Copertina
Autore Manlio Brusatin
Titolo Colore senza nome
EdizioneMarsilio, Venezia, 2006, Biblioteca , pag. 164, ill., cop.fle., dim. 155x213x12 mm , Isbn 978-88-317-8853-3
LettoreFlo Bertelli, 2006
Classe arte , storia dell'arte , teoria dell'arte , psicologia , storia sociale , sensi
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


    COLORE SENZA NOME



  7 Storia dell'uomo dei colori

  9 Dal nero lezione di tenebre

 23 Arte abissale

 39 L'uomo dei colori

 57 Il colore cieco

 73 Un colore mai visto

105 Colori supplementari

133 Per un'arte senza nome



145 Bibliografia di riferimento

157 Indice dei nomi

 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 7

Storia dell'uomo dei colori


Un bambino giocava in un orto vicino a un grande parco recintato da un'alta inferriata. Giocava con la sua palla colorata e sapeva che se fosse andata dall'altra parte nessuno gliela avrebbe mai più rilanciata. Perché di là c'erano soltanto uomini offuscati che camminavano avanti e indietro, ma camminavano avanti come se camminassero indietro, senza guardare da nessuna parte.

Un giorno il bambino vide un uomo con un cappello strano fatto a fagiolo che si sedeva all'interno del muretto, voltandogli le spalle. Veniva ogni giorno rimanendo inclinato in avanti come ammirando qualcosa in terra che però il bambino non vedeva.

Era estate, il periodo delle vacanze, e il bambino poteva osservare ogni giorno l'uomo il quale arrivava abbastanza presto, si sedeva e stava lì per tutta la giornata. Se ne andava forse per il pranzo, ma quando il bambino tornava dopo aver mangiato la minestra lo trovava sempre lì.

Aveva visto che quando arrivava portava sempre sotto il braccio una cartella di cartone color marrone. Incuriosito voleva vedere cosa faceva quell'uomo e per far questo salì su un albero da dove poteva vedere dall'altra parte e aspettò. Però quel giorno l'uomo non venne, ma dopo tre giorni sì.

L'uomo apriva la sua cartella di cartone dove c'era una quantità di carte colorate di caramelle, tutte ben distese e raccolte. Le toglieva una alla volta e le guardava contro luce, scegliendone ora una ora un'altra. Qualche volta faceva dei cambiamenti, scegliendo una carta colorata al posto di un'altra e la metteva in terra davanti a sé, dopo aver messo via quella che aveva scelto prima.

Quello che non si vedeva, e ora il bambino poteva vedere, era che davanti all'uomo, in mezzo all'erba, c'era un quadrato liscio di sabbia bianca. Qui erano disposte le carte di caramelle colorate ora in un modo ora in un altro ma si vedeva che lui cercava sempre di arrivare in ogni modo a una composizione finale, come in un quadro. L'uomo dopo aver disposto tutte le carte di caramelle guardava intensamente l'opera. Alcune volte la modificava, altre volte la ricomponeva come prima, tanto da arrivare alla sera, quando alla fine si metteva in contemplazione, assorto, davanti al suo ultimo quadro. Non per molto però, perché alquanto soddisfatto raccoglieva frettolosamente tutte le sue carte colorate e le rimetteva scrupolosamente nella sua cartellina di cartone. Per continuare il giorno dopo allo stesso modo e il giorno dopo ancora allo stesso modo ma facendo un quadro ogni giorno diverso.

Alla fine delle vacanze però l'uomo col cappello a fagiolo non venne più.

Ma il bambino non dimenticò ma più l'uomo dei colori, perché aveva in mente tutti quei quadri che l'uomo faceva e disfaceva ogni giorno.

Poco tempo dopo ha saputo che quel parco era un manicomio, e molto tempo dopo seppe che quell'uomo era un pittore che si chiamava Gino Rossi, e che per morire lì era stato più di vent'anni. Questa è una storia vera.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 9

1.
DAL NERO LEZIONE DI TENEBRE



«O notte, o dolce tempo, benché nero»

MICHELANGELO BUONARROTI


Solo il sogno restituisce l'intensità e l'opacità del nero. Il nero non esiste nemmeno nella visione notturna che è velata, come rigata di tenebre. L'Uomo Nero così presente nell'oscurità delle scale di qualsiasi infanzia, è un uomo intabarrato, pieno di pioggia, che ride, ride di noi che piangiamo. Le persone nere che compaiono nei sogni, normalmente interpretate come forze terrestri, sono ombre e in quanto tali immagini della morte – di questo ci convince James Hillman – e allora l'ombra nera è necessariamente e fangosamente bagnata di pioggia, come l'incerta passeggiata degli zombie che viene proprio incontro a noi. Nell'iconografia dell'antica Cina ugualmente il nero è legato all'elemento dell'acqua, all'acqua della pioggia che viene dal Nord. La maggiore o minore intensità dell'ombra come imber pioggia (ómbros greco in quanto "pioggia", abbra- sanscrito e awra- avestico che vuol dire "nuvola") ha una sua origine in un corpo incorporeo inteso come una trama rigata e intessuta che si addensa molte volte fino a nascondere qualsiasi penetrazione alla luce (fig. 1). Un reticolo di filamenti anche aggrovigliati, dritti e rovesci, di bambagia e di feltro, un allevamento di polvere prolifico che produce e butta intorno i suoi gomitoli polverosi come teneri nidi di topi appena nati. Un corpo spesso e leggero di polvere, di corpuscoli infiniti che si sovrappongono ad altri, loro simili, e creano la sensazione di uno strato di opacità e di oscurità intessute.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 39

3.
L'UOMO DEI COLORI




                                Teorema dei colori

                                Se il numero dei quadri
                                al mondo è maggiore
                                del numero dei colori
                                di ciascun quadro
                                e ogni quadro ha almeno un colore
                                ci saranno allora almeno due quadri
                                con lo stesso numero di colori?



'adam (uomo) viene da dama (terra). Adamo è fatto di terra, il primo uomo è rosso, come di terra cotta. Impastato e quindi cotto per ottenere quella durezza che il fuoco dà a ogni vaso di coccio. Anche la nudità per vedersi, accanto alla coscienza e volontà di peccare, ha bisogno della lucida superficie di un'anfora con due braccia. Un corpo fatto a immagine e somiglianza di Dio, privo di peli, è di creta cotta e quindi già rosso per la vergogna. I due primi uomini ormai non più simili agli animali sono come vasi vuoti che dovranno essere riempiti, non di solo cibo. Il peccato originale è un peccato di gola, per ingannare la specie, riuscito solo in parte.

Da qui il primo abito di foglie, le prime mutande, il primo bikini, il primo abito alla schiava, e poi la necessità di vangare la terra (Adamo) e di filare la lana (Eva) secondo una stereotipa iconografia dei nostri genitori, accanto all'arte più umana di costruirsi dei tetti con l'arte del primo intreccio, che è radiale e circolare: un canestro tondo, e più in grande una capanna intessuta a cupola che racchiude il cielo stellato, ancora senza separarsi da esso.

La pittura corporea, prima della decorazione delle caverne, con i colori primitivi del giallo e rosso della terra, del nero dei carboni, anche prima della scoperta del fuoco, e poi del bianco della calce e dei gessi, diventa un'opera di confronto con Dio, qualcosa che l'uomo aggiunge alla creazione, oltre che di volontaria separazione dal mondo animale.

I nativi della popolazione Caduveo rispondono in maniera imprevedibile a Lévi-Strauss: «Perché vi dipingete?».

Essi danno una risposta che non si aspettava. L'uomo primitivo si colora per «distinguersi dagli altri animali» e poi dà una spiegazione che lo indica come animale sacro prima che intelligente: «Per appartenersi».

La pitturazione diventa quasi il nome proprio dell'uomo selvatico, una primitiva e singolare dignità, una "personal identity", decretata dal soggetto e trasmessa agli altri (ai più vicini). Lévi-Strauss si sarebbe aspettato una risposta antropologica. Ci dipingiamo per appartenere alla nostra famiglia, per appartenere al clan — invece no, per appartenerci. Era nato un modo particolare di comportarsi e di comunicare, era nata una moda. La pitturazione e l'ornamentazione del corpo è un modo di distinzione e di competizione con gli animali dalle pellicce e dai piumaggi che sono permanenti e rivelatori. Ma nascerà da questo momento accanto alla necessità di distinguersi, mostrandosi diversi dagli animali, la capacità di nascondersi. Questi modi anche nella lunga selezione animale diventano le due forme più diffuse delle colorazioni del manto animale, l'ostensione e il mimetismo, che però non seguono una regia soggettiva, la specie comincia a decidere per i singoli. Mostrarsi e sottrarsi diventano sempre più distintamente la livrea di alcuni animali e il colore delle ali delle farfalle, che dovranno nella loro breve vita giocare un equilibrio cromatico mortale per mostrarsi ai loro simili e per nascondersi dai predatori. Sarebbe utile capire come tutto un genere di farfalle abbia deciso di diventare assolutamente notturno, per una rivoluzione paragonabile alla trasformazione da angeli in diavoli, ma non sappiamo perché. Il rifiuto della luce raggiante del giorno e l'addestramento in un volo ondeggiante che inganna i radar dei pipistrelli, le fanno cadere vittime di una qualsiasi fiamma di candela, prima del giorno che viene. L'arte del momento è un po' questo.

Colori diurni e colori notturni, colori della luce e colori dell'ombra, diventano alfabeti praticabili, pur con gamme infinite, di quei colori cangianti e mutevoli che devono parlare ora la lingua dialettale delle semplici cavolaie ora presentarsi come la testa triangolare di un'aspide alla vista finissima di una rondine o di un falchetto. Ma la storia di un batuffolo di velluto grigio intrappolato dalla luce del giorno, chiamato Atropo o Testa di morto, ci fa meditare sulla sua vita di farfalla sopravvissuta, fuori dal mondo, come un atto volontario e temerario.

L'abito deve vestire due necessità contrapposte, la notte e il giorno, abito o livrea che animali e insetti devono indossare per tutta la vita, mentre l'uomo può indossare un abito per il giorno e uno per la notte, uno per la caccia e un altro per la festa, cambiando solo colore. All'inizio l'abito è la sua pelle ma presto la pelle di un animale diventerà la sua, ma non sarà simile all'animale, sarà allo stesso tempo umana e animale a seconda di una decisione e di un modo assolutamente suo. Uniformità e distinzione giocano appunto molto cromaticamente.

Inseguire l'abito nel suo paradosso cromatico, nella sua mutevolezza e intercambiabilità non è impossibile, pensando limitatamente alle classi che non possono che mostrarsi rispetto ad altre che non possono che nascondersi. I primi effetti del confronto sociale borghese sono un confronto cromatico esibitorio e discorsivo che si stacca dal conflitto feroce dei caroselli e dei tornei medievali per arrivare a presentare le nuove condizioni dell'apparire come nuove realtà dell'essere sociale.

Anche il mondo latino in una curiosa intensificazione cromatica diventa l'affermazione rossastra (Romani) rispetto alla dispersione di una barbarie bluastra (Britanni). Così si presentavano le rosse e solari legioni romane con calzari e mantelli tinti di robbia (rubia tinctorum), rispetto alla spettrale orda barbarica dipinta il corpo di indaco (glastum, isatis tinctoria). Le insegne della vittoria e della sconfitta erano già disegnate nei colori del fuoco e del sole e in quelli della notte e della luna. Anche nella tarda romanità, i colori circensi, dopo la loro suggestione marziale e imperiale, diventavano i simboli più polari della competizione e dei giochi nell'arena. Fino all'epoca bizantina il circo proponeva scontri e competizioni tra squadre gladiatorie di albati e russati (bianchi e rossi), prasini e veneti (verdi e azzurri) con tifoserie che si rovesciavano fuori e diventavano più esattamente fazioni contrapposte che si spostavano dal mercato del circo al mercato della politica. L'imperatore non poteva trascurare i partiti che erano cresciuti e si erano rafforzati dentro e fuori del circo, né poteva intervenire nel loro modo di vestire né nel loro taglio di capelli, né nella lunghezza dei loro pugnali (Procopio, Anékdota).

In questo senso ci si chiede ragione di quella serie di leggi assolutamente inefficaci (ma non inutili, per quanto urgenti), che venivano superate dalla immediata trasformazione delle stesse cose che dovevano proibire. Le "leggi suntuarie" dovevano regolare il lusso esteriore degli abiti e il comune senso del pudore, in realtà servivano a stimare la ricchezza – e il potere che non esisteva se non si esteriorizzava. Erano leggi inutili ma dimostrano, ci ha insegnato la particolare archeologia di Foucault, come proprio in queste e non nelle leggi capitali si scrivessero i dispositivi e le trasformazioni più radicali degli stati moderni, che dovranno modificare i loro statuti nella direzione dei bio-poteri, più diretti e personali, per delineare accanto ai divieti le libertà possibili di un patto ormai giocato in alternanza tra servi e padroni, in una mobilità molto più articolata degli schemi esteriori delle vecchie sovranità, bianche o nere.

A Venezia, la particolare città repubblicana dei contatti e degli scambi, resiste, in periodi abbastanza estesi, una particolare sollecitudine nell'emanare una quantità di leggi suntuarie, leggi apparentemente di pura apparenza. Ma questo era spiegato con la fondata preoccupazione pubblica che un eccesso di libertà nei modi di vestire desse ai forestieri l'idea che c'erano troppi padroni o addirittura nessun padrone. Altra preoccupazione privata stava a considerare che le libertà e il lusso del vestire (soprattutto al femminile) dovessero essere esibiti solo da chi (padre o marito) poteva permetterselo. La competizione sociale nel vestito doveva essere fondata e dire tutto di quanti potevano stare sopra rispetto a quanti dovevano stare sotto. Argomento, il primo, del tutto decaduto, ma un'oligarchia non è ancora quell'inizio di democrazia in cui ognuno si veste come vuole senza dar impressione di una colorata anarchia, rispetto al secondo che ha subito invece una forte espansione reale e simbolica, e si può chiamare ancora "invidia per il vestito della donna d'altri".

Nel Quattrocento sta la vera nascita della società dell'immagine occidentale, dove il vestito diventa quasi tutto sia nell'uomo di stoffa che si muove al di qua delle piazze di Piero della Francesca sia nell'uomo di ferro che fuori della propria città deve indossare quell'opera di sapiente sartoria meccanica di un'armatura, quando le armi da taglio e le frecce, ancora fino alla discesa di Carlo VIII, diventano la prima e l'ultima parola per uno scacco. Il vestito di ferro e il vestito di panno sono in forte competizione e si può dire che uno prenda dall'altro, i colori della guerra sono ancora contrapposti e ostensivi perché si istallano vittoriosamente sugli altri, per farli fuori, mentre i colori dell'abito moltiplicano e intrecciano il discorso degli accostamenti dove spesso vince chi perde ma dove anche non è detta l'ultima parola.

A Venezia si reinventa il damasco, che è una stoffa senza rovescio e si riesporta il broccato, riuscendo a inventare la trafilatura dell'oro, in realtà si tratta di un filo d'argento ricoperto d'oro, ma la vera conquista dell'oriente da parte dell'occidente si fa con il velluto, che non è altro che un'abile contraffazione delle annodature e della rasatura del tappeto, che avrebbe un triste e deludente rovescio se non avesse il colore smagliante del nero cangiante.

I Galatei dei colori di Fulvio Pellegrino Morato (1535) e di Ludovico Dolce (1565) discutono sul significato e soprattutto sulla qualità, diversità, proprietà dei colori degli abiti rispetto a chi li porta ancora ricordando in pieno Cinquecento il feroce e tiranno splendore delle corti quattrocentesche di Mantova e di Ferrara. Ma propongono il nuovo spirito di un Dialogo dei colori, all'interno di quel principio di libertà di azione e di libera circolazione delle persone, delle arti e delle merci che affascina sia Leonardo che il suo allievo Salaí in visita forzata a Venezia nella primavera dell'anno 1500.

I colori soavi, i colori austeri e i colori floridi si intrecciano con i caratteri, che sono anch'essi dei colori soggettivi, come i collerici, i sanguigni, i flemmatici e i malinconici, governati a loro volta dall'oroscopo dei colori dei sette pianeti che propongono i giorni dell'iride settimanale: il bianco della Luna, il rosso di Marte, il viola di Mercurio, l'azzurro di Giove, il verde di Venere (che può indossare anche con il rosso), il nero-piombo di Saturno e il giallo-oro del Sole.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 110

I risultati delle neuroscienze, in particolare gli apporti sostanziali di Semir Zeki con il saggio che sembra voler concludere la sua ricerca, fanno consapevolmente a pezzi sia la psicologia che l'estetica, ma non l'arte. L'arte diventa proprio nel suo aspetto creativo-percettivo il luogo dove le neuroscienze cominciano a tracciare le carte nautiche di un mare nostrum.

Zeki entra per ultimo nel giardino dell'arte come un onesto piantatore di patate che si rivelano, col tempo, bulbi e rizomi che fanno gola per le loro sorprendenti fioriture.

Per quanto riguarda la fondazione di una neuroestetica, gli aspetti dell'arte contemporanea sono volonterosamente affrontati da Zeki in un ambito piuttosto ristretto ma suggestivo, in pratica un confronto intrecciato tra le opere tanto di effetto quanto problematiche di Monet (le Cattedrali e le Ninfee) (vedi il capitolo Il colore cieco) e l'anarchia del "quadro a colori" dei Fauves, accanto alla loro coinvolgente "joye de vivre". Quanto basta per riportare l'arte al centro di un processo post-scientifico, esattamente il contrario di una minaccia rozzamente antiartistica di impronta neo-positivista. Anzi in questa seconda modernità le scienze biologiche e soprattutto le neuroscienze sembrano restituire all'arte non solo quello che è dell'arte ma quanto è stato il processo di ricezione-trasmissione-percezione e di "messa in visione" della conoscenza umana attraverso il lavoro artistico. Si può aggiungere che questo avviene in un momento in cui l'arte vede una propria dispersione cellulare in un organismo placentare, cioè utilità verso inutilità.

La neuroestetica si presenta forse come un'infanzia terribile che scopre i genitori "sul fatto", chiedendosi appunto come gli artisti abbiano saputo guardare e soprattutto abbiano potuto rendere visibile la realtà attraverso quadri o lavori d'arte in relazione al colore, al movimento, alla forma che sono l'abbiccì della costruzione teorica dell'arte. Secondo Zeki sono i rizomi (blob) di una modularità primaria, localizzata nel nostro cervello, le aree V4 come colore, V5 come movimento, danneggiate le quali si esclude l'elaborazione e quindi la visione del colore e del movimento. Mentre le aree inscritte nella visione della forma V3 (linee/superfici/orientamenti) come nel riconoscimento dei volti umani e quindi dei ritratti, non presentano una localizzazione così definita, anche se sono fortemente tributarie delle sedi del colore e del movimento. Quando poi Zeki, invocando quella parola terribile che si chiama neuroestetica, propone una "visione sottrattiva" la quale possa rappresentare anche in sede teorica una percezione distinta, per esempio, o del colore o del movimento, questa diventa tragicamente autentica. Dal punto di vista neurologico abbiamo davanti la non consolatoria schiera di acromatopsici e di acinetopsici, che si sono guastati per qualche disavventura le zone V4 o v5 dei loro cervello come piccoli Frankenstein o piccoli Golem, e quindi ci offrono lo spettacolo di zombie inquieti e spaesati in un mondo senza colori e senza qualità, o in un universo dove non percependo il movimento di quanto sta loro intorno devono stare impossibilmente immobili, allo spasimo.

Non è così per quanto riguarda l'arte, perché abbiamo davanti, nel secolo stesso della fotografia, la più grande e più efficace trasformazione della rappresentazione artistica in pittura, quella che è stata impropriamente chiamata "pittura scientifica" (fig. 31). Quando un gruppo molto ampio «al di là dell'impressionismo» di pittori chiamati indistintamente puntinisti (pointillistes), divisionisti e post-impressionisti cerca di percepire la scena in "forma sottrattiva" e produrre un quadro in "forma additiva". Ricordiamo ancora la duplice distinzione del colore per quanto riguarda la pittura tradizionale: la riproduzione materica si costruisce per "colori sottrattivi" (termine non nato dai pittori ma scoperto da uomini di scienza su ciò che i pittori avevano detto e fatto) e la percezione dei colori attraverso la luce nei "colori additivi". Quest'ultima è diventata con Newton, fino a pochi decenni fa, la ferrea legge dei sette colori dominati ognuno da una lunghezza d'onda specifica, che se elaborati distintamente dal nostro cervello lo farebbero scoppiare, se non ci fosse — propone ora in forma originale Zeki — un effetto "costanza" (constancy) che dipende dall'elaborazione delle aree cerebrali le quali possono considerare "sempre verde" il diverso e relativo verde delle foglie. Per quanto si tratti di un colore più o meno brillante, più o meno saturo, al mattino piuttosto che a mezzogiorno o al tramonto. Ma i pittori già attorno al 1880, in positiva concorrenza con la fotografia — una lastra-tela come un ammasso di punti più o meno impressionati dalla luce —, avrebbero restituito alla complementarietà dei colori la forza del contrasto simultaneo che nel quadro ha un effetto esplosivo, tanto da far allontanare letteralmente lo sguardo. Usando i colori ormai industriali e la piccola bocca rotonda del tubetto, i pointillistes mettono nel quadro tanti punti accostati, disfacendo il quadro tradizionale con il ricomponimento di un mosaico, un nuovo mosaico ondeggiante fatto di punti o linee colorate che possono essere visti a distanza con l'effetto folgorante della luce del sole mescolata dentro al nostro occhio e (ora si può dire) nei nostri blob cerebrali.

Paul Signac quasi alla conclusione di un processo pittorico decostruttivo e ricostruttivo fornisce la ricetta teorica di questa operazione, che comporta una faticosa esplorazione sottrattiva del mondo cromatico per darne una interpretazione additiva, che è quella del mondo della riproduzione meccanica dei colori insieme a quello della visione dentro alle troppo umane aree cerebrali, suggerite da Zeki. I momenti tecnico-percettivi del quadro divisionista continuano ad essere:

1. La mescolanza ottica che avviene nell'occhio (e nel cervello dello spettatore) quando per ottenere un verde particolare si mettano accanto l'uno all'altro puntini o lineette blu e gialli in una forma solo apparentemente prevedibile.

2. La pennellata-tocco (touche) sarà trattata come un'operazione meccanica, per quanto del tutto manuale, fatta cioè di punti o di linee.

3. Il colore locale (cioè di un singolo oggetto) dipende dal riflesso o dall'ombra che riceve dagli oggetti vicini e dall'illuminazione dell'intorno (davanti e dietro) rispetto al corpo illuminante, naturale o artificiale.

4. Il contrasto simultaneo risponde a una legge fisiologica, quasi automatica, quando i colori si richiamano o si esaltano in relazione alla loro complementarietà. Il rosso risalta maggiormente e si espande in campo verde e l'arancione in campo azzurro.

Questa tecnica raggiunge la sofisticata elaborazione artigianale e intellettuale in Georges Seurat nel dipinto capitale del divisionismo, Une dimanche après midi à la Grande Jatte, [...]

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 140

Ancora Baudelaire nel Salon del 1846 descriveva esattamente ciò che le neuroscienze ora possono toccare col dito (Hubel, Zeki, Sacks, Damasio) guardando dentro il nostro cervello: «Si immagini un ampio spazio di natura dove tutto si illumini di verde, di rosso, sfolgorante e liberamente mutevole, e tutte le cose, con diversi colori secondo la propria struttura molecolare, mutate di attimo in attimo allo spostarsi dell'ombra e della luce, agitate dall'interno lavorio dell'energia calorica, si trovino in una vibrazione perenne, la quale fa tremare le linee e porta alla fine la legge del movimento eterno e universale». In questo senso il colore è stato nella sua materia e nella sua percezione il tutto e nulla dell'arte. Il disegno o meglio la forma ha prevalso nella sua eticità e necessità rispetto alla seduzione e di fronte a un mistero presunto del colore. «Il colore è l'elemento di connessione tra le tre arti, architettura, pittura e scultura. Le circostanze più diverse contribuiscono a consolidare o a negare simile azione connettiva». Ma mentre il disegno si stacca dall'opera il colore ci resta attaccato. E il colore è sì il corpo dell'arte ma piuttosto uno spirito impuro, così presente e vano, così seducente e leggero, così sporco e lustro rispetto all'anima. «Prima la forma e poi il colore» ha dettato un criterio di precedenza assolutamente improprio, nell'ambito dell'iconologia, per esempio, che si è servita per la propria e non così innocente "caccia all'autore" di un materiale iconografico, monocromatico cioè fotografico, che se ha giovato all'identificazione cioè alla singolarità dell'opera d'arte ha enormemente nuociuto alla qualità che è sottile come una pelle ma è il sacco corporeo dell'arte.

Si è dibattuto a lungo anche filosoficamente per esempio sulla soggettività e oggettività del colore. Tema che è stato posto oggettivamente alla nascita della critica d'arte e del romanzo moderno che comincia con Goethe (non con l'estetica di Baumgarten che è stata solo il modo di considerare l'arte fino a quel momento) e non l'arte o le arti da quel momento in poi, come doveva succedere.

In un incontro fra Goethe e un suo allievo appena laureato che aveva proposto e discusso un'insolita Vista e colori, Goethe aveva detto: «Ma lei crede proprio che luce e colori non esistano». E l'allievo Schopenhauer: «No, sarebbe lei a non esistere se non vedesse i colori».

Non abbiamo dubbi che questa risposta sia piaciuta al maestro, piacendo anche a noi dopo tanto tempo, anche perché le neuroscienze sono dovute partire da qui. Volontà e rappresentazione partono dall'oggetto-soggetto "del colore", dalla sua luce e dalla sua ombra.

E poi i colori sono stati considerati fratelli dei dolori (e dei piaceri per quanto immateriali) ( Hofmannsthal e Wittgenstein ), ma anche speculari dei numeri ( Frege ) di cui diventano quasi come l'ombra, la stessa ombra scientifica che ha denunciato in un'eclisse la rotondità della terra, in maniera inequivocabile. Ora umanamente e anche matematicamente i colori sono oggettivamente e soggettivamente infiniti come i numeri e ci sono possibilmente anche colori mai visti (si chiedeva Hume ) e impronunciabili, come ci sono dei numeri possibilmente pronunciabili ma impronunciati.

Ora che i colori siano soggettivi o oggettivi non interessa solo a qualcuno, «il colore come forma» sta in mezzo, e sta talmente in mezzo all'arte da essere insostituibile sia nella materia da Vincent Van Gogh, Matisse, Kandinskij, Klein a Mark Rothko, sia nella percezione da Georges Seurat a Dan Flavin, James Turrell, Anish Kapoor, Olafur Eliasson, Damien Hirst, ricordando gli ultimi e più riconoscibili "uomini dei colori", nel tempo degli ultimi colori.

I "ventisette tipi di nero" che Van Gogh vedeva nei quadri di Frans Hals, stanno almeno in rapporto alle sette verità degli almeno sette quadri con zoccoli (o scarpacce?) che Heidegger sapeva finalmente "riconoscere" ma che il pittore proponeva tra gli anni 1885-88, con la scoperta della pittura e l'abbandono di Parigi.

La Web o Net Art che è nata ieri, ma forse non è ancora nata, sta percorrendo con mezzi diversi una strada costellata di colori che è ancora pre-futurista.

Mettendo insieme le cognizioni di percezione dei nostri occhi rispetto alla vista (fig. 37) cioè l'elaborazione del nostro cervello, che è l'unica macchina di cui possiamo disporre con qualche cognizione, vediamo che il colore sta prima o in mezzo al movimento e alla forma, è un medium – e possiamo considerare quanto sia importante nell'età delle comunicazioni precisare i meccanismi di "opponenza" cioè lo stimolo o l'inibizione. Il colore non viene dopo la forma né è un "effetto" del movimento ma trascina la forma e il movimento, rendendo tali movimento e forma, oltre che rendendosi tale. Ormai contrariamente a certi schematismi della Gestalttheorie, un luogo, una situazione, un soggetto non è lo stesso – sono costretto a semplificare – all'interno di un viaggio di andata o di ritorno, un colore non è lo stesso (oltre alle arcinote lunghezze d'onda che nessuno mai ha visto) se si illumina o se si spegne. A meno che non riuscissimo, dice Klee, ad arrivare sulla cima di una collina salendoci contemporaneamente dalla parte nord e dalla parte sud, dalla parte della luce e dalla parte dell'ombra. Benché arrivare sulla collina non sia il compito della pittura, individuare il colore di una collina, il "falso e vero verde", rispetto al suo sfondo, rispetto alla pianura dove sorge, rispetto al vicino o al lontano, e a noi – diventa forse il "santo aspetto" di produzione dell'arte.

Altra quasi ovvia considerazione, nella storia e critica dell'arte in generale: si stava quasi assistendo a una "cromofobia" dichiarata che evitava da una parte sia la complessità sia la troppa semplicità del colore, ma soprattutto la sua costruzione materiale-immateriale. Da parti opposte sia dalle tecniche del restauro che dal colore pubblicitario del design, il colore ha ripreso il suo corpo e la sua immagine, quasi esageratamente. La paura del colore è la paura del corpo e la paura del corpo ci ha fatto amare l'anima, anche nell'arte. Dell'arte abbiamo amato l'anima senza il corpo, sta il fatto che umanamente nemmeno l'anima può stare senza il corpo. Il colore ci parla di come è e di come potrà essere fatta l'arte, anche se essa non ha ancora un nome per quello che sarà. Il suo non-nome ci permette di nominarla in forme disperse, come un'eco, distinguerla da lontano in altri luoghi e territori, con colori visti e immaginati, in luoghi abissali dove sta emergendo la sua possibilità, sempre data per quasi-impossibile.

Invocare ora la pittura sperduta può avere un senso, restando i colori da sempre tossici come i dolori e leggeri come i piaceri.

| << |  <  |