Copertina
Autore Franco Cordelli
Titolo La democrazia magica
SottotitoloIl narratore, il romanziere, lo scrittore
EdizioneFandango, Roma, 2011 [1997], Tascabili , pag. 214, cop.fle., dim. 12x18x1,7 cm , Isbn 978-88-6044-251-2
LettoreGiovanna Bacci, 2012
Classe critica letteraria
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Indice


Introduzione
di Carlo Carabba                             5

Prefazione                                  11


La democrazia magica                        19


Indice degli autori e delle opere          203


 

 

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Pagina 11

Prefazione


Non credo di avere il diritto, tanto meno il dovere, di semplificare. Per quanto istituzionalmente discorsiva, la forma critica, o saggistica (è la tesi, se ce n'è una, di questo libro), può conservare tutta la sua obliquità. Chi può rendere tagliente ciò che è nato duttile?

Più da vicino mi riguarda una seconda tesi. Posso perciò parlarne. Garantito, di fronte a Dio e agli uomini, lo stato di democrazia in cui aspirano a vivere le forme spirituali, quella del narratore, quella del romanziere, quella dello scrittore, si tratta non più di nuovamente definirle, ma di fare un passo indietro: perché si sia dovuti giungere a questa nomenclatura.

[...]

Il libro, ho detto, si è scritto da sé. È la più auto-assolutoria di tutte le proposizioni possibili, la più esagerata. Ma così sono andate le cose. Ciascun capitolo, nella forma oggi assunta, la "forma definitiva", nacque perseguendo un fine preciso. Ciò che di volta in volta non distinguevo (non ero in grado di distinguere) era il secondo fine, il fine strategico.

Allo stesso modo in cui considero Partenze eroiche una pomposa bildung, di nome e di fatto, La democrazia magica mi appare non solo un'emancipazione, come ho detto, da Partenze eroiche, dai suoi errori, dalle sue esistenziali imprecisioni, ma una vera e propria liberazione. Da che cosa, per l'esattezza? Ecco, il punto è questo: dall'ossessione del romanzo. Non riesco più a capire se questa ossessione sia il frutto di una mania giovanile o di una cultura che ancora indicava nel "romanzo" un'eccellenza. A diciassette anni, nel 1960, la lettura e il successo della Noia fu folgorante (è la ragione, del tutto autobiografica, per cui qui, in posizione centrale o mediana, compare Moravia come divenne negli anni successivi, gli anni della vecchiaia indomita perché sempre uguale, la vita di Moravia non cambiò mai dall'adolescenza all'ultimo giorno). Ma quello che nel 1960 era ancora, e senza dubbio, un culmine, dieci anni dopo appariva letteralmente polverizzato.

Come continuare a scrivere romanzi se nessuno ne voleva più leggere: nessuno, intendo, in una più o meno riconoscibile élite culturale? E ancora più grave: che senso aveva scriverne se lo scrittore per primo dubitava che quella fosse una forma suscettibile di recare una conoscenza specifica: proprio quella che era stata dal giovane scrittore considerata l'unica, o più alta, forma di conoscenza? Il tracollo (il tracollo nervoso) venne altri dieci anni dopo, nel 1980: tornava in auge ciò che era stato vilipeso.

Che c'era di più ridicolo della negazione del romanzo? Nessuno più ne leggeva, come prima; ma tutti ora ne scrivevano. E siccome con le ideologie dominanti non si scherza, la crisi si profilava più dura e più catastrofica di una crisi storica, nel quale il giovane romanziere si era esaurientemente e contraddittoriamente rifugiato.

È stato traversando una specie di interminabile declino della potenza, spesso sotterranea (da cui il recupero di qualche testo scritto in anni disparati, come inconsapevoli anticipazioni del nucleo rivelato a se stesso nei mesi a cavallo tra la fine del 1995 e l'inizio del 1996), che poté infine essere formulata quella che ritengo, sostanzialmente, non solo un'autocritica alla mia ambizione di essere un romanziere, o un antiromanziere, che è lo stesso, ma una critica all'ideologia dominante, che ancora una volta colloca il romanzo al centro della scena, o nel più alto dei cieli, dove con chiarezza il più glorioso è chi vende di più; come, prima, lo era chi vendeva di meno, chi era meno letto, meno amato.

Il punto cruciale resta la rivendicazione di una pari opportunità da offrire a qualunque forma dello spirito, non in quanto meccanicamente contrapposte o collocate: il romanziere, il lirico, il saggista. Questa democrazia delle forme, me ne sono accorto strada facendo, avrebbe avuto tanta maggiore forza, e modo di realizzarsi, quanto meglio ciascuna forma fosse stata descritta, dunque legittimata (la magia è proprio questo, l'esaltazione di ciascuno in quanto padrone di una grande forma, ovvero del nesso dialettico tra quella e le altre, cristallizzate in generi). La questione della forma è più sottile, cioè più interna alla costellazione che sembra gravitare intorno al romanzo, che non la pura divisione tra romanziere e saggista (la più perseguita teoricamente) o tra romanziere, romanziere popolare e narratore (la più perseguita nei fatti). C'è il romanziere? Sì, c'è il romanziere. Ma non c'è solo lui, se la questione non è, in modo draconiano, il mercato. Non c'è solo il romanziere; e senza infamia si può benissimo essere un non romanziere, o un'altra cosa ancora.

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Pagina 38

2.

Un certo C.W.L. Grice, citato da un certo Gray, citato a sua volta da J.M. Keynes in un saggio dedicato a Robert Malthus , così rievocava i tempi d'oro di Cambridge (erano i tempi di Coleridge): "Che sere ho passato in quelle stanze! Che cenette, o sedute (come si chiamavano), quando si mettevano da parte, con una pila di dizionari, Eschilo e Platone e Tucidide, per discutere dei libelli del giorno! Ogni tanto, un opuscoletto sfornato da Burke. Né occorreva averlo davanti: Coleridge l'aveva letto la mattina, e la sera lo ripeteva dalla prima all'ultima pagina verbatim". A dire la verità, non sarebbe necessario risalire tanto indietro nel tempo. A Roma non c'è Cambridge, c'è solo il vecchio ristoratore Pallotta (1825), a Ponte Milvio: ma vi succede proprio lo stesso. Che sollievo, di tanto in tanto, mettere da parte i massimi sistemi e scaraventarsi, senza più inibizioni, sulla preda del giorno!

Pure, all'ordine del giorno, in quanto massimo problema, o problema dei problemi, c'è precisamente questo: perché perdere tempo con Burke? A noi, che discutiamo volentieri del romanzo (dovrei usare la maiuscola, come se fosse Dio), le obiezioni mosse dal mondo appaiono sempre più consistenti: i grandi americani hanno da qualche tempo posto la questione, in specie Saul Bellow e Gore Vidal. Due scrittori nati negli anni Trenta, il giapponese Kenzaburò Óe e l'anglo-indiano V.S. Naipaul hanno dichiarato d'aver già scritto il loro ultimo romanzo. Naipaul ha definito la sua attività una minor extravaganza, in un mondo in cui ciò che domina l'immaginario del lettore è la costruzione narrativa in stile soap-opera, o in stile Ken Follett. Può, in un simile mondo, essere il romanzo qualcosa di più che un divertimento? Può essere un mezzo di conoscenza? Il romanzo, ripetiamo noi da Pallotta, accantonando provvisoriamente Burke, o di nuovo, ossessivamente riprendendolo in mano, è come il melodramma; la sua stagione aurea è tramontata da un pezzo. Il che non impedisce che Benjamin Britten abbia scritto Il giro di vite negli anni Cinquanta. Le derive della forma-romanzo continueranno chissà per quanto. Vi saranno ancora dei bei racconti, che non siano dei semplici Burke. Ma nulla più che questo.

Il peggio viene (una tempesta vera e propria) quando certi limiti di decenza appaiono superati e sembra di capire che qualcuno, per il solo fatto d'aver scritto, pubblicato e vinto un premio, crede davvero d'essere a Cambridge, e non già da Pallotta. Allora si abbattono le furie. Pretendete che continuiamo a parlare di questa roba come se valesse la pena non solo parlarne, ma addirittura leggerla? Un Coleridge che riassuma il caso verbatim non c'è e non può esserci: dopotutto un romanzo, per mere ragioni materiali, non è un libello, o un articolo. Ma è proprio qui che la discussione riprende vigore. No, occorre continuare, occorre rischiare. Non si può vivere solo di Tasso, o di Tolstoj. Per capire la grandezza dell'uno e dell'altro dobbiamo leggere i contemporanei. E poi: ma chi l'ha detto? Non perderò il mio tempo in così barbaro modo, non vedo che autoincoronazioni e dilettantismo. Eppure, diciamo subito dopo, se i professori ci espellono dall'aula si edificano o consolano: solo questo. Anche tu, che cosa ottieni con la tua scelta? Di rovesciare meccanicamente il primato della poesia o, se vuoi, del romanzo, nel primato dell'interpretazione. Prima c'era l'idealismo della poesia, ora c'è l'idealismo della critica!

Tutto questo per dire che non c'è tempo più prezioso di quello trovato buttandone via il doppio o il triplo. Proprio come Dio, il romanzo è morto. Ma qualche romanziere sopravvive, oltre l'orizzonte delle fame esibite, ovvero usurpate. Per esempio William Styron: quanti sanno chi è William Styron? Quanti lo hanno davvero letto? Lì, dal nostro Pallotta, ho parlato molto del suo ultimo libro, Una mattina in Virginia. Ma pochi sapevano chi fosse Styron. Qualcuno si è ricordato di lui quando ho nominato La scelta di Sophie, ricordava tuttavia il film, ricordava Meryl Streep, non il romanzo, non l'autore di quel romanzo. Eppure, Styron è un grande scrittore americano del ventesimo secolo, uno dei più grandi. Che io sappia ha scritto solo sei libri di narrativa (Un letto di tenebre, La lunga marcia, E questa casa diede alle fiamme, Le confessioni di Nat Turner, La scelta di Sophie e, appunto, Una mattina in Virginia), un libro di saggi, mai tradotto in italiano, e il resoconto autobiografico di una depressione: Un'oscurità trasparente. In questi otto libri, vi sono almeno tre capolavori, e un capolavoro indubbio è il racconto centrale dei tre che compongono Una mattina in Virginia. Il racconto intitolato, dal nome del protagonista, Shadrach, se lo si è letto, se si è buttato via abbastanza tempo da aver trovato quello necessario per imbattersi in Styron, non si può dubitare, fin da oggi, che sia un capolavoro, pari a Billy Budd di Melville, per citare un altro racconto che abbia un negro per protagonista.

Ecco, vorrei dire come stanno davvero le cose: nel 1995 abbiamo letto e ammirato una quantità di libri. Ma la grande letteratura è quella cosa lì, fuori del tempo, Melville o Styron non c'è differenza. La grande letteratura, leggendola, non fa né piangere né ridere, fa tremare: e quando da lontano vediamo avvicinarsi, con gli occhi del bambino decenne Styron, la figura del vecchio Shadrach (nella radice del nome c'è "shadow", ombra), novantanove anni portati male, noi tremiamo con lui, con il bambino, con l'autore che ancora, ricordando, trema. Né Styron è l'americano del Sud, o l'americano e basta, che voi credete, che tutti crediamo: l'americano fatto di pura vitalità revanscista e di crisi depressive, di crolli e obnubilamenti improvvisi. Il romanzo è morto, occorre ripeterlo, ma Styron è vivo; il suo corpo è stato trapassato, come San Sebastiano, da tutte le frecce della un tempo viva e ormai non più nutriente letteratura romanzesca, ma esso continua, inesorabile, a risorgere dalle proprie ceneri, non foss'altro che per accompagnare gli avi all'eterno riposo, non foss'altro che per un requiem.

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Pagina 59

4.


Uno stratagemma della letteratura contemporanea è la brevità. Essa viene predisposta contro due nemici. Il lettore occasionale non ha tempo, perché egli legga un libro (cioè un libro contemporaneo, è difficile che questo tipo di lettore legga un altro genere di libro) deve avere almeno questa garanzia: che riuscirà a leggerlo. Il lettore di professione o vizioso, perché legga un libro contemporaneo è costretto a sacrificare tempo a libri più certi, a libri classici, o anche moderni, classici anche questi. Così c'è una specie di leggenda non detta, non codificata, diciamo pure: muta. Essa vuole che la narrativa d'ampio respiro sia popolare; la narrativa che, proprio perché ad ampio respiro, è derivata, imitatrice di un'epoca che non ci appartiene, la narrativa consolatoria, ecc. La vera narrativa, quella d'arte, che sopravvive a tutte le traversie della comunicazione, è invece breve, addirittura fulminea. "La brevità – dice Giorgio Agamben – è la porta stretta attraverso cui vita e scrittura transitano l'una nell'altra", lo stratagemma cioè con cui oggi lo scrittore mette in scacco la menzogna che nel romanziere borghese separa l'opera dalla sua vita.

Tutto ciò è vero. Ma si tratta di una verità parziale; o di una simil-verità. Appunto, una leggenda. È vero che i libri americani di mille pagine non sono che paccottiglia (quasi sempre) per lettori in cerca di conferme che nulla è cambiato dalla loro infanzia, che viviamo sempre nell'Ottocento; ed è vero che gli scrittori-artisti scrivono libri sempre più brevi, come se si ubriacassero di dribbling sempre più stretti, come se il loro scopo fosse quello d'ingannare un avversario, il loro stesso lettore. Ma una verità meno parziale mi sembra questa, opposta: che i romanzi brevi di fronte all'inaudito problema della sopravvivenza del genere romanzo, talvolta riescono a essere belli ovvero incisivi, memorabili – ma come furono incisivi e memorabili i romanzi brevi della modernità. I veri romanzi belli, i veri romanzi importanti, posto che ancora ve ne siano, sono come sempre, sono romanzi per così dire lunghi, romanzi-romanzi, che allestiscono un'architettura, uno spazio, una vivibilità. Il problema, per questi romanzi, è di farsi leggere. Se ci riescono, sono proprio loro a dimostrare che occorre tempo perché il tempo si trasformi in memoria e la memoria in mito.

Ma il mito è anche la pietra dello scandalo. È il nodo per capire come un testo narrativo contemporaneo possa, con la sua stessa mole, fronteggiare la grandezza o, più nettamente, la bellezza; eppure, lentamente trasformandosi, da romanzo-romanzo in romanzo-qualcos'altro, fallire il bersaglio proprio perché lo raggiunge.

Perché un romanzo così bello come L'ultimo sospiro del Moro di Salman Rushdie, può risultare pernicioso? Come in tanta narrativa contemporanea, soprattutto anglosassone, o latinoamericana, quello che è attivo non è tanto, o non più, il demone della totalità, quanto quello della voracità. Caduto il tabù della narrazione che due generazioni, nel dopoguerra, avevano tramandato alla comunità, non più borghese, ma ormai di massa, il romanzo è quella cosa lì, da rispecchiarne le origini: il romanzo è quella mole poderosa, quell'oggetto per definizione straripante, quella forma enorme ed enciclopedica, senza vuoti, senza fratture. In secondo luogo, il che non significa, come vedremo, che esso si limiti a raccogliere una tradizione epica, il romanzo è, o può essere, la storia di una nazione, di una lingua, insomma di un corpo immenso. Come, per citare un libro dell'altro ieri, Il perdente di György Konrád è la storia dell'Ungheria in questo secolo attraverso la vicenda d'una (composita) famiglia, così L'ultimo sospiro è la storia dell'India moderna narrata attraverso la ricostruzione genealogica del protagonista: un eroe la cui peculiarità, quasi dimostrativa, è d'essere appunto composito, un bastardo supremo. Ma qui il dio che presiede non è quello della totalità, del mito; è il dio della volontà di mito, un dio dell'abbondanza. Il romanzo è il romanzo, come cornucopia: si arrotola senza fine su se stesso, come un tempio indiano, o come un serpente boa.

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Pagina 79

6.


Ingeborg Bachmann morì a Roma, a quarantasette anni. Era il 1973. Fumava a letto, si addormentò, la camicia da notte di nylon prese fuoco. Qualcuno parlò di suicidio: e, vero o non vero, lo vuole vero la leggenda, cioè la leggenda della sua infelicità. Quando morì, la Bachmann era ampiamente nota, soprattutto in Germania; ma non era una leggenda. Al contrario, il suo unico romanzo Malina fu accolto tiepidamente. La critica esibisce ancora oggi la sua diffidenza. Si accusa il romanzo di non essere un romanzo, che in Malina non vi sia abbastanza trama, che non vi siano personaggi e, insomma, troppo poco epos: del resto l'idea che il realismo non possa essere che questo è un patrimonio comune all'Italia e alla Germania. Il realismo o è mimetico o non è, anche se non è chiaro di che cosa si dovrebbe essere mimetici. Dal momento che si parla di procedimenti mimetici, non potrebbero esserlo anche quelli che prendano a proprio oggetto l'anima, o una visione dell'intimo piuttosto che del visibile, di ciò che tutti più o meno vediamo allo stesso modo? La Bachmann non era ancora una leggenda. Ma già nel 1974 uno dei più grandi scrittori tedeschi del dopoguerra, il suo amico Uwe Johnson, pubblicò un libro, Un viaggio a Klagenfurt, che è una straziante testimonianza sulla vita della Bachmann: tanto più straziante quanto indiretta. Johnson non si concede nessun ricordo, nessuna elegia. Al contrario, si pone in una posizione di obliquità, cioè di discrezione; solo documenti, solo resoconti. Non a caso il testo si apre con un corsivo della stessa Bachmann, che è una sua tipica frase, un suo tipico modo di pensare: "Inoltre ogni necrologio non può che essere un'indiscrezione". Fedele a questo monito, a questo principio di sobrietà e di pudore, Johnson così prosegue: "Necrologio tenuto il novembre 1973 all'Accademia delle Arti, Berlino Ovest: Ingeborg Bachmann, dal 1961 membro straordinario della sezione letteratura, visse dal 25 giugno 1926 al 17 ottobre 1973. Nacque a Klagenfurt, capoluogo del Land austriaco della Carinzia. Dal 1945 al 1950 studiò filosofia alle Università di Innsbruck, di Graz e di Vienna. Nel 1950 si laureò a Vienna con una dissertazione sulla Ricezione critica della filosofia esistenzialista di Martin Heidegger. Lavorò con il 'Wiener Kreis', una corrente filosofica che si propone di scoprire le basi del pensiero logico e teoretico senza ricorrere alla metafisica. Dal 1951 al 1953 collaborò alle trasmissioni dell'emittente radiofonica Rot-Weiss-Rot. Dei suoi successivi lavori scientifici sono da ricordare soprattutto i contributi alla conoscenza dell'opera di Ludwig Wittgenstein, le traduzioni in italiano di opere di Sigmund Freud e la collaborazione prestata alla rifondazione dell'Istituto di Psicoanalisi a Vienna. Scrisse tre libretti d'opera, tutti musicati da Hans Werner Henze. Le sue pubblicazioni letterarie sono: Il tempo dilazionato, Poesie (1953); Invocazione all'Orsa Maggiore, Poesie (1956); Cicale, Dramma radiofonico (1955); Il buon Dio di Manhattan, Dramma radiofonico (1958); Il trentesimo anno, Racconti (1961); Malina, Romanzo (1971); In simultanea, Racconti (1972); fece traduzioni di poesie di Giuseppe Ungaretti e scrisse composizioni in prosa come Ciò che ho visto e sentito a Roma. A Roma Ingeborg Bachmann visse per vent'anni, a eccezione di alcuni periodi trascorsi in Baviera, Inghilterra, Svizzera, Stati Uniti, Berlino Ovest, Hesse, e, di quando in quando, in Austria".

Come si vede, niente altro che una scheda biografica: e sarà il tono di tutto il libro, in una ossessiva e quasi maniacale descrizione-ricostruzione della città natale della Bachmann e del suo tempo perduto. Ben diverso, l'anno dopo, il modo di pronunciarsi di un altro importante scrittore, lo svizzero Max Frisch , in Montauk. Frisch era stato, per la Bachmann, il grande amore della vita. Anche Frisch rapprende tutto nel pudore, sintetizza, asciuga lacrime che sembra non siano state versate. Ma la sua prosa sprofonda nella vita quotidiana, è qui che trova il suo alimento, la sua fonte di dolore: "Soffrendo accresco il mio bisogno di lei. Ma quando lei c'è, c'è davvero. Oppure mi inganno? Ciò che non è mai stato: un matrimonio, vita di famiglia nella rassegnazione. Che cosa mi tormenta? Siedo nella mia stanza e non la spio, ma sento che cosa sta dicendo al telefono a qualcuno; la sua voce è lieta, ride, ne esce un lungo colloquio; non ho idea di chi sia quello a cui sta dicendo: Dopodomani vado a Londra! Senza precisare che andiamo insieme a Londra per la mia rappresentazione. Una volta ho fatto quello che non bisogna fare: ho letto delle lettere non indirizzate a me, lettere di un uomo; prendono in considerazione il matrimonio. Mi vergogno e taccio. Lei non mente se le domando. Scrive: Se tra noi cambierà qualcosa, te lo dirò. Ancora una volta ritengo di non resistere senza di lei...".

Infine, un altro grande scrittore della scena europea del dopoguerra, il polacco Witold Gombrowicz. Consegna un'immagine della Bachmann che ci fa fantasticare, la più misteriosa. (Siamo a Berlino, nel 1963): "Ingeborg Bachmann, poetessa austriaca, anche lei invitata dalla Ford e alloggiata nella medesima Akademie der Künste, fu la prima persona con la quale feci amicizia. Passeggiavamo, tutti e due alquanto stupiti o storditi da quest'isola (nell'oceano comunista) o forse da qualcos'altro ancora; non vedevamo molto, praticamente nulla; mi ricordo che mi sorprendeva quella Berlino così spopolata, tanto che quando vedevamo spuntare qualcuno da lontano esclamavamo: 'Ehi! un uomo all'orizzonte!'". La Bachmann a quell'epoca aveva già pubblicato Il trentesimo anno e i suoi radiodrammi. Per lo scrittore polacco, appena tornato in Europa dall'esilio argentino, lei è ancora una "poetessa austriaca". Ma i due soli aggettivi con cui Gombrowicz la designa, stupita e stordita, la descrivono misteriosamente sebbene, un poco, perfettamente: e meglio il secondo del primo, o come se lo stupore non ammettesse altra conseguenza, nella Bachmann, che lo stordimento. Ciò che per Gombrowicz è occasionale, determinato dall'eccezionalità della situazione, la prosa della Bachmann rivela costituzionale, uno stato permanente.

Ecco, nella qualità stordita e febbrile della sua prosa si nasconde il doppio segreto: quello della tiepidezza con cui Malina fu accolto quando uscì (e con cui viene tuttora letto da gran parte della critica) e quello del calore, per così dire, che poco a poco si è sprigionato da un romanzo che nonostante la sua difficoltà ha trasformato la Bachmann in una leggenda.

La difficoltà, d'altra parte, è apparente. Si tratta di trovare una chiave, poi ci si immerge, o si viene rapiti. Prima di tutto occorre credere che un romanzo può non essere un romanzo ma, diciamo, niente altro che una narrazione. In secondo luogo, che una narrazione può trasformarsi rapidamente in una fiaba, se non addirittura in una nenia, in una pura evocazione musicale. Il lettore viene chiamato intorno a un fuoco: quello è il centro di irradiazione, di lì si sprigionano tutti i poteri (cioè i poteri della donna: i poteri del cuore). Essi ci tengono avvinti non a causa di una promessa: aspettate per sapere cosa accadrà; ma per la loro intrinseca forza: non accadrà nulla, tutto è già accaduto, il senso è già svanito, non ne resta che la musica, un'eco. In terzo luogo, si tratta di non equivocare intorno al personaggio che dà il titolo al romanzo. Continuamente, si è tentati di credere che Malina sia un autentico personaggio, per così dire in carne e ossa. Quando la Bachmann ci parla delle scarpe di Malina non dovremmo aver dubbi. Invece, come la stessa autrice disse in un'intervista, egli non è che un alter-ego della narratrice, di colei che dice "io".

Il problema allora diventa: che tipo di alter-ego? Malina è solo un doppio, come se ne ritrovano in tanti luoghi della letteratura classica? In un certo senso sì, ma le sfumature sono più sottili. Altrettanto continuamente la concretezza eventuale di Malina si assottiglia, fino a diventare un'ipotesi, una pura funzione narrativa. Pensando al mondo viennese da cui la Bachmann proviene e guardando il prospetto dei personaggi posto in apertura di racconto è quasi inevitabile pensare che ciò che qui viene messo in scena è la "persona", così come ci viene descritta dalla psicoanalisi, da Freud. Io è l' io; Ivan, l'uomo comune, l'uomo amato, è l' altro per definizione (ogni possibile altro, ma soprattutto quell' altro indicibile, inaccostabile che Freud chiamò "es", il nostro stesso inconscio, il luogo del desiderio e del turbamento, il luogo della vertigine); e Malina è, forse, il super-ego: ovvero un alter-ego che è contemporaneamente un momento, una forza d'ordine, una sentinella. In altri termini, Malina oscilla incessantemente tra una sua qualità di principio negativo, di sbarramento e censura, e una sua qualità di principio positivo, di principio d'ordine. Malina non è altro che il luogo dove tutto converge, la pura utopia della Bachmann (o dell'"io"), la letteratura che tutto redime attribuendo misura al caos.

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Pagina 153

13.


Nello stesso giro di anni, prima e dopo il crollo della Borsa di New York (1929), solo quello che sarebbe diventato il maggior scrittore americano del secolo, uguagliò Hammett (in intensità). William Faulkner pubblicò nel 1929 Sartoris e L'urlo e il furore, poi nel 1930 Mentre morivo, nel 1932 Luce d'agosto, nel 1935 Oggi si vola (ovvero Pylon). Più tre o quattro raccolte di racconti. Dashiell Hammett, che era nato nel 1894 e che aveva dunque tre anni più di Faulkner, pubblicò il suo primo romanzo proprio nel 1929: era Raccolto rosso; nello stesso anno uscirono Il bacio della violenza (The Dain Curse) e Il falcone maltese; nel 1930 La chiave di vetro e nel 1934 L'uomo ombra.

A differenza di Faulkner, che continuò a scrivere per altri trent'anni, ma con due soli nuovi testi memorabili all'attivo, Assalonne, Assalonne!, del 1936 e L'orso del 1940, Hammett smise di scrivere. Aveva esaurito le sue energie creative. A posteriori, si può osservare che la spesa era stata enorme. Inoltre, Hammett era malato di tubercolosi dal 1918 e due potentissime sirene di opposta voce lo avevano chiamato a sé: Hollywood da una parte e la militanza politica dall'altra. Come sceneggiatore non ebbe maggior successo di Faulkner (anche lui chiamato a Hollywood) e come comunista americano pagò tutto quello che c'era da pagare — dopo la guerra convocato dal senatore McCarthy per rivelare chi fossero i contribuenti di un fondo destinato all'aiuto dei comunisti in attesa di processo, rifiutò di fare i nomi.

Infine, Hammett era, come Faulkner, un imbattibile bevitore. In questo non fu diverso dagli altri due grandi della stessa generazione: Fitzgerald e Hemingway, l'unico al quale possa essere accostato per ragioni intrinsecamente letterarie. L'alcol operò in modo diverso sull'uno e sull'altro, ma i dialoghi bruschi e allusivi erano della stessa natura e la musica di fondo di Fiesta del 1926 è la matrice stilistica dell'intera opera di Hammett. Hammett superò Hemingway in una cosa; nel rendere più oltranzista quella musica, quel modo d'essere così cool, così aristocratico. Superò tutti (è questo, io credo, che lo condannò alla sterilità e a un successo tutt'altro che incondizionato) nell'elaborazione di trame tra le più complesse che siano state scritte: alla fine la domanda se Raccolto rosso sia un novel o un romance è più che legittima.

I labirinti intellettuali di Hammett mostrano una inimitabile potenza a causa della propria intenzione di sostenere se stessi in quanto labirinti per un fine non enigmistico (come in ogni scrittore di romanzi polizieschi) ma filosofico. La trama è una trama, dice Hammett, perché così è la vita, perché non c'è scampo, perché non se ne può uscire. In questo caso Raccolto rosso è naturalmente un novel. Ma non succede mai che da un labirinto si possa tirare un filo che ci restituisca la strada maestra, una strada diretta e semplice. Al massimo, possiamo sostituire a un labirinto un altro labirinto, al labirinto della realtà il labirinto della nostra ipotesi investigativa. In questo secondo caso, proprio perché il mito non funziona più, perché la realtà non è che un mito gotico e di reale non v'è che un'allegoria romanzesca, Raccolto rosso è naturalmente un romance.

Quando alla fine del suo ultimo romanzo, alla fine dell' Uomo ombra, l'ex detective Nick Charles spiega a sua moglie Nora come sono andate le cose, le fa chiaramente capire che le prove per ora non ci sono, si tratta di sue ipotesi, è molto probabile che qualcosa coincida, ma è altrettanto probabile che qualcosa non coincida affatto. Tanto, non importa. E qui, da questo "non importa", da questa noncuranza finale e strutturale, immediatamente torniamo alla musica, allo stile.

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Pagina 187

16.


Come Gianfranco Contini, ma anche come Benedetto Croce, al quale si opponeva – si opponeva al suo stile fluente, ampio, a grandi, sovrabbondanti, ottocentesche arcate: quello stile così oratoriale – quando Giacomo Debenedetti scriveva aveva uno stile tortuoso, ellittico, criptico. I critici letterari italiani del Novecento, prima che scrittori, furono oratori. Alla fine i suoi libri folgoranti sono quelli che non ha scritto: sono quelli che ha detto, o dettato; i libri che furono ricavati dalle sue lezioni.

Quando parlava, Debenedetti non aveva le inibizioni del romanziere negato che soffriva in lui – è solo così che divenne "romanziere" come critico o, se si preferisce, come scrittore vocato alla distruzione nel momento in cui realizzava il più ambizioso disegno, di compiutezza, di fecondità.

Che cos'è uno scrittore, del resto, posso dirlo solo con esempi, una teoria della scrittura è una contraddizione in termini. È uno scrittore Erasmo, con le sue figurine dialoganti e lo è J.M. Keynes con i suoi "ricordi di pace"; lo è Alberto Savinio con le sue enciclopedie e lo è Ennio Flaiano con i suoi libri non scritti, o condensati, e con le sue sceneggiature; lo è Benedetto da Norcia con le sue ascisse e ordinate, le sue regole e la sua luce, il suo esprit de géometrie e il suo esprit de finesse – uno scrittore della debolezza come scrittori della forza furono Tacito, Machiavelli, Baltasar Gracián e Nietzsche. Scrittori furono quei grandi uomini d'azione del tempo antico (Socrate, che non scrisse nulla, o il guerriero Cervantes) o del tempo nostro (Byron, T.E. Lawrence, Mishima e Pasolini, che fu romanziere con Ragazzi di vita , antiromanziere con Petrolio e infine, sempre, in ogni articolo, come in ogni intervista, uno scrittore). C'è sempre, in tutti costoro, un gesto che è di cancellazione d'una vicenda formale e che accorcia la distanza tra l'arte e la vita. Debenedetti quando scrive è un saggista, più o meno brillante; quando parla è uno scrittore.

La struttura gli venne dalla voce e dal corpo. Lo stile era quello d'una tecnica, d'uno strumento ricevuto in eredità (l'eredità ermetica). La sua opera vive divaricata. È l'opera d'uno "scrittore", la cui struttura, vocale e gestuale, derivò dall'Ottocento, al quale s'opponeva, nel quale era dunque coinvolto; lo stile gli venne dal Novecento, che lo condannava allo stato vedovile, quanto meno alla sterilità, alla sua unicità, a se stesso: era inevitabile che lo stile agro e scostante, quel modo pressoché schifato e di sé vergognoso, derivasse dalla lotta con la forma che corteggiava e che gli si negava, che si negava a tutti – non c'era più.

È in questo modo deforme e rattrappito, eppure vitalistico, corporale, da combattente, che divenne il maggior critico italiano di questo secolo. Il Novecento, per l'Italia, è d'altra parte il secolo del romanzo: in ritardo, come un paese del Terzo Mondo che si affaccia oggi sulla scena della cultura planetaria. E in questo senso paradossale che Debenedetti è stato il critico della forma-romanzo, il suo analista, il suo diretto o implicito apologeta: come autore del testo più ambizioso, Il romanzo del Novecento.

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