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| << | < | > | >> |IndicePrefazione 7 FRANCO CAMBI - GIANFRANCO STACCIOLI I. PER UNA STORIA DEL GIOCO 11 1. La dimensione ludica nella società romana antica 13 ROSELLA FRASCA 2. Tra Medioevo e Rinascimento: storia sociale del gioco 25 ANGELA GIALLONGO 3. Il gioco nella Modernità: le prassi e le teorie 49 FRANCO CAMBI 4. La borghesia e i suoi giochi 62 LAURA VANNI 5. Il gioco nella cultura popolare: dal folklore alla costruzione sociale 82 SILVIA LELLI 6. Gioco e ludicità nel postmoderno 100 BENIAMINO SIDOTI II. PER UNA TEORIA DEL GIOCO 115 1. Homo ludens: gioco e civiltà 117 FRANCO CAMBI 2. Teorie del gioco oggi 130 ALESSANDRO MARIANI 3. Modelli, norme e pratiche ludiche 141 GIANFRANCO STACCIOLI 4. Per una metateoria del gioco: la prospettiva socio-antropologica 161 DANIELA SARSINI 5. Il gioco fra reale e virtuale 171 LUCA GIULIANO III. PER UNA DIDATTICA DEL GIOCO 187 1. Infanzia e gioco 189 EMMA BAUMGARTNER 2. I giochi vanno a scuola 202 GIANFRANCO STACCIOLI 3. Il giocattolo nell'era postindustriale 216 ROMINA NESTI 4. Gioco e ,felicità 232 FRANCO CAMBI |
| << | < | > | >> |Pagina 7Prefazione
FRANCO CAMBI - GIANFRANCO STACCIOLI
Tornare a riflettere e scrivere sul gioco può apparire, oggi, quasi superfluo, davanti a una bibliografia che — in vari ambiti del ludico — si è fatta veramente "esponenziale". Numericamente e tipologicamente. Con effetti, talvolta, anche di ripetitività e di saturazione. Ma, di fatto, la ragione c'è. Ed è profonda e decisiva. Il gioco e il giocare stanno entrando in una riorganizzazione nuova e, forse, riduttiva, la quale rischia di mettere in un cono d'ombra aspetti cruciali del gioco stesso, inteso iuxta propria principia. E del gioco teorizzato e del gioco esperito. È la condizione imposta e dalla Società della Tecnica e dal Postmoderno, come Tempo dei Simulacri e della Spettacolarizzazione, a creare tale "spostamento". In tale congiuntura il gioco (teoria+prassi) si depotenzia: perde il suo carattere di alterità, eccezionalità e — insieme — quello di fruizione autentica, fusionale, empatica, intensamente gratificante. Si fa invece consumo, soprattutto. E poi loisir, divertissement, soddisfazione connessa a un "fare" strettamente congiunto con l'avere. Il giocare come atto libero, fantastico, creativo — anche nel seguire le regole — tende a sfumare e a retrocedere. Ma con ciò, forse, perdiamo uno dei canoni essenziali dell'umano, della humanitas dell'uomo. Allora, che fare? Diagnosticare, ri-teorizzare, ri-progettare e ri-organizzare. Diagnosticare il décalage e la scomparsa. Ri-teorizzare il ludus per coglierlo nel suo volto più autentico e nel suo stemma più alto, fissandone anche la funzione più significativa (e irrinunciabile). Ri-progettare il giocare, dentro proprio e oltre quel Postmoderno che lo muta sì, ma anche lo emargina, lo contraffà, lo depotenzia. E ri-progettarlo dentro e contro/oltre la società stessa, le sue abitudini, i suoi feticci. Rilanciando la condizione-del-giocare e smascherandone le "contraffazioni". Ma risvegliando anche il bisogno-del-gioco, a partire dall'infanzia, per risalire poi verso tutte le età. Con azioni di riorganizzazione: nella città, nella scuola, nei Mass-media, e ovunque sia possibile. Con strategie ben calibrate, ben sostenute, ben governate. E costantemente. Ma è in atto tale risveglio/ripresa del ludus? Sì, pare di sì. Attraverso atti legislativi internazionali e nazionali, che condannano il lavoro, lo sfruttamento, la violenza sui minori e ne valorizzano invece i bisogni: sì di rispetto, sì di cura, ma anche e di gioco. Attraverso pratiche (diffuse) di richiamo anche agli adulti a farsi coinvolgere in attività ludiche: marce, gare, esplorazioni, visite, etc. Attraverso "giornate mondiali del gioco", qualche "forum d'azione internazionale", esperienze-pilota (di città: Ravenna, ad esempio), attivazione di Laboratori "di progettazione di giochi e spazi ludici". Attraverso eventi che richiamano al valore e al ruolo (sociale e individuale) dell'esperienza ludica. Tutto ciò rivela, bene, tanto il rischio- décalage, già in atto, del gioco, quanto il riconoscimento/tutela del suo – alto, altissimo – significato. Allora c'è da ben sperare? Forse. Ma se – e solo se – l'impegno si fa collettivo, consapevole, reiterato. A cominciare dall'ambito teorico e/o riflessivo che deve continuare a impegnarsi sul "gioco e il giocare", fissandone bene la specificità esperienziale, il valore formativo e l'altissimo stemma ideale (antropologico, culturale, socio-politico). Tale impegno o consapevolezza o sfida che sia sta alla base anche del presente volume, che – in forma diacronica e sincronica – ha cercato di riattivare un'attenzione riflessiva e strategica sul gioco, partendo proprio dalla sua forza formativa.
Il percorso seguito è quello "storico, teorico e pratico", come sottolinea
il sottotitolo stesso. Percorso che intende, così, fissare la pregnanza attuale
dell'esperienza ludica, fissandola nella sua identità più
propria
e
complessa,
come pure affermandola come un
compito
da realizzare nella società attuale, che del gioco stesso ha fatto sì un proprio
paradigma ma de-potenziandolo, rattrappendolo, etc. Da qui anche – dopo l'
iter
storico e il "dibattito" teorico
– la centralità assegnata alla terza parte del lavoro che è stata articolata in
pochi "nuclei" (ma, crediamo, essenziali), attraverso i quali il
ludus
va e può esser ripreso in tutta la sua densità/intensità e riaffermato come
vessillo di quella stessa felicità che è vettore e miraggio ad un tempo della
vita umana, ma che nel gioco viene già e più direttamente posseduta. E che da lì
può essere preservata: e nella teoria e nella prassi. Secondo un circolo
squisitamente virtuoso.
Teorie e prassi – nel gioco come in altre manifestazioni profonde legate all'essere nel mondo – hanno da sempre trovato connessioni, incroci, scambi. Spesso le manifestazioni ludiche sono apparse fortemente inserite nei costumi, nelle identità, nella filosofia di un popolo o di un gruppo di 'gentes'. Altre volte il gioco è stato allontanato, ridotto, alleggerito delle sue funzioni di organizzatore culturale e di oggetto 'simbolo del mondo'. Il nostro tempo non è sfuggito a questa seconda attrazione ed anche l'educazione rivolta ai bambini o a agli adulti, ne è risultata inevitabilmente coinvolta. L'uso del gioco nelle istituzioni educative, nei corsi di formazione, nei vissuti di tanti docenti ed educatori ha limato i vari strati che costituiscono gli 'universali ludici', appiattendoli su gradini non elevati del convivere umano. Ad un gradino più 'basso' troviamo l'uso del gioco come strumento distensivo, piacevole, extracurricolare. Un gioco e un giocare che diviene semplicemente il facilitatore del serio, dell'utile, dell'impegnativo. Un giocare che sembra identificarsi con il lieto, con il gioioso, con il faceto (che sono certo anche caratteri del ludico), con il possesso ed il consumo nella società di oggi, di beni 'ludici' legati al tempo libero e alla vacanza. È un giocare che rincorre i miti del nostro tempo, che esalta l'individuo piuttosto che il gruppo, che spinge verso una ricerca di supremazia personale a scapito della sconfitta degli altri, che esteriorizza il piacere ed il divertimento senza curarsi delle percezioni profonde e delicate, a volte contrastanti, che il gioco può far attraversare. Ad un secondo gradino incontriamo le variegate utilizzazioni didattiche del giocare. Le incontriamo nelle scuole dell'infanzia (ed anche nei nidi), nelle scuole di base, nell'educazione degli adulti fino alla formazione dei manager attraverso giochi strutturati, simulazioni, role playing e tutta una miriade di 'tecniche' ludiche più o meno raffinate. Quanto questa diffusività del gioco nelle diverse facce dell'educazione formale corrispondano o meno ad una coerente e consapevole connessione fra teorie e prassi è difficile dire. L'impressione forte è che l'esigenza di raggiungere fini specifici, parziali, didattici o apprenditivi abbia alterato l'intreccio profondo fra gioco e individuo che in queste 'tecniche' non trova più coerenza esperienziale, non lascia spazio a dubbi, bisogni di ricerca, comunanza, idealità e valori. Utilizzare il gioco ed il giocare ad un terzo gradino vorrebbe dire porsi in condizione di vivere e di far vivere le 'instabilità', la leggerezza, le ambiguità che accompagnano l'agire veramente ludico. Un gioco ben fatto offre verità e le nega, costruisce alleanze e le sgretola, affina cooperazioni ed accetta tradimenti, offre momenti di piacere e fa spuntare il dolore, diventa il luogo del disimpegno e richiede sforzo, disciplina, regola. Questo gradino della ludicità non è facile da individuare, da costruire, da mantenere. Anche perché il gioco è un fenomeno camaleontico, riesce ad insinuarsi in ogni cultura ed in ogni regime, ogni volta cambiando pelle ed adattandosi al contesto che cerca di imbrigliarlo. E proprio questa sua caratteristica ce lo mostra come un fenomeno affascinante, differenziato, astuto. Un fenomeno che cerchiamo di catturare, ma che, cambiando sempre di colore e di vestito, sempre ci sfugge. Il gioco richiama a significati che intrecciano teoria e prassi, esteriorità ed interiorità, individuo e gruppo, vita quotidiana e ricerca del senso del vivere. Per questo forse — ci troviamo ancora qui a cercare di prendere il nostro 'camaleonte' che ci è già sfuggito nel momento in cui abbiamo pensato di averlo catturato. | << | < | > | >> |Pagina 131. La dimensione ludica nella società romana antica
ROSELLA FRASCA
"Così rotea la trottola colpita dalla frusta dei bambini che giocano
facendola girare intorno a un vasto cortile; essa spinta dai colpi avanza
descrivendo dei cerchi, mentre la schiera dei bambini la guarda ammirata senza
sapere come mai quel legno si muova tanto rapidamente su se stesso, e
raddoppiate le frustate, raddoppia il movimento".
Premessa La pedagogia romana contempla e usa alcuni tratti di violenza simbolica tanto ambigui quanto perfetti perché contemporaneamente esercitati e subiti; essi si in-formano (ossia prendono forma) di e nel ludus. La storia dei modi, degli spazi, e dei tempi del gioco nell'antica Roma comporta una analisi rigorosa del concetto di ludus, nella misura in cui esso è radicato nella tradizione politica, o meglio ancora civica. Il ludus va assai oltre l'ambito del gioco infantile o quello di istruzione strettamente scolastico (la scuola del primus magister, il ludus litterarius, ecc.), da cui peraltro in buona parte prescinde: esso fu un apprendistato sociale, che ben si evidenzia nella famiglia di termini costituente il suo gruppo semantico: illudere, alludere, eludere, colludere, deludere; è uno scenario che 'chiama in gioco' l'individuo di tutte le età in una gamma amplissima di 'modi' e 'luoghi' del suo 'mettersi in gioco' ed 'essere ammesso nel gioco' dei rapporti privati e civici (come anche il suo 'chiamarsi fuori': deludere, tra l'altro, in senso stretto esprime l'atto di chi, nel circo, abbandona il combattimento).
E infatti: a Roma la dimensione ludica fu il presupposto in-eludibile e il
passaggio obbligato delle relazioni e dei dispositivi sociali.
Il ludus come gioco sociale "[...] I bambini fanno un gioco in cui cantilenano: 'Se bene farai, re diventerai' [...]". Il ludus produceva e sperimentava l'ambizione sociale alla romana nella sua forma più elevata, vale a dire civica. La figura del Romanus civis, inventata e imposta dalla pedagogia del mos maiorum, era il degno coronamento di insegnamenti che incoraggiavano, attraverso l'apprendistato dei ruoli sociali, chiave di volta di tutto il dispositivo societario, certezze di appartenenza e arroganza di esclusioni. Il ludus costituiva inoltre la legittimità statutaria di una istituzione scolastica implicante una sua propria analisi sociologica: infatti, a prescindere dalla natura (qualità e quantità) degli insegnamenti impartiti, esso segnava e insegnava il senso del rango. È noto che Marco Porcio Catone il Censore (243-149 a.C.), pienamente consapevole delle aspettative nei confronti dell' officium attribuito dal contesto sociale al pater ideale dei ceti dominanti, si impegnò a organizzare l'educazione del figlio in un coinvolgimento diretto per renderlo istruito "de omni re scibili" alla sua epoca (lettura, scrittura, computo, storia patria e familiare, ma anche caccia e 'arti del corpo'); egli agisce in piena conformità con il rango socio-culturale di appartenenza, vale a dire quello di un gentiluomo di campagna. Figlio di un cavaliere di Tuscolo, Catone è uno degli esempi migliori delle ambizioni e delle possibilità economiche di un senatore accolto dalla élite dirigente del periodo posteriore alla II guerra punita; organizzerà la propria vita privata e pubblica, e la propria famiglia, in rigida obbedienza alle virtù fondamentali indicate dai maiores, e costituirà presso gli antichi un archetipo di autarchia produttiva del proprio fondo, e di autarchia pedagogica. La forza con cui egli rivendicava il diritto/dovere del pater di occuparsi dell'educazione 'ludica' del proprio figliolo è da lui motivato, stando al racconto di Plutarco, dalla considerazione che: "non fosse dignitoso che il proprio piccolo fosse rimproverato da uno schiavo, o che costui gli tirasse le orecchie se era lento ad apprendere, né che dovesse tributare gratitudine a uno schiavo per un insegnamento di tale portata". Il che va tradotto nella mentalità del Romanus civis propria di quella epoca e di quella cultura; ma già allora con profonde radici, tali da consentirle di mostrarsi orgogliosamente resistente agli assalti degli stili di vita e dei modi di educare 'alla greca', inaugurati a Roma in quel medesimo giro di anni dalla cospicua e influente gens degli Scipioni. Tale mentalità rimase immutata anche con il trascorrere dei secoli di storia di Roma e il trascolorare della rigidità intransigente dei mores più antichi; ebbene, essa identificava e circoscriveva la legittimità e la forza del ludus come dispositivo pedagogico all'interno della complicità della familia; dispensatrice di educazione attraverso statuti e persone che la costituivano, essa rafforzerà tale ruolo in età repubblicana, soprattutto per legittimarne e più rigorosamente definirne obiettivi e strumenti. La familia finì per assicurare un principio di solidarietà radicata nell'adesione all'immagine del gruppo socialmente costruito come 'essenza superiore' che si costruisce tra l'altro, ma soprattutto attraverso l' habitus del ludus. Il ludus appare dunque il 'luogo' (ideale e per metonimia anche reale) e lo 'strumento' di legame tra la trasmissione di teorizzazioni (sull'educazione, sull'esecuzione di compiti e professioni, sulla ritualità, sulla competizione) e la loro messa in atto. Esso è il modello di riferimento e la palestra di esercitazione, di regole socialmente codificate e condivise. Come tale, definisce e normalizza praticamente qualsiasi manifestazione/espressione umana all'interno e in virtù di un contesto istituzionale. E, dunque, la serie di occasioni/pretesti di integrazione ordinata nella civitas, di un popolo — il romano — che ama standardizzare e razionalizzare l'espressione e la comunicazione nelle sue forme e finalità, all'interno dell'assetto sociale. Le regole (fossero esse grammaticali e sintattiche, musicali, ginniche, matematiche, retoriche e così via in relazione a tutte le artes, ossia le possibili attività umane, e quelle etiche, morali, religiose, amorose, sociali e così via in relazione alle necessità di relazione e confronto interpersonale e con le divinità) erano insegnate, apprese ed esercitate nel ludus, che diveniva palestra e metafora del gioco dei giochi: quello sociale: come regolatore di artes, e attraverso le artes, diveniva esso stesso una ars. Ciò detto, appare chiaro che il significato più comune di ludus a livello di conoscenza generalizzata: "un'azione mirante al divertimento, al diletto, alla ricreazione" (che suggerisce immediatamente la sinonimia con iocus, e richiama l'analogia con i termini greci diatribè, paidèia, pàignion) è assai riduttivo. Per avere un'idea della sua polisemia, davvero straordinaria quanto a vastità e varietà di portata all'interno del contesto socio-culturale romano, occorrerà dare una lettura 'contestualizzata' del suo uso che proceda per schemi in qualche modo ispirati a quelli seguiti nella compilazione dei repertori lessicali tecnici (senza con ciò voler tentare il medesimo rigore e la loro compiutezza, s'intende). Altri criteri di schematizzazione tradiscono qualsiasi approccio metodologico, visto che in buona parte dei casi i contesti dell' 'implicazione ludica' (motivazioni soggettive e oggettive, riferimenti stretti e lati con le attività dal ludus definite, ecc.) è molteplice. Parleremo quindi degli usi (o almeno di alcuni dei più significativi di esso), calandoli nei contesti (situazioni e persone). | << | < | > | >> |Pagina 1006. Gioco e ludicità nel postmoderno
BENIAMINO SIDOTI
1 La parola gioco compare spesso negli studi sul postmoderno. Uno degli aspetti chiave che segna il passaggio da una società moderna a una postmoderna è la fine delle grandi narrazioni (Lyotard, 1979), cioè l'impossibilità di rifarsi a uno sfondo unico. A livello stilistico questo comporta il trionfo del frammento, della citazione fra testi, della parodia e della satira, la costruzione programmatica di più percorsi e livelli di lettura (in letteratura sono esemplari le opere labirintiche di Calvino e Borges). Così studiosi e artisti, nel decretare la fine del testo come riferimento chiuso e stabile, evocano in diverse maniere il gioco: dove il grande racconto inquadra tutto, il gioco propone una creazione di spazi, un attraversamento; al centro della prospettiva epistemologica, della costruzione del sapere, non sta più l'autore ma le costruzioni di senso del lettore; il gioco, infine, non è lineare ma per sua natura frammentario.
Questa continua evocazione del gioco è solo una metafora? Cioè, veramente il
mondo è cambiato e inizia a essere comprensibile in termini di gioco? La
risposta a questa domanda occuperà la prima parte del saggio, e si confronterà
più con
un'idea di gioco
che con i giochi praticati. La seconda parte cercherà invece di vedere quali
giochi la società attuale promuove e quali relega in secondo piano.
2
Postmoderno è una parola complessa, e indica sia una nebulosa di stili e di
indirizzi artistici indipendenti che un momento storico particolare: parla cioè
sia dei mutamenti sociali che delle derive artistiche che con essi si
confrontano. Da un punto di vista stilistico, il gioco ha piena cittadinanza
nell'estetica postmoderna; ma l'aveva già in epoca moderna, a partire almeno
dalle avanguardie del Novecento. Ancora in pieno modernismo il gioco è un modo
di sfuggire alle costrizioni della realtà, che dà vita ai paesaggi di giocattoli
di Alberto Savinio, alle suggestioni ludiche del surrealismo (Brotchie, 1995),
ai
ready-made
giocattolosi di Duchamp o alle sculture di Picasso. Gli artisti postmoderni
amplificheranno ancora questa dimensione, privilegiando in particolare alcuni
giochi: la citazione, la parodia, il rimando (molto presente in letteratura, ma
anche in alcuni artisti visivi come Cindy Sherman); le strutture e le
costruzioni (molto citate nell'architettura postmoderna); le grandi simulazioni
e le strutture regolate (in urbanistica, nelle macchine poetiche di Balestrini,
ma anche nelle composizioni "à contrainte" dell'
OuLiPo);
il travestimento; la partecipazione e il coinvolgimento dello spettatore.
3 Anche i teorici del secondo significato del postmoderno, quello relativo ai mutamenti sociali, prendono in considerazione la dimensione ludica e aspetti a essa correlati. Nella società postmoderna il gioco si contrappone alle attività con una finalità chiara, così come il caso si contrappone al progetto (Harvey, 1993). Il mondo attuale privilegia la combinazione alla selezione: con una metafora ludica, potremmo dire che ama più le costruzioni del modellismo. Il mondo postmoderno è fatto di frammenti in cerca di una combinazione, di identità provvisorie e multiple che si combinano a seconda delle necessità, di comunità provvisorie e liquide, di rimandi continui piuttosto che di simboli stabili. Il gioco, in questo contesto (non solamente estetico, ma sociale e filosofico), è sinonimo di superficialità, di leggerezza; ma è anche una metafora delle potenzialità del postmoderno, dei molti esiti possibili della combinatoria. È una ludicità diffusa che chiede di prendere meno sul serio quello che facciamo (incontrando un'altra delle componenti estetiche, l'ironia diffusa degli artisti postmoderni), e rivela le potenzialità degli schemi aperti, non indirizzati. Il mondo postmoderno è anche un mondo incerto, provvisorio, che incoraggia una personalità "liquida" (il termine è dovuto a un altro teorico, il sociologo polacco Zygmunt Bauman). La crisi dei grandi sistemi di riferimento richiede la continua rielaborazione di sistemi personali e provvisori, adatti al contesto e a un mondo che, cambiando continuamente, rifiuta ogni tradizione. | << | < | > | >> |Pagina 10610
Il libro forse più illuminante nella descrizione della terribile deriva del
gioco è stato scritto da un filosofo che crede nel senso alto del gioco, Ermanno
Bencivenga (1995). Bencivenga intitola il proprio viaggio nel mondo del gioco
attuale (che però si guarda bene dal chiamare postmoderno) "Giocare per
forza": nel corso di nove capitoli prende in esame i casinò di Las Vegas, i
giochi televisivi, la rete, i travestimenti di Halloween, Disneyworld, lo sport
per bambini; in tutte queste attività riesce a individuare un che di sconsolante
che allontana in molte maniere il senso profondo del gioco. Dice Bencivenga (p.
182): "Il gioco è il nostro più prezioso meccanismo adattivo. Svilirlo,
mortificarlo, snaturarlo, ci renderà più stupidi e più deboli". Il gioco si
snatura quando da esplorazione di possibilità diventa passatempo, sfogo
energetico fine a se stesso, meccanismo il cui funzionamento è già interamente
previsto; dentro il gioco. Il gioco è anche, nota Bencivenga, riprendendo una
buona tradizione, in molte lingue il modo per indicare un incastro non perfetto,
un qualcosa che "fa gioco" come una vite che balla, uno spazio interstiziale
libero fra le parti che si legano. "Lo spazio libero tra le parti della nostra
vita e del nostro ambiente è quel che ci permette l'invenzione, l'avventura, il
rischio. È lo spazio del possibile: siccome è libero,
può
essere occupato da tante cose diverse. È lo spazio della scelta: niente gli si
adatta a puntino (altrimenti sarebbe già pieno),
dunque saremo noi a decidere che cosa metterci. Ed è lo spazio in cui cercare
noi stessi: la nostra differenza, la nostra originalità, il percorso esistenziale che
ci ha fatto diversi da ogni altro" (pp. 70-71, corsivo dell'autore).
11
Bencivenga tocca il punto più convincente quando parla dei costumi per
bambini, del mantello di plastica rossa da Superman. Nella tradizione del gioco,
ogni tenda, ogni federa, ogni pezzo di stoffa può
diventare
un mantello;
nelle corsie dei supermercati e dei negozi di giocattoli, nel mondo del gioco
per forza, invece il mantello da Supereroe c'è, in plastica ininfiammabile e
sterile. Il mantello preconfezionato offre al bambino un "incastro perfetto" con
l'immaginario, completando l'ultimo passaggio (il
merchandising)
di un'industria
culturale onnipresente. Quello che viene a mancare, o viene ridotto, è lo
spazio di una creazione autonoma e originale. Se l'industria culturale diventa
moderna nell'era della riproduzione in serie (e quindi di massa) dei manufatti
artistici, il gioco si fa postmoderno quando anche il mondo delle idee si adegua
alla riproduzione in serie. Il meccanismo è paradossale: da una parte si offrono
strumenti per una migliore interpretazione, dall'altra, rendendo l'incastro
perfetto, si riduce il mondo immaginario a una serie finita di ruoli da
interpretare e di modi per interpretarli.
12 Alla fine, seguendo ancora Bencivenga, non conta più il gioco che si sta facendo, ma il fatto di non mollare, di voler vincere: il gioco non è più terreno di esplorazione, ma precoce campo di prova di meccanismi sociali. In una società che cambia in continuazione, non importa ciò che sappiamo, ma la tenacia: non importa conoscere il gioco, ma volere vincere. È in questo senso che lo studioso russo Kravchenko (citato in Rizzi, 2006) parla di game-ization, di giochizzazione della società: un mondo di opportunità in cui conta voler vincere. | << | < | > | >> |Pagina 10815La società attuale premia certi giochi, certe caratteristiche del gioco. Sembra scontato, per esempio, che il gioco debba essere divertente; il titolo del libro di Bencivenga ne richiama un altro, Divertirsi da morire, di Neil Postman (tradotto nel 2002, uscito nel 1985), che analizza gli effetti culturali del dominio televisivo. Il divertimento, o usando una parola più leggera, l'intrattenimento, è l'imperativo della comunicazione televisiva, che diventa comando rivolto alle vite, suggerimento per il tempo libero. Il gioco che funziona, che viene prodotto, commercializzato, diffuso, è quello che si capisce rapidamente, che non richiede grandi sforzi e garantisce immediato divertimento. Esiste una corrente di pensiero, sostenuta da buoni teorici ma più spesso divulgata in forma non scientifica, che denuncia come la pervasività del divertimento stia compromettendo ogni attività più complessa: sarebbero quindi perdenti i giochi più complessi o che richiedono tempi lunghi di meditazione e di sforzo, senza un risultato immediato. In realtà, gli ultimi trenta anni hanno visto il successo sia di giochi facili che estremamente complicati, dotati di poche regole o di manuali corposi come un esame universitario (spesso, più di un esame universitario): i giochi di ruolo (come Dungeons & Dragons o Vampiri), i giochi di simulazione (come lo storico World in Flame, uno dei giochi più lunghi e pieni di regole mai pubblicati), i giochi di carte collezionabili (come Magic, gioco con poche regole ma con strategie piuttosto complesse e diversificate). Un gioco semplice, senza regole complesse, in cui non è facile costruire strategie vincenti (e quindi il principiante vale quanto l'esperto), si presta certamente molto bene alla società del divertimento: l'importante è non confondere l'intera società attuale con una società del divertimento. Certi giochi si prestano alla televisione, e si accompagnano a essa in modo egregio: ma altri sono decisamente poco televisivi e soddisfano altre esigenze della società attuale. Oltre ai pochi esempi appena elencati, valga l'esempio dei giochi di ruolo di massa, di cui parlo più avanti (§ 22).
Se il mondo postmoderno è frammentato e diversificato, lo è anche nei
confronti della televisione: il trionfo della stupidità non esclude giochi
intelligenti, che possono anzi diventare un rifugio per quei settori della
società che non si sentono rappresentati da certa televisione. Gioco e
televisione, due aspetti importanti e indipendenti del mondo simbolico e
culturale, si intrecciano in modi diversi: la televisione è il maggiore canale
di promozione per alcune fasce d'età; i giochi possono ispirarsi alla
televisione, sia in modo banale (attraverso la produzione del gioco dedicato
alla trasmissione di successo, attraverso il merchandising dedicato) che in
maniera propria, rielaborando pezzi di cultura popolare attraverso i linguaggi
del gioco; la televisione si ispira al mondo del gioco, creando nuovi formati,
studiando forme inedite di intrattenimento, traendo spunto per le proprie
storie.
16
Certo, l'esistenza di giochi particolarmente stupidi può sostenere la tesi
di chi vede una società dominata dalla fabbrica del divertimento, in cui il
gioco ha solo un aspetto deteriore, il modo con cui l'omino di burro attira i
ragazzi nel paese dei balocchi per trasformarli in ciuchi. Se può consolare, non
dipende dalla società dello spettacolo: giochi stupidi sono sempre esistiti, e
spesso sono anche stati popolari. La stupidità, come anche l'intelligenza,
cambia forma nel corso dei secoli; come l'intelligenza, non è una prerogativa
esclusiva del gioco.
17 I giochi (e giocattoli) che sono scomparsi o stanno per scomparire sono quelli che non si adattano più a mutati stili di vita. Erosi i confini fra tempo libero e tempo di lavoro, il cittadino postmoderno vive sempre in una dimensione che ha sempre qualcosa di ludico, e al tempo stesso rischia di essere privato del senso più profondo del gioco. Molto lucida è la descrizione che ne dà Bartezzaghi (2001):
"Nella nostra giornata si infiltrano elementi ludici: sono giocattoli
mercificati o merce trasformata in gioco. Sono giochi immateriali. Giochi di
parole sui tormentoni pubblicitari o tv, parole di plastica, canzonette.
Videoninnoli sciocchi ma catturanti. Email scherzose, sciocchezze audio e video
che ci si scambia con gli amici. Stili di vita frivoli. Simpatia stereotipata.
Voglia di essere in un villaggio turistico. In certi videogiochi esiste il
'Panic Button': se lo schiacciate il gioco sparisce e sul video compare una
schermata di lavoro che avete preordinato. Serve quando il capo sta per
arrivarvi alle spalle e dovete abbandonare
all'istante marziani e Lare Croft. In questo, il gioco è cambiato: non è più un
mondo rigidamente delimitato e separato da quello reale, ma vi si insinua. Il
tempo di lavoro e il tempo libero sono divenuti non solo flessibili ma anche
frammentari. Il nostro tempo è fatto tutto di ritagli, e il gioco vi circola in
modo pervasivo. Se lo vediamo di meno è perché è onnipresente, o quasi".
18
Ci troviamo di fronte a un nuovo tipo di giochi: nuovi magari non per le
meccaniche ma per la loro collocazione, per aver colonizzato dei margini ancora
inesplorati. Sono giochi "interinali", che si trovano cioè fra un gioco e
l'altro, fra un tempo di vita e un altro.
19
In un mondo frammentato, non esiste più separatezza: il gioco era un tempo
rubato per sé, quando ancora era possibile rubare del tempo o disporre di
tempo. Il nostro tempo, dice Bartezzaghi, è fatto tutto di ritagli. I giochi che
sopravvivono, quelli che funzionano meglio ai nostri tempi, sono giochi
"parassiti", che sfruttano al meglio le nostre disponibilità di tempo e ciò che
abbiamo già a disposizione: giochi per il cellulare e solitari per computer,
passatempi frammentati e istantanei, giochi liofilizzati che crescono sfruttando
ciò che già c'è intorno. Sono giochi pienamente postmoderni perché fanno sempre
riferimento a qualcos'altro che non è lì, ricchi di citazioni e ammiccamenti,
che usano come materiale di gioco qualcosa che nel gioco non è; sono postmoderni
i giochi di domande e quiz come il Trivial Pursuit, citati anche nella
letteratura postmoderna. Lo sono i pupazzi che fanno riferimento a un dato
personaggio televisivo, e le serie televisive costruite sulle bambole. Lo sono i
costumi di supereroi che suggeriscono un incastro perfetto fra la propria
immaginazione e un personaggio dell'industria culturale. Lo sono i parchi giochi
pronti e sicuri, in plastica, programmati e lucidi. I giochi gonfiabili,
trasportabili e pronti in un attimo. I GameBoy e le consolle portatili, i
Tamagotchi, specie di pulcini virtuali contenuti in un videogioco delle
dimensioni di un portachiavi che richiedeva accudimento e affetto. Le bambole
con il volto di un personaggio famoso, o al limite con il proprio volto.
20 Il catalogo può apparire terrificante; eppure quello che è accaduto, che sta accadendo, è un fenomeno ricorrente. Vale ribadirlo: il gioco si è sempre adattato ai mutamenti sociali, e in ogni diversa società si sono affermati giochi diversi, sono nati e sono scomparsi dei giochi. Scomparsi gli spazi e i tempi definiti, il gioco ha occupato i margini fra gli spazi, i confini fra un tempo e l'altro; è diventato portatile, immediato. Il gioco è divenuto parassita, ma lo è anche sempre stato, oggetto perfetto per interpretare i sintomi della società, per trasformare qualcosa in qualcosa d'altro (Staccioli, 1998 e 2004). | << | < | > | >> |Pagina 1171. Homo ludens: gioco e civiltà
FRANCO CAMBI
1. Istinto del gioco e cultura Con lo sviluppo dell'etologia, come scienza oggettualmente e metodologicamente ben definita e ormai dotata di una sua precisa tradizione, anche il gioco, come libero esercizio di attività svolta per essere fine a se stessa, è venuto ad essere riletto in chiave biologica e ricollocato nell'ambito dei comportamenti animali, perdendo così la sua presunta specificità esclusivamente umana. Anche i cuccioli delle specie animali superiori giocano e giocano non solo per addestrarsi a combattimenti, per ottenere scarico di energie fisiche. E giocano tra loro e giocano con la natura. Ma già l' imprinting che ricevono dalla "figura materna" nei primi mesi di vita è l'effetto di un gioco imitativo, come ci ha ricordato Konrad Lorenz anche ne L'anello di re Salomone. Ma la ricerca più attuale ha sottolineato che anche nelle specie animali inferiori è presente un'attività di tipo ludico: negli uccelli, nei pesci (i polpi studiati da Jennifer Mather, in Canada), perfino negli insetti (le vespe, le blatte, etc.) e non solo nei vertebrati o, tantomeno, nei mammiferi, a partire dai primati. L'etologo Gordon Burghardt ha fissato cinque criteri per determinare un comportamento animale come gioco: non deve aver scopo; deve essere piacevole; deve differenziarsi da altri comportamenti (di esplorazione, di caccia, di difesa, etc.); deve ripetersi nel corso della vita; deve essere estraneo a condizioni di stress. E sono criteri che si ritrovano come presenti in alto e in basso nella scala zoologica (cfr. «Le scienze», 2006, 9). Attraverso l'etologia, però, il gioco non solo si generalizza, si fa comportamento animale diffuso, ma anche si radicalizza, si pone come un modello-basico della vita delle specie animali, fino a quelle superiori e su su fino all'uomo. E lì, nella specie Homo sapiens, si fa consapevole, si fa pervasivo, si fa più efficace come esperienza-limite e come esperienza axiologicamente rivelativa, caricandosi di significati fruitivi, estetici, etici e disponendosi a diventare un sigillo forte delle civiltà: di tutte e di ciascuna. Si pensi solo al ruolo che tale attività svolge nell'infanzia del "cucciolo d'uomo", in quella lunga età sì di apprendistato culturale ma anche di manifestazione dei bisogni fondamentali dell' Homo sapiens, tra i quali il gioco risulta essere originario, costante e "onnicomprensivo" o trasversale. La psicopedagogia del gioco, da Bruner a Winnicott, tanto per fare due nomi, lo ha riconosciuto come "forma" specifica della mente infantile, attivo in ogni sua manifestazione e oscillante tra "esplorazione", "padronanza" e "fantasia", ma anche fattore di "soluzione di problemi" e di "uso di strumenti", aspetto cruciale di "interazione" e "cooperazione" è, infine, elemento-chiave dell'inculturazione e dell'accesso al mondo del simbolico (cfr. Bruner, 1981); come pure lo ha riconosciuto quale via di formazione della "vita immaginativa", radicata nella relazione effettuata tra io e realtà, così ambigua tra "soggettivo" e "oggettivo", ma anche così fondamentale per dar corpo al "paradosso creativo" e all'entrata nella vita culturale (cfr. Winnicott, 1974). Nella specie Homo sapiens, anzi, il gioco segna un passaggio preciso: quello dalla natura alla cultura; fissa il discrimine, poiché mette in moto le attività simboliche (post-biologiche o meta-biologiche) e disinteressate (in senso immediato e strumentale); determina l'avvio di quella noosfera che si farà sempre più semiosfera e che il Gioco attiva insieme alla nascita del linguaggio e allo sviluppo dei Simboli e dei Miti. Già Bruner, come ricordato, vede nel gioco l'accesso al mondo del simbolo, a cui dedica il quarto volume della sua ricerca su Il gioco. E lì che il gioco si fa "propriamente umano" e attiva la creatività e del soggetto e della specie. Ciò avviene attraverso il binomio finzione/verosimiglianza poi attraverso l'uso del linguaggio, che "aumenta le possibilità del gioco" e produce "condizionali controfattuali", allenando la mente a pensare e volere il possibile, dando così corpo alla condizione stessa della creatività, attraverso la "spontaneità e novità" che attiva, producendo "sorpresa e gioia" (come afferma Arthur Koestler). Da qui inizia quel nesso, strettissimo, tra gioco e civiltà, fatto di ludus e di gara, di riti e rituali, di forte "coinvolgimento di tipo affettivo e cognitivo", come ha rilevato Erickson, e attivando così la frattura che nettamente separa, pur connettendole, biologia e storia, vita animale e cultura. | << | < | > | >> |Pagina 1891. Infanzia e gioco
EMMA BAUMGARTNER
Dei giochi e della serietà Figlia. Papà queste conversazioni sono serie? Padre. Certo che lo sono. Figlia. Non sono una specie di gioco che tu fai con me? Padre. Dio non voglia... Sono però una specie di gioco che noi facciamo insieme. Figlia. Allora non sono serie! (Bateson, 1972) Il tempo del gioco Vorrei introdurre il tema "infanzia e gioco" attraverso alcune considerazioni sul tempo e sulla serietà. Il gioco compare nell'esperienza umana fin dai suoi albori: Eraclito raffigura Aiòn, il tempo, come un bambino che gioca con i dadi e definisce "regno di bimbo" la dimensione rappresentata dal gioco. Nei testi omerici, la parola Aiòn, cambia significato diventa forza vitale, e poi durata, eternità. Quindi, una delle più primitive immagini del gioco nella cultura occidentale, rappresenta l'essenza del gioco come qualcosa che dura e che costituisce l'essenza del vivente (Agamben, 2001). L'infanzia, nell'opinione comune, è il tempo della vita in cui è consentito giocare, almeno finché non arrivano gli impegni scolastici ad occupare fisicamente e mentalmente la giornata dei piccoli. Tuttavia, il tempo di gioco per i bambini non è così scontato né si può dire che rappresenti una dimensione dell'esperienza estesa e distesa: al contrario, il tempo del gioco viene ritagliato qua e là, tra le pieghe di altre occupazioni, va conquistato e difeso. I bambini diventano maestri nello slalom quotidiano cui spesso li costringiamo e sono abili nel liberare tempo per il gioco, anche quando sono costretti ad altre occupazioni, a tavola, al mattino quando ci si sveglia, quando si sta per uscire, al momento di lavarsi, nei negozi, dovunque: "smettila di giocare, adesso stai mangiando", oppure "sbrigati, non giocherellare, vestiti". Sono frasi che sentiamo dire spesso negli scambi tra adulti e bambini, frasi che stanno proprio a significare diversi modi di vivere il rapporto tra tempo di vita e gioco. Nell'economia domestica dei tempi di vita sempre più affannosi e frettolosi, il giocare dei bambini appare spesso agli occhi degli adulti "una perdita di tempo". Quando poi si arriva nelle istituzioni educative, già quelle per i piccolissimi come l'asilo nido, il gioco entra in complicate contabilità, che scandiscono e regolano a volte assai rigidamente le giornate dei bambini. Osserva, in un saggio recente, Agostino Frigerio (2006): "quante volte lasciamo ai bambini l'opportunità di decidere in merito al tempo? Temiamo che lasciare troppo tempo distragga, o annoi, o forse renda passivi addormentando le energie (p. 11). Paradossalmente, all'aumento del tempo dell'educazione finisce con il mancare tempo. È lo stesso paradosso che ciascuno può riscontrare nella propria vita: facciamo tutto più in fretta di una volta, eppure ci manca sempre il tempo. La velocità, il continuo riempimento ci portano a "non avere tempo" (Frigerio, 2006, p. 12). Per fortuna, qualcuno ha scritto l'elogio della lentezza e non solo Kundera: nel 1946 fu fondato a Budapest, in via Loczy, un Istituto che accoglieva neonati abbandonati e che adottò la lentezza, ma in particolare la pratica di dare ai bambini tutto il tempo di cui ciascuno aveva bisogno, come principio educativo originale e caratterizzante di tale esperienza. I bambini di Loczy, conosciuti in Italia, dalla fine degli anni '70, non vengono mai rincorsi dagli adulti o anticipati nei loro tempi di sviluppo, contrariamente a quello che così spesso vediamo i nostri bambini, che già nel primo anno di vita vengono "iperstimolati", esercitati, contenuti in posizioni che non sono in grado di controllare autonomamente: stimolare, esercitare, addestrare, insegnare, come osserva Grazia Honegger Fresco (1996), "sono verbi terribili, che giustificano gli interventi più pesanti sul bambino, sano o malato che sia, e che autorizzano gli adulti ad addestrarlo di continuo, a negare di fatto, ogni sua competenza, innata o acquisita per maturazione autonoma". "Datemi tempo", titolo di uno dei libri dedicati a Loczy, sintetizza efficacemente la filosofia educativa che ha ispirato l'azione delle psicologhe e delle educatrici dell'Istituto: ai bambini veniva (e viene) lasciata totale libertà motoria, dedicando, al tempo stesso, la massima attenzione alla relazione adulto-bambino. La regola principale era (ed è) quella di non anticipare mai lo sviluppo, forzando il bambino ad assumere posizioni non autonomamente raggiunte e controllate: le educatrici osservano i bambini a distanza, non intervengono, non propongono loro dei giochi, non interrompono mai una attività iniziata spontaneamente, incoraggiano a distanza con il sorriso e con le parole gli sforzi che ciascuno compie in autonomia. I bambini, dalla nascita, vengono posti a terra, in posizione dorsale e si asseconda il loro libero e continuo movimento, che, gradualmente li porterà a scoprire posizioni diverse, sempre più avanzate dal punto di vista dell'equilibrio e delle competenze necessarie. Invece, nella esperienza che abitualmente facciamo, i bambini sono rincorsi dagli adulti: sempre più in fretta, senza tregua, le tappe devono essere superate nel più breve tempo possibile, i ritmi devono essere accelerati, prima il bambino si adegua ai tempi e all'organizzazione di vita dell'adulto, meglio è. I tempi per giocare si ritagliano, laddove è possibile, negli interstizi tra una attività e l'altra, a volte le persone che si prendono cura dei bambini sembrano rassegnarsi ai giochi infantili, senza riuscire a prendervi parte, come se si rendessero conto che si tratta di qualcosa di inevitabile, ma come se fossero impazienti di arrivare alla fine del gioco, per riaprire un dialogo con i piccoli. Una posizione equilibrata è sostenuta da Elinor Goldschiemied (1996), una dei più grandi esperti delle cure per la prima infanzia, a cui dobbiamo suggerimenti e indicazioni di grande utilità su come predisporre i luoghi e le attività per i bambini molto piccoli. La Goldschiemied mette in guardia da un eccesso di idealizzazione delle funzioni evolutive del gioco, nel senso che non è stato provato in modo conclusivo che il gioco intensifichi lo sviluppo del linguaggio, l'apprendimento, o il saper fare sociale (p. 18). Tuttavia, non è stato neanche dimostrato il contrario: forse, più semplicemente si tratta allora di dare maggior valore ad alcuni giochi piuttosto che ad altri, di creare situazioni nelle quali i bambini possano scegliersi e concentrarsi su una attività piuttosto che passare senza scopo da una cosa all'altra. Si tratta, in altre parole, di garantire loro un tempo per giocare, senza interferenze, preoccupandosi ugualmente di assicurare spazi e tempi per altre esperienze, in primo luogo l'attenzione e l'interesse degli adulti. Ma l'impazienza di numerosi adulti, che sembrano spesso estranei o spettatori distratti dell'esperienza ludica dei bambini, trova qualche giustificazione in ciò che sappiamo dalla psicologia? Il gioco serve da un punto di vista evolutivo oppure rappresenta davvero "tempo perso", che i bambini si prendono, espressione ed evidenza della loro immaturità?
Nella ricerca psicologica, in molti si sono dedicati allo studio dei giochi
infantili, in particolare del gioco simbolico, non senza difficoltà: "il gioco
pone un dilemma familiare agli psicologi: al pari di altri fenomeni quali
l'intelligenza, il linguaggio, l'aggressività o l'altruismo può essere definito
più facilmente a livello comportamentale che non teoretico" (Rubin, Fein,
Vandenberg, 1983). Tuttavia, nonostante questo limite, numerosi autori hanno
indagato il ruolo del gioco nello sviluppo, proponendo teorie di grande
suggestione: nella mia breve rassegna, dovendo operare delle scelte, accosterò
in maniera eclettica i contributi di studiosi che si sono interessati al gioco,
partendo da prospettive teoriche molto distanti, giungendo a conclusioni per
certi versi simili e inattese.
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