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| << | < | > | >> |IndiceINTRODUZIONE 7 1. POSTUMANESIMO LA VITA OLTRE L'INDIVIDUO 21 Antiumanesimo 24 La morte dell'Uomo, la Decostruzione del secondo sesso 34 Oltre la laicità 38 La sfida postumana 44 Postumanesimo critico 53 Conclusioni 58 2. POSTANTROPOCENTRISMO LA VITA OLTRE LE SPECIE 63 Avvertimenti globali 65 Postumano e divenire animale 75 Umanesimo compensatorio 84 Postumano e divenire terra 89 Postumano e divenire macchina 97 La differenza come principio del Non-uno 103 Conclusione 109 3. L'INUMANO LA VITA OLTRE LA MORTE 113 Modi di morire 118 Oltre la biopolitica 124 Teoria sociale giuridica 128 Necropolitica contemporanea 130 La teoria postumana della morte 139 Morte di un soggetto 142 Divenire impercettibile 145 Conclusione: etica postumana 147 4. SCIENZE POSTUMANE LA VITA OLTRE LA TEORIA 153 Modelli istituzionali di dissonanza 160 Le scienze umane nel XXI secolo 163 Teoria critica postumana 173 Il vero soggetto delle scienze umane non è più l'Uomo 178 Multiversità globale 182 CONCLUSIONE 195 Soggettività postumana 196 Etica postumana 199 Politica affermativa 201 Postumano, troppo umano 203 |
| << | < | > | >> |Pagina 7Non tutti noi possiamo sostenere, con un alto grado di sicurezza, che siamo sempre stati umani, o che non siamo null'altro all'infuori di questo. Alcuni di noi non sono considerati completamente umani ora, figuriamoci nelle precedenti epoche della storia occidentale sociale, politica e scientifica. Non se per «umano» intendiamo quella creatura che ci è diventata tanto familiare a partire dall'Illuminismo e dalla sua eredità: il soggetto Cartesiano del cogito, la kantiana comunità di esseri razionali o, in termini più sociologici, il soggetto-cittadino, titolare di diritti, proprietario, ecc. (Wolfe, 2010a). E tuttavia questo termine gode di ampio consenso e conserva la rassicurante familiarità del luogo comune. Affermiamo il nostro attaccamento alla specie come se fosse un dato di fatto, un presupposto. Fino al punto di costruire attorno all'umano la nozione fondamentale di diritto. Ma stanno davvero così le cose? Mentre, oggi sempre più spesso, le forze sociali conservatrici e religiose si adoperano per reinscrivere l'umano all'interno dei paradigmi della legge naturale, il concetto stesso di umano è esploso sotto la doppia pressione degli odierni progressi scientifici e degli interessi dell'economia globale. Dopo la condizione postmoderna, postcoloniale, postindustriale, postcomunista, persino dopo la contestata condizione postfemminista, ci troviamo oggi a vivere la difficile situazione postumana. La condizione postumana, lungi dal costituire l'ennesima variazione n in una sequenza di prefissi che può sembrare infinita e arbitraria, apporta una significativa svolta al nostro modo di concettualizzare la caratteristica fondamentale di riferimento comune per la nostra specie, la nostra politica e la nostra relazione con gli altri abitanti del pianeta. Questa questione solleva una serie di domande intorno alla struttura stessa delle nostre identità condivise – in quanto umani – colta nel bel mezzo della complessità delle scienze attuali, delle relazioni politiche e internazionali. Non umano, inumano, antiumano sono oggi al centro di molti discorsi e molte rappresentazioni, mentre disumano e postumano proliferano e si sovrappongono nel contesto delle società globalizzate e tecnologicamente guidate. I discorsi della cultura mainstream spaziano dalle ostinate discussioni economiche sui robot, le protesi tecnologiche, le neuroscienze e i capitali biogenetici, fino alle più confuse visioni new age del transumanismo e della tecnotrascendenza. Il potenziamento umano è il punto centrale di queste discussioni. Nella cultura accademica, d'altro canto, il postumano è, alternativamente, celebrato come nuova frontiera per la teoria critica e culturale, o respinto come l'ultima moda nella serie dei noiosi post. Il postumano suscita entusiasmo e ansia allo stesso tempo (Habermas 2010) rispetto alla possibilità di un serio decentramento dell'Uomo, misura prima di tutte le cose. Vi è una diffusa preoccupazione circa la perdita di importanza e supremazia che sta interessando la visione dominante del soggetto umano, e il campo di studi a esso attiguo, ovvero le scienze umane. Dal mio punto di vista, il comune denominatore della condizione postumana è l'ipotesi secondo la quale la struttura della materia vivente è in sé vitale, capace di autorganizzazione e al contempo non-naturalistica. Questo continuum natura-cultura è il punto di partenza per il mio viaggio nella teoria postumana. Rimane, tuttavia, da capire se questa ipotesi postnaturalistica, alla fine, si limiti a concludersi nelle sperimentazioni ludiche intorno ai limiti della perfettibilità del corpo, nel panico morale per la scomparsa di credenze vecchie di secoli circa la «natura» umana o nella caccia orientata al profitto dei capitali neuro-genetici. In questo libro cercherò di esaminare tali approcci e di confrontarmici criticamente, sostenendo al contempo le mie argomentazioni a favore della soggettività postumana. A che cosa si riferisce questo continuum natura-cultura? Esso evidenzia un paradigma scientifico che prende le distanze dall'approccio socio-costruttivista, che ha goduto di largo consenso. Un approccio che postula una distinzione categorica tra il dato (la natura) e il costruito (la cultura). Questa distinzione rende maggiormente pregnante l'analisi sociale e fornisce solide basi per lo studio e la critica dei meccanismi sociali che supportano la costruzione delle identità-chiave, delle istituzioni e delle pratiche. Nelle politiche progressiste, i metodi del costruttivismo sociale sostengono i tentativi di denaturalizzare le differenze sociali e di mostrare così la loro struttura contingente e storicamente determinata dall'uomo. Basti pensare agli effetti rivoluzionari che, su scala mondiale, ha avuto la frase di Simone de Beauvoir: «Donna non si nasce, si diventa». Tale comprensione delle ingiustizie sociali, colte all'interno di una natura determinata socialmente e variabile storicamente, apre la strada al progetto umano di risolverle tramite politiche sociali e attivismo. La mia tesi è che questo approccio, che si attesta sull'opposizione binaria tra il dato e il costruito, sia progressivamente sostituito dalla teoria non dualista dell'interazione tra natura e cultura. Dal mio punto di vista quest'ultimo approccio è legato e supportato dalla tradizione filosofica monista, che rifiuta i dualismi, specialmente l'opposizione natura-cultura, e si concentra piuttosto sulla forza autopoietica della materia vivente. I confini tra le categorie del naturale e del culturale sono stati spostati e, in larga misura, sfumati dagli effetti degli sviluppi scientifici e tecnologici. Questo libro prende le mosse dall'ipotesi che la teoria sociale necessiti di fare il punto sulla trasformazione dei concetti, dei metodi e delle pratiche politiche, causata da tale cambiamento di paradigma. Di converso, la domanda circa che tipo di analisi politica, e che tipo di politica progressista, sia sostenuta dall'approccio basato sul continuum natura-cultura, risulta centrale nell'agenda della situazione postumana. Gli interrogativi principali che voglio sollevare in questo libro sono: in primo luogo, cos'è il postumano? E in modo più specifico, quali sono gli itinerari intellettuali e storici che possono condurci al postumano? In secondo luogo: dove la condizione postumana si separa da quella umana? E in modo più specifico: quali nuove forme di soggettività si addicono al postumano? In terzo luogo: in che modo il postumano produce le sue specifiche forme di inumano? Ovvero: come possiamo resistere agli aspetti inumani della nostra era? Infine: quali sono le conseguenze che il postumano ha sulle scienze umane oggigiorno? Ovvero: qual è la funzione della teoria ai tempi del postumano? Questo libro cavalca l'onda della simultanea fascinazione per la condizione postumana come aspetto cruciale della nostra storicità, ma anche della preoccupazione per le sue aberrazioni, per i suoi abusi di potere e per la sostenibilità di alcune sue premesse fondamentali. In parte la fascinazione è legata a quello che io credo sia il compito delle teorie critiche nel mondo attuale, ossia quello di fornire adeguate rappresentazioni delle nostre collocazioni storiche e situate. Questo in sé modesto intento cartografico, connesso all'ideale della produzione di un sapere socialmente utile, si trasforma nella più ambiziosa e astratta questione dello statuto e del valore della teoria stessa. Numerosi critici culturali hanno commentato l'ambivalente natura del malessere posteoretico che ha colpito le contemporanee scienze umane e sociali. Ad esempio, Tom Cohen, Claire Colebrook e J. Hillis Miller (2012) hanno evidenziato il lato positivo di questa fase posteoretica, soprattutto il fatto che essa registra effettivamente sia le nuove opportunità che i pericoli provenienti dalle scienze attuali. I lati negativi, sorprendentemente, consistono proprio nelle carenze di schemi critici adatti ad analizzare il presente. Io ritengo che la svolta antiteoretica sia legata agli eventi che hanno scosso il contesto ideologico. Dopo la fine ufficiale della Guerra fredda, i movimenti politici della seconda metà del XX secolo sono stati marginalizzati e i loro sforzi teoretici sono stati banditi in quanto ritenuti esperimenti storici fallimentari. La nuova ideologia dell'economia del libero mercato ha eliminato tutte le opposizioni, nonostante le massicce proteste di diversi settori della società, imponendo l'antintellettualismo come caratteristica saliente dei nostri tempi. Questo è un duro colpo soprattutto per le scienze umane, in quanto penalizza la sottigliezza dell'analisi, chiamata a prestare indebita fedeltà al senso comune – la tirannia dell'opinione – e al profitto economico – la banalità dell'interesse individuale. In questo contesto, la teoria ha perso valore ed è stata spesso screditata come una sorta di fantasia o di narcisistico autocompiacimento. Di conseguenza, la versione superficiale del neo-empirismo – spesso coincidente con la mera raccolta di dati – è diventata la norma metodologica della ricerca nelle scienze umane. La questione del metodo merita una seria riflessione: dopo la caduta ufficiale delle ideologie, alla luce dei progressi delle scienze neuronali, evoluzionistiche e biogenetiche, possiamo interpretare le capacità dell'analisi teoretica allo stesso modo che alla fine della Seconda guerra mondiale? La situazione postumana si spiega solo con l'atteggiamento posteoretico? Ad esempio, Bruno Latour (2004) – non esattamente un umanista classico, come si evince dal suo lavoro sulla produzione di sapere attraverso reti di attori umani e non umani, cose e oggetti – ha di recente commentato la tradizione di teoria critica e i suoi legami con l'umanesimo europeo. Il pensiero critico si fonda sul paradigma socio-costruttivista che dichiara implicitamente la sua fede nella teoria come mezzo per interpretare e rappresentare la realtà, ma tale fede è ancora oggi legittima? Latour ha sollevato seri dubbi rispetto alla funzione attuale della teoria. È innegabile che vi sia un lato oscuro nella condizione postumana, specialmente a proposito delle genealogie del pensiero critico. È come se, dopo la magnifica esplosione di creatività degli anni Settanta e Ottanta del XX secolo, fossimo entrati in un monotono orizzonte pietrificato, privo di differenze e caratterizzato da un persistente senso di melanconia. Una dimensione spettrale si è infiltrata nei nostri schemi di pensiero, amplificata dai concetti, tipici della destra politica, della fine del tempo delle ideologie ( Fukuyama 1989) e della inevitabilità delle crociate civilizzatrici ( Huntington 1996). Sul versante della sinistra politica, invece, il rifiuto della teoria ha condotto all'onda di risentimento e di pensiero negativo rispetto alle generazioni intellettuali precedenti. In questo contesto di malessere teorico, intellettuali neocomunisti ( Badiou e Žižek , 2009) hanno sostenuto l'impellenza di ritornare all'azione politica concreta, persino all'antagonismo violento se necessario, piuttosto che insistere con altre speculazioni teoretiche. E hanno così contribuito a rendere obsolete le teorie filosofiche poststrutturaliste. In risposta a questo generale clima sociale negativo, io vorrei rivolgermi alla teoria postumana intendendola sia come strumento genealogico che come bussola per la navigazione. Il postumano è un termine utile per indagare i nuovi modi d'impegnarsi attivamente nel presente, ragionando su alcuni suoi aspetti in modo empiricamente fondato ma non riduttivo, critico ma non nichilista. Mio intento è quello di mappare alcune delle strade attraverso le quali il postumano sta circolando come termine dominante nelle nostre società globalmente connesse e tecnologicamente mediate. Più precisamente, la teoria postumana è uno strumento produttivo capace di sostenere quel processo di ripensamento dell'unità fondamentale, riferimento comune dell'umano, in quest'età biogenetica nota come antropocene, momento storico in cui l'umano è diventato una forza geologica in grado di influenzare la vita su tutto il pianeta. Per estensione, esso può anche aiutarci a ripensare i principi fondamentali della nostra interazione con altri agenti umani e non umani su scala planetaria.
Lasciatemi dare spazio a qualche esempio delle contraddizioni
frutto della nostra condizione storica postumana.
Vignetta i
Nel novembre 2007 Pekka-Eric Auvinen, un ragazzo finlandese di
diciotto anni, spara ai suoi compagni di classe in una scuola superiore vicino
Helsinki, uccidendo otto persone prima di colpire se
stesso. Prima del massacro, il giovane omicida aveva postato un
video su youtube, in cui si ritraeva mentre indossava una t-shirt
con la scritta «l'umanità è sopravvalutata».
Che l'umanità versi in condizioni critiche – qualcuno direbbe addirittura prossime all'estinzione – è un affermazione ricorrente della filosofia Europea, almeno da quando Friedrich Nietzsche ha dichiarato la morte di dio e dell'idea di Uomo che a esso si articolava. Quest'altisonante affermazione serviva a raggiungere un più modesto obiettivo. Quello che Nietzsche asseriva era la fine dello statuto di autoevidenza attribuito alla natura umana, la fine del senso comune e della fede nella stabilità metafisica e nella validità universale del soggetto umanistico europeo. La genealogia nietzschiana mette in rilievo l'importanza dell'interpretazione rispetto al dogmatico adempimento delle leggi e dei valori naturali. Almeno da allora, dunque, i punti principali della agenda filosofica sono stati: in primo luogo, come sviluppare un pensiero critico dopo la sorprendente presa di consapevolezza dell'incertezza ontologica, e, in secondo luogo, come ricostituire un senso di comunità tenuta insieme da affinità e responsabilità etica, senza incorrere nelle passioni negative del dubbio e del sospetto. Come si evince dall'episodio finlandese, tuttavia, l'antiumanesimo filosofico non dev'essere confuso con la misantropia cinica e nichilista. L'umanità potrebbe essere stata sopravvalutata, ma da quando essa ha raggiunto la cifra di otto miliardi, ogni discorso sull'estinzione sembra completamente fuori luogo. Al contempo, la questione della sostenibilità ecologica e sociale è in cima ai programmi governamentali di tutto il mondo, alla luce della crisi ambientale e del cambiamento climatico. Ebbene, l'interrogativo formulato da Bertrand Russell nel 1963, al culmine della Guerra fredda e del confronto nucleare, suona oggi più appropriato che mai: l'uomo ha davvero un futuro? La scelta tra la sostenibilità e l'estinzione è davvero l'unica che vediamo all'orizzonte del nostro futuro comune, o vi sono per noi altre opzioni disponibili?
Il problema dei limiti dell'umanesimo e delle critiche antiumaniste è a ogni
modo centrale per il dibattito sulla situazione postumana, e per questo motivo
vi dedicherò il primo capitolo.
Vignetta 2
Il giornale «The Guardian» ha riportato la notizia che nei paesi attraversti
da guerre, come l'Afghanistan, la gente è stata costretta a
nutrirsi di erba per sopravvivere. Nello stesso momento storico, le
mucche della Gran Bretagna e di altri paesi dell'Unione Europea
venivano alimentate con foraggi a base di carne. Il settore dell'agricoltura
biotecnologica dei paesi ipersviluppati è caratterizzato da
una inaspettata tendenza al cannibalismo, dal momento che fa ingrassare mucche,
pecore e polli con mangime a base animale.
Questa scelta è stata poi ritenuta la principale causa della malattia
letale detta encefalopatia spongiforme bovina (Bse), comunemente chiamata «mucca
pazza», che consiste nella degenerazione della struttura celebrale animale,
ridotta in poltiglia. La follia va qui, tuttavia, rintracciata decisamente
nell'azione degli uomini e delle loro industrie biotecnologiche.
Il capitalismo avanzato e le sue tecnologie biogenetiche generano una forma perversa di postumano. Il nocciolo di tale capitalismo consiste nella radicale recisione di ogni interazione umana e animale, dal momento che tutte le specie viventi sono catturate negli ingranaggi dell'economia globale. Il codice genetico della materia vivente – la vita in sé (Rose 2008) – è il capitale fondamentale. La globalizzazione comporta la commercializzazione del pianeta terra in tutte le sue forme, attraverso una serie di mezzi di appropriazione interconnessi. Secondo la Haraway , essi consistono nella proliferazione degli apparati tecno-militari e dei micro-conflitti su scala globale; nella accumulazione ipercapitalista della ricchezza; nella conversione dell'ecosistema nell'apparato mondiale di produzione, e nell'apparato di infointrattenimento globale del nuovo contesto multimediale. Il fenomeno della pecora Dolly rappresenta al meglio le complicazioni prodotte dalla struttura biogenetica delle attuali tecnologie e dai loro supporter sul mercato azionario. Gli animali forniscono materiale vivente per gli esperimenti scientifici. Essi sono manipolati, maltrattati, torturati, geneticamente ricombinati, di modo tale da risultare produttivi per la nostra agricoltura biotecnologica, per l'industria cosmetica, farmaceutica e chimica, per interi settori economici. Gli animali sono addirittura svenduti come prodotti esotici e costituiscono oggi il terzo più grande mercato illegale del mondo, dopo droga e armi, prima delle donne. Topi, pecore, capre, bovini, suini, uccelli, pollame, gatti sono allevati in fattorie industriali, richiusi in gabbie e divisi in batterie per unità di produzione. Come George Orwell aveva scritto profeticamente, tuttavia, tutti gli animali potrebbero essere uguali, ma alcuni sono decisamente più uguali degli altri. Così, essendo parte integrante del complesso industriale biotecnologico, il bestiame dell'Unione Europea riceve un sussidio, pari alla somma di 803 dollari per mucca. Cifra considerevolmente inferiore a quella garantita a ogni mucca americana, pari a 1,057 dollari, o a ogni mucca giapponese, pari a 2,555 dollari. Queste somme sembrano ancora più infelici se paragonate al reddito nazionale lordo pro capite di paesi come l'Etiopia (120 dollari), il Bangladesh (360 dollari), l'Angola (660) o l'Honduras (920).
La controparte di questa mercificazione globale degli organismi viventi è
che gli animali stessi vivono un processo di umanizzazione. Nell'ambito della
bioetica, per esempio, la questione dei
«diritti umani» degli animali è stata posta proprio come mezzo
per problematizzare questi eccessi. La difesa dei diritti degli animali è una
questione politica scottante in molte democrazie liberali. Questa commistione di
investimenti e abusi costituisce proprio la condizione postumana paradossale
generata dal capitalismo avanzato stesso, che innesca al contempo molteplici
forme di resistenza. Discuterò approfonditamente la nuova prospettiva
postantropocentrica sugli animali nel capitolo secondo.
Vignetta 3
Il 10 ottobre 2013, Muammar Gaddafi, ex leader della Libia, viene
catturato nel suo paese di origine Sirte, percosso e ucciso dai
membri del Consiglio nazionale di transizione libico. Prima che
gli fosse sparato dalle forze dei ribelli, il convoglio del colonnello
Gaddafi era comunque stato bombardato da jet francesi e dal
drone americano Predator, che aveva preso il volo dalla base americana aerea in
Sicilia ma che veniva controllato via satellite da una
base situata a Las Vegas.
Dal momento che l'attenzione mediatica si è concentrata sulla brutalità dell'effettiva sparatoria e sull'indignazione per l'immagine globale che espose il corpo ferito e sanguinante di Gaddafi, minore spazio è stato dedicato all'aspetto postumano del warfare contemporaneo: le macchine tele-tanatologiche prodotte dalla nostre stesse tecnologie avanzate. L'atrocità della fine di Gaddafi, nonostante il suo tirannico dispotismo, è sufficiente a farci avvertire la vergogna di essere umani. La negazione del ruolo giocato dalle sofisticate tecnologie della morte del mondo avanzato, tuttavia, aggiunge uno strato ulteriore di sconforto morale e politico. La situazione postumana è caratterizzata da una quota significativa di momenti inumani. La brutalità delle nuove guerre, nel mondo globalizzato guidato dalla gestione della paura, non rimanda solo al controllo della vita, ma anche alle diverse pratiche della morte, soprattutto nei paesi in fase di transizione. Biopolitica e tanatopolitica sono due facce della stessa medaglia, come Mbembe (2003) ha brillantemente mostrato. Il mondo dopo la Guerra fredda ha assistito non solo a una drammatica crescita del warfare, ma anche a una profonda trasformazione delle stesse pratiche belliche in direzione di una più complessa gestione di fenomeni quali la sopravvivenza e l'estinzione. Le attuali tecnologie di morte sono postumane a causa della forte mediazione tecnologica attraverso la quale operano. L'operatore digitale che guidava il drone americano Predator da una sala computer di Las Vegas può essere considerato un pilota? In che cosa è diverso dagli uomini delle Forze aeree che condussero l'aereo Enola Gay su Hiroshima e Nagasaki? Le guerre contemporanee hanno intesificato il potere della necropolitica fino a fargli comprendere un nuovo livello di amministrazione «della distruzione materiale dei corpi umani e della popolazione» (Mbembe 2003, 19). Non solo umana.
Le recenti necrotecnologie agiscono in un clima sociale dominato da un lato
dall'economia politica della nostalgia e della paranoia, dall'altro dall'euforia
e dall'entusiasmo. Questa condizione
maniaco-depressiva presenta una serie di variazioni: dalla paura
del disastro imminente, la catastrofe che attende di realizzarsi, all'uragano
Katrina, fino al successivo disastro ambientale. Un
aereo che vola troppo raso terra, le mutazioni genetiche e la fine
dell'immunità: l'incidente è lì, sta per compiersi, è virtualmente
una certezza; è solo una questione di tempo (Massumi, 1992).
Come risultato di questo stato di insicurezza, l'obiettivo imposto
socialmente non è il cambiamento, bensì la conservazione o la
sopravvivenza. Ritornerò su questi aspetti della necropolitica nel
capitolo 3.
Vignetta 4
Un paio di anni fa, durante un incontro scientifico promosso dalla
olandese Accademia regale delle scienze, circa il futuro dell'umanesimo
accademico, un professore di scienze cognitive attaccava
frontalmente le scienze umane. Il suo attacco si basava sulla sua
convinzione rispetto ai due maggiori difetti delle scienze umane:
il loro intrinseco antropocentrismo e il loro nazionalismo metodologico.
L'illustre ricercatore dimostrò che tali difetti erano stati letali per il loro
stesso campo, che veniva ritenuto inadatto per la
scienza contemporanea e pertanto non eleggibile al supporto finanziario dei
ministeri competenti o del governo.
La crisi dell'umano, la sua successiva ricaduta nel postumano, ha avuto effetti tragici per l'ambito accademico più intimamente legato a esso, ovvero per le scienze umane. Nel clima sociale neoliberale della maggioranza delle democrazie attuali, gli studi umanisti sono stati declassati al rango di scienze soft, ritenuti materia da approfondire nel tempo libero alla fine della scuola. Considerate più una passione personale che un campo di ricerca professionale, le scienze umane stanno correndo il serio pericolo di scomparire dal curriculum universitario europeo del Ventunesimo secolo. Un'altra ragione del mio impegno nei confronti dell'argomento del postumano può essere, quindi, rintracciata nella profonda funzione di responsabilità civica che attribuisco al ruolo dell'intellettuale accademico dei nostri giorni. Un pensatore delle scienze umane, figura nota come intellettuale, oggi corre il rischio di non sapere che ruolo giocare negli scenari pubblici e sociali. Mi si potrebbe criticare sostenendo che il mio interesse per il postumano proviene da una preoccupazione troppo umana circa il tipo di saperi e di valori intellettuali che stiamo attualmente producendo come società. Con maggior precisione, mi preoccupa lo stato in cui versa oggi la ricerca universitaria, all'interno di quanto ancora chiamiamo, in mancanza di un'espressione più adatta, scienze umane. Svilupperò le mie idee sull'università attuale nel quarto capitolo. Questo senso di responsabilità esprime inoltre un'abitudine del pensiero che è cara al mio cuore e alla mia mente, poiché appartengo a quella generazione che aveva un sogno. Esso era ed è ancora il sogno di costituire reali comunità di apprendimento: scuole, università, libri, riviste e giornali, curricula, dibattiti, teatri, televisione, radio e programmi multimediali — e successivamente siti internet e network online — che somigliano alla società che rappresentano, che servono e che contribuiscono a sviluppare. È il sogno della creazione di un sapere importante dal punto di vista sociale, in sintonia con i principi fondamentali della giustizia sociale, del rispetto della dignità umana e della diversità, del rifiuto del falso universalismo; il sogno dell'affermazione della positività delle differenze; dei principi della libertà accademica, dell'antirazzismo, dell'apertura all'altro da sé, della cooperazione. Nonostante io sia propensa a un certo antiumanesimo, non ho alcuna difficoltà ad ammettere che questi ideali sono perfettamente compatibili con la filosofia di valori umanisti. Questo libro non vuole essere uno schieramento in una disputa accademica, mira piuttosto a tentare di spiegare la complessità in cui siamo immersi. Proporrò, perciò, nuovi modi di combinare critica e creatività, ponendo l'accento sull'importanza dell'attivismo, muovendomi alla ricerca di una rappresentazione dell'umanità postumana all'altezza dell'era globale. Il sapere postumano — e i soggetti che ne sono i portatori — sono caratterizzati da una aspirazione di fondo verso i principi che tengono unita la comunità, e tentano pertanto di evitare le trappole della nostalgia conservatrice e dell'euforia neoliberale. Questo libro prende le mosse dalla mia convinzione che le nuove generazioni di soggetti conoscenti affermino un tipo costruttivo di panumanità, impegnandosi a pieno per liberarci dal provincialismo della mente, dal settarismo delle ideologie, dalla disonestà e dalla paura. Questa aspirazione, inoltre, nutre la mia convinzione rispetto a cosa, oggi, un'università dovrebbe essere — un universum, al servizio del mondo attuale, non solo luogo epistemologico di produzione del sapere scientifico, ma anche luogo del desiderio di apprendere ai fini del miglioramento che scaturisce dalla conoscenza e che sostiene la nostra soggettività. Mi piace descrivere questo desiderio come radicale aspirazione alla libertà, che passa per la comprensione delle specifiche condizioni e delle relazioni di potere immanenti alle nostre collocazioni storiche. Queste condizioni includono il potere che ognuno di noi esercita nella sua quotidiana rete di relazioni sociali, sia al livello della micro che della macropolitica. In qualche modo, il mio interesse per il postumano è direttamente proporzionale al senso di frustrazione che avverto nei confronti delle risorse e dei limiti umani, tutti troppo umani, che caratterizzano il nostro livello personale e collettivo di potenza e creatività. Ecco perché la questione della soggettività assume tanto rilievo in questo libro: abbiamo bisogno di progettare nuovi schemi sociali, etici e discorsivi della formazione del soggetto per affrontare i profondi cambiamenti cui andiamo incontro. Questo implica che abbiamo bisogno di impare a pensare in modo diverso a noi stessi. La condizione postumana è allora un'opportunità per incentivare la ricerca di schemi di pensiero, di sapere e di autorappresentazione alternativi a quelli dominanti. La condizione postumana ci chiama urgentemente a ripensare, in modo critico e creativo, chi e cosa stiamo diventando in questo processo di metamorfosi. | << | < | > | >> |Pagina 24AntiumanesimoLasciatemi scoprire le carte in tavola pur essendo solo all'inizio di questo mio ragionamento: non sono affatto affezionata all'Umanesimo e all'idea di umano che implicitamente sottende. L'antiumanesimo è talmente parte della mia genealogia intellettuale e personale, come di una tradizione di famiglia, che per me la crisi dell'Umanesimo sembra un dato scontato. Perché? La mia gioia nell'accogliere la nozione storica del declino dell'Umanesimo, con il suo nucleo eurocentrico e le sue tendenze imperialiste, si spiega in primo luogo grazie alla politica e alla filosofia. Certamente, il contesto storico conta molto. Sono cresciuta intellettualmente e politicamente negli anni turbolenti che seguirono la Seconda guerra mondiale, quando l'ideale umanista venne messo in discussione radicalmente. Durante gli anni Sessanta e Settanta uno spiccato attivismo antiumanista prese piede grazie ai nuovi movimenti sociali e alle culture giovanili del periodo: femminismo, anticolonialismo e antirazzismo, movimenti pacifisti e antinucleari. Cronologicamente legati alle politiche sociali e culturali della generazione nota come baby-boomers, questi movimenti sociali hanno dato vita a politiche radicali, teorie sociali e nuove epistemologie. Essi hanno sfidato gli stereotipi della retorica della Guerra fredda, con la sua enfasi per la democrazia occidentale e l'individualismo liberale. Nulla più della crisi teoretica di mezza età ci impedisce di riconoscere la nostra appartenenza alla generazione dei baby boomers. In questo periodo l'immagine pubblica di quella generazione non è esattamente positiva. Nondimeno, per dire il vero, questa generazione è stata segnata dall'eredità traumatica dei diversi e fallimentari esperimenti politici del XX secolo. Il fascismo e l'Olocausto da un lato, il comunismo e i Gulag dall'altro, si equiparano sulla bilancia insaguinata della storia degli orrori. Vi è un evidente nesso generazionale tra questi momenti storici e il rifiuto dell'Umanesimo negli anni Sessanta e Settanta. Concedetemi di spiegarlo. Al livello dei loro propri contenuti ideologici, questi due fenomeni storici, fascismo e comunismo, rifiutano esplicitamente e implicitamente i principi fondamentali dell'Umanesimo europeo, tradendoli profondamente. Essi rimangono, tutttavia, molto diversi per quanto riguarda struttura e scopi. Laddove il fascismo propugnava una spietata cesura delle radici del concetto illuminista di rispetto per l'autonomia della ragione e della morale, il socialismo perseguiva una versione comunitaria della solidarietà umanista. Sin dagli esordi dei movimenti socialisti utopisti del Settecento la sinistra europea ha provato attrazione per il socialismo umanista. In verità, il marxismo-leninista rifiutava alcuni aspetti dell'umanesimo socialista, in particolare il suo accanimento per la realizzazione del potenziale umano come autenticità (opposta all'alienazione). Esso ha proposto in alternativa l'umanesimo proletario, noto anche come l'umanesimo rivoluzionario tipico dell'Unione Sovietica, famoso per la sua strenua tendenza alla realizzazione della libertà umana, valore dato per universale ma solo sotto e attraverso il comunismo. Due fattori hanno contribuito alla relativa popolarità dell'umanesimo comunista dopo le grandi guerre. Il primo è rappresentato dai disastrosi effetti che il fascismo ebbe sulla storia intellettuale e sociale europea. Fascismo e nazismo furono causa di enormi danni anche alla storia della teoria critica continentale europea, poiché distrussero e bandirono dall'Europa intere scuole di pensiero – in particolare marxismo, psicoanalisi, scuola di Francoforte, la carica dirompente della genealogia nietzschiana (per quanto il caso Nietzsche sia abbastanza complesso) che era stata centrale nella filosofia degli inizi del XX secolo. Inoltre la Guerra fredda e la divisione in due blocchi geopolitici, che seguì alla fine della Seconda guerra mondiale, sgretolò e dicotomizzò l'Europa fino al 1989, non facilitando il ritorno nel continente, che pure le aveva allontanate con violenza e ignoranza, di quelle stesse teorie radicali. È significativo, ad esempio, che molti degli autori che Michel Foucault considera precursori del pensiero critico della modernità avanzata ( Marx , Freud , Darwin ) siano gli stessi pensatori che il nazismo condannò al pubbligo rogo nel 1930.
La seconda ragione per la popolarità del marxismo umanista è
rappresentata dal fatto che il comunismo, soprattutto grazie all'Urss, ha svolto
un ruolo centrale nella sconfitta del fascismo, e
pertanto è risultato vincente alla fine della Seconda guerra mondiale. In questi
termini si spiega il fatto che la generazione politica
del '68 ereditò una concezione positiva della prassi e dell'ideologia
marxiste, in quanto risultato dell'opposizione comunista-socialista al fascismo
e dell'impegno armato dell'Unione Sovietica contro
il nazismo. Questo dato di fatto si scontra con il quasi epidermico
anticomunismo della cultura americana ed è destinato a rimanere
un punto di forte tensione intellettuale tra l'Europa e gli Stati
Uniti. È qualcosa di difficile da ricordare, all'alba del terzo millennio, il
fatto che i partiti comunisti furono gli unici veri emblemi
della resistenza antifascista in Europa. Ed essi hanno inoltre giocato un ruolo
significativo nei movimenti di liberazione nazionale
in tutto il mondo, in particolare in Africa e in Asia. Il testo fondamentale di
André Malraux
La condizione umana
(1934) è testimone sia della statura morale che della dimensione tragica del
comunismo, come lo è, in un diverso momento storico e contesto geopolitico, la
vita e l'opera di Nelson Mandela (2008).
Edward Said
L'antiumanesimo ha preso piede sulla scena intellettuale statunitense in
parte a causa della diffusa repulsione suscitata dalla Guerra in Vietnam.
Questa avvversione ha implicato anche l'emergere di un movimento di
resistenza contro il razzismo e in generale l'imperialismo, nonché contro
le pedanti discipline umaniste che per anni avevano rappresentato un
esempio di atteggiamento apolitico, alieno dal mondo, volutamente ignaro del
presente, e dagli effetti a volte manipolatori, sempre risoluto a celebrare le
virtù del passato (2007, 42).
Durante gli anni Sessanta e Settanta la nuova sinistra statunitense si caratterizzò per le radicali istanze antiumaniste, che si diffusero non solo in contrasto al liberalismo predominante, ma anche in contrasto al marxismo umanista della sinistra tradizionale. Sono perfettamente consapevole del fatto che una tale nozione di marxismo, oggi a volte considerato un'ideologia violenta e inumana, accostata all'umanesimo potrà lasciare sbalordite le generazioni più giovani e coloro che non hanno familiariatà con la filosofia continentale. È sufficiente, tuttavia, ricordare l'enfasi con la quale pensatori del calibro di Sartre e della de Beauvoir si servivano dell'umanesimo come di un metodo laico di analisi critica. L'esistenzialismo accentua la coscienza umanista nel suo essere sia origine della responsabilità morale che della libertà politica. La Francia occupa una posizione molto speciale nella genealogia della teoria critica antiumanista. Il prestigio degli intellettuali francesi è dovuto non solo al formidabile sistema scolastico del paese, ma anche a ragioni legate al contesto. Tra queste ragioni vi è l'alta levatura morale della Francia alla fine della Seconda guerra mondiale, dovuta alla resistenza di Charles de Gaulle. Di conseguenza gli intellettuali francesi hanno continuato a beneficiare di ottima reputazione, soprattutto se paragonati ai pochi sopravvissuti in quel paesaggio devastato che era la Germania del dopoguerra. Da qui l'illustre fama internazionale di Sartre e della de Beauvoir, ma anche di Aron , Mauriac , Camus , Malraux. Tony Judt lo riporta sinteticamente:
Nonostante la sconfitta sconvolgente della Francia nel 1940, nonostante la
soggezione umiliante dovuta all'occupazione tedesca durata quattro anni,
nonostante l'ambiguità morale del Regime di Vichy del maresciallo Pétain,
nonostante l'imbarazzante subordinazione del paese agli Stati Uniti
e alla Gran Bretagna negli anni del Dopoguerra per le politiche estere, la
cultura francese divenne nuovamente centro di attenzione internazionale: gli
intellettuali francesi acquisivano una speciale rilevanza internazionale come
portavoci dell'epoca, e il tenore delle argomentazioni politiche
francesi sintetizzava la rendita ideologica nel mondo in generale. Ancora
una volta — per l'ultima volta — Parigi era la capitale d'Europa (2005, 210).
Durante gli anni del dopoguerra, Parigi ha continuato a funzionare come un magnete che attraeva e metteva in circolazione l'opera di ogni sorta di pensatore critico. Per esempio, Arcipelago Gulag di Aleksandr Solzenicyn fu dapprima pubblicato in Francia nel 1970, per poi essere contrabbandato in forma clandestina nei paesi dell'Unione Sovietica. È stato dopo il suo ritiro parigino che l'ayatollah Khomeyni condusse la rivoluzione in Iran del 1979, che instaurò il primo governo islamico al mondo. In qualche modo il contesto francese di quel periodo era aperto a ogni genere di movimento politico radicale. È ormai un dato di fatto che in Francia in quel periodo fiorirono, sia a sinistra che a destra, talmente tante scuole di pensiero critico che la filosofia francese divenne quasi il sinonimo della teoria in sé, con conseguenze a lungo termine, come vedremo nel quarto capitolo. | << | < | > | >> |Pagina 30La teoria e la pratica femminista hanno lavorato più velocemente ed efficacemente di molti movimenti sociali degli anni Settanta. Esse hanno sviluppato strumenti originali e metodi di analisi che hanno permesso resoconti più verosimili di come funziona il potere. Le femministe hanno inoltre esplicitamete individuato nella sinistra, presumibilmente rivoluzionaria, comportamenti maschilisti e abitudini sessiste e li hanno denunciati come contradditori rispetto alla loro ideologia, così come intrinsecamente offensivi.Nella sinistra convenzionale del dopoguerra, tuttavia prende corpo una nuova generazione di pensatori con altre priorità. I quali si ribellano contro l'egemonia morale dei partiti comunisti dell'epoca, dell'Europa occidentale come dell'impero sovietico. Fatto che aveva portato a una stretta autoritaria sull'interpretazione dei testi marxisti e dei loro concetti filosofici chiave. Le nuove versioni del radicalismo filosofico sviluppatesi in Francia e nel resto d'Europa nei tardi anni Sessanta formularono una critica esplicita della struttura dogmatica del pensiero e della prassi comunista. Inoltre, portarono avanti la critica dell'alleanza politica sancita tra filosofi come Sartre e de Beauvoir e la sinistra comunista, durata almeno fino all'insurrezione ungherese del 1956. In opposizione al dogma e alla violenza del comunismo, la generazione del 1968 si rivolge direttamente al potenziale sovversivo dei testi di Marx, in modo da recuperarne le radici antistituzionali. Il loro radicalismo si esprimeva nei termini di una critica delle implicazioni umaniste e del conservatorismo politico tipico delle istituzioni che incarnavano il dogma marxista. Lantiumanesimo emerse come il grido di battaglia di quella generazione di pensatori radicali che più tardi sarebbe stata famosa in tutto il mondo come «generazione poststrutturalista». Essi furono, infatti, postcomunisti ante litteram. Essi abbandonarono il pesiero dicotomico dialettico e svilupparono un terzo modo di accostarsi ai cambiamenti nella nozione di soggettività umana. Dopo la pubblicazione de Le parole e le cose (1967) di Michel Foucault, opera innovativa di critica dell'Umanesimo, la questione di cosa – semmai fosse qualcosa – costituisse l'idea dell'umano circolava nei discorsi radicali del periodo e andava articolando le agende antiumaniste di una serie di gruppi politici. La morte dell'uomo annunciata da Foucault formalizza una crisi epistemologica e morale che spinge molto avanti le opposizioni binarie, tagliando in punti differenti lo spettro politico. A essere preso di mira è l'implicito umanismo del marxismo, in particolar modo l'arrogante pretesa umanista di continuare a porre l'Uomo al centro della storia mondiale. Addirittura il marxismo, in veste di principale teoria del materialismo storico, ha continuato a definire il soggetto del pensiero europeo come univoco ed egemonico e ad assegnargli (il genere non è una coincidenza) il ruolo regale di motore della storia umana. L'antiumanesimo consiste nel disconnettere l'agente umano dalla sua posizione universalistica, richiamandolo a rendere conto, e a spiegare, le azioni concrete che sta intraprendendo. Una volta che il soggetto, in precedenza dominante, si è svincolato dalle sue delusioni di grandezza e non è più il presunto responsabile del progresso storico, emergono differenti e più nitide relazioni di potere. I pensatori radicali della generazione post '68 rifiutavano l'umanesimo sia nella sua versione classica che in quella socialista. L'ideale dell'Uomo Vitruviano come modello di perfezione e miglioramento fu letteralmente buttato giù dal suo piedistallo e decostruito. Questo ideale umanista rappresenta, infatti, il nucleo della concezione liberal-individualista del soggetto, che definisce la perfettibilità in termini di autonomia e autodeterminazione. E queste sono precisamente le peculiarità che i poststrutturalisti contestavano. Si scoprì che quest'Uomo, lontano dall'essere il canone di proporzioni perfette, sebbene enunciasse un ideale universalistico che aveva raggiunto lo statuto di legge naturale, era di fatto un costrutto storico e come tale era contingente e variabile rispetto ai valori e ai luoghi. L'individualismo non è una componente innata della natura umana, come i pensatori liberali sono disposti a credere, quanto piuttosto una formazione discorsiva specifica dal punto di vista storico e culturale, una formazione che, per di più, sta divenendo sempre più problematica. Il filone decostruttivista del costruttivismo sociale introdotto da filosofi poststrutturalisti quali Jacques Derrida (2002) ha inoltre contribuito a una revisione radicale dei principi umanisti. Un'intera generazione filosofica chiamava all'insubordinazione rispetto alle tradizionali concezioni umaniste della natura umana. Femministe come Luce Irigaray (2010, 1990a) hanno evidenziato che il presunto ideale astratto di Uomo, simbolo dell'umanesimo classico, è in realtà il vero e proprio maschio della specie: egli è un lui. Inoltre, lui è bianco, europeo, bello e normodotato; sulla sua sessualità non si può congetturare molto, sebbene molte speculazioni riguardino quelle del suo pittore, Leonardo da Vinci. Cosa questo modello ideale potesse avere in comune con la media dei molti membri della specie e con la civilizzazione che si supponeva rappresentasse è una questione ancora aperta. Le critiche femministe ai sistemi patriarcali operanti attraverso la mascolinità astratta (Hartstock 1987) e la bianchezza trionfante (hooks, 1981, Ware 1992) argomentavano che l'umanesimo universalista era un plausibile bersaglio di obiezioni non solo epistemologiche, ma anche etiche e politiche. I pensatori anticoloniali adottarono un atteggiamento critico analogo, problematizzando il primato della bianchezza come canone di bellezza estetica nell'ideale vitruviano (vedi figura 1.2). Trovando le radici di tali nobili affermazioni nella storia del colonialismo, i pensatori anticolonialisti e antirazzisti hanno esplicitamente messo in questione la rilevanza dell'ideale umanista, alla luce delle ovvie contraddizioni imposte dai suoi presupposti eurocentrici, ma al contempo non lo hanno completamente accantonato. Essi hanno preso in considerazione la responsabilità europea negli usi e negli abusi di questo ideale guardando alla storia coloniale e all'assoggettamento violento delle altre culture, pur continuando ad accettare le sue premesse fondamentali. Franz Fanon ad esempio voleva salvare l'umanesimo dai suoi eredi europei, sostenendo che avevamo malinterpretato e bistrattato l'ideale umanista. Come Sartre scrive nella prefazione al libro di Fanon (1963, 7). Il pensiero postcoloniale asserisce che se l'umanesimo ha dopotutto un futuro, questo proviene dal di fuori del mondo occidentale e supera i limiti dell'eurocentrismo. Per estensione, l'aspirazione all'universalità della razionalità scientifica viene sfidata sia dal punto di vista epistemologico che politico (Spivak 1999, Said 1994.). I filosofi poststrutturalisti francesi perseguirono lo stesso obiettivo di quelli postcoloniali attraverso strade e mezzi differenti. Essi affermavano dopo il colonialismo, dopo Auschwitz, dopo Hiroshima e i gulag – per citare solo alcuni degli orrori della storia moderna – noi europei necessitiamo di elaborare una critica dell'illusione di onnipotenza che consiste nel porre noi stessi come guardiani morali del mondo e motori dell'evoluzione umana. Così la generazione filosofica degli anni Settanta, fu antifascista, postcomunista, postcoloniale e postumanista, con una eterogeneità di combinazioni fra i termini. Ha portato al rifiuto della definizione di un'identità classica umanista, della razionalità e dell'universale. Le filosofie femministe della differenza sessuale, attraverso lo spettro della ctitica della mascolinità dominante, hanno inoltre sottolineato la natura etnocentrica dell'aspirazione europea all'universalismo. Hanno difeso la neccessità di aprirsi all'alterità dentro di sé (Kristeva 1991), così da ricollocare la diversità e le appartenenza multiple nella posizione centrale di componente strutturale del soggetto europeo. | << | < | > | >> |Pagina 35Il femminismo antiumanista, noto anche come postmodernismo femminista, rifiuta le identità unitarie modellate sull'ideale umanista, normativo ed eurocentrico, di quest'Uomo ben definito (Braidotti 2003). Esso si è, tuttavia, spinto oltre, sostenendo che risulta comunque impossibile parlare con una sola voce in nome delle donne, dei nativi e degli altri soggetti emarginati. L'accento viene qui posto sulle questioni delle differenze tra categorie diverse e all'interno di ciascuna di esse. A questo proposito, l'antiumanesimo prende le distanze dallo schema di pensiero dialettico, dove la differenza o l'alterità hanno svolto un ruolo costitutivo, poiché avevano assolto al compito di tracciare i confini con l'altro sessualizzato (le donne), l'altro razzializzato (i nativi), l'altro naturalizzato (gli animali, l'ambiente, la terra). Questi altri erano costitutivi nella misura in cui funzionavano come specchi in grado di confermare la posizione suprema del Medesimo (Braidotti 2008a). Questa economia politica della differenza ha portato alla svalutazione di intere categorie di esseri umani, considerati inferiori e dunque alla stregua di corpi utilizzabili: essere differente da significava essere meno di. La norma definitoria del soggetto veniva posizionata al culmine della scala gerarchica il cui premio consisteva nella stessa assenza di differenze. Questo è il trascorso modello di Uomo dell'umanesimo.I processi dialettici negativi di sessualizzazione, razzializzazione, naturalizzazione hanno un'altra importante conseguenza: essi provocano la produzione attiva di mezze verità, o di forme di sapere parziale circa questi altri. L'alterità dialettica e peggiorativa diffonde ignoranza strutturale circa coloro che, proprio perché altri, sono collocati al di fuori delle maggiori divisioni categoriali nell'attribuzione dell'Umanità. Paul Gilroy (2010) indica questo fenomeno con il termine agnatology intendendo con questo l'ignoranza imposta e funzionale. È uno degli effetti paradossali della presunta ratio univeralista del sapere umanista. Edward Said critica «la liquidazione bellicosa delle altre culture e civiltà», in quanto «presuntuosa, non umanista, e indubbiamente frutto di una coscienza non illuminata dal punto di vista critico» (2007, 54). La riduzione allo stato subumano degli altri non occidentali è l'origine dell'ignoranza perdurante, della falsità e della cattiva coscienza del soggetto dominante, il quale è responsabile della loro disumanizzazione epistemica e sociale. [...] L'esempio migliore di contraddizioni intrinseche generate dalla posizione antiumanista è l'emancipazione, o la politica in senso progressista, che io ritengo uno dei più valenti aspetti della tradizione umanista e una sua eredità ancora viva. Lungo lo spettro politico, l'umanesimo ha sostenuto sul fronte liberale l'individualismo, l'autonomia, la responsabilità, l'autodeterminazione (Todorov 2002). Sul fronte radicale, esso ha promosso la solidarietà, i legami comunitari, la giustizia sociale e il principio di uguaglianza. Di orientamento segnatamente laico, l'umanesimo ha diffuso il rispetto per la scienza e la cultura, contro l'autorità dei testi sacri e del dogma religioso. Inoltre, esso è caratterizzato da un elemento avventuroso, un anelito alla scoperta guidato dalla curiosità, un approccio orientato alla progettualità molto apprezzabile per il suo pragmatismo. Questi principi sono così profondamente radicati nelle nostre abitudini di pensiero da risultare difficile abbandonarli del tutto. E perché dovremmo? L'antiumanesimo critica la convinzione implicita circa il soggetto umano racchiuso nell'immagine umanista dell'Uomo, ma questo non comporta un suo rifiuto totale. Per me è impossibile, sia intellettualmente che eticamente, separare gli elementi positivi dell'umanesimo dalle loro controparti negative: l'individualismo genera egoismo ed egocentrismo, l'autodeterminazione può trasformarsi in arroganza e dominazione; e la scienza non è libera dalle sue stesse tendenze dogmatiche. Le difficoltà inerenti al superamento dell'umanesimo come tradizione intellettuale, contesto normativo e pratica istituzionalizzata si trovano al centro dell'approccio decostruttivo al postumano. | << | < | > | >> |Pagina 46Nel pensiero postumano attuale rintraccio tre filoni prevalenti: il primo viene dalla filosofia morale e sfocia in una forma reattiva di postumano; il secondo proviene dai science and technologies studies e abbraccia una forma analitica di postumano; e il terzo, dalla mia stessa tradizione di filosofia antiumanista della soggettività e propone un postumanesimo critico. Permettetemi di guardare con ordine a ciascuno di essi.L'approccio reattivo al postumano è difeso, concettualmente e politicamente, da contemporanei pensatori liberali del calibro di Marta Nussbaum (2006, 2013). La quale sviluppa un'accurata e attuale difesa dell'umanesimo, inteso come garanzia della democrazia, della libertà e del rispetto della dignità umana, e rifiuta l'idea stessa della crisi dell'umanesimo europeo, tantomeno la possibilità del suo declino storico. Nussbaum riconosce le sfide poste dalle attuali economie globali tecnologicamente guidate, ma risponde a esse riproponendo gli ideali classici umanisti e la politica liberale progressista. Difende la necessità dei valori universali umanisti, poiché li considera un rimedio contro la frammentazione e la deriva relativista dei nostri tempi, che è risultato della globalizzazione stessa. L'universalismo cosmopolita umanista è inoltre presentato come un antidoto contro il nazionalismo e l'etnocentrismo, che affligono il mondo contemporaneo, e contro la prevalente attitudine americana all'indifferenza verso il resto del mondo. [...] Una seconda importante area di sviluppo del postumano è quella dei science and technologies studies. Un'area interdisciplinare che si interroga su questioni etiche e concettuali cruciali circa lo statuto dell'umano, eppure è generalmente disinteressata a uno studio approfondito delle sue conseguenze per una teoria della soggettività. L'influenza della antiepistemologia di Bruno Latour , avversa a una teoria della soggettività, spiega in parte questo disinteresse. Concretamente, si traduce in una serie di filoni di ricerca postumana paralleli e non comunicanti. Una nuova segregazione del sapere ha luogo lungo le linee divisorie delle due culture, l'umanesimo e le scienze, della quale discuterò a fondo nel quarto capitolo. | << | < | > | >> |Pagina 50Vi è un altro problema fondamentale a proposito dell'umanesimo residuo della posizione analiticamente postumana e dei suoi tentativi di moralizzare la tecnologia, marginalizzando gli esperimenti collaterali con nuove forme di soggettività, esso consiste in un'espressione di fiducia eccessiva nell'intenzionalità morale della tecnologia in sé. Più nello specifico questa posizione nega il presente stato di autonomia raggiunto dalle macchine. La complessità delle nostre tecnologie intelligenti si trova al centro del cambiamento postantropologico, che sarà argomento del prossimo capitolo. Per adesso vorrei considerare solo un aspetto della nostra intelligenza tecnologica.Un recente numero del settimanale «The Economist» (2 giugno 2012) su «Morali e macchine» solleva alcune domande pertinenti circa il grado di autonomia raggiunto dai robot e si appella alla società per elaborare nuove regole per governarli. L'analisi è significativa: in opposizione all'idea modernista del robot come servo dell'uomo, come esemplificato dalle «tre leggi della robotica» di Isaac Asimov formulate nel 1942, oggi ci confrontiamo con un'altra situazione, in cui l'intervento umano è piuttosto marginale se non del tutto irrilevante. «The Economist» scrive:
Non appena i robot sono diventati autonomi, la nozione di macchine guidate
da computer capaci di affrontare decisioni etiche è fuoriscita dal dominio della
fantascienza per entrare nel mondo reale (2012:11).
Molti di questi robot sono stati costruiti per fini militari, e ritornerò sulla questione nel terzo capitolo, ma molti altri sono usati per rispettabili fini civili. Tutti condividono una carattersitica cruciale: hanno reso tecnologicamente fattibile il superamento dei processi decisionali umani sia a livello operazionale che morale. Secondo questo resoconto, gli umani agiranno sempre meno «nel circuito» e sempre più «sul circuito», monitorando robot da guerra e da lavoro piuttosto che controllandoli alacremente. Rimangono da sciogliere solo i nodi etici e legali per garantire responsabilità ai processi decisionali autonomi delle macchine, dal momento che esse dispongono già di capacità cognitive. Via via che esse diventano più intelligenti e diffuse, le macchine autonome sono tenute a prendere decisioni sulla vita e la morte e pertanto ad assumere comportamenti di responsabilità attiva. Nonostante questo alto grado di autonomia, tuttavia, i risultati nel processo decisionale morale rappresentano, al massimo, una questione aperta. Contro le pretese di una intenzionalità morale incorporata alla tecnologia, io affermerei piuttosto che la tecnologia è normativamente neutrale. Si prenda una qualunque domanda scottante, come: può un veicolo volante senza equipaggio, come un drone, dar fuoco alla casa dove si sa nascondersi il bersaglio, se essa è anche rifugio dei civili? Dovrebbero i robot che riparano ai disastri dire la verità alla gente rispetto alla loro condizione, diffondendo così panico e dolore? Questi interrogativi ci conducono all'ambito dell'«etica delle macchine», che mira a rendere le macchine adatte a compiere tali scelte in modo appropriato, in altre parole a distinguere il bene dal male. Ma chi è che decide davvero? Secondo «The Economist» (2012) un nuovo approccio etico necessita di essere elaborato tramite esperimenti attivi. Essi dovrebbero interessare soprattutto tre aree: in primo luogo il ruolo del diritto, nel decidere se sarà l'ingegnere, il programmatore, l'industriale o l'operatore il colpevole degli errori della macchina. Occorre un dettagliato registro di sistema per assegnare la responsabilità, che possa spiegare il ragionamento che sottende il processo decisionale. Questo ha implicazioni per la progettazione, con agevolazioni per i sistemi che obbediscono a regole predeterminate piuttosto che per i sistemi di decision making. In secondo luogo, quando i sistemi etici sono integrati nei robot, il giudizio che esprimono dovrà sembrare buono per la maggioranza. Le tecniche della filosofia sperimentale, che studia il modo in cui le persone rispondono ai dilemmi etici, dovrebbero essere d'aiuto. In terzo luogo, una nuova collaborazione interdisciplinare è richiesta tra ingegneri, eticisti, giuristi e politici, i quali elaborerebbero regole molto divergenti se lasciati al loro proprio arbitrio. Tutti avrebbero da guadagnare da un lavoro di tipo cooperativo.
Lelemento postumano della situazione descritta dall'«Economist» è
rappresentato dal fatto che in essa non si assume l'umano,
il sé individualizzato, come fattore decisivo del soggetto principale. In essa
piuttosto si immagina quella che io definerei un interconnessione trasversale
tra attori umani e non umani, in modo
non dissimile dall'Actor Network Theory di Latour (Law e Hassard 1999). È
significativo che un giornale cauto e conservatore come
«The Economist», confrontandosi con la sfida rappresentata dalle
tecnologie di potere postumane che abbiamo sviluppato, non faccia appello a un
ritorno dei valori umanisti, ma alla sperimentazione pragmatica. Ciò sollecita
tre miei appunti: in primo luogo, che
non potrei essere più d'accordo sul fatto che questo non è il momento dei
lamenti nostalgici per il trascorso umanista, bensì degli
esperimenti lungimiranti per nuove forme di soggettività. In secondo luogo
vorrei ribadire la struttura normativamente neutrale
delle attuali tecnologie: esse non sono dotate di una responsabilità
intrinsecamente umanista. In terzo luogo: noto che i difensori del
capitalismo avanzato, nel cogliere il potenziale creativo del postumano,
sembrano più veloci di molti oppositori progressisti e
neoumanisti, animati dalle migliori intenzioni.
Nel prossimo capitolo ritornerò
sulla tendenza opportunista del postumano sviluppata nella contemporanea
economia di mercato.
Postumanesimo critico
Il terzo filone del pensiero postumanista, la mia stessa variante, non presenta alcuna ambivalenza concettuale o normativa verso il postumanesimo. Io vorrei spingermi oltre il postumanesimo analitico e sviluppare prospettive affermative a partire dal soggetto postumano. La mia ispirazione ad addentrarmi nel postumanesimo critico proviene certamente dalle mie radici antiumaniste. Più nello specifico, la corrente di pensiero che si è spinta più in là nell'apertura del potenziale produttivo della condizione postumana può essere genealogicamente rinvenuta nel poststrutturalismo, nell'antiuniversalismo femminista e nella fenomenologia anti-coloniale di Fanon (1996) e del suo maestro Aimé Césaire (1995). Essi sono accomunati da un solido impegno per risolvere le conseguenze del postumanesimo sulla nostra comprensione del soggetto umano e dell'umanità nella sua interezza. | << | < | > | >> |Pagina 58ConclusioniQuesto capitolo ha tracciato il mio itinerario personale tra le molteplici possibili genealogie del postumano, compreso l'avvento delle forme alternative di postumanesimo critico. Nuove forme motivate dalla scomparsa dell'Uomo, misura precedente di tutte le cose. Eurocentrismo, maschilismo e antropocentrismo sono spiegati di conseguenza come fenomeni complessi e interrelati. Questo già basterebbe a descrivere il carattere altamente complesso del concetto di umanesimo stesso. Vi sono infatti molti tipi di umanesimo e il mio itinerario personale, dal punto di vista generazionale e geopolitico, evidenzia soprattutto una specifica linea genealogica: Gli umanesimi romantico e positivista grazie ai quali le borghesie europee hanno esercitato le loro egemonie sulla modernità, l'umanesimo rivoluzionario che ha scosso il mondo e l'umanesimo liberale che ha cercato di domarlo, l'umanesimo dei nazisti e gli umanesimi delle loro vittime e dei loro oppositori, l'umanesimo antiumanista di Heidegger e l'antiumanesimo umanista di Foucault e Althusser, l'umanesimo laico di Huxley e Dawkins o il postumanesimo di Gibson e Haraway (Davies 1997, 141). Il fatto che questi diversi tipi di umanesimo non possano essere ridotti a una sola linea narrativa è alla radice del problema e dei paradossi implicati nei tentativi di superare l'umanesimo stesso. Quello che mi pare assolutamente evidente è la necessità storica, etica e politica di superare tale concezione, alla luce della sua storia di promesse non mantenute e di brutalità senza paragoni. Una misura metodologica e tattica fondamentale è la pratica della politica della collocazione, o delle pratiche di sapere situate e responsabili. | << | < | > | >> |Pagina 153È inevitabile che le scienze umane subiscano l'impatto della condizione postumana. Lo slittamento dei confini discorsivi e delle differenze categoriali, innescato rispettivamente dall'esplosione dell'umanesimo e dall'implosione dell'antropocentrismo, causa una frattura all'interno delle scienze umane che non può essere riparata dalla semplice buona volontà. Cerchiamo di valutare i danni sulla base delle analisi che ho fornito nei tre precedenti capitoli. Nel primo capitolo ho discusso delle ricadute del postumanesimo. Il concetto di umano implicito nell'umanesimo, che esprime una serie di convinzioni assiomatiche intorno all'unità di riferimento comune per il soggetto della conoscenza, è rappresentato dall'Uomo Vitruviano. Esso veicola l'immagine dell'uomo inteso come animale razionale dotato di linguaggio. Nel corso degli ultimi trent'anni gli antiumanisti hanno problematizzato sia l'autorappresentazione che l'immagine del pensiero implicate dalla definizione umanista di umano, specialmente l'idea di ragione trascendentale e la nozione di soggetto coincidente con la coscienza razionale. Questa autocompiacente immagine di Uomo è tanto problematica quanto parziale poiché promuove comportamenti autocentrati. Inoltre, dal momento che distribuisce le differenze su una scala gerarchica di decrescente dignità, nella storia occidentale questo soggetto umanista definisce se stesso in base a ciò che esclude oltre che a ciò che include nella sua stessa rappresentazione, un approccio che spesso giustifica una relazione violenta e belligerante con gli altri sessualizzati, razzializzati e naturalizzati, che vengono relegati al rango di svalutate differenze. Inoltre, gli appelli all'universalismo sono stati criticati in quanto escludenti, androcentrici ed eurocentrici. Tali appelli diffondono ideologie maschiliste, razziste e prevaricatrici, che trasformano la specificità in falsa universalità e la normalità in ingiunzione normativa. Quest'immagine del pensiero mistifica la pratica delle scienze umane e, in particolare, trasforma la teoria in un esercizio di esclusione gerarchizzata e di egemonia culturale. Negli ultimi trent'anni nuove epistemologie critiche hanno proposto definizioni alternative del concetto di umano, attraverso la creazione di nuovi campi interdisciplinari che si riferiscono a loro stessi con il termine «studi»: studi di genere, femministi, etnici, culturali, di comunicazione, dei diritti umani (Bart et al. 2003). In questo libro ho posto in primo piano la teoria femminista come principale punto di riferimento teoretico e metodologico. Secondo James Chandler (2004) questa proliferazione di controdiscorsi produce una situazione di «disciplinarietà critica» che è sintomo della condizione postumana. Chandler sostiene che a seguito della giusta diagnosi di Foucault sulla morte dell'Uomo, la tradizionale organizzazione dell'università in dipartimenti è stata messa in discussione dall'aumento di questi nuovi ambiti di discorso. Tale proliferazione di studi è sia un pericolo quanto un'opportunità, dal momento che richiede innovazioni metodologiche, così come un approccio genealogico critico che superi la mera retorica della crisi. Le conseguenze del postantropocentrismo, come ho mostrato nel secondo capitolo, determinano un'agenda differente per le scienze umane, non solo per quanto concerne le priorità della ricerca. L'immagine del pensiero implicata dalla definizione postantropocentrica dell'umano si spinge molto avanti nel processo di decostruzione del soggetto, poiché si concentra sulla relazionalità, ovvero sulle identità non unitarie e sulle alleanze multiple. Poiché questo cambiamento avviene in un mondo globalizzato e tormentato da conflitti, esso prospetta nuove sfide negli ambiti postlaici e postnazionalisti, compresa la nuova dimensione europea segnata da multiculturalismo e diversità culturale. Qual è il ruolo delle scienze umane, come impresa scientifica in una cultura globalizzata che funziona in rete ( Terranova 2006), che non trova più nell'unità dello spazio e del tempo i suoi principi regolatori? Nell'era in cui scienza e giornalismo vengono esercitati direttamente dai cittadini, quale può essere il ruolo delle istituzioni di ricerca accademiche? Il dislocamento dell'antropocentrismo e lo slittamento della gerarchia delle specie lascia l'umano senza punti di ancoraggio e di supporto, cosa che priva l'ambito delle scienze umane delle più che necessarie basi epistemologiche. La questione del futuro delle scienze umane, il problema del loro rinnovamento e del ricorrente rischio del tramonto di tali discipline, è aggravato da un fattore centrale: «I nuovi collegamenti umano-non umano, tra i quali le complesse interfacce che includono assemblaggi macchinici di wetware biologici e di hardware non biologici» (Bono et al. 2008, 3). Abbiamo visto nel secondo capitolo che la distinzione dualista natura-cultura è crollata ed è stata sostituita da un sistema complesso di feedback dei dati, di interazione e trasferimento di comunicazione. Cosa che pone di nuovo il problema della relazione tra le due culture al centro dell'agenda attuale. Contro i profeti di sventura, preferisco sostenere che il postantropocentrismo tecnologicamente mediato può fare proprie le risorse dei codici biogenetici, come quelle delle telecomunicazioni, delle nuove tecnologie mediatiche e dell'informazione, al fine di innovare le scienze umane. La soggettività postumana rimodella l'identità delle pratiche umaniste, mettendo in rilievo l'eteronomia e la relazionalità multisfaccettata, anziché l'autonomia e la purezza autoreferenziale delle discipline accademiche. Il nucleo profondamente antropocentrico delle scienze umane è sostituito da questa complessa configurazione del sapere dominato dagli studi scientifici e tecnologici sull'informazione, come ho mostrato nel secondo e nel terzo capitolo. Lungi dall'essere una crisi terminale, tuttavia, questa sfida apre a nuove dimensioni globali ed eco-filosofiche. Per quanto mi riguarda, quest'entusiasmo per il postumano, non esattamente scevro da anticipazioni impazienti, trae origine dal mio background antiumanista e femminista. Tale entusiasmo genera un'energica, e nondimeno critica, relazione con l'ambito contemporaneo delle scienze umane classiche. Può apparire paradossale, per non dire altro, il fatto che le pensatrici critiche entrate nelle istituzioni accademiche a seguito della rivoluzione culturale degli anni Settanta, con l'esplicito intento di cambiarle dall'interno, si riducano oggi a restaurare le medesime discipline e a salvarle dal declino istituzionale. Come ho fatto notare nel capitolo precedente, le cose non sono mai chiare e distinte quando si tratta di elaborare una valida posizione postumana, e il pensiero lineare non è di certo il metodo migliore per raggiungerla. Sam Whimster analizza questo dilemma con lucidità (2006, 174): Le scienze umane, le quali consistono nell'encomio e nell'esplicita delucidazione della condizione umana come non riducibile a una base materiale, hanno cominciato a decadere dal tardo ottocento con l'emergere del darwinismo come valida dottrina scientifica sull'origine delle specie viventi. Pertanto una scienza dell'umano deve poter dimostrare di essere capace di pensare il non umano o, in alternativa, di restare umanista ma carente sul piano scientifico. Whimster ci ricorda inoltre che la filosofia francese ha affrontato il problema delle scienze umane postantropocentriche e dello statuto dell'umano già nel lavoro sorprendentemente originale del 1748 del filosofo Julien La Mettrie (1996). Era un materialista umanista appartenente alla grande tradizione del materialismo illuminista francese, e rappresenta uno dei precursori più moderni degli antichi archivi delle scienze umane. La teoria di La Mettrie sulla struttura dell'umano, intesa come intrinsecamente meccanica e capace di autorganizzazione, costituisce un percorso di rottura molto importante per la nostra attuale situazione. | << | < | > | >> |Pagina 195Non tutti possiamo sostenere, con un benché minimo senso di certezza, che siamo già diventati postumani, o che non siamo null'altro all'infuori di questo. Alcuni di noi continuano a sentirsi molto legati all'umano, quella creatura che ci è tanto familiare da tempo immemore, la quale in quanto specie, presenza planetaria e formazione culturale, ha saputo sviluppare un particolare tipo di comunità. Neppure possiamo spiegare con alcun grado di precisione, grazie a quale contingenza storica, attraverso quali vicissitudini intellettuali o quali svolte del destino, siamo entrati nell'universo postumano. Ciononostante, l'idea di postumano gode oggi, nell'era nota come antropocene, di ampio consenso. Suscita esaltazione e ansia al contempo, e provoca rappresentazioni culturali assai polemiche. Cosa molto importante ai fini di questo libro, la situazione postumana impone la necessità di pensare nuovamente, e più a fondo, allo statuto dell'umano, di riformulare di conseguenza la questione della soggettività, così come impone il bisogno di inventare forme di relazione etiche, norme e valori adeguati alla complessità di questi tempi. Questo richiede anche la ridefinizione delle finalità e delle strutture del pensiero critico, trattandosi, in ultima analisi, di sostenere il prestigio istituzionale del campo accademico delle scienze umane nell'università contemporanea. Questo libro si è aperto con quattro vignette che illustravano sia le note positive che gli orrori dei nostri giorni: il disfacimento della dicotomia tra natura-cultura e l'alto livello di mediazione tecnologica che genera una serie di paradossi, quali una panumanità connessa elettronicamente che reca con sé anche intolleranza e violenza xenofobica. Piante, animali e vegetali geneticamente modificati proliferano insieme ai virus dei computer mentre veicoli volanti e altri mezzi militari senza equipaggio ci pongono al cospetto di nuovi modi di morire. L'umanità viene ricreata come categoria reattiva, legata dalla comune vulnerabilità e dallo spettro dell'estinzione, ma anche colpita da vecchie e nuove epidemie, coinvolta in nuove guerre senza fine, afflitta dai campi di detenzione e dall'esodo dei rifugiati. Gli appelli a nuove forme di relazione cosmopolite o per un ethos globale sono spesso controbilanciati da atti omicidi come quello di Pekka Eric Auvinen o di Anders Behring Breivik. In questo libro ho cercato di analizzare, in fasi diverse, l'alternanza tra l'entusiasmo per la condizione postumana e la preoccupazione per i suoi lati inumani e disumani. Per tutto il libro ho sottolineato l'importanza della teoria critica, con la quale intendo quella commistione tra critica e creatività che rende imperativo rinnovare positivamente il nostro confronto con il presente. Le mie preoccupazioni principali sono: come trovare rappresentazioni teoretiche e immaginarie adatte alle nostre condizioni di vita e come sperimentare insieme forme alternative di soggettività postumana? Le quattro domande-chiave che ho posto all'inizio hanno strutturato questo libro come un viaggio attraverso gli scenari multidimensionali del postumano: come possiamo elaborare resoconti degli itinerari storici che ci hanno condotto al postumano? In secondo luogo, cosa comporta la condizione postumana per le scienze umane e, nello specifico, quali nuove forme di soggettività genera questa condizione? In terzo luogo, come possiamo interrompere il processo che rende disumano il postumano? Infine, qual è la funzione delle scienze umane nell'era postumana? Questi interrogativi non sono lineari bensì intrecciati, delineano una strada a zigzag attraverso paesaggi complessi. Come scrittrice e pensatrice ho scelto la posizione dell'apripista e della cartografa, per rendere conto non solo delle difficili transizioni ma anche di alcune contraddizioni inerenti alla nostra situazione attuale. Vediamo, a questo punto del viaggio, quanto siamo arrivati lontano. | << | < | > | >> |Pagina 205Al confronto con trasformazioni di tale portata, è urgente organizzare una nuova agenda postumana. I confini e i limiti dei corpi devono divenire oggetto di discussione collettiva e di decisione da parte delle istituzioni plurime della politica e della società civile, in modo tale da non assumere, per inerzia o per paura, la centralità, tantomeno l'universalità, dei principi umanisti antropocentrici. Abbiamo bisogno, adesso, di imparare a pensare differentemente a noi stessi e di sperimentare nuovi modelli di pensiero per rendere conto di cosa costituisca l'unità di riferimento comune dell'umano. Per questo motivo ho insistito tanto in questo libro sulla questione della soggettività: ci servono nuove griglie per mettere a fuoco punti di riferimento comuni e nuovi valori, per venire a patti con le trasformazioni sconcertanti cui stiamo assistendo. Questo libro nasce dalla convinzione che i soggetti postumani all'inizio del terzo millennio, nelle loro molteplici e diverse collocazioni, siano perfettamente in grado di far fronte alla sfida rappresentata dal presente, a condizione che lo facciano in uno sforzo collettivo e nell'orizzonte di un progetto comune. La prassi concreta e attualizzata è il modo migliore per affrontare le nuove possibilità che si dispiegano sotto i nostri occhi, come risultato dei nostri progressi scientifici, sostenuti collettivamente.La corporalità umana e la soggettività stanno oggi vivendo una profonda trasformazione. Come chiunque viva in un'epoca di cambiamenti, non siamo sempre lucidi e attenti rispetto a dove ci stiamo dirigendo, o capaci di spiegare cosa sta esattamente avvenendo intorno a noi. Alcuni di questi eventi provocano in noi soggezione e paura, mentre altri ci fanno sussultare per la gioia: come se il nostro contesto attuale continuasse a spalancare le porte della percezione collettiva, costringendoci a udire il frastuono dell'energia cosmica che si trova dall'altro lato del silenzio e ad ampliare la portata di ciò che è diventato possibile. È inquietante, ma anche esilarante confrontarsi quotidianamente con cambiamenti vertiginosi, con l'immensità dei nuovi orizzonti che ci ricordano, volente o nolente, che siamo fatti della stessa sostanza dei sogni. Non c'è da stupirsi che molti di noi girino le spalle a tutto questo, preferendo riparare nei luoghi comodi e rassicuranti della stupidità, come George Eliot aveva profeticamente intuito.
Eppure la pecora Dolly è reale, non è un personaggio della fantascienza ma
il risultato della ricerca scientifica, dell'immaginario
sociale attivo e di solidi investimenti finanziari. Nonostante sia
noto come
Blade Runner,
Oscar Pistorius non sogna pecore elettroniche. Le reti di trasporti globali nei
maggiori centri metropolitani ci hanno abituato a treni senza conducenti e i
dispositivi elettronici portatili sono così potenti che stentiamo a tenere il
passo con loro. Umane, troppo postumane, tutte queste estensioni e
queste protesi che i nostri corpi sono in grado di sostenere sono
già qui e qui resteranno. Stiamo andando al passo con i nostri sé
postumani, o vogliamo continuare a indugiare in una cornice teorica e
immaginativa sospesa e confusa rispetto all'ambiente reale
in cui viviamo? Questo non è il Mondo nuovo di Huxley, vale a dire
una versione distopica del peggiore degli incubi modernisti. Non
è neppure il delirio transumanista della trascendenza dai corpi
umani attuali. Questa è la nuova situazione in cui siamo immersi:
l'immanente
hic et nunc
del pianeta postumano; uno dei possibili
mondi che ci siamo costruiti. E dal momento che esso è il risultato
dei nostri sforzi congiunti e dell'immaginario collettivo, è semplicemente il
migliore dei mondi postumani possibili.
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