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| << | < | > | >> |IndiceLa parola ai numeri 6 Cose che cambiano 8 La teoria svedese dell'amore - Massimiliano Guareschi 11 Intervista al regista italosvedese Erik Gandini, autore di un discusso documentario sul lato oscuro dello stato sociale svedese: il rischio che il culto dell'individualismo diventi una condanna alla solitudine. Greta Thunberg, made in Sweden - Elisabeth Åsbrink 29 L'impegno della giovane attivista si iscrive in una lunga tradizione tutta svedese secondo la quale le opinioni dei bambini vanno prese sul serio quanto quelle degli adulti. Soprattutto quando vogliono dire al mondo come comportarsi. Svedesi poco democratici - Gellert Tamas 43 L'ondata di rifugiati di cui si è fatta carico la Svezia, con il picco raggiunto nel 2015, ha avuto un costo politico: rabbia e paura sono state alimentate e strumentalizzate da un ex movimento neonazista che nel corso degli anni ha ripulito la sua immagine per diventare oggi un partito di massa. Il miracolo tecnologico - Kina Zeidler 63 Come fa un paese di dieci milioni di abitanti a competere con i giganti della Silicon valley? Attraverso la storia di Daniel Ek, fondatore di Spotify, scopriamo cosa rende la Svezia una fucina di unicorni. La mia isola - Fredrik Sjöberg 79 Dal 1986 Fredrik Sjöberg vive sull'isola di Runmarö, un paradiso naturale al largo di Stoccolma, dove studia gli insetti e riflette sui cambiamenti nella fauna, flora e paesaggio. Alle specie scomparse o emigrate si susseguono ritorni insperati e clamorose apparizioni. L'ombra di Olof Palme - Gunnar Wall 97 L'assassinio del primo ministro svedese fu un trauma profondo per la Svezia. Nel 2020, a più di trent'anni di distanza, il killer è finalmente stato individuato. Ma l'omicidio, che vanta più piste investigative del caso Kennedy, rimane una ferita aperta e Palme un simbolo. Sesso, potere e premio Nobel -Andrew Brown 117 Perché nel 2018 non è stato assegnato il premio Nobel per la letteratura? Un viaggio dietro le quinte dell'Accademia svedese, un mondo dorato travolto da uno scandalo. Lapponia: dalla montagna d'oro a una terra di conflitti - Olivier Truc 133 Dietro le immagini da cartolina diffuse dal governo svedese - renne di Babbo Natale e sami in abiti tradizionali - si nasconde una realtà che per il paese del rispetto dei diritti umani e delle politiche progressiste è molto più dura da digerire. La fabbrica di hit - Jan Gradvall 149 «...Baby one more time» di Britney Spears, «Roar» di Katy Perry, «Shake it off» di Taylor Swift, «I don't care» di Ed Sheeran, «Blinding lights» di The Weeknd. Cos'hanno in comune queste canzoni? Sono tutte nate in Svezia. Osebol - Marit Kapla 161 Il villaggio di Osebol, nel Värmland settentrionale, si è spopolato. Una giornalista ha intervistato quasi tutti i quaranta abitanti rimasti e ha raccolto le loro storie, trascritte in versi. I racconti dipingono un ritratto sfaccettato della vita quotidiana in un piccolo villaggio. Cose che non cambiano - Alice Traverso 184 Consigli d'autore - Aase Berg 186 Playlist - Jan Gradvall 188 Per approfondire 190 |
| << | < | > | >> |Pagina 1SveziaTra i molti paesi che arrogano a sé un presunto eccezionalismo, forse nessuno se lo è meritato sul campo più della Svezia. Basta una rapida occhiata all'infografica a pagina 24 di questo volume per capire come uno degli aggettivi che meglio rappresenta questo popolo sia forse «estremo». Eppure, non è il primo tratto che si tende ad associarvi, almeno non fino all'esplosione del Covid-19 nel 2020, quando l'eccezione del «modello svedese» ha aperto i tg, intasato di commenti feroci i social network e scaldato le penne dei più noti opinionisti, rimanendo però in buona parte frainteso. Senza entrare nel merito delle decisioni, questa accoglienza rimane sorprendente se si considera - basta grattare anche poco sotto la superficie - che il modello applicato è indissolubilmente legato ai valori e principi che hanno dato forma al «brand» più famoso del paese, quello che tutto il mondo pavlovianamente associa alla Svezia, e cioè il suo welfare «dalla culla alla tomba». Nelle pagine che seguono si è cercato di raccontarlo, esplorandone le radici profonde e le conseguenze inattese, con risultati che tendono a produrre nel lettore progressista da una parte la scontata adesione razionale, dall'altra - sorprendentemente - un certo disagio. Ed è forse il suo continuo flirtare con l'estremo il tratto più marcato del ritratto del paese che emerge dagli articoli e dai saggi di questo volume: una società che anela a spingersi con coraggio verso una modernità quasi postumana di giustizia, solidarietà ed emancipazione globali, ma il cui rigore etico a volte si impiglia in un moralismo retrogrado o il cui slancio idealista rischia di infrangersi contro gli scogli della realtà. Un caso, quest'ultimo, esemplarmente rappresentato dall'ascesa prepotente di un partito criptonazista come probabile conseguenza di una delle più generose politiche di accoglienza profughi che la storia ricordi, culminata nel 2015, quando la Svezia, un paese di dieci milioni di abitanti, ha accolto 160mila rifugiati in un solo anno, una cifra pro capite più alta che in qualsiasi altro paese europeo. Politica suicida per alcuni, degna di maggior onore per altri.| << | < | > | >> |Pagina 26LA VIA SVEDESECon lo scoppio della pandemia di Covid-19 si è tornati in tutto il mondo a parlare di «modello svedese», ma questa volta la socialdemocrazia non c'entra nulla. L'approccio dettato dall'epidemiologo di stato Anders Tegnell si è distinta dal resto d'Europa: le scuole elementari e medie sono rimaste aperte (ma non i licei e le università), i ristoranti pure, gli eventi permessi fino a cinquanta persone, gli impianti sciistici erano ancora in funzione mentre sulle Alpi erano chiusi da tempo. E soprattutto nessun tentativo di testare e tracciare i casi. Ancora una volta il mondo si è interrogato: «Perché proprio in Svezia?» Le risposte sembravano elementari: bassa densità demografica, fiducia nelle istituzioni, propensione alla solitudine, nuclei familiari atomizzati, più una certa tradizione antiquarantenista e una tendenza forse un po' arrogante all'eccezionalismo. Ma qualcosa è andato storto, e con il passare dei mesi la situazione è diventata talmente critica, con numeri di contagi e vittime quasi dieci volte superiori a quelli dei vicini scandinavi, che anche Tegnell ha dovuto ammettere che forse un approccio più cauto sarebbe stato più saggio e ha chiesto scusa per la disastrosa gestione delle case di riposo. È stata una strategia troppo azzardata, giocata sulla pelle dei cittadini svedesi? Il paese non ha potuto evitare il danno economico, ma per la maggioranza della popolazione, compresi i bambini, la vita è proseguita più o meno normalmente: a lungo termine gli effetti collaterali di un rigido lockdown, quali depressione e altri disturbi, potrebbero farsi sentire meno che altrove. | << | < | > | >> |Pagina 28È un caso che Greta Thunberg sia svedese? Sono molti i media internazionali che mi hanno posto questa domanda, dall'agenzia di stampa francese Afp, al New York Post, e addirittura la pubblica amministrazione australiana. È evidente che il mondo sta cercando di capire questa adolescente che agita il dito contro i governanti più potenti e, piena di indignazione morale, domanda loro come osano mettere a rischio il futuro del pianeta. How dare you? Lei, che nel giro di un anno è passata dall'essere una ragazzina imbronciata che saltava la scuola a essere Greta che tutto il mondo conosce, campionata dal dj inglese Fatboy Slim, presa in giro dal comico Ricky Gervais e attaccata su Twitter dal presidente americano Donald Trump. La domanda fa riflettere: Greta Thunberg avrebbe potuto essere una 17enne italiana, tedesca o norvegese? Io non credo. La «svedesità» è a ben vedere uno dei presupposti di base della sua persona. Greta appartiene alla stessa schiera della scrittrice per l'infanzia Astrid Lindgren , dell'orsetto Bamse dei fumetti e del primo ministro Olof Palme. E se qualcuno trova che il mio ragionamento sia bizzarro, mi basta aggiungere alla lista Ellen Key. Greta Thunberg è il frutto e la conseguenza dei concetti e degli ideali formulati da questa donna svedese - scrittrice, pedagoga e ideologa del femminismo differenzialista - in particolare nel libro Il secolo del bambino, pubblicato nel 1900 (edizione italiana a cura di Tiziana Pironi e Luisa Ceccarelli, edizioni junior, 2019). Tutto è collegato dallo stesso filo rosso e con il tempo concorre a formare l'essenza della «svedesità». [...] Se da un lato nel suo libro Ellen Key fornisce argomenti in favore della selezione naturale di Darwin e del fatto che ad alcune categorie di persone non andrebbe consentito di riprodursi, dall'altro rivolge una critica spietata al carattere autoritario dell'educazione, della scuola e dell'insegnamento del suo tempo. Le punizioni corporali e le percosse rendono il codardo più codardo, l'arrogante più arrogante, il duro più duro. L'educazione deve invece rafforzare l'individualità e la libera crescita, così la pensava Ellen. Era una posizione radicale e sconvolgente, in un'epoca in cui i bambini erano considerati portatori di un peccato originale che andava combattuto a suon di botte e punizioni. Ma il bambino ha doveri e diritti inalienabili come gli adulti. Va rispettato e deve imparare a rispettare gli altri. Con riferimento al filosofo francese Jean-Jacques Rousseau , Ellen Key sosteneva che il principale segreto dell'educazione stia nell'evitare di educare: basterebbe che i genitori si adoperassero a intervenire attivamente nella vita dei bambini impiegando la centesima parte della fatica che v'impiegano oggi, e serbassero il resto per guidare senza intervenire, a diventare come una provvidenza invisibile che aiuta senza comandare e grazie alla quale i bambini possono fare le proprie esperienze e trarre le proprie conclusioni. Bisogna quindi dare sostegno ai bambini mentre esplorano il mondo e poi lasciare che traggano le loro conclusioni. Parole che vorremmo che molti genitori di oggi ricamassero sopra il lettino dei loro figli. Chiunque la pensi così prenderà sul serio le opinioni delle persone, che a esprimerle sia un bambino di sette anni, un'adolescente di 17 o un adulto di 57. Tra coloro che furono influenzati dal pensiero di Ellen Key troviamo il pediatra polacco Janusz Korczak , che in Come amare il bambino (Luni Editrice, 2013) e Il diritto del bambino al rispetto (Luni Editrice, 2013) formulò le basi dei cinque principi per la protezione e il benessere dei bambini recepiti nel 1924 dalla Società delle nazioni e in seguito elaborati fino a sfociare nella Convenzione Onu sui diritti dell'infanzia. (Durante l'occupazione nazista, Korczak aprì nel ghetto di Varsavia un orfanotrofio per bambini ebrei. In seguito, pur avendo la possibilità di fuggire, scelse di seguire i suoi bambini nel campo di sterminio di Treblinka, dove venne ucciso.) Anche la pediatra italiana Maria Montessori si ispirò a Ellen Key. Proprio come lei, auspicava che si sviluppassero nuovi individui dotati di un io forte e che i bambini vivessero in un ambiente il più possibile libero dal dominio degli adulti. Esatto, proprio come Pippi Calzelunghe! E non è un caso. Le idee di Ellen Key si diffusero in gran parte del mondo, ma fu nella madre-patria Svezia che attecchi maggiormente la sua concezione di un bambino da considerare come un individuo al pari degli adulti. Infatti, un'altra devota ammiratrice fu proprio Astrid Lindgren, la cui opera si basa tutta su una visione dell'infanzia riassumibile nel concetto di «bambino competente». E il caso volle che una volta le due giganti si incontrassero faccia a faccia. [...] Ma la connessione di Greta ai valori svedesi non finisce qui. L'«effetto Greta» non ha solo a che vedere con il fatto che un'adolescente venga trattata con rispetto, che riesca a farsi ascoltare, che impari dal mondo ma aspettandosi anche che il mondo impari da lei. C'è in gioco un ulteriore parametro: la supremazia morale. L'indice del suo «how dare you?» non è solo puntato contro chi sbaglia, ma segna anche la via che le persone virtuose devono seguire. Quel messaggio ripetuto senza un pizzico di esitazione è forse il tratto più evidente del fenomeno Greta, e proprio questo suo sentirsi nel giusto scatena reazioni emotive: è amata da molti ma detestata da altri. Anche qui siamo di fronte a una tradizione fortemente svedese, addirittura un valore sancito dalla politica. Pensiamo infatti alla formula usata dal ministro Carl Bildt nell'annuale dichiarazione di politica estera nel 2013: «La Svezia è una superpotenza umanitaria.» All'epoca questa dichiarazione suscitò forti reazioni, ma in realtà non era altro che la sintesi corretta di una linea di politica estera ormai presente da tempo, le cui basi erano state gettate alla fine degli anni Sessanta. Ed è a questo punto che entra in gioco il socialdemocratico Olof Palme. Nel corso della mia vita il dibattito pubblico è stato ciclicamente attraversato da una sorta di nostalgia di Palme. Molti sembrano auspicare leader che parlino di ideali, di cambiamento, di utopia; leader che abbiano un'idea da realizzare e che lascino un'impronta nel mondo. Con il tempo Olof Palme è diventato l'immagine stessa del politico dotato di una forte bussola morale, in grado di prendere posizioni chiare sulle questioni che riguardano le ingiustizie e le disuguaglianze. Palme criticava gli Stati Uniti. Criticava anche l'Unione Sovietica. Era un attivista che alla fine degli anni Quaranta aveva sposato una donna ceca per aiutarla a fuggire dall'oppressione comunista. A partire dal 1954 entrò a far parte della squadra dei collaboratori del primo ministro socialdemocratico Tage Erlander, occupandosi perlopiù di politica interna. Ma quando nell'ottobre 1969 Palme divenne capo del Partito socialdemocratico e primo ministro risultò subito chiara la sua vocazione per le questioni internazionali. Fino ad allora la politica estera svedese era stata improntata a una certa moderazione - la cosiddetta «linea Undén», dal nome del ministro degli Esteri Östen Undén. All'Assemblea generale delle Nazioni Unite le votazioni della Svezia si distaccavano di rado da quelle degli altri stati occidentali, e nei processi di formazione dell'opinione internazionale il punto di vista svedese non si faceva sentire più di quello degli altri. Nel suo ruolo di stato cuscinetto non allineato tra i due blocchi delle superpotenze, la Svezia sceglieva spesso di mantenere un basso profilo. Con Palme tutto questo cambiò. Il neo primo ministro parlava spesso e volentieri di «terzo mondo» - i paesi poveri che non appartenevano né al blocco comunista né al mondo occidentale - affermando che la Svezia aveva una responsabilità morale nei confronti di quelle popolazioni. Era necessario mettere fine alle ingiustizie economiche e sociali, altrimenti la povertà e le disuguaglianze avrebbero condotto all'esplosione nel terzo mondo di conflitti, con conseguenti grandi sofferenze. Così recitavano le sue parole nel 1968: «La faccia che mostriamo al mondo deve esprimere quella solidarietà nei confronti dei poveri e degli oppressi che fu la forza trainante al tempo in cui si costituì il movimento dei lavoratori nella vecchia e povera Svezia, e che ci ha guidati nel nostro sforzo di riformare la società svedese su basi di uguaglianza e giustizia.» Per dirla in breve, con Palme fu avviata una politica che poteva farsi vanto della propria caratura morale. La Svezia non era certo una potenza economica, e nemmeno una potenza militare, ma poteva assumersi il ruolo di potenza morale, tanto che venne etichettata a livello internazionale come «la paladina del terzo mondo». Come riflesso dello spirito del tempo nacque il personaggio di Bamse, l'orso più forte del mondo, quasi un Palme in versione pelosa, pedagogico e a misura di bambino, sempre pronto a prendere le parti dei più deboli, a trasformare l'ostilità in amicizia e a coniare slogan incrollabili su come va vissuta la vita. Non so molto dei genitori di Greta Thunberg, tranne il fatto che appartengono alla mia stessa generazione. Quando eravamo bambini, negli anni Settanta, la televisione pubblica cominciò a trasmettere i cartoni animati di Bamse. Nel 1973 uscì il primo fumetto e subito divenne uno dei più venduti del paese. Io sono cresciuta sentendo Bamse che affermava risoluto che la stupidità del mondo si poteva estirpare con la conoscenza e che le botte non hanno mai fatto diventare buono nessuno; immersa nella percezione generale che la Svezia dovesse essere in prima linea a risolvere i dilemmi morali del mondo. E da allora è sempre stato così. La dichiarazione di politica estera del 1996, quando il socialdemocratico Göran Persson diventa primo ministro, afferma che la Svezia deve svolgere un ruolo guida in materia di assistenza e interventi umanitari. Il paese si considera un attore di primo piano nel sistema Onu, in particolare per quanto riguarda il contributo alla pace e alla sicurezza del pianeta, e con la successiva entrata nell'Unione europea si presenta come primo sostenitore dell'allargamento dell'unione, adoperandosi per il potenziamento degli strumenti di gestione delle crisi e la promozione della pace. Quando la coalizione di centrodestra Alleanza per la Svezia subentra al potere si investe anche di questa particolare linea di politica estera. La Svezia, come si diceva, è una superpotenza umanitaria, non solo per l'ex ministro degli Esteri Carl Bildt ma anche per tutto il governo presieduto dal primo ministro Fredrik Reinfeldt (2006-14). Secondo l'Indice di innovazione globale del 2019, il paese scandinavo in questo campo è dietro solo alla Svizzera. Gli Stati Uniti si fermano al quarto posto in classifica. Com'è possibile che un paese di queste dimensioni diventi una fabbrica di unicorni? L'iconica bottiglia della Coca-cola, il Gps, il tetrapak, la cintura di sicurezza a tre punti, la cerniera, il fiammifero, la scala Celsius, il mouse... Storicamente parlando, un paese ad alto tasso di ingegneri come la Svezia è sempre stato all'avanguardia sul fronte dell'innovazione: basti pensare a imprese come la Ericsson nella telefonia, la Abb nell'elettrotecnica, la Skf per i cuscinetti a sfera, la Atlas copco per i macchinari industriali, la Sca nella produzione di carta o la Sandvik nell'ingegneria dei materiali, tanto per fare qualche esempio. In questa tradizione di innovazione, si sono inseriti i massicci investimenti nella banda larga all'inizio degli anni Novanta che hanno reso la Svezia uno degli stati più connessi al mondo. I vicini europei rimangono a bocca aperta di fronte alle riforme implementate in quegli anni nel paese scandinavo: grazie alla lungimiranza degli uffici di collocamento, vengono organizzati corsi gratuiti di informatica per chiunque voglia inserirsi nel mercato del lavoro, e nel 1998 sono stati introdotti sgravi fiscali per l'acquisto di personal computer. Il modello di stato sociale svedese, basato su una forte pressione fiscale, ha contribuito al miracolo in vari modi. Innanzitutto, la generosa rete di sicurezza sociale permette alle persone di prendere dei rischi. Inoltre, il pesante onere fiscale può diminuire gli incentivi a rimanere in un posto di lavoro di medio livello in cui il reddito netto rimane limitato: dimettersi per tentare la fortuna in una startup non è per forza una decisione che cambia la vita. L'istruzione universitaria è gratuita, e chiunque può richiedere un prestito studentesco: proseguire gli studi è quindi molto più semplice rispetto a paesi come la Gran Bretagna o gli Stati Uniti, e tutti hanno la possibilità di sviluppare le proprie competenze. Inoltre, le politiche fiscali a sostegno della famiglia rendono possibile conciliare lavoro e figli. Anche il sistema scolastico, con la sua cultura di incentivi alla creatività e alla fantasia degli studenti, ha contribuito a rendere la Svezia uno dei paesi più competitivi al mondo. Le materie artistiche - disegno, danza, musica, canto - vanno di pari passo con quelle teoriche, e gli studenti sono incoraggiati a pensare con la propria testa. In questo modo si offrono ai ragazzi lo spazio e l'incoraggiamento necessari per testare le loro idee, implementando creatività e innovazione, non ultimo nell'informatica. Dal punto di vista societario, la tradizione svedese della struttura aziendale piatta, non gerarchica - un modello trasparente dove la responsabilità viene suddivisa in ugual misura tra tutti i collaboratori - fa sì che ognuno si senta parte di una squadra e che si impegni al massimo delle proprie possibilità. Spotify, tanto per fare un esempio, viene considerata un modello in questo senso: Daniel Ek, uno dei fondatori, ha affermato a più riprese di fidarsi ciecamente dei propri dipendenti. D'altra parte la stragrande maggioranza degli imprenditori del settore, se interpellati in merito, attribuisce ai programmatori una buona fetta dei propri successi. Un altro fattore sono le dimensioni del paese: la Svezia è piccola, e proprio per questo è stata costretta fin dall'inizio a pensare in modo globale. Gli svedesi hanno un'ottima padronanza dell'inglese e investire all'estero non è mai stato visto come un ostacolo. E anche la capitale è piccola: a Stoccolma tutti si conoscono, e crearsi una rete di contatti e conoscenze è un gioco da ragazzi. La capacità di usufruire di risorse come queste è spesso fondamentale per avere successo. In molti casi esistono persino legami diretti tra persone e capitali del primo boom tecnologico di fine anni Novanta e le aziende high tech della nuova era come Klarna, Spotify, iZettle, King, Mojang e Avito. Questi nuovi imprenditori investono a loro volta in nuove startup e garantiscono che l'ecosistema continui a funzionare e a espandersi iniettando capitali e competenza tecnica. L'era precedente ha generato dei modelli da imitare, la nuova non è da meno. Allo stesso tempo, benché sia più che giustificato mettere in evidenza il ruolo cruciale dello stato nel miracolo tecnologico svedese, è importante ricordare che un unicorno non nasce solo perché le tasse sono alte e il paese ha investito subito nella banda larga. Penso sia più giusto porre l'accento anche su altri fattori: la società svedese, che sotto diversi aspetti funziona molto bene, ha fornito un'ampia base da cui partire. Il resto, però, lo hanno messo gli imprenditori stessi. Proprio come ha fatto Daniel Ek, e come dimostra la storia sua e di quella che è forse la startup svedese di maggiore successo: Spotify. | << | < | > | >> |Pagina 78Era un mattino presto (di maggio), un mercoledì qualunque. Alle sei e mezza il sole già scottava dal cielo azzurro cristallino e, rondini a parte, tutto era ancora perfettamente immobile. Stavo bevendo il caffè sulla terrazza che dà verso il lago - la palude di Uppeby, un'antica baia da secoli separata dal mare, ora lago d'acqua dolce - sull'isola di Runmarö, nell'arcipelago di Stoccolma. Eravamo arrivati lì vent'anni prima, quasi esatti al giorno, e lì eravamo rimasti. Anche allora il lago si stendeva come uno specchio verde scuro. Molte cose sono cambiate, ma non quella. E proprio lì e in quel momento, nel sole del mattino, capitò qualcosa di determinante. Non per l'isola, ma per me. Di rado incontro è stato più inatteso. Arrivava nuotando tra le canne e i ciuffi di tife della baia vicino alla vecchia fattoria e teneva la rotta dritta a est, attraverso il lago, in direzione di Böteberget. Sul momento non credetti ai miei occhi. Ne ho viste tante di cose, nel corso degli anni: caprioli e alci che nuotavano davanti casa, e ovviamente uccelli di ogni tipo. Pure nudisti, se è per questo, e canoisti. Sorpreso lo sono rimasto molte volte, ogni tanto sbalordito. Una mattina d'inverno, per esempio, qualcuno aveva steso un grosso sacco dell'immondizia marrone sul ghiaccio, solo che quando ho guardato nel binocolo mi sono reso conto che non si trattava affatto di un sacco dell'immondizia, ma di un'aquila di mare che stava lì appollaiata nella nebbia. A volte, d'estate, il falco pescatore rimane sulla secca dove nuotano i persici immerso nell'acqua fino alla vita - o come si chiama in un uccello. Qui dunque può succedere di tutto - ma questo era davvero troppo. Una lontra non mi avrebbe stupito tanto, visto che stanno tornando, dopo molti lunghi anni duri. Ma un castoro! Qui? Da dove diavolo veniva? Restava il problema che nessuno mi avrebbe creduto. Mia moglie e i miei figli sono leali. Mi fanno il piacere di credere che abbia visto davvero tutto ciò che sostengo di aver visto, e nei momenti di particolare stress sono anche capaci di fingere interesse per qualche mosca misteriosa o altri insetti che incrocio sul mio cammino. Coi vicini va peggio, specialmente con uno che vive sulla riva opposta, un figlio del Norrland, esperto boscaiolo e cacciatore. «Stamattina ho visto un castoro nel lago» gli ho detto. «Un castoro?» Non ha aggiunto altro. Ma il tono esprimeva il resto e, unito a un sorriso repentino, appena percettibile, non lasciava adito a dubbi: voleva vedere quel castoro coi suoi propri occhi prima di lasciarsi convincere. Ci sono parecchi topi muschiati qui nell'arcipelago ed è facile sbagliarsi, specialmente controluce. A quanto si sa, non ci sono mai stati castori sull'isola. Magari nella preistoria, ma al giorno d'oggi nessuno se ne ricorda, o ne ha mai sentito parlare. È vero che negli ultimi anni sono aumentati vertiginosamente: nel 1922 nell'intero paese non ce n'erano più, oggi sono centomila. Ma qui? Già quella sera cominciai a dubitare. Forse mi ero sbagliato davvero. | << | < | > | >> |Pagina 116| << | < | > | >> |Pagina 132| << | < | > | >> |Pagina 148| << | < | > | >> |Pagina 186| << | < | |