corte imperiale
di Federico II da cui avrebbe ottenuto una rendita vitalizia.
Perché, anche se i numerali indiani erano in realtà già presenti in Occidente da
almeno due secoli, le potenzialità del
loro impiego non erano state né considerate né tantomeno
esplorate. In un certo senso si può dire che sia stato necessario un mercante
per rendere d'un tratto importanti i numeri.
Così eccoli infine fare il loro ingresso anche nelle università, attorno
alla prima metà del XIII secolo, i primi testi che
si proponevano di insegnare la materia agli studenti delle arti liberali. Non
c'era un collegamento diretto con l'opera di
Fibonacci; era più semplicemente il segno di una necessità
che si stava ora diffondendo. Gli
Algorismi,
così spesso si chiamarono questi trattati scritti in latino, contribuirono alla
graduale sostituzione dei metodi basati sull'abaco e sul calcolo digitale con
quello basato sulle dieci cifre. Quello di Alexander de Villedieu, ad esempio:
un poema della matematica,
scritto in esametri e fatto apposta per essere meglio imparato
a memoria dagli studenti. Oppure, per l'appunto, quello di
Giovanni di Sacrobosco, di cui conosciamo poco più che il
nome e la provenienza: un inglese, un certo John of Halifax
latinizzato in Sacrobosco, che sappiamo con buona sicurezza
avere insegnato a Parigi nella prima metà del XIII secolo. Fu
autore anche di altri manuali, tra cui un famoso
Tractatus de Sphaera,
sulla Terra e sul suo posto nell'universo, che avrebbe
avuto una gran fortuna. E poi di molte altre opere didattiche,
tra cui appunto questo suo piccolo trattato sui numeri e sul
contare, questo suo piccolo
Algorismus:
uno stringato manuale, diviso in argomenti:
Numeratio, Additio, Subtractio...
Un testo che avrebbe continuato ad essere impiegato nelle
università per secoli, studiato da generazioni di studenti. Uno
dei manuali di maggior successo sul nuovo modo di contare.
E se adesso tornate all'inizio e rileggete quelle poche righe in cui Sacrobosco ce la mette tutta per spiegare come gestire quei nuovi segni, capirete che è proprio lì la cosa eccezionale. Perché non doveva essere facile per niente, per gli studenti e per gli uomini del tempo, affrontare quel piccolo passaggio: accettare, comprendere lo zero. Perché non c'era nulla di naturale in tutto questo: per gli uomini del tempo dovette essere estremamente difficile penetrare l'astrattezza del sistema posizionale e la difficoltà logica e concettuale di accettare il fatto che lo zero, che in sé rappresenta il nulla, potesse decuplicare il valore di una cifra o di un numero. E forse anche per questo alla fine fu una rivoluzione. Pochi secoli prima il numero occupava un posto marginale nella vita quotidiana, ma a metà del XII secolo era ormai possibile fornire dati numerici in abbondanza e con grande precisione, anche in contesti estranei al calcolo: lo vediamo nelle opere dei mercanti; lo vediamo persino nelle opere degli storici del tempo, come le cronache di Bonvesin de la Riva o di Giovanni Villani. Perché di fatto accadde proprio allora, tra XII e XIII secolo, nel mezzo di quella grande espansione economica e demografica. Quando accanto ai valori religiosi, celesti e tradizionali, fece la sua apparizione sulla scena del mondo una serie di valori essenzialmente terreni. E quello che ne risultò, come disse una volta il grande Jacques Le Goff , fu per l'appunto una sorta di invenzione o reinvenzione del futuro. E il centro e il motore di tutto questo fu proprio la città, luogo di produzione e di scambi; spazio dell'azione e dell'affermazione di una classe nuova: quella borghesia che mostrava una convinta propensione alla riuscita e alla felicità su questa terra. Nel suo ordine, nella necessità di pianificazione, nella bellezza dei palazzi, nel nuovo realismo delle sue pitture, la città mostrava quanto essa e i suoi abitanti fossero orientati verso un avvenire sempre più terreno. E la matematica usata dai mercanti e dagli uomini di scienza si dimostrava come il necessario fondamento di quella scommessa. Calcolare era prevedere, alimentare operazioni, mettere in piedi imprese. In una parola, calcolare era anche imparare a contare sul futuro. | << | < | > | >> |Pagina 100Il Manifesto del partito comunista non ci propone di immaginare il futuro. Marx ed Engels ci dicono che il futuro è nelle cose, per questo è razionale desiderarlo. Il dualismo presente/futuro non ha dunque senso. Se ragionassimo secondo questa cesura saremmo condannati o a desiderare l'impossibile o a subire la maledizione di Adamo e accettare la sofferenza e la povertà come punizione divina. Il Manifesto ci dice che noi ci diamo i compiti che possiamo risolvere. "Noi", non come singoli o un aggregato di individui, ma come classe determinata da un processo economico.
Il
Manifesto
è uno straordinario documento di attivismo
politico necessitato ed entusiastico. Così venne inteso dagli
ammiratori e dai critici. «La data memorabile della pubblicazione del
Manifesto dei comunisti
(febbraio 1848) ci ricorda il nostro primo e sicuro ingresso nella storia»,
scriveva il filosofo materialista
Antonio Labriola
nel 1895; «A quella data si misura il corso della
nuova èra,
la quale sboccia e sorge,
anzi si sprigiona e sviluppa dall'èra presente, per formazione
a questa stessa intima ed immanente, e perciò in modo necessario e
ineluttabile». Per Labriola, era chiara la scansione
della temporalità del comunismo: era sbocciato in un presente determinato da un
passato gravido di futuro. La storia
non fa salti; è determinazione necessaria e per questo capace
di infondere la certezza nell'azione politica, la fiducia che
sacrifici, lotte e repressioni non saranno vani, scriveva
Carlo Rosselli
in
Socialismo liberale
(1930).
Karl Marx
[...] Il Manifesto ci consegna due futuri: nel primo capitolo, quello della lotta tra borghesi e proletari che denota l'età del capitalismo imperante; nel secondo, quello della lotta proletaria rivoluzionaria per il comunismo. Di questi due futuri, il primo corrisponde al nostro presente. La globalizzazione capitalistica è il nostro presente; un presente così lungo da aver minato l'idea stessa del secondo futuro, quello della trasformazione. Viviamo come in un presente eternizzato che ripete sé stesso con crescente velocità. È questo a cui implicitamente ci riferiamo quando parliamo oggi di "pensiero unico", di "presentismo", di "fine della storia". La dilatazione del presente capitalistico è quel che del Manifesto oggi abbiamo: un capitolo della trasformazione globale del sistema che sembra aver divorato il futuro. Il capitalismo globale trionfante che dà al mondo un'unica lingua, un'unica cultura morale ed estetica, che sposta persone e cose annullando il significato e la razionalità dei confini nazionali, delle tradizioni e della sovranità politica, ci mette davanti a un bivio, quello tra Mandeville e Marx. Per entrambi questi autori, la società civile è culla del progresso e dell'arricchimento sulla base della disuguaglianza; per entrambi, la cultura dei diritti ha essenzialmente solo la funzione di aprire enormi praterie all'incivilimento per mezzo dei "vizi privati". Nella Favola delle api (1723) di Mandeville, la ricchezza nasce inevitabilmente dalla povertà, la prosperità dal lavoro salariato; il benessere delle nazioni è misurato dalla massa dei poveri laboriosi che faticano senza aspirare ad investire in bellezza e cultura, merci di lusso non a buon mercato. La civilizzazione per mezzo dello sfruttamento (come la religione) non serve altro che a lenire il senso disperante di non aver altro che la propria miseria. Cinica civilizzazione, che toglie il ricovero all'anima, squarcia il velo della divinità e lascia i milioni di Sisifo in perenne e fatale sottomissione a un immutato Prometeo, la tecnica e la scienza appunto, i mezzi di incivilimento attraverso l'oppressione dei molti. Infatti, senza la certezza di un futuro contenuto nel ventre del presente, il presente diventa la nostra dannazione perché il capitalismo globale ci regala una sola speranza, quella di stare dalla parte giusta per fortuna, lotteria o caso. Il Manifesto getta discredito sulla fortuna, la lotteria e il caso. Propone un'alternativa a Mandeville. E infonde una granitica certezza: che avremo un futuro da umani. Per quali vie, in quali modi, con quali strumenti? [...] Nel nostro tempo che sembra aver eternizzato il primo capitolo del Manifesto abbiamo davanti a noi due opzioni, quella di Mandeville e quella di Marx: una storia di sfruttamento e di ricchezza che si ripete quasi sempre uguale perché l'antropologia non cambia; e una storia di sfruttamento e di ricchezza che non si ripete sempre uguale perché gli umani dopo tutto non possono evitare, come diceva Rousseau , di perfezionarsi e, così facendo, scompaginano la loro stessa antropologia e il corso delle cose, creano senza premeditazione crepe nel sistema. Dunque, pur senza determinare il corso del futuro secondo un disegno politico astratto, vale il detto per cui il diavolo si annida nei dettagli. Una sola scintilla può produrre grandi e diffusi incendi, si legge nel De rerum natura - un testo conosciuto e amato da Marx. | << | < | > | >> |Pagina 107Tipo complicato, Charles Darwin. È lui che ha disincagliato gli esseri viventi dalle secche immobili delle teorie creazioniste, per immergerli nell'evoluzione, cioè nel flusso del tempo. Eppure con il tempo, e in particolare con il futuro, Darwin non aveva un rapporto semplice. [...] Darwin lo sa bene. Sa anche che ogni pecca della sua teoria verrà usata per screditarla in blocco. Quindi, bisogna evitare il più possibile affermazioni facili da smentire: a cominciare da quelle più aleatorie, sul futuro. Nell' Origine delle specie Darwin mette sempre in chiaro fino a dove arrivano i risultati sperimentali e dove cominciano le sue riflessioni; un conto è quello che si vede, un conto è quello che si pensa; mai confondere i due piani, perché quello che si pensa può essere confutato, quello che si vede no, al massimo interpretato diversamente. È anche grazie alla sua prudenza, o (e forse è lo stesso) alla sua fenomenale capacità di riconoscere il confine fra ciò che sappiamo e ciò che non sappiamo, e rispettarlo, che Darwin costruisce la spina dorsale del pensiero biologico contemporaneo. La biologia moderna è molto più del darwinismo, e nell'ultima secolo e mezzo ha fatto passi da gigante. Ma il dibattito sull'evoluzione delle nuove varianti del coronavirus Sars-Cov-2, su quale sia la strategia migliore per arginarle, e anche sul perché un piano di vaccinazioni mal concepito possa far diffondere le varianti più pericolose a scapito delle altre, si svolge tutto all'interno dell'ambito concettuale definito e sviluppato da Darwin, che pure non poteva neanche sospettare l'esistenza dei virus, dell'Rna e del Dna. Intendiamoci: Darwin fa anche errori, per esempio non capisce in che modo si trasmetta l'informazione ereditaria. Ma sono errori che non riguardano e non minano le fondamenta della sua teoria. Darwin si attiene a quello che può dimostrare; dove non ha dati, lo ammette; dove serve, avanza ipotesi, proponendo al tempo stesso esperimenti che potrebbero confermarle o smentirle; e in caso i futuri esperimenti le smentiscano, si preoccupa di proporre piccole correzioni che permetteranno, anche nel caso più sfavorevole, di salvare il corpo centrale della sua teoria, modificandone qualche aspetto marginale. Un atteggiamento pragmatico, certo, ma anche etico. Darwin è consapevole dei limiti della conoscenza scientifica, oltre i quali non ci si può, e certamente non si deve, spingere; e il futuro degli organismi viventi sta oltre quei limiti. Quarant'anni dopo la sua morte, Ludwig Wittgenstein, anche lui passato per l'Università di Cambridge, nell'ultima delle sette asserzioni principali del suo Tractatus logico-philosophicus dirà lo stesso: «Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere». | << | < | > | >> |Pagina 185| << | < | > | >> |Pagina 237In The End of Eternity (1955), Isaac Asimov racconta che a un certo punto gli esseri umani conquistano il controllo del tempo. Grazie a questo, gli «Eterni» - una casta maschile di tecnocrati semimonastici che si riproduce per cooptazione - si assumono la responsabilità di intervenire con calcolati «Cambiamenti di realtà» per garantire «la felicità di tutti gli esseri umani». Tutto salta grazie a una storia d'amore: Andrew Harlan, un tecnico addetto ai Cambiamenti, si innamora di Noÿs Lambert, che crede appartenente al Tempo ordinario e si rivela invece proveniente da un futuro ulteriore e un'umanità più evoluta. Lei gli rivela che il controllo che l'Eternità esercita sul tempo, riscrivendo a piacimento passato e futuro, impedisce il libero sviluppo del genere umano e la conquista dello spazio e lo induce ad approfittare di una circostanza eccezionale e degli strumenti di cui dispone per far saltare il sistema: E mentre Noÿs si abbandonava al suo abbraccio, venne la fine, la fine definitiva dell'Eternità - E l'inizio dell'Infinito. [...] Ha scritto Daniel Defoe che «nessuno può scrivere la propria vita interamente fino alla fine, a meno che non vogliamo che la scriva una volta morto». Il fatto che "dopo" gli eventi narrati ci sia qualcuno che li racconta è segno che, quali che siano gli sconvolgimenti immaginabili, pure qualcuno resterà vivo per raccontarceli, come Ishmael alla fine di Moby Dick. Possiamo stare tranquilli: l'umanità non si estinguerà. In realtà, in The End of Eternity, Asimov menziona un futuro remotissimo in cui il sistema solare si estinguerà e l'umanità potrebbe non esserci più; ma tra íl tempo raccontato nel romanzo e quella finale apocalisse stanno millenni in cui neanche gli Eterni possono entrare: la fine dell'umanità, insomma, non è narrabile. Il futuro ci sarà sempre. Il problema è: quanto sarà diverso? Prendiamo Foundation , forse il capolavoro di Asimov: «Lynar Popnet era tutto coperto di sapone quando arrivò la telefonata - il che dimostra che la vecchia storia sulla relazione tra il telefono e la vasca da bagno è valida anche nell'oscuro, aspro spazio alla Periferia della Galassia». Poco prima, nello stesso libro: «L'ambasciatore ad Anacreon comprò l'edizione della sera del Quotidiano di Terminus, si infilò nel parco comunale e, seduto sulla prima panchina libera, si lesse la pagina politica, la pagina sportiva e la rubrica dei fumetti». Non è solo Asimov. Prendiamo l'inizio di un'altra epopea del futuro, Guerre stellari. Siamo a casa di Luke Skywalker, in cucina. In primo piano, la zia dell'eroe taglia i finocchi per metterli nella pentola (kettle?) sul fornello acceso. Non sono dettagli buttati lì per caso, ma segnali intenzionali. Ha scritto Northrop Frye che l'utopia (ma anche la distopia) letteraria si costruisce in primo luogo attraverso comportamenti ordinari, atti comuni che mostrano i caratteri sociali che l'autore vuole sottolineare. In questo caso, gli atti sociali significativi servono a rassicurarci: può succedere di tutto, traumatici sconvolgimenti a scala dei millenni o delle galassie che metteranno a rischio la sopravvivenza stessa dell'umanità, ma le cose importanti davvero, le strutture profonde della vita quotidiana - quello che succede in cucina e in bagno, o nelle pause della grande storia - restano solide. Anche nei futuri millenni gli eroi avranno le zie e le zie faranno il minestrone, suonerà il telefono mentre sei sotto la doccia, leggeremo ai giardinetti giornali che magari non saranno fatti di carta ma saranno organizzati allo stesso modo attorno alle stesse notizie. Soprattutto, non cambieranno le emozioni umane: amore, odio, gelosia, invidia, ambizione, avidità saranno le stesse. Le famiglie del futuro sono quasi sempre famiglie nucleari, e se l'umanità non si estingue è perché gli esseri umani continueranno a riprodursi più o meno come hanno sempre fatto (in The End of Eternity si accenna a una gravidanza e un parto che avvengono più o meno come adesso); le famiglie sono per lo più nucleari, gli amori sono di coppia e generalmente eterosessuali. In The End of the Eternity sarà proprio questa permanenza del presente, una normale storia d'amore fra un uomo e una donna, che farà saltare tutto l'edificio.
[...]
I1 conflitto fra sicurezza/rischio, individualità/progresso, pianificazione autoritaria/anarchia del capitale è un tema ricorrente in Asimov: la claustrofobica società di massa (The Caves of Steel, 1953), il welfare state rooseveltiano, i piani quinquennali sovietici sono tutte forme in diversa misura distopiche di amministrazione e programmazione centralizzata del futuro e soffocamento dell'iniziativa individuale (l'alternativa rappresentata dalla conquista dello spazio evoca, naturalmente, l'espansione e la conquista del West: siamo dieci anni prima dell'elezione di Kennedy ma Asimov già prefigura lo spazio come «nuova Frontiera»). Sarà l'eccesso di sicurezza, l'assenza di pericoli e rischi, a rallentare l'evoluzione del genere umano e a causarne l'estinzione finale. Come sottolinea Andrew Harlan, pianificando e regolando il futuro, gli Eterni hanno «bred out the unusual» (p. 183), hanno annullato geneticamente quella qualità che, secondo Asimov, distingue gli esseri umani dalle macchine: l'imprevedibilità.
La storia in cui un individuo - quasi sempre marginale,
irregolare, trasgressivo, addirittura «criminale» (come dice
Andrew Harlan di sé stesso) - salva il mondo facendo saltare
una distopia totalitaria è un
topos
classico della fantascienza; ma è interessante il fatto che, in questa
letteratura del futuro, l'alternativa alla distopia non è un altro, più libero
mondo nuovo, ma una restaurazione del presente. Non c'è uscita "a sinistra"
(tutti i regimi immaginati dalla fantascienza
sono tecnocrazie, dittature, imperi - mai una democrazia).
Dall'incubo o non si esce (
George Orwell
,
1984;
J.G. Ballard
,
Condominium
) o se ne esce a ritroso. In
Guerre stellari,
l'alternativa al metallico pianeta della morte sono le incontaminate foreste dei
pianeti liberi (con i teneri silvani Ewok come alternativa ai metallici
impersonali guerrieri robot dell'Impero); in un altro romanzo sul tempo (
The Time Hoppers
di
Robert Silverberg
, uscito in Italia col titolo
Quellen, guarda il passato!),
l'eroe fugge da una distopia paternalistica e dai
«grattacieli delle città ammassati l'uno in fila all'altro» per
rifugiarsi nel verde idillio di un'Africa antica". In
The End of Eternity,
quello che farà saltare la claustrofobica Eternità e
ci riaprirà la via delle stelle non è una visione del futuro, ma
una memoria del passato: è grazie alla sua conoscenza della
storia dei secoli "primitivi" (cioè i nostri) che Andrew Harlan
troverà la chiave per far ricominciare la storia.
Per liberare l'umanità dal peso dell'Eternità, è necessario un ultimo Cambiamento di realtà, un'ultima interferenza che non solo cancelli l'Eternità ma renda impossibile inventarla: «Nient'altro che una lettera a una penisola chiamata Italia», spiega Noÿs; «se spedisco la lettera, un uomo in Italia comincerà a fare esperimenti sul bombardamento neutronico dell'uranio». Noÿs parla nel 1932, ma Asimov scrive nel 1955, dopo Hiroshima. La salvezza dell'umanità, la via delle stelle, passa per il nucleare. L'unica storia non solo possibile ma desiderabile è quella che c'è, coi giornali della sera nei giardinetti e le bombe atomiche nei laboratori. È l'estrema affermazione del presente come utopia; ma c'è qualcosa di più. Ultima pagina, le parole finali di Noÿs a Harlan, la morale della storia. L'Eternità scompare, gli dice: «ma noi resteremo e avremo figli e nipoti, e l'umanità vivrà fino a raggiungere le stelle» (p. 189). Avremo figli... immagino che Noÿs partorirà con gran dolore. Proprio nel momento in cui la Storia ricomincia da capo, ci accorgiamo che si ripete: è già successo che una coppia umana sia uscita, portando con sé una conoscenza proibita, da un Eden eterno e protetto, per dare vita all'umanità che conosciamo. È quel pensiero ai limiti dell'eresia che negli Stati Uniti chiamano Fortunate Fall: la felice caduta (felix culpa) grazie alla quale siamo umani. Forse Asimov non ragionava in termini direttamente teologici, ma il senso è lo stesso: è nel mito delle origini che sta la garanzia della storia e del futuro dell'umanità. | << | < | > | >> |Pagina 281È il 1978 quando Joyce Lussu pubblica L'uomo che voleva essere donna. Diario femminista a proposito della guerra. Si tratta di un agile pamphlet che completa un percorso iniziato da altri due titoli: Padre, padrone, padreterno. Breve storia di schiave e matrone, villane e castellane, streghe e mercantesse, proletarie e padrone (1976) e L'acqua del 2000. Su come la donna, e anche l'uomo, abbiano tentato di sopravvivere e intendano continuare a vivere (1977). Come negli altri due che lo hanno preceduto, in questo piccolo libro Joyce Lussu affronta temi all'epoca abbastanza inediti e lo fa in modo molto radicale, riflettendo criticamente in una prospettiva storica ma con una grande adesione anche al suo presente e con una proposta per il futuro. Come si pongono le donne rispetto al tema della pace, che ruolo hanno durante una guerra, come possono agire in politica rispetto all'assetto militare, perché si disinteressano al problema delle armi? Queste sono le domande intorno a cui riflette l'autrice. Di originale non c'è solo la discussione ma anche la forma del libro, che, come spesso accade negli scritti di Joyce Lussu, parte dalla sua esperienza di lotta partigiana, dal suo vissuto. Dalla sua storia di donna che ha fatto la guerra di liberazione contro il nazifascismo e che per il resto della vita ha continuato a lottare per la pace, la giustizia e la libertà. Di tutti.
[...]
Alla protesta, Joyce Lussu affianca sempre la proposta: «Io negli anni Settanta ho avuto l'occasione di poter assistere a una cosa straordinaria: il sorgere di una nuova società. Quando vai in giro con dei guerriglieri che stanno lottando per l'indipendenza del proprio paese e ti trovi dinnanzi alla liberazione di un territorio, la prima questione, la più urgente, è come amministrarlo [...]. Vengono poste le questioni dell'economia, delle scuole, e lo si fa a voce, discutendo tutti insieme, senza penne e senza carta». Joyce ne ricava una lezione straordinaria: «Ciò a cui ho avuto occasione di poter assistere è anche la dimostrazione che l'essere umano non premuto da mille paure immesse in modo artato nella gente per fargli fare quello che vuoi, posto nella condizione di decidere, decide assai bene! Sono cose magnifiche. Vedere tutto questo era, per me, un continuo riprendere fiducia nell'umanità». C'è ottimismo, in Joyce Lussu, non ci sono illusioni perché non ce n'è bisogno: «C'è già abbastanza positivo nel reale, per impedire di perderti nelle illusioni». Gli interlocutori possibili sono tutti degni. Sono i bambini e i ragazzi con cui ama rapportarsi nei tanti incontri nelle scuole, con cui parla di ambiente e futuro. «Noi siamo, in certo modo, i partigiani della natura, è questa la nostra nuova resistenza.» Lo dice da sempre, da quando ancora in Italia nessuno si poneva il problema della cementificazione e del depauperamento dell'ambiente per azione del capitalismo, da quando parla in maniera profetica (vera sibilla!) della privatizzazione dell'acqua. «L'aggressione alla natura è un'aggressione a noi. I nostri politici parlano di tutto fuorché di questo. Finché non trovo qualcuno che mi parla dei veri problemi che abbiamo oggi - la desertificazione che avanza e la guerra che incombe - il resto è davvero ben poca cosa. L'attuale politica occidentale fatta tutta di parole, mi pare che con la politica non abbia nulla a che fare: è un gioco tra il commerciale e l'astratto.» | << | < | > | >> |Pagina 297La crisi climatica è una crisi (krisis), e come tale segna una cesura, temporale ma anche di paradigma, quindi una scelta. Dal percorso di ricerca del nuovo paradigma che i Fridays for Future stanno compiendo emergono i "beni comuni", ovvero risorse accessibili a tutti senza restrizioni e indispensabili sia alla sopravvivenza umana che all'attuazione dei diritti inviolabili della persona. Il crescente dibattito sulla crisi climatica ha reso il tema dei beni comuni nuovamente attuale in rapporto a questioni come la tutela degli ecosistemi o la perdita della biodiversità. I beni comuni sono risorse comunitarie percepite come espressione di valori e princìpi condivisi da una collettività, classificate secondo due criteri: naturalità/artificialità e materialità/immaterialità. Lo spazio di attributi definito dall'incrocio di questi due criteri dà luogo a una tipologia: 1. beni comuni naturali e materiali (es. acqua, boschi); 2. beni comuni artificiali e materiali (es. reperti archeologici o opere artistiche); 3. beni comuni naturali e immateriali (es. energia, etere);
4. beni comuni artificiali e immateriali (es. conoscenza, rete).
Quando si parla di beni comuni si fa spesso riferimento al biologo e genetista Garrett Hardin, e in particolare a un suo articolo che ha a lungo ispirato l'economia ambientale, La tragedia dei beni comuni, apparso su «Science» nel 1968. In quel testo Hardin sosteneva che se un bene è liberamente accessibile ci sarà sicuramente qualcuno che vorrà appropriarsene per trarne il massimo beneficio personale, provocando una devastazione del bene a discapito di tutti coloro che ne usufruivano. Una seconda possibilità valutata da Hardin, che riteniamo allo stesso modo dannosa, vedrebbe un solo soggetto assumersi il compito e il costo del mantenimento del bene, di cui anche gli altri si possono appropriare. Il problema che Hardin aveva lanciato su «Science» si risolveva così nelle privatizzazioni, cioè nel far coincidere i possessori del bene con i suoi gestori. Due le vie possibili: inserire i beni comuni nel mercato, con il costoso controllo burocratico degli appropriatori e il rischio che le regole funzionino solo sulla carta, e il sistema in cui è lo Stato ad amministrare i beni, garantendo delle regole adeguate e delle sanzioni contro il loro mancato rispetto. Il modello di Hardin, che considera i consumatori come agenti razionali (e per questo è stato molto criticato), aventi informazione completa e ognuno con una strategia dominante, è stato associato all'esperimento matematico noto come il "dilemma del prigioniero". È grazie al lavoro di Elinor Ostrom, economista premio Nobel proprio per il suo libro del 1990 Governing the Commons ( Governare i beni collettivi), che ci si è liberati finalmente dell'idea che i beni comuni siano una "tragedia". Il lavoro di Ostrom si concentra su un fatto trascurato da Hardin, ossia che non esistono solo lo Stato e il mercato, ma anche chi utilizza il bene, la community, comunità: una nuova forma di governance volta all'auto-organizzazione nella gestione del bene da parte di chi ne usufruisce. La community si prospetta come una terza via possibile, un'alternativa di "successo" che trova nell'equità e nella sostenibilità le proprie regole cooperative. Proprio grazie a fiducia, affidabilità e reciprocità, le comunità locali seguite da Ostrom sono riuscite a evitare conflitti e a raggiungere accordi per l'utilizzo sostenibile, nel tempo, delle risorse, con l'aiuto di adeguate istituzioni. Diverse comunità locali prese in esame nei suoi studi sono ancora oggi presenti e adottano le stesse modalità di gestione della risorsa che l'economista aveva analizzato facendo riferimento al loro grado di successo o insuccesso. L'alternativa gestionale che propone Ostrom si basa sui seguenti assunti: controllo mutuale (che abbatte i costi), centri di piccola scala (principio di località), processi trial and error per supplire alla mancanza di conoscenza, correzioni dei bias che portano a considerare solo il futuro immediato, e comunicazione degli attori, non più "prigionieri". Il lavoro sul campo di Ostrom trovò una forma euristico-operativa in otto princìpi progettuali: 1. confini chiaramente definiti (dei contenuti del bene comune e degli attori che hanno diritto a parteciparne); 2. regole sull'appropriazione e l'offerta delle risorse comuni, adattate al contesto locale; 3. partecipazione della maggior parte dei membri nei processi decisionali; 4. monitoraggio da parte dei membri o di persone alle quali devono rendere conto; 5. sanzioni progressive per chi viola le regole della comunità; 6. meccanismi di risoluzione dei conflitti di facile accesso; 7. autodeterminazione della comunità, riconosciuta dalle autorità; 8. organizzazione in livelli multipli di imprese annidate, con beni comuni più piccoli al livello base, nel caso di grandi beni comuni. [...] Negli anni successivi, l'analisi ecologica e la discussione pubblica in merito sono progredite, seppure in maniera molto diseguale nei vari paesi. Tappe ideali di questo percorso sono spartiacque istituzionali, anche se spesso inapplicati o lontani dal pensiero comune, come il rapporto del Club di Roma I limiti dello sviluppo , il rapporto Brundtland Our Common Future, i protocolli di Kyoto e gli Accordi di Parigi sulla base del quinto rapporto dell'Ipcc ( Intergovernmental Panel on Climate Change ). L'evoluzione storico-concettuale ha visto spostare la narrativa da un discorso sui limiti del pianeta a uno sul giusto impiego e sulla giusta distribuzione delle risorse, nel rispetto delle generazioni future in un'ottica generalizzata di de-consumo, ma ha anche visto variare il metodo, che dalle linee guida top down dei protocolli, rivolte ai singoli paesi, è diventato il sistema bottom up degli Accordi di Parigi, che sanciva la necessità di comprendere i benefici della transizione ecologica nei territori. L'attuale assetto, seppur in modo ancora troppo debole, va quindi nella direzione tracciata nel 1990 da Ostrom, con processi decisionali partecipativi e decentrati, applicati e applicabili in maniera adattiva ai vari territori ed esigenze. In Italia è da segnalare il lavoro della Commissione Rodotà, istituita nel giugno 2007 allo scopo di proporre una legge delega di riforma del terzo libro del codice civile italiano (Della proprietà) nelle parti relative alla proprietà pubblica. Nacque in quella sede la definizione di un nuovo tipo di beni, accessibili a tutti, declinanti la logica dell'inclusione, estranea a quella della proprietà privata che concentra il potere nelle mani di un soggetto sovrano, sia esso pubblico o privato. Come nella definizione di Ostrom, il bene comune non è a consumo rivale; la sua forza sta proprio nella condivisione in chiave relazionale, quindi ecologica. Tale nuova categoria fu riconosciuta dalla Corte di cassazione, il che giovò alla battaglia sui beni comuni che culminò nel 2011 con il referendum consultivo sulla gestione pubblica dell'acqua e il nucleare: preceduto da un'enorme mobilitazione, il referendum conseguì un'insperata vittoria e una successiva mancata attuazione della deliberazione popolare. Il referendum fu la dimostrazione di un problema che interessa la democrazia a tutti i livelli, dovuto al modello centralizzato e gerarchico delle strutture politiche e delle strutture gestionali, pubbliche o private che siano: il problema della concentrazione del potere. Con questo, evidenziò - aspetto che forse più manca al testo di Ostrom - la necessità di un cambiamento politico complementare a quello economico, che non deve avvenire soltanto in un'ottica neoistituzionalista. Negli anni successivi, al contrario, la narrazione prevalente ha continuato a favorire il passaggio alla gestione privata in diverse forme, alcune ricche di ambiguità come partenariati e "multiutility" . Tuttavia, sperimentazioni gestionali alternative sono possibili, ed evidenziano la possibilità di ricomporre la krisis attraverso forme che tengano assieme giustizia sociale e scienza critica, quest'ultima nell'accezione weberiana di piena realizzazione dell'uomo tramite una ridefinizione del tempo di vita. Solo ciò permetterà la pensabilità rinnovata del futuro e cioè di una futuribilità che sia sinonimo di sostenibílità. A questa consapevolezza va unita quella che la realizzazione dei beni comuni è una sfida ormai globale e che essa può confliggere con gli attuali ordinamenti europei e dunque con il principio, molto contestabile e contestato, della piena concorrenza. Il tema rimane irrisolto già in Governing the Commons, con la parziale e nebulosa soluzione dei sistemi annidati; sapendo che le forme qui presentate sono le più compatibili per un'ecologia integrale, è fondamentale trovare le strategie di applicazione dei beni comuni su scala globale, tenendo presente che la loro natura è di essere perennemente sperimentali e in tensione verso un riconoscimento sociale. | << | < | > | >> |Pagina 339Non amano essere chiamati "futurologi"; preferiscono "futuristi", a costo di creare confusione con la corrente artistica del primo Novecento, ma in analogia con il termine inglese futurists. Tuttavia, la definizione migliore è "studiosi di futuri". Al plurale, perché più spingiamo avanti lo sguardo nei mari inesplorati di questo secolo, più i possibili scenari si moltiplicano. È ovvio che il futuro è sempre inesplorato, ma in certe epoche appariva molto simile al presente, semmai un po' migliore, mentre oggi è pieno di incognite che fatichiamo a immaginare. È la differenza tra navigare in un mare tranquillo, con un tempo limpido che ti consente di spingere lo sguardo fino all'orizzonte, e trovarsi invece a reggere la barra in mezzo a una "tempesta perfetta", per usare il termine coniato da John Beddington, col rischio di procedere senza alcuna visibilità. E magari di andare a fondo. Rimaniamo nella metafora del navigante. Quali strumenti abbiamo per avanzare in queste acque difficili? Come essere sicuri di non trovare altri scogli ("cigni neri", se si vuole cambiare metafora) contro cui andare a sbattere, come è successo con la pandemia da Covid-19? A differenza del passato, qualche attrezzo per guardare al futuro ce l'abbiamo: proviene dalla statistica e dagli impegni di governance globale. Innanzitutto, le previsioni demografiche, perché il numero degli adulti di domani è già scritto nel numero dei bambini nati oggi. Anche in economia, pur con qualche topica, possiamo fare previsioni più o meno attendibili. Possiamo immaginare quale presumibilmente sarà il Pil di Cina o Stati Uniti tra dieci anni. Abbiamo proiezioni sulla dinamica del riscaldamento globale, sul consumo delle materie prime, persino sul peso della plastica negli oceani che, continuando così, a metà secolo potrebbe superare quello dei pesci. Manca invece una modellistica sociale: non sappiamo quando una situazione di disuguaglianza arriva al punto da far esplodere un paese; se le persone saranno davvero più felici in quel mondo sostenibile che tutti auspichiamo per non dover emigrare (in pochi) su un altro pianeta. E non siamo in grado di prevedere i salti tecnologici: gli scrittori di fantascienza di cinquant'anni fa non immaginavano il nostro accesso alla cultura universale attraverso Internet. Oggi non sappiamo se l'uomo manterrà il controllo sul suo destino o lo delegherà alle macchine, come paventato o auspicato da più parti. [...] Man mano che si allunga la vista a traguardi più lontani, il panorama diventa meno chiaro, le forchette di previsioni si divaricano, gli scenari si moltiplicano: da quelli catastrofici, di chi afferma che abbiamo già superato alcuni tipping points ("punti di non ritorno") soprattutto in materia climatica e quindi dobbiamo prepararci al peggio; a quelli più ottimisti, che confidano in un rapido progresso tecnologico per affrontare le sfide che oggi non hanno soluzione. Per esempio, se si parla di crisi climatica, sappiamo che il riscaldamento medio del pianeta progredisce a un ritmo che entro il secolo porterà ben oltre il limite di un grado e mezzo, massimo due gradi centigradi, proclamato a Parigi, con conseguenze catastrofiche delle quali già avvertiamo le avvisaglie: aumento dei fenomeni meteorologici estremi, scioglimento dei ghiacciai, innalzamento dei mari. I tecnottimisti, però, confidano nella carbon capture, cioè nelle innovazioni tese a catturare rapidamente dall'atmosfera l'anidride carbonica responsabile di gran parte dell'effetto serra. O addirittura ipotizzano fantascientifici piani di geoingegneria per schermare la Terra dall'eccesso di raggi solari: soluzioni comunque costose, per le quali non si investe abbastanza, e secondo alcuni esperti anche pericolose. Altre incognite sono legate agli effetti che può avere sul pianeta non solo la crescita della popolazione, ma anche la diffusione dei modelli di consumo una volta riservati ai paesi più ricchi. Se in passato si parlava di end of oil, cioè del rischio di esaurimento delle riserve di petrolio, che invece probabilmente rimarranno in parte sottoterra per la necessità di sostituire i combustibili fossili con fonti rinnovabili, oggi si comincia a parlare di end of everything, cioè di una generalizzata scarsità di risorse, a cominciare dall'acqua potabile, fino alle "terre rare" e ai minerali necessari per i nostri telefonini, i pannelli solari e le batterie di nuova generazione. Una crisi che potrebbe non solo accentuare le disuguaglianze tra chi ha e chi non ha, ma anche scatenare terribili conflitti geopolitici. È molto difficile immaginare i possibili scenari al 2050. Un giovane studioso norvegese, Jorgen Randers, partecipò alla stesura del Rapporto sui limiti dello sviluppo del 1972, commissionato al Massachusetts Institute of Technology dal Club di Roma guidato all'epoca da Aurelio Peccei. Quarant'anni dopo, Randers ha proiettato lo sguardo più avanti di altri quarant'anni, prevedendo per il 2052 un lento degrado, anche se si riuscirà a evitare terribili catastrofi, tanto da concludere il suo volume con una serie di consigli pratici del tipo «Andate a vivere in alto, perché le coste saranno sommerse dai mari» e anche «Insegnate ai vostri figli ad amare i videogiochi, perché la natura come noi la conosciamo sarà praticamente scomparsa».
In aggiunta alle incognite relative al clima e alla biosfera,
ci sono poi quelle sociali. Dobbiamo prevedere migrazioni di
centinaia di milioni di persone che dovranno abbandonare le
loro terre (a cominciare dall'Africa subsahariana, a noi così
vicina) a causa della desertificazione o della scomparsa di interi
arcipelaghi. Dobbiamo affrontare il tema del futuro del lavoro:
che fare di miliardi di persone "inutili" se le macchine sostituiranno l'uomo in
moltissime produzioni e anche nei servizi?
Difficile che la risposta sia quella ipotizzata quasi un secolo fa da
John Maynard Keynes
, che immaginava un'umanità dedita
alle attività del tempo libero. Per arrivarci, ammesso che sia
possibile, si dovranno risolvere i problemi della ripartizione
del reddito e anche dell'equilibrio sociale, perché il lavoro non
è solo diritto a una remunerazione (che magari si potrebbe
risolvere con le ipotesi di un salario universale), ma è anche
status e orgoglio di appartenere a una comunità. E si potrebbe
continuare con tanti altri problemi irrisolti.
Guardando ancora più avanti, oltre il 2050, tutto appare incerto e misterioso, anche se pieno di fascino, come per l'Ulisse di Dante era ignoto ma irresistibile il mondo oltre le colonne d'Ercole, dove compì il suo ultimo viaggio. Forse nella seconda metà del secolo, superata la "tempesta perfetta" di questi decenni, la vita dei nostri nipoti potrebbe prospettarsi più serena. Già, ma come saranno i nostri nipoti? Saranno ancora in grado di autodeterminarsi o avranno ormai delegato in modo irreversibile alle macchine il governo del mondo, in quella «età della singolarità» ipotizzata dal capo dei tecnologi di Google Ray Kurzweíl? E ancora: quanto vivranno le persone, se le ricerche biologiche, oltre ad estendere la vita in buona salute sconfiggendo tante malattie, avranno risolto il problema stesso dell'invecchiamento delle cellule che finora impedisce all' homo sapiens di superare la soglia dei 110/120 anni? E non saranno essi stessi cyborg, innesti tra uomini e macchine, magari in conflitto tra "potenziati" in grado di comunicare telepaticamente e di vivere senza dormire e "naturali" che rifiuteranno questo cambiamento della specie umana? Arrivato nel 2019 alla bella età di cent'anni, un grande futurist, James Ephraim Lovelock , ha predetto in un suo volume che l'Antropocene sarà presto sostituito dal Novacene. La breve èra geologica (il termine Antropocene si affermò nel 2000 grazie al chimico Paul J. Crutzen ) nella quale l'uomo determina le condizioni del pianeta soccomberà a un'altra èra nella quale soggetti oggi inimmaginabili, incroci tra uomini e macchine, magari componenti di una intelligenza collettiva, domineranno íl mondo per salvarlo dai disastri che stiamo combinando. Si può evitare di arrivare a questo punto? Forse dipende ancora da noi. | << | < | > | >> |Pagina 359Giulio Azzolini Silvia Ballestra Alberto Mario Banti Guido Barbujani Luca Barra Lorenzo Benadusi Giovanni Bietti Piero Boitani Emily Braun Luciano Canfora Eva Cantarella Daniela Cardini Franco Cardini Michele Ciliberto Simona Colarizi Gherardo Colombo Alberto Crespi Juan Carlos De Martin Costantino D'Orazio Franco Farinelli Amedeo Feniello Maurizio Ferraris Maurizio Ferrera Anna Foa Antonio Forcellino Emilio Gentile Roger Griffin Claudio Longhi Enzo Marinari Roberto Mordacci Maria Giuseppina Muzzarelli Marco Onado Valeria Palumbo Laura Pepe Alessandro Portelli Geminello Preterossi Andrea Riccardi Vanessa Roghi Brunetto Salvarani Elisabetta Scapparone Emanuela Scarpellini Carlotta Sorba Donato Speroni Alessandra Tarquini Gianni Toniolo Giusto Traina Nadia Urbinati Alessandro Vanoli Giovanni Vecchi Vittorio Vidotto Maurizio Viroli Ignazio Visco | << | < | |