Autore Domenico De Masi
Titolo Il lavoro nel XXI secolo
EdizioneEinaudi, Torino, 2018, Passaggi , pag. 822, cop.fle., dim. 13,6x21x4,5 cm , Isbn 978-88-06-22846-0
LettoreRiccardo Terzi, 2019
Classe lavoro , sociologia , storia sociale , scienze sociali , economia politica , storia della tecnica












 

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Indice


 IX Prefazione

    Il lavoro nel XXI secolo

    Parte prima --- Cosa è il lavoro

  5 I.      Genesi
        Il Creatore onnipotente.
        Cosa buona, cosa bella.
        Il Creatore insidioso.
        Il Creatore vendicativo.
        Dalla parte dei peccatori.

 11 II.     L'interpretazione cattolica del lavoro
        Il lavoro come espiazione.
        Rerum novarum.
        Disuguaglianze e concordia.
        Capitalisti e proletari.
        Lavoratori e Stato.
        Quadragesimo anno.
        Denaro e management.
        Comunismo e socialismo.
        Missione della donna.
        Proletarie, mondane, donne attive.
        Mater et magistra.
        Dignità e partecipazione.
        Populorum progressio.
        Laborem exercens.
        Un'enciclica postindustriale.
        Essenza e dignità.
        La questione proletaria.
        Liberalismo.
        Comunismo.
        Il carpentiere e il costruttore di tende.
        Centesimus annus.
        Proprietà, lavoro e profitto.
        Conflitti.
        Tra comunismo e capitalismo.
        Evangelii gaudium.
        Globalizzazione dell'indifferenza.

 51 III.    L'interpretazione protestante del lavoro
        Il lavoro come natura.
        Il lavoro come ascesi.
        Il lavoro come razionalità.
        Il lavoro come denaro.
        Il lavoro come rischio.
        Il lavoro come premonizione e santità.
        Il lavoro come disciplina.
        Il lavoro come pericolo.
        Il lavoro come parsimonia.
        Il lavoro come agone.

 63 IV.     L'interpretazione laica, dalla parte dei datori di lavoro
        Dinamismo e conoscenza.
        Il lavoro come merce.

 67 V.      L'interpretazione laica, dalla parte dei lavoratori
        Equidistanti e transfughi.
        Il lavoro come cooperazione.
        Il lavoro come armonia.
        Il lavoro come libertà e servitú.
        Lavoro ideale, lavoro reale.
        Il lavoro umano consumato.
        Il lavoro venduto.
        Il lavoro organizzato.
        Il lavoro intellettuale.
        Ferguson anticipatore.
        Torpore e vasti orizzonti.
        Il lavoro alienato.
        Produzione e consumo.
        Il lavoro come studio e come arte.
        Il lavoro come nostalgia.
        Il lavoro come narrazione.

 98 VI.     Altre interpretazioni
        L'influenza religiosa.
        India e induismo.
        L'India postindustriale.
        Lavoro e caste.
        Cina: lunga marcia insieme a Confucio.
        Molti secoli di lavoro.
        Rapida marcia verso il capitalismo.
        Protocapitalismo.
        Socialismo postmoderno.
        Lavoro e Beijing consensus.
        Domani chi sa.
        Il Giappone buddhista.
        Il Giappone taoista.
        La concezione giapponese del lavoro.
        Kaizen.
        I musulmani.
        Economia e lavoro.
        La sottomissione femminile.
        Le banche di Muhammad.

138 VII.    Lo sguardo sociologico
        Un oggetto multidisciplinare.
        Il lavoro secondo un trattato.
        Il lavoro come costrizione.
        Il lavoro come ambiguità.
        Sei aspetti del lavoro.
        Il lavoro come attività di gruppo.
        Il lavoro come amministrazione e organizzazione.
        La sociologia del lavoro.
        Il lavoro secondo un dizionario.
        Visione industriale.
        La qualità del lavoro e i suoi effetti.


    Parte seconda --- Il lavoro nella società preindustriale

157 VIII.   L'ottavo giorno della creazione
        Centinaia di generazioni.
        Nove obiettivi, sei percorsi.
        Deserti e solitudini.
        Le onde lunghe si accorciano.
        Le radici della società industriale.

167 IX.     Le opere e i giorni
        Il lavoro apprezzato.
        Ti sia caro il lavoro.

170 X.      Spartani, professionisti della guerra
        Un legislatore e due re.
        Spartiati e iloti.
        Sottomissione e aggressività.
        La guerra come modello di vita.

180 XI.     Ateniesi, professionisti della democrazia
        Raffinato decoro.
        Supremazia delle leggi.
        Organizzazione democratica.
        Democrazia diretta.
        Educazione.
        Formazione professionale.
        Formazione alla skolè.
        L'ozio creativo in Grecia.
        Donne e buoi.
        Etere e sacerdotesse.
        I meteci.
        La polis come spettacolo totale.
        L'uomo greco e il lavoro.
        L'artigianato.
        Il commercio.
        La crematistica.
        La scienza.
        La tecnica.
        La natura intoccabile.
        Blocco mentale.
        Cose ricche di significati.

231 XII.    La schiavitú in Grecia
        Felici pochi, infelici molti.
        Lavoratori e schiavi.
        La natura della schiavitú.
        Grecia schiavista.
        Il lavoro schiavile.
        Fuori e dentro la città.
        Affrancamento.

244 XIII.   Romani, professionisti dell'impero
        Dimensioni planetarie.
        Dall'urbe all'impero.
        Impero globale.
        Organizzazione imperiale.
        La tecnologia romana.
        Guerra, politica e diritto.
        Lavoro: ordini e gerarchie.
        Lavoro: essenza e pregiudizio.

263 XIV.    Liberti e schiavi
        Liberti.
        Roma schiavista.
        Crudeltà naturale e ineluttabile.
        Schiavi agrari e schiavi urbani.
        Rapporti di lavoro.
        Lo status degli schiavi.

275 XV.     Il plebeo, il soldato, il gladiatore, il sacerdote, l'ozioso
        Il plebeo.
        Il soldato.
        La riforma augustea.
        Da eroe a mercenario.
        Il gladiatore.
        Il sacerdote.
        L'ozioso.
        L'ozio creativo a Roma.

297 XVI.    Da schiavi a servi
        Declino della schiavitú.
        Dalla schiavitú alla servitú.
        Feudalesimo.
        Lavoro dipendente.
        Schiavi per colpa.
        Vantaggi dell'affrancamento.
        Importanza della motivazione.
        Economia curtense.
        Fragili e stanziali.

317 XVII.   Il fervore dell'invenzione
        Il mulino ad acqua.
        La sindrome di Vespasiano.
        Tertium datur.
        Un secolo gaio.
        La campana e l'orologio.
        Il monaco.
        Il mercante.
        Le corporazioni.
        La bottega.
        La scoperta della produttività.

334 XVIII.  Instauratio magna
        Il lavoro come arte.
        Cattolici e protestanti.
        Bacone e Cartesio.
        Galileo.
        Idee nuove, miseria antica.
        Membra sofferenti di Cristo.
        La disoccupazione laicizzata.
        Ospizi e reclusori.
        L'industrializzazione prima dell'industria.
        La città preindustriale.
        L'organizzazione artigianale: casa e bottega.


    Parte terza --- Il lavoro nella società industriale

359 XIX.    I due pilastri teorici della società industriale
        Un salto epocale.
        Un paradigma e una crociata.
        Sviluppo umanistico e progresso tecnologico.
        Il benessere terreno come fine.
        Radici lontane.
        Atei, credenti, miscredenti, praticanti.
        La terra copernicana e l'uomo tolemaico.
        Montesquieu e la nascita della sociologia.
        Ma cos'è l'Illuminismo?
        L'umanità come fine.
        La felicità tutelata.
        La luce dei valori.
        Encyclopédie.
        Travail et travailler.
        Un metodo per creare.
        Ciò che la società industriale deve all'Illuminismo.
        L'emancipazione dell'economia.
        Liberalismo, liberismo.
        Profeta del nuovo, nemico del vecchio.
        Egoismo e simpatia, capitale e lavoro.
        Invisible hand.
        Non solo economia.

404 XX.     Il lavoro meccanizzato
        La borghesia al potere.
        Perché l'Inghilterra.
        Inizia un'epoca nuova.
        Agricoltura.
        Demografia.
        Economia.
        Industria e commercio.
        Vapore e lavoro.
        Sistema integrato.
        Factory system.
        L'oscuro artigiano Arkwright.

428 XXI.    Il lavoro sfruttato
        Classismo illuminista.
        Classismo liberale.
        Classe agiata.
        I calcoli di Babbage.
        Le fabbriche salubri e ariose di Ure.
        Lavoratori indocili e meccanizzazione.
        La New Lanark di Owen.
        Cooperazione e socialismo.
        L'età meccanica di Carlyle.
        Le scimmiette di De Quincey.
        L'Inghilterra di Engels.
        Lavoro ripugnante.
        Ignoranti, altezzosi, tirannici.
        La Napoli di Jessie White Mario.
        Ribellione o animalità.
        Dall'individuo al movimento.
        Dall'Inghilterra al mondo.
        L'albero e i rami del socialismo.
        La parabola cartista.
        Francia: il Quarantotto e la Comune.
        Inghilterra: la Fabian Society.
        Germania: massimalismo e minimalismo.
        Welfare: sicurezza ed equità.

474 XXII.   Il lavoro studiato
        Il lavoro come oggetto di ricerca scientifica.
        Cosa è un paradigma.
        Due filoni.
        Il paradigma liberale.
        Il paradigma riformista.
        Il paradigma comunista.
        Il paradigma burocratico.
        Il paradigma cattolico.
        Il paradigma critico.
        Caratteri distintivi e unificanti.

492 XXIII.  Il lavoro organizzato
        Made in Usa.
        La fase pre-paradigmatica dello scientific management.
        Frederick Winslow Taylor.
        Lavoro e giardinaggio.
        L'avvento dell'elettromeccanica.
        Henry Ford.
        La catena di montaggio.
        I principi dello scientific management.
        Altre critiche.
        Il paradigma delle human relations.
        Le ricerche alla Western Electric.
        Le anomalie del paradigma motivazionale.
        Epigoni.
        Il paradigma sistemico.
        Nuove anomalie, nuovi tentativi.
        Il paradigma comportamentale.
        Il paradigma decisionale.
        Il paradigma sociotecnico.
        Le caratteristiche del filone manageriale.
        I valori industriali.
        La barba e le calzature.
        Metropolis: ciminiere e automobili.
        L'industrialismo.
        Cambiamenti radicali nel lavoro e nella vita.


    Parte quarta --- Il lavoro nella società postindustriale

551 XXIV.   La grande transizione
        Cultural gap.
        I semi della nuova società.
        Convergenze.
        Il migliore dei mondi possibili?
        La fantasia al potere.
        Studenti e operai.
        La Fiat come metafora.
        Il paradiso degli imprenditori.
        Lo Statuto dei lavoratori.
        Impatto sulla società.
        Operai e impiegati.
        Marinai senza rotta e senza meta.
        Alienazione oggettiva e classe in sé.
        Il ruolo omologante dell'alienazione.
        Imprenditori organizzati e lavoratori frammentati.
        Sette cause alienanti.
        Molti nomi, molti punti di vista.
        La società dei servizi.
        Piccolo è bello.
        Apocalittici e integrati.
        Dismisura.
        Decrescita serena.
        La psicologia al primo posto.
        Radicali e alienati.
        Il lavoratore narcisista.
        La terza ondata.
        La produzione della società.
        Il conflitto esorcizzato.
        Il conflitto postindustriale.
        Conclusioni provvisorie sulle classi e sul conflitto.

630 XXV.    I fattori del mutamento
        Incipit.
        Nove forme di globalizzazione.
        La decima forma.
        Chip e microchip.
        Internet e web.
        La via europea alla digitalizzazione.
        La via americana.
        Le altre facce del progresso.
        Nuove logiche.
        Progresso organizzativo.
        Il presente è l'avvenire.
        Conflitti senza classi.
        I movimenti.
        Capitalismo e democrazia.
        Disuguaglianze.
        Vendetta e riscatto.
        I nuovi termini del sottosviluppo.
        Valori emergenti.
        Pessimismo della ragione.
        Ottimismo della volontà.
        Nuovi soggetti sociali.
        Grande Fratello e democrazia aziendale.
        Identikit della società postindustriale.
        Identikit del lavoro postindustriale.

709 XXVI.   Metamorfosi del mercato
        Scenario 2030.
        Lavoro 2030.
        Prosuming e disintermediazione.
        Dentro e fuori dall'Eden.
        Prospettive per i nostri figli.
        Perizia nella vita.
        Siamo tutti in soprannumero.
        La nuova età delle macchine.
        Sharing economy.
        Esuberi, working poors e Neet.
        Overtime e reperibilità.
        Distruzione liberatoria.
        Undici tesi sul lavoro nel XXI secolo.

743 XXVII.  Metamorfosi del lavoro
        Il verbo dei guru.
        Paradossi organizzativi.
        Diversità di genere.
        I manager.
        Lavoro-gioco.
        L'attività intellettuale.
        Dal pressappoco al pressappoco passando per la precisione.
        Motivazione e solidarietà.
        La scoperta del settore senza profitto.
        Il primato motivazionale del non profit.
        Il mondo è giovane ancora.
        Competizione e cooperazione.


773     Note
803     Bibliografia di Domenico De Masi
805     Indice dei nomi


 

 

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Pagina IX

Prefazione


Ogni giorno le prime pagine dei giornali parlano di lavoro: perché manca, perché stanca, perché stressa, perché muta, perché costa, perché non rende. Chi non ce l'ha lo desidera; chi ce l'ha vorrebbe smetterlo o ridurlo o cambiarlo. Questi problemi, che si ripetono da anni e dovunque, appaiono sempre piú insolubili, benché le tecnologie corrano in soccorso dei lavoratori. Quando una soluzione è necessaria e tuttavia impossibile, il fatto diventa tragico. E tragica è la condizione di chi oggi odia il suo lavoro o lo perde o non riesce a trovarlo in una società fondata proprio sul lavoro.

Sono nato in un piccolo paese rurale del Mezzogiorno d'Italia quando non era ancora dotato di energia elettrica e di acqua corrente. Ho ascoltato la prima radio quando avevo otto anni, ho visto la prima televisione quando ne avevo sedici, sono andato a lavorare in una grande acciaieria quando ne avevo ventitre, e l'anno successivo ho visto per la prima volta un computer. Sono stato tra i primi italiani a comprare un fax, a usare un cellulare, a sottoscrivere un abbonamento a internet.

Ho dunque l'impagabile fortuna di avere vissuto in prima persona il passaggio della società da un millenario assetto rurale a un bicentenario assetto industriale e a un inedito avvento postindustriale. Ciò mi ha permesso di gustare come primizie o di paventare come minacce tutte le innumerevoli novità tecnologiche che hanno segnato questa transizione e, con esse, tutti i mutamenti antropologici e sociali, compresi l'ascesa e il declino della classe operaia e media, la crescita esponenziale della produzione e il fallimento della distribuzione, l'acuirsi della competitività e il rifiuto della solidarietà.

Tutti i settori e tutte le funzioni ne sono stati modificati ma a me ha interessato studiare soprattutto il mondo del lavoro, che ho visto mutare sotto i miei occhi: da quello contadino del paese in cui sono nato, con i suoi miti e i suoi riti ancestrali, a quello della grande fabbrica con i suoi possenti altiforni, a quello dell'università con le sue ricerche e la sua internazionalità.


Sono sociologo e l'ottica con cui guardo il lavoro non può non risentire di questa distorsione. Nella sterminata bibliografia internazionale che raccoglie i migliori testi socioeconomici sul lavoro, la parte del leone è svolta dagli operai manifatturieri, che per due secoli hanno monopolizzato l'interesse dei ricercatori. Un'attenzione minore e meno sistematica è dedicata al lavoro delle donne e degli intellettuali. Quasi nulla si dice del rapporto tra lavoro e non-lavoro. Se, per esempio, si considera la Grecia classica, molto si è scritto su cosa facessero i 100 000 schiavi cui erano affibbiati tutti i lavori di carattere fisico, ma resta difficile capire cosa facessero durante tutto il giorno i 40 000 cittadini liberi. L'assoluta preminenza numerica di operai nei due secoli della società industriale, e la forza con cui essi hanno condotto la loro lotta di classe, ci ha abituati a identificare il concetto di lavoratore con il metalmeccanico Charlie Chaplin alla catena di montaggio nel film Tempi moderni, che risale al 1936. L'attività intellettuale, invece, è rimasta fuori del cono di luce dei ricercatori e dell'uomo comune, relegata nel mistero e nell'incomunicabile. Lo scrittore Joseph Conrad dice: «Come faccio a spiegare a mia moglie che, quando guardo dalla finestra, io sto lavorando?»

Si dice indifferentemente che un minatore «lavora», una segretaria «lavora», un imprenditore «lavora», un giornalista «lavora», un artista «lavora» come se le rispettive attività fossero assimilabili. E noi sociologi non ci siamo mai preoccupati di trovare vocaboli diversi per indicare le diversissime prestazioni richieste a ciascuno di questi «lavoratori». Quando anche alcuni studiosi piú recenti hanno analizzato e organizzato le figure professionali dei knowledge workers, lo hanno tuttavia fatto con ottica tayloristica, come se il lavoro intellettuale, una volta aziendalizzato, si riducesse comunque alla prosecuzione della fatica metalmeccanica sia pure in altri luoghi e con altri strumenti. Mentre le metafore con cui viene rappresentata l'organizzazione diventano sempre piú antropomorfe passando dal cronometro alla rete, dalla rete al cervello, i metodi con cui le organizzazioni vengono strutturate restano piú o meno gli stessi: unità di tempo e di luogo, marcatempi e gerarchie. Sul piano linguistico i padroni sono diventati imprenditori, i dipendenti sono diventati collaboratori, ma anche quando si pretende creatività per raggiungere obiettivi postindustriali, i compiti continuano a essere organizzati alla maniera industriale, come se fossero esecutivi.

Mai il pianeta è stato capace di produrre tanta ricchezza; mai l'uomo lavoratore è stato cosí vicino all'affrancamento dalla schiavitú che deriva da una cattiva distribuzione del lavoro, del sapere, del potere, delle opportunità e delle tutele; mai gli è stato cosí possibile delegare alle macchine quasi tutta la produzione che richiede fatica fisica, precisione e velocità. Eppure il progresso tecnologico, sempre piú capace di liberare l'uomo dalla fatica e dallo stress, invece di essere valorizzato per queste sue potenzialità liberatorie, viene impiegato per accelerare i ritmi, incrudelire l'asservimento alla macchina e al profitto in misura tale che mai Taylor o Ford avrebbe osato. Negli anni Trenta del secolo scorso, quando ancora non esistevano l'informatica e l'intelligenza artificiale, i nuovi materiali e le stampanti 3D, Bertrand Russell lamentava: «Abbiamo continuato a sprecare tanta energia quanta ne era necessaria prima dell'invenzione delle macchine; in ciò siamo stati idioti, ma non c'è ragione per continuare ad esserlo». Invece, abbiamo continuato.

Se Taylor, all'inizio del XX secolo, sosteneva che occorre modernizzare simultaneamente le macchine, l'organizzazione e la testa degli uomini all'interno della fabbrica, noi all'inizio del XXI secolo siamo costretti dalle mutate condizioni a modificare radicalmente e simultaneamente il lavoro e la vita del lavoratore all'interno della città, per migliorare la qualità dell'uno e dell'altra. Ma, per intraprendere questo cambiamento totale, che è insieme scientifico e antropologico, occorre avere un'idea precisa di cosa ci aspetta, delle sfide che si prospettano e delle risorse di cui disporremo per vincerle.


Nel corso della storia umana non sempre il lavoro inteso secondo l'accezione oggi corrente è stato al centro del sistema sociale. Nella Grecia di Pericle, ad esempio, era centrale l'attività politica; nella Roma di Augusto erano centrali l'attività amministrativa e quella militare; nell'Europa medievale era centrale l'attività religiosa; nella Firenze dei Medici erano centrali quella artistica e quella bancaria. Nell'Italia del 1947 i costituenti ritennero opportuno sottolineare che la Repubblica italiana è fondata sul lavoro, non sui privilegi. Ma ora, passati settant'anni, il lavoro rappresenta solo un decimo della vita di un italiano e appare dunque problematico fondare lo Stato su appena un decimo della vita dei suoi cittadini.

Per comprendere le possibili strade che potrà imboccare il lavoro nel prossimo futuro, per decidere verso quale di esse è preferibile indirizzarlo, e per creare le condizioni favorevoli a tale esito bisogna ripercorrere le mutazioni che il lavoro ha subito nel corso dei secoli e ricavarne le lezioni indispensabili per progettare il futuro. Ad esempio, nei prossimi anni, quando ognuno di noi disporrà di decine di schiavi meccanici, la nostra condizione umana dovrà somigliare piú a quella vissuta da un cittadino di Atene nel V secolo a.C. o a quella vissuta da un cittadino di Detroit nel XX secolo d.C.? Per organizzare il futuro del nostro lavoro quale di queste due esperienze è piú ricca di suggerimenti?

Queste e altre analoghe riflessioni mi hanno indotto a intitolare questo libro Il lavoro nel XXI secolo, benché solo la quarta e ultima parte del volume sia dedicata espressamente alla società postindustriale che, del resto, ha avuto i suoi prodromi nella prima metà del Novecento ed è sbocciata subito dopo la Seconda guerra mondiale. Sotto questo aspetto si potrebbe dire che il XXI secolo, il secolo postindustriale, non è iniziato nel 2001 ma nel 1950 e, per comprenderne il destino futuro, occorre partire dal suo lontano passato.


Il piano di questo libro, diviso in quattro parti, è molto semplice: dopo avere definito il concetto di lavoro, ne racconta la storia, da Esiodo all'intelligenza artificiale.

Prima parte. La prima parte cerca di rispondere a interrogativi ineludibili per chi vuole approfondire il tema cui è dedicato questo libro: cos'è il lavoro? Perché occupa un posto cosí centrale nella nostra vita e nel nostro immaginario? Che differenza c'è tra il concetto di lavoro che ci ha tramandato la Bibbia, quello codificato da Platone e Aristotele nell'antichità, quello predicato da Calvino nel Cinquecento, quello organizzato da Ford nel Novecento? Come evolverà il significato del lavoro e il nostro rapporto con esso man mano che ci addentriamo in un XXI secolo in cui i robot possono sostituire gli operai e l'intelligenza artificiale può sostituire i professionisti?

Seconda parte. Quasi tutti i testi che espongono la storia del lavoro partono dalla fine del Settecento, quando nacque la società industriale e, per la prima volta, alcune attività manuali come tessere e mietere furono affidate alle macchine. I pochi libri che fanno una rapida scorribanda nel lavoro del mondo antico, parlano quasi esclusivamente degli schiavi; quelli che descrivono il mondo moderno parlano quasi esclusivamente degli operai. Ma cosa facevano gli intellettuali e le donne, gli artisti e gli scienziati nella Roma di Augusto, nella Firenze di Leonardo, nella Germania di Bismarck? E come venivano trattati i disoccupati in tutte queste epoche storiche? Quale rapporto esisteva tra lavoro e tempo libero? A queste domande cerca di rispondere la seconda parte del libro.

Terza parte. Per migliaia di anni la società è stata centrata sull'agricoltura e sull'artigianato mentre il lavoro è stato considerato come un castigo divino, disonorevole per coloro che erano costretti a svolgerlo e fuggito come la peste dalle classi privilegiate. Poi, grazie a tre pensatori - Locke , Smith e Marx - il lavoro è stato nobilitato fino a essere considerato come l'essenza stessa dell'uomo e il parametro in base al quale calcolare il valore di ogni prodotto.

Intanto nasceva l'industria moderna e, con essa, la società industriale centrata sulla produzione in grandi serie di beni materiali. Questa società moderna, iniziata nella metà del Settecento e declinata nella metà del Novecento, è stata scossa da due guerre mondiali e da una lunga lotta di classe che ha visto i lavoratori contrapposti ai datori di lavoro. In questi due secoli la storia del lavoro è stata soprattutto storia della fabbrica, storia degli operai alla catena di montaggio e storia delle scienze organizzative che hanno definito con precisione ingegneristica i processi produttivi, le relazioni umane e l'azienda come sistema. Cosa ha determinato il passaggio dal mondo agricolo a quello industriale? Come è cambiato il lavoro sotto l'urto delle macchine meccaniche ed elettromeccaniche? Quali risultati hanno ottenuto i datori di lavoro adottando i metodi taylor-fordisti? Quale prezzo, in termini di alienazione e di sfruttamento, hanno pagato i lavoratori per guadagnare i loro salari e i loro diritti? A queste domande cerca di rispondere la terza parte del libro.

Quarta parte. A partire dal secondo dopoguerra, il progresso scientifico e tecnologico, lo sviluppo organizzativo, la globalizzazione, la scolarizzazione diffusa e l'avvento dei mass media hanno determinato il passaggio dalla società industriale a quella postindustriale, centrata sulla produzione di beni immateriali come i servizi, le informazioni, i simboli, i valori, l'estetica. Gli operai, che nella Manchester industriale di metà Ottocento raggiungevano il 94% di tutta la forza-lavoro, oggi rappresentano appena il 33% e tutto il resto è costituito da lavoratori intellettuali, destinati anch'essi a essere sostituiti almeno in parte dall'intelligenza artificiale. Stiamo riuscendo a produrre beni e servizi con sempre meno lavoro umano, le nostre attività sono sempre piú un mix di lavoro, studio e gioco (ozio creativo), già oggi il tempo libero supera di gran lunga il tempo di lavoro. In che cosa consiste la recente metamorfosi in atto? Quali nuovi rapporti si vanno creando tra lavoro e tempo libero? Nel mondo del lavoro che ruolo svolgono gli operai, gli impiegati, i creativi, le donne, gli omosessuali, gli immigrati? Che rapporti intercorrono tra gli anziani soggetti analogici e i giovani digitali? Perché le persone che si offrono sul mercato del lavoro aumentano piú dei posti disponibili? Quale futuro attende i giovani che oggi si preparano a svolgere una loro professione? E gli adulti che fra qualche anno dovranno andare in pensione? Quali nuove forme di conflitti si profilano nell'azienda e nella società? La vita postindustriale sarà piú felice o piú infelice di quella rurale e di quella industriale? A queste domande cerca di rispondere l'ultima parte del libro.


Chi intende rispondere scientificamente a tante domande dispone di informazioni pressoché infinite come infinite sono le fonti dove reperirle. Ma questa ridondanza può diventare un ostacolo alla comprensione del fenomeno studiato - il lavoro e la sua evoluzione storica - se non si riesce a trovare il filo rosso che lega tra loro i fatti e i dati essenziali, isolandoli dalla massa, cogliendone il senso compiuto e riconoscendoli come fondamentali per la convalida delle ipotesi su cui muove l'indagine.

Nel mio caso, le ipotesi vertono sulla constatazione che l'uomo si è sempre sforzato per trovare gli strumenti capaci di ridurre i suoi sforzi. Di volta in volta egli ha identificato questi strumenti nelle sue stesse mani, negli animali, negli schiavi, negli utensili elementari, nelle macchine meccaniche, nelle macchine elettromeccaniche, nelle macchine digitali, nell'intelligenza artificiale. Insomma, la maggior parte della creatività, dell'energia, del lavoro impiegato dall'umanità nel corso della sua storia ha avuto come obiettivo principale l'invenzione e la produzione di strumenti capaci di assicurarle la massima quantità di prodotti e servizi con il minimo apporto di lavoro umano. Lo scopo profondo per cui si lavora è quello di non lavorare.

Ma ogni volta che si supera una nuova tappa di questo cammino - la ruota, la carrucola, il mulino ad acqua, la stampa a caratteri mobili, la bardatura moderna dei cavalli, gli occhiali, il telaio meccanico, il vapore, il motore a scoppio, l'elettricità, lo scientific management, l'energia atomica, l'informatica - invece di profittare di questa vittoria per ridurre il lavoro a parità di prodotto, si preferisce produrre di piú lavorando piú di prima. Ogni nuova vittoria sulla natura si traduce in una sconfitta della cultura perché si determinano ondate dolorosissime di disoccupazione tecnologica, chi si appropria delle nuove macchine riesce ad assicurarsi dosi maggiori di ricchezza e le disuguaglianze socioeconomiche, anziché diminuire, aumentano. Lo scorso anno, ad esempio, grazie alle nuove tecnologie e alla fatica di miliardi di lavoratori, il pianeta ha prodotto il 3,5% in piú rispetto all'anno precedente ma l'80% di questo immenso surplus è andato nelle sole mani di 1200 persone.


La grande maggioranza dei testi disponibili sul lavoro e sulla sua storia ne studiano singoli periodi o singoli aspetti. Invece lo scopo di questo libro è consentire al lettore uno sguardo complessivo, di natura prevalentemente sociologica, sulla questione lavoro, sulla sua evoluzione nei secoli e sulle probabili trasformazioni che lo attendono nel XXI secolo. Su questi temi ho scritto o curato una trentina di libri, elencati in appendice, ma ognuno di essi focalizza l'attenzione su problemi o su epoche particolari. Invece questo libro vuole essere una sintesi di tutto ciò che ho capito in molti anni di studi e ricerche sul lavoro. Le idee nuove non sono molte: la vera novità consiste nella sintesi messa a disposizione del lettore affinché ritrovi in un solo volume la maggior parte delle questioni che oggi si dibattono a proposito dell'occupazione o della disoccupazione e che io ho già trattato in altri miei testi.

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L'industrialismo.


Le caratteristiche essenziali dell'industrialismo e della società industriale, già messe in luce da altri autori ( Aron , Landes , Toffler ecc.) possono essere cosí sintetizzate:


- Concentrazione di grandi masse di lavoratori salariati nelle fabbriche e nelle aziende finanziate e organizzate dagli imprenditori secondo il modo di produzione industriale.

- Prevalenza numerica degli occupati nel settore secondario su quelli occupati nel settore primario e terziario.

- Prevalenza del contributo dato dall'industria alla formazione del reddito nazionale.

- Applicazione, nell'industria, delle scoperte scientifiche al processo produttivo.

- Progressiva razionalizzazione e scientificizzazione dell'organizzazione del lavoro.

- Divisione sociale del lavoro e sua parcellizzazione tecnica sempre piú capillare e programmata.

- Separazione tra luogo di vita e luogo di lavoro, tra sistema familiare e sistema professionale, con progressiva sostituzione della famiglia nucleare alla famiglia estesa.

- Progressiva urbanizzazione e scolarizzazione delle masse.

- Compresenza conflittuale, nelle fabbriche e nella società, di due parti sociali - datori di lavoro e lavoratori - distinte, riconoscibili, contrapposte.

- Formazione di una classe media sempre piú consistente.

- Riduzione delle disuguaglianze sociali e diffusione della democrazia parlamentare.

- Ristrutturazione degli spazi in funzione della fabbricazione e del consumo dei prodotti industriali.

- Maggiore mobilità geografica e sociale.

- Produzione di massa e diffusione del consumismo.

- Fede in un progresso irreversibile e in un benessere crescente.

- Diffusione dell'idea che l'uomo, in conflitto con la natura, deve conoscerla e dominarla.

- Convinzione generalizzata che le risorse naturali sono infinite come infinito sarà l'arricchimento del mondo.

- Sincronizzazione dell'uomo non piú sui tempi e sui ritmi della natura ma su quelli incorporati nelle macchine.

- Prevalenza accordata ai criteri di produttività e di efficienza intesi come unico procedimento per ottimizzare le risorse e i fattori di produzione.

- Convinzione che, per il raggiungimento degli scopi pratici attraverso l'organizzazione, esiste one best way, cioè una e una sola via ottimale da scoprire, predisporre e percorrere.

- Riconducibilità di ogni prodotto industriale a un suo luogo preciso (la fabbrica) e ai suoi tempi standard di produzione.

- Riconoscibilità di una dimensione nazionale dei vari sistemi industriali.

- Esistenza di una rigida gerarchia tra i vari Paesi, stabilita in base al Prodotto nazionale lordo, al possesso delle materie prime e dei mezzi di produzione.




Cambiamenti radicali nel lavoro e nella vita.


In sintesi, l'industrializzazione è intervenuta pesantemente in tutto il precedente assetto millenario, rurale e artigianale della società. Ed è intervenuta all'insegna della scissione. Nella società industriale:


- Il luogo di lavoro si è scisso dal luogo di vita extralavorativo e, spesso, tra i due è stata interposta una distanza enorme, che richiede ore per essere quotidianamente coperta dal lavoratore pendolare. Si sono cosí create le condizioni per cui milioni di lavoratori si sono sentiti estranei sia ai quartieri in cui producevano, sia ai quartieri in cui si riproducevano.

- I proprietari dei mezzi di produzione non coincidono piú con i lavoratori. Tra i due blocchi si sono create condizioni oggettivamente conflittuali che hanno alimentato la solidarietà all'interno di ciascuna classe e la conflittualità tra le due classi. Ne è derivata una polarizzazione e contrapposizione frontale tra datori di lavoro (borghesia) e lavoratori (proletariato).

- I due blocchi sono stati separati non solo dal diverso rapporto con i mezzi di produzione, ma anche da un diverso tenore di vita, da stili diversi di comportamento, da una diversa cultura.

- Se nella comunità rurale il singolo lavoratore cumulava piú ruoli e ci si poteva imbattere in artigiani che facevano contemporaneamente il birraio, l'oste, il muratore e il fabbro; nella società industriale ciascun operatore ha finito per svolgere un solo ruolo e, al suo interno, ha finito per specializzarsi in mansioni sempre piú specialistiche. L'ideale, per Taylor, era che ogni lavoratore svolgesse una e una sola operazione elementare.

- Rispetto alle botteghe artigianali, piccole per dimensioni spaziali e per numero di lavoranti, le fabbriche hanno occupato una superficie sempre maggiore e un numero crescente di addetti. Parallelamente al processo produttivo, anche quello distributivo si è basato su unità di vendita (supermercati, grandi magazzini, ipermercati) sempre piú imponenti, consentite anche dall'adozione del prezzo unico che, a sua volta, è derivato dalla produzione in serie.

- Il lavoratore e la prole che lo accompagnava nelle fabbriche (onde «proletariato») sono via via passati entrambi alle dipendenze di capi estranei alla famiglia, che hanno esercitato su di essi (spesso in forma brutale) il potere gerarchico e disciplinare prescindendo dalle considerazioni di carattere affettivo e valutando i risultati piuttosto che le intenzioni, come è proprio dei contesti industriali che Tönnies chiama società fredde e impersonali contrapponendole alle comunità rural-artigianali, calde e protettive. Anche le conoscenze relative all'intero processo produttivo sono state sottratte ai lavoratori, costretti a compiti parcellizzati e depauperati, per essere accentrate nei vertici dell'impresa.

- La scienza, la tecnologia e la precisione hanno preso il comando dei processi di produzione, prima guidati dal buonsenso e dall'esperienza. A sua volta il mercato è diventato sempre piú vasto ed esigente.

- La popolazione attiva si è spostata sempre piú dai lavori agricoli a quelli manifatturieri.

- Il progresso, lentissimo nella società rurale, con l'industrializzazione ha fatto un grande balzo e ha modificato rapidamente tutti i parametri sociali. Gli economisti della metà del Settecento puntellavano i propri ragionamenti con statistiche riferite a cinquant'anni prima, mentre noi oggi consideriamo obsoleti anche i dati della settimana scorsa e i broker considerano superati anche quelli di un minuto fa.

- La quantità di popolazione presente in una determinata regione è dipesa sempre meno dalla fertilità dei suoli, dalla disponibilità in loco di materie prime, dalle pestilenze, dalle carestie, dalle calamità naturali e sempre piú dalle decisioni demografiche delle singole coppie e dei governi.

- Il fenomeno dell'urbanesimo si è concretizzato in un'imponente migrazione di masse contadine verso i centri urbani che hanno esercitato una potente attrattiva attraverso le industrie per il lavoro e attraverso i loisirs per il tempo libero. In pochi decenni le città sono diventate milionarie e la cultura urbana si è diversificata nettamente da quella rurale, su cui ha finito per prevalere.

- La città «funzionale» ha sostituito quella interfunzionale e interclassista. Ogni blocco di funzioni, ogni ceto e classe ha avuto i propri luoghi deputati: la zona industriale per produrre, il quartiere commerciale per comprare e vendere, il quartiere burocratico per le faccende politico-amministrative, il quartiere dei loisirs per il tempo libero. Ciascun cittadino ha dovuto spostarsi quotidianamente da una zona all'altra a seconda delle funzioni da svolgere di volta in volta. Una parte della città è rimasta vuota nei giorni lavorativi e un'altra nei giorni festivi; i quartieri dormitorio sono rimasti vuoti di giorno mentre i quartieri industriali e direzionali sono rimasti vuoti di notte; le metropolitane e gli altri mezzi di trasporto si sono incaricati di smistare masse crescenti di cittadini da una parte all'altra della città per fare fronte alla sincronizzazione richiesta dalla «catena di montaggio globale», che ha voluto tutti presenti sul lavoro alla stessa ora e tutti in ferie lo stesso giorno.

- I ruoli si sono standardizzati e si sono specializzati, cosí come i prodotti, gli utensili e i processi produttivi; le mansioni hanno raggiunto i livelli massimi di parcellizzazione auspicati da Taylor e la rigida progressione imposta dalla catena di montaggio introdotta da Ford. La catena di montaggio, cioè la piú raffinata apparecchiatura industriale di coinvolgimento e di controllo, dopo aver conquistato le officine e dopo aver contagiato uffici e città, ha finito per rappresentare la metafora dell'azienda industriale e dell'intera società.

- Le attività domestiche sono state scisse rigorosamente da quelle professionali; la gerarchia aziendale è stata riservata ai maschi; le donne sono state relegate alle mansioni procreative, educative e domestiche oltre che ai livelli infimi della piramide aziendale.

- Ciascuna industria ha finito per produrre non oggetti completi ma semplici parti di oggetti, acquistandone altrove i brevetti e le materie prime per poi trasferire i semilavorati ad altre imprese per l'assiematura.

- Il mercato si è allargato progressivamente fino a diventare planetario; il produttore non ha conosciuto piú il consumatore se non come target astratto. Il consumatore, a sua volta, ha perduto ogni contatto diretto con l'azienda produttrice dei suoi oggetti di consumo e ne ha recepito solo un'immagine manipolata dalla pubblicità.

- Ogni sistema ha ubbidito a una sua propria logica, ha tentato di ridurre gli altri sistemi alla propria logica e si è difeso dall'irruzione di logiche altrui. La logica dell'organizzazione produttiva ha preteso l'espulsione dei sentimenti e delle emozioni da tutti i luoghi deputati al lavoro esecutivo, secondo i criteri che sono propri della società contrapposta alla comunità.

- I parametri di riferimento sono stati costituiti dalla tecnologia automatica; dalla forte prevalenza di lavoro fisico ed esecutivo; da un'epistemologia improntata alla linearità e alla semplicità; da una prevalenza di bisogni «forti» e primari, comuni alla maggioranza dei cittadini, e di bisogni voluttuari massificati per ragioni produttive e per effetto delle mode; dalla dimensione locale o nazionale dei problemi e dell'economia; da valori prettamente maschisti; dalla cultura moderna; dalla secolarizzazione.

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Conclusioni provvisorie sulle classi e sul conflitto.


Come abbiamo visto, nel 1956, per la prima volta al mondo, nel mercato del lavoro americano i lavoratori dell'industria sono stati sorpassati quantitativamente dai lavoratori del terziario. Negli anni successivi, lo stesso fenomeno si è via via ripetuto in tutti i Paesi avanzati. All'interno delle stesse industrie, è mutato radicalmente il rapporto quantitativo tra colletti bianchi e colletti blu: ai tempi di Marx vi era un impiegato per ogni venticinque operai, ora gli impiegati sono piú numerosi degli operai persino nelle aziende manifatturiere. La delocalizzazione e l'esternalizzazione, che in un primo momento hanno riguardato il lavoro manifatturiero e si sono tradotte in reparti fuori di fabbrica, in lavoro a domicilio, in fabbriche dislocate nel Terzo Mondo, si sono poi estese al lavoro intellettuale. Oggi si trasferiscono in India anche i servizi informatici della Cisco e i laboratori farmaceutici della Glaxo, mentre la struttura delle imprese, da monoblocco autosufficiente si trasforma via via in rete multinazionale.

Gli apparati informatici, sempre piú piccoli e potenti, pervadono l'azienda, la casa, il tempo libero, assorbono lavoro umano, determinano il fenomeno del jobless growth, lo sviluppo senza lavoro che, invece di comportare la riduzione degli orari, come sta avvenendo in Germania, si traduce quasi ovunque in disoccupazione crescente. Le officine e gli uffici si svuotano, la fabbrica, decentrandosi, perde la sua unità di tempo e di luogo; diventa difficile mobilitare masse compatte di lavoratori creando il clima emotivo con cui era prima possibile mettere in agitazione un intero stabilimento. La caduta del muro di Berlino ha fatto sbiadire in tutto il mondo il mito e la speranza di poter costruire, con o senza la rivoluzione, una società piú giusta, piú libera e piú felice di quella capitalista.

Mentre la società industriale aveva enormemente semplificato la dinamica sociale spingendo i contendenti verso i due poli contrapposti della borghesia e del proletariato, la società post-industriale mette in gioco nuovi soggetti, fraziona quelli precedenti, li scorpora e li diversifica in base alle tecnologie, all'organizzazione del lavoro, ai mercati, al sesso, all'età, alla professionalità, alla zona, alla scolarità, ecc. Se si cede alla tentazione di ritagliare e classificare i gruppi, i quasi gruppi, le nuove classi, le ex-classi, i ceti declinanti ed emergenti, si finisce col pervenire a tabelle tanto frastagliate quanto inutili.

Le mete e i modi della mobilitazione sono mutati anche perché, come abbiamo visto, è mutata la gerarchia dei bisogni dei lavoratori, a seconda che si tratti di precari in cerca di sicurezza o di garantiti in cerca di superfluo. Gli scioperi nel settore terziario, prima ancora di danneggiare í datori di lavoro, danneggiano i clienti. La globalizzazione delle lotte comporta che l'operaio o l'impiegato di un determinato Paese sente una coincidenza di interessi maggiore con il proprio datore di lavoro che con i colleghi che lavorano nelle aziende concorrenti, sempre piú lontane nel pianeta. Nel loro complesso, questi elementi confluiscono in un mutamento epocale, non un semplice ritocco, una piccola correzione di marcia o addirittura un ritorno indietro rispetto alla società industriale. Facendo una sintesi di quanto detto fin qui:

- Alcuni Paesi del Primo Mondo vanno assumendo la leadership attraverso l'incremento del proprio apparato scientifico-ideativo, oltre che militare; i Paesi emergenti si limitano a implementare le idee altrui; i Paesi del Terzo Mondo sono costretti al semplice ruolo subalterno di fornitori di materie prime, fornitori di manodopera e utenti finali di prodotti obsoleti.

- Il potere - che nella società industriale era connesso soprattutto alla proprietà dei mezzi di produzione - nella società postindustriale dipende sempre piú dalla proprietà dei mezzi di ideazione.

- Ogni azienda produttrice di qualcosa è acquirente di altre cose prodotte da altre imprese.

- Le varie tappe della produzione, dal brevetto alla vendita, sono quasi sempre distanziate nel tempo e nello spazio.

- La posta in gioco dei conflitti consiste nella capacità e nel potere di programmare l'innovazione e il progresso.

- La dialettica sociale, nell'azienda e nella società, tende sempre piú a spostarsi dalla contrapposizione destra-sinistra o rivoluzionari-riformisti alla contrapposizione innovatori-conservatori, che taglia trasversalmente sia la borghesia che il proletariato.

- Nel conflitto postindustriale diviene cruciale il ruolo dell'informazione che, soprattutto nei conflitti del settore terziario (dove i primi danneggiati degli scioperi non sono i datori di lavoro ma gli utenti), può far pendere la bilancia dell'opinione pubblica a favore dei lavoratori o dei datori di lavoro. Il possesso dei mezzi di comunicazione, diventa dunque essenziale per vincere le battaglie contrattuali.

- Mentre nel conflitto industriale le parti in causa erano praticamente fisse perché la classe dominante era egemone in tutto e la classe subalterna era subalterna in tutto, nel conflitto postindustriale vi è maggiore scambio delle parti: ad esempio, il medico che, quando sciopera, danneggia i malati lasciandoli senza cure, domani può essere a sua volta danneggiato dai piloti che lo priveranno dei trasporti aerei. Ciò crea crescenti difficoltà per quelle federazioni sindacali che rappresentano, sotto una stessa etichetta organizzativa, categorie che un tempo erano complementari (ad esempio, trasporti aerei, marittimi e terrestri) e che oggi si trovano spesso in concorrenza reciproca.

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Capitolo venticinquesimo

I fattori del mutamento




Incipit.


Come abbiamo già potuto notare, la società postindustriale non è nata in base a un progetto preesistente, un'ideologia compiutamente formulata, un paradigma socio-filosofico, un testo fondativo di carattere politico o religioso come è avvenuto per il Sacro Romano Impero o per gli Stati islamici, per gli Stati Uniti, per l'Unione Sovietica. La sua forma è diventata riconoscibile dopo molteplici segnali e la sua sostanza ha preso corpo grazie al concorso di molteplici fattori tra loro correlati come la globalizzazione, il progresso scientifico-tecnologico, lo sviluppo organizzativo, i mass media e la scolarizzazione diffusa. La Seconda guerra mondiale ha fatto da detonatore di questo enorme composto di elementi esplosivi.

È impossibile e forse superfluo stabilire quando sia iniziata questa svolta storica. Daniel Bell fa dipendere la mutazione in campo scientifico dal momento in cui il lavoro in équipe ha sostituito il ricercatore isolato e le scoperte scientifiche hanno cominciato a tradursi in applicazioni pratiche con maggiore velocità. Però considera significativo il 1956 perché in quell'anno, come ho già ricordato, negli Stati Uniti i colletti bianchi superarono i colletti blu. Inoltre identifica un primo esempio concreto della svolta postindustriale nell'episodio accaduto durante la Prima guerra mondiale, allorché la Germania, per ovviare al blocco navale con cui le potenze nemiche avevano interrotto i suoi rifornimenti di nitrati dal Cile, mobilitò il proprio mondo scientifico fino alla messa a punto di un nuovo procedimento chimico per la produzione di ammoniaca sintetica.

La sociologa ungherese Zsuzsa Hegedús fa coincidere l'incipit della società postindustriale con lo sbarco in Normandia (6 giugno 1944). Altri lo fanno coincidere con l'impiego altrettanto innovativo del metodo usato da Francis Crick e James Watson per giungere a configurare la struttura a doppia elica del Dna attraverso un percorso logico che sconvolgeva i consueti rapporti tra ipotesi e validazione scientifica. Dietro le 900 parole dell'articolo su «Nature» (25 aprile 1953) con cui i due scienziati annunziavano al mondo la loro scoperta vi era non solo un modo tutto postindustriale di porsi di fronte ai problemi della biologia, ma addirittura una sorprendente anticipazione di come, in futuro, l'esplorazione della realtà e la sua produzione potranno avvenire incrociando dimensioni umane di tipo disparato: logiche, emotive, estetiche ecc.

A me pare che il complesso di trasformazioni per cui oggi la società è qualcosa d'altro da quella industriale iniziata quasi tre secoli fa, per quanto veloce possa essere stato, non è tuttavia collocabile in un punto preciso del tempo e dello spazio se non per esigenze sistematiche e per quell'inconscio bisogno di limite che ci spinge ad assegnare un inizio e una fine a tutti gli eventi storici.

Ma se un punto si ha da privilegiare come avvio acclarato della società postindustriale, a me piace identificarlo in quell'atto crudele e onnipotente con cui, il 6 agosto 1945, qualcuno, su comando di qualche altro, compi un gesto programmato da altri ancora, fin nei minimi particolari - tanto da risultare ormai ineluttabile - e in cui istinto di vita e istinto di morte, aggressività e paura trovarono la prima, massima sintesi. Solo a partire dal modo con cui hanno lavorato a Los Alamos gli scienziati del progetto Manhattan per la costruzione della prima bomba atomica poi lanciata a Hiroshima (6 agosto 1945), solo da quel lancio l'umanità può vantare la sinistra onnipotenza dell'autodistruzione. Mai prima di quell'evento si erano dispiegate una a una, finalizzandosi a esso, tutte le modalità che sarebbero poi divenute caratteristiche dell'epoca postindustriale: la paura dell'uomo per l'uomo; il primato della big science organizzata; i rapporti tra potere scientifico e potere politico; l'incidenza degli interessi militari; la capillare programmazione delle tappe in cui si sarebbe articolato l'evento complessivo; la consapevole strapotenza dell'azione ideativa e dell'azione dirigente rispetto all'ignara e inerme impotenza delle vittime designate; il ruolo amplificante e manipolativo dei mass media nei confronti dell'opinione pubblica mondiale.

Dunque, per convenzione possiamo dire che, a partire dagli anni Quaranta del secolo scorso, si è andato affermando un modello sociale del tutto nuovo in cui la produzione scientifica e culturale ha occupato il ruolo centrale prima detenuto dalla produzione manifatturiera; in cui la stessa produzione manifatturiera ha cambiato modalità; in cui i rapporti hanno assunto una dimensione transnazionale; in cui esiste una sfasatura di tempo e di luogo tra l'azione ideativa, quella produttiva e quella fruitiva.




Nove forme di globalizzazione.


Uno dei fattori che hanno provocato l'avvento postindustriale è la globalizzazione che, come si sa, non è fenomeno recente. Quella di cui si parla oggi rappresenta soltanto l'esito piú elaborato di una perenne tendenza umana a esplorare e poi colonizzare tutto il territorio che si ritiene esistente, fino a farne un unico villaggio sotto controllo. La traduzione in pratica di questa tendenza istintiva è avvenuta in varie forme, dipendendo dalle circostanze oggettive e dall'intraprendenza di un singolo (si pensi a Marco Polo) o di un gruppo (si pensi alle tre caravelle di Colombo), dal loro coraggio o dalla loro aggressività, dalla disponibilità di tempo, competenze e mezzi.

La progressiva esplorazione del pianeta e dell'universo per conoscerlo, cartografarlo, sfruttarne le risorse costituisce una prima forma di globalizzazione. I grandi esploratori e le grandi esplorazioni - da Ulisse a Magellano e a Cabrai, da Gagarin ad Armstrong alle recenti sonde su Marte - hanno spostato man mano i confini del mondo praticato e hanno modificato l'immaginario collettivo, che ha identificato la terra prima con un continente piatto, sbarrato dalle Colonne d'Ercole; poi con un globo immenso e sconosciuto; ora con un pianeta tra i pianeti, roteante in una galassia tra le galassie. Variante aristocratica di questo impulso è il Grand Tour settecentesco; variante snob è l'irrequieto nomadismo di Chatwin; variante consumista è l'attuale turismo tipo «avventure nel mondo», convogliato verso mete sempre piú astruse.

Lo scambio di merci entro un raggio sempre piú esteso, fino a comprendere l'intero mondo conosciuto costituisce una seconda forma di globalizzazione. I mercanti della Mesopotamia, quelli greci, quelli veneziani, esercitarono la loro astuzia levantina per penetrare in territori sempre piú vasti, scambiando materie prime e prodotti di terre e climi diversi.

Esempio perverso di questa globalizzazione è stata la tratta degli schiavi; esempio nobile è lo scambio di informazioni scientifiche tra i laboratori di tutto il mondo; esempio ludico è la campagna acquisti dei calciatori e dei direttori d'orchestra; esempio minore è la vendita di oggetti esotici nei mercatini dei «vu cumprà».

Il tentativo di colonizzare militarmente i popoli limitrofi e poi, via via, i popoli sempre piú lontani, fino a comprendere l'intero pianeta costituisce una terza forma di globalizzazione. L'impero persiano fondato da Ciro II il Grande o l'Invincibile Armata spagnola di Carlo V, sulle cui terre non tramontava mai il sole, forniscono due esempi storici di questo tipo di globalizzazione, cosí come gli eserciti di Napoleone, l'impero coloniale inglese e, da ultime, le flotte americane che solcano tutti gli oceani «non per portare la guerra ma per mantenere la pace», come disse enfaticamente Kennedy sul muro di Berlino.

Colonizzare tutti i mercati invadendoli con le proprie merci costituisce una quarta forma di globalizzazione. I petrolieri arabi, gli stilisti italiani, la Intel con i suoi microchip, la Bayer con la sua Aspirina, la Microsoft con i suoi programmi, Netflix con le sue serie televisive ne costituiscono altrettanti esempi «fisiologici». Un esempio patologico, invece, è fornito dal sistema mondiale della droga, che vede impegnati concorrenzialmente, nella conquista dei mercati, Paesi come Colombia e Laos, Thailandia e Pathanistan, Birmania e Afghanistan. Intorno all'oppio, alla marijuana, all'eroina, si giocano partite globali all'ultimo sangue, condotte sui terreni piú diversi: «le cancellerie, i corridoi o le assemblee generali degli organismi internazionali, i villaggi della giungla, i postriboli, i palazzi delle grandi città. Secondo le circostanze assumono aspetti diplomatici, economici, polizieschi, militari, o la forma di scontri politici diretti». Alla globalizzazione del crimine fa riscontro la globalizzazione delle polizie e dei servizi segreti.

Espandere il raggio d'azione e di influenza dei propri capitali e della propria moneta costituisce una quinta forma di globalizzazione. La rete finanziaria dei banchieri fiorentini, il Commonwealth britannico, i trattati di Bretton Woods, il dollaro come moneta di riferimento, l'euro come moneta unificante sono altrettanti esiti di ordine politico-economico, derivati da questo impulso. A questo tipo di globalizzazione appartiene anche la rete di commerci finanziari che passano attraverso le borse.

[...]

Invadere tutto il mondo conosciuto con le proprie idee costituisce una settima forma di globalizzazione. La Chiesa con i suoi missionari; l'Illuminismo con la sua Enciclopedia; l'America, con la sua Cnn, i suoi film, i suoi serial, i suoi social che accompagnano i cittadini del mondo intero dalla nascita alla morte, costituiscono altrettanti tentativi di sostituire le credenze, i linguaggi, i modelli di vita locali con una cultura universale, unica, omologante, onnivora. A questo tipo di globalizzazione appartiene anche la diffusione del pensiero manageriale (prevalentemente americano, in parte giapponese) attraverso le business schools, i loro guru, i loro libri e le loro riviste. Lean Management, Reengeneering, Downsizing, Customer Journey, Disruption, Cloud computing, Additive manifacturing, Industry 4,0 rappresentano altrettante parole d'ordine omologanti per l'immenso esercito di manager che improntano la propria esistenza alla competitività del mercato internazionale.

Creare organismi internazionali per regolare super partes le politiche dei singoli Paesi, i loro commerci, i loro conflitti, le ricerche, la difesa dell'ambiente, dell'arte, dell'infanzia, le polizie, i servizi segreti, gli apparati economici, sindacali, religiosi, scolastici, militari, umanitari, sportivi, costituisce un'ottava forma di globalizzazione. Già quarant'anni or sono Paul Taylor e Arthur John Groom facevano notare che il numero delle organizzazioni internazionali era salito da 176 nel 1909 a 2173 nel 1972. Oggi sarebbe impossibile farne il conteggio.

La predisposizione, da parte delle grandi imprese, di apparati multinazionali con cui mitigare, attraverso accordi e scambi internazionali, la pericolosa fluidità della competizione globale, costituisce una nona forma di globalizzazione. Qualche anno fa il «Financial Times» pubblicò una mappa elaborata dall'Economist Intelligente Unit in cui si schematizzavano gli accordi intervenuti fra le varie imprese mondiali produttrici di automobili. Ne risultava una matassa inestricabile di legami che, in nome della libera concorrenza, di fatto riducevano decine di aziende dislocate su tutti i continenti in un unico grande apparato globale. Altrettanto inestricabile sarebbe oggi la mappa degli accordi tra le società di telecomunicazione, tra le università, tra i musei.




La decima forma.


Oggi, però, quando si sente la parola «globalizzazione» il pensiero corre a una decima accezione di questo fenomeno sotto certi aspetti millenario e sotto altri aspetti inedito. Ne emerge un decimo tipo di globalizzazione, connotato da sue proprie particolarità:

- Per la prima volta le nove forme di globalizzazione scritte sopra sono tutte compresenti.

- Per la prima volta tre Paesi - Stati Uniti, Cina e Russia - si spartiscono il potere sul nostro pianeta e si accingono a colonizzarne altri.

- Per la prima volta il trasferimento di merci e persone è reso velocissimo dai moderni mezzi di trasporto e il trasferimento di dati è reso ancora piú veloce dalle reti telematiche.

- Per la prima volta i processi di unificazione sociale e culturale sono lubrificati dai mass media e dai social media.

- Per la prima volta l'intera umanità avverte simultaneamente le medesime paure: della guerra nucleare, dell'inquinamento atmosferico, dei crolli in borsa, della sovrappopolazione, degli immigrati, del terrorismo, della violenza, della disoccupazione, delle epidemie, del progresso tecnologico, dello stress, della depressione, delle guerre locali, della guerra mondiale, della carenza energetica, della solitudine, della vecchiaia, della morte.

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Conflitti senza classi.


Ricapitoliamo i concetti essenziali che abbiamo visto da ultimi.

Nella società industriale coloro che sono dominati (i lavoratori, il proletariato) e che mettono in discussione il potere sono presenti nel medesimo campo sociale in cui operano i gruppi dominanti (i datori di lavoro, la borghesia). Gli operai sono operai anche prima di prendere coscienza della propria condizione, ma i rapporti di produzione sono tali da rinviare direttamente al conflitto sociale: per il lavoratore è facile riconoscere il padrone in quanto padrone, ed è relativamente facile passare dalla coscienza di avere un padrone alla coscienza di dover ingaggiare con lui una lotta di classe.

Nella società postindustriale, che la Hegedús chiama «programmata», c'è una maggiore separazione spaziale e temporale tra le fasi e i luoghi di ideazione, di produzione e di consumo dei prodotti. I rapporti di dominazione prendono la forma di «colonizzazione». La colonizzazione si subisce nella fase del consumo, ma il luogo dove furono prese le decisioni (e dove si poteva intervenire per contestarle) è molto piú a monte. Inoltre, tra la sede decisionale e la sede del consumo c'è di mezzo la tecnostruttura, come ci ha insegnato Galbraith. Chi ieri faceva le lotte operaie si trovava di fronte i datori di lavoro; chi oggi fa la lotta antinucleare si trova di fronte la polizia: eppure la scelta nucleare non è stata adottata da uno Stato di polizia.

Nella società industriale, classe operaia, movimento operaio e lotta operaia coincidevano. Nella società programmata, invece, per ricostruire la dicotomia sociale occorrerebbe che tutti i dominati, a prescindere dal tipo di dominio subito, si unissero, identificassero il momento creativo, scavalcassero la tecnostruttura e fossero capaci di dar vita a un'azione contestativa per intervenire appunto nella fase creativa e mutarla.

Qui nasce, appunto, il problema delle classi nella società postindustriale. Ogni sfera di ideazione, produzione e consumo comporta l'esistenza di qualcuno che idea, qualcuno che decide, qualcuno che produce e qualcuno che consuma. Ma, come si è detto, chi idea o chi decide in un settore può essere produttore o anche semplice consumatore in un altro settore: nella società programmata, infatti, ciascun soggetto cumula vari ruoli, alcuni dei quali sono piú dominanti e altri sono piú subalterni. Si può essere professori di fisica all'Università o direttori generali in azienda e, contemporaneamente, essere soggetti ai detentori del potere medico quando si è malati, o ai detentori del potere informativo quando si guarda la televisione. Nella complessa organizzazione della società programmata si può avere la capacità d'agire su alcune scelte che orientano la produzione, ma essere impotenti rispetto ad altre scelte, prese da altri.

Ogni sfera ha il medesimo procedimento (ideazione, decisione, produzione, consumo) e i medesimi dislivelli di potere; ma ogni sfera è separata dalle altre sicché siamo ormai assai lontani dalla situazione tipicamente industriale in cui una massa di uomini (lavoratori, proletariato) subiva contemporaneamente quasi tutte le forme di dipendenza, e un'élite (datori di lavoro, borghesia) godeva contemporaneamente di quasi tutte le forme di privilegio.

Inoltre, il sistema che ne risulta non è più circoscritto a una dimensione nazionale. Scrive in proposito la Hegedús: «È proprio al nuovo sistema di non essere americano, francese, inglese, tedesco o giapponese e neppure internazionale, ma d'integrare il piano di un nuovo sistema transnazionale [...] È però anche certo che i centri nervosi del sistema transnazionale, i centri di produzione, di comando e d'orientamento della rete che integra ormai il mondo si trovano nel mondo sviluppato». Un bel riscontro concreto di questa enunciazione teorica è fornito, ad esempio, dalle multinazionali dei prodotti agricoli che, sotto la crescente pressione dei governi nazionalisti, hanno ceduto il controllo delle risorse monopolizzando, invece, i brevetti delle sementi, i capitali, i mezzi di trasformazione, la tecnologia, le reti distributive e i sistemi informativi.

Queste aziende non guadagnano sull'oscillazione dei prezzi ma sullo scarto dei prezzi tra le varie parti del mondo, perciò hanno perfezionato la loro rete di informazioni fino a effettuare minuto per minuto l'analisi in tempo reale dei vari mercati agricoli. Quest'analisi viene effettuata attraverso i social media, i giornali, le reti di informatori dislocati nelle regioni, nei porti e nei ministeri, le informazioni meteorologiche e i satelliti che fotografano costantemente la situazione agricola in tutti i Paesi del mondo per valutare le zone deficitarie e quelle eccedentarie.

Le parti sociali in causa sono profondamente modificate rispetto ai due tradizionali antagonisti della vita industriale: i proprietari dei mezzi di produzione e i lavoratori. Praticamente, per la Hegedús, la società programmata è una società senza classi o, per meglio dire, è una società la cui struttura non consiste piú nelle classi. Tanto meno può esistere un conflitto di classe. Se in ciascun soggetto si cumulano simultaneamente ruoli diversi - alcuni egemoni e altri subalterni - non è possibile che egli si schieri una volta per tutte da una parte sola. Nella società industriale, secondo la Hegedús, il lavoratore non solo conviveva con il padrone nella medesima fabbrica, ma dietro alle macchine poteva individuare direttamente gli organizzatori del lavoro e della produzione, cioè la tecnostruttura. Ciò gli facilitava il compito di individuare direttamente l'avversario, la posta in gioco e la linea d'azione. Oggi, invece, i dominati non formano una massa omogenea e i dominanti non sono immediatamente individuabili. Ad esempio, non si sa chi sono gli azionisti e dove sono. Oggi né la borghesia né il proletariato sono gruppi omogenei.




I movimenti.


Il problema allora è questo: un soggetto che si trova a subire, in una determinata sfera, la condizione di consumatore ignaro e dipendente, ha la possibilità di riscattarsi da questa sua subalternità? e come?

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Pagina 683

In sintesi, questa disuguaglianza non è un risultato casuale ma effetto di precise decisioni tanto piú perverse quanto piú intenzionali; gran parte dei ricchi piazzati al vertice della piramide economica non lo sono per merito; la ricchezza accumulata dai ricchi non finisce per sgocciolare fino alla classe media, che declina in tutti i Paesi ricchi, e tantomeno ai poveri; la recente recessione ha giovato soprattutto ai ricchi, i quali hanno dimostrato di essere bravi solo nel distruggere posti di lavoro trasferendoli all'estero; la disuguaglianza economica, che non serve per far crescere l'economia, finisce per tradursi anche in disuguaglianza politica distorcendo la democrazia fino a farne un sistema in cui non vale più «una persona un voto» ma «un dollaro un voto»; se i poveri non possono permettersi di far studiare i figli, questi giovani non potranno laurearsi, guadagnare redditi più alti e contribuire maggiormente al gettito fiscale. Siccome la politica è riuscita a creare questo problema, solo la politica può tirarcene fuori salvando dalla povertà quanta piú gente possibile, rafforzando la classe media e tagliando i vantaggi eccessivi del vertice.




Vendetta e riscatto.


Ma come reagiscono quelli che stanno in cima alla piramide sociale di fronte alla situazione che essi stessi hanno creato? In un lontano articolo del 1999 scrivevo: «L'Ottocento e il Novecento sono stati segnati dalla guerra dei poveri contro i ricchi; il XXI secolo, molto probabilmente, sarà segnato dalla guerra dei ricchi contro i poveri. Una sorta di "sindrome di Johannesburg" si diffonde nel mondo: i ricchi hanno sempre piú paura dei poveri e si difendono da essi attaccandoli, riducendo gli aiuti umanitari, peggiorando la qualità dell'istruzione, ostacolando i flussi migratori».

Nel 2012 Luciano Gallino nel suo libro-intervista, non a caso intitolato La lotta di classe dopo la lotta di classe , ha ripreso e sviluppato il concetto, dimostrando con dovizia di dati che, tra la fine della Seconda guerra mondiale e la fine degli anni Settanta, in quelli che i francesi hanno chiamato «i gloriosi Trent'anni», decine di milioni di lavoratori vinsero in tutto il mondo le loro battaglie per gli aumenti salariali, la riduzione dell'orario di lavoro, il controllo sui processi produttivi, le ferie, il welfare. Ma negli anni Ottanta, con i governi conservatori di Reagan negli Stati Uniti e della Thatcher in Inghilterra, la classe dominante iniziò la rimonta per recuperare quel poco di soldi e di potere che aveva perso, e orchestrò questa vendetta contenendo i salari reali, imponendo condizioni di lavoro sempre piú rigide, decurtando il welfare e ampliando a dismisura l'esercito industriale di riserva dei disoccupati.

I magnati della classe dominante - cioè i proprietari dei mega-patrimoni, i top manager delle grandi società industriali e finanziarie, i vertici politici che Marx chiamava «comitati d'affari della borghesia» - non hanno avuto ritegno nelle loro esternazioni. Warren Buffett che, come abbiamo visto, ha dichiarato che la lotta di classe esiste, ed è quella che i ricchi stanno conducendo e vincendo contro i poveri, ha altrettanto temerariamente dichiarato: «Verso solo il 17,4% del mio imponibile; i miei dipendenti fino al 41%. I legislatori si sentono obbligati a salvaguardarci quasi fossimo gufi maculati».

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Pagina 700

Identikit della società postindustriale.


Abbiamo già alcune risposte a queste domande perché i tratti essenziali della società postindustriale si vanno ormai manifestando da piú di mezzo secolo. Chiudo perciò questo capitolo riassumendoli schematicamente. In questo paragrafo mi riferisco all'intero sistema sociale; il paragrafo successivo riguarderà il mercato e l'organizzazione del lavoro. In entrambi i casi ho qui ripreso, apportandovi modifiche e aggiunte, gli elenchi che avevo già formulato nel volume Il futuro del lavoro.


- I parametri di riferimento della società postindustriale sono costituiti dall'assenza di un modello complessivo di riferimento e dal rifiuto delle ideologie; dalle tecnologie digitali; dalla prevalenza del lavoro intellettuale, soprattutto di tipo creativo; da un'epistemologia della complessità e della discontinuità; dal soggettivismo; dalla dimensione transnazionale dei problemi e delle loro possibili soluzioni; dalla diffusione di nuovi valori; dalla cultura postmoderna.

- La produzione in grandi serie di beni materiali, che connotava la società industriale, ha ceduto la sua centralità alla produzione di beni immateriali (servizi, ricerca, informazioni, simboli, valori, estetica) che connotano la società postindustriale.

- Le risorse piú apprezzate consistono nella creatività, nella conoscenza, nella comunicazione, nei network, nell'energia, nella bellezza. La produzione di idee, i servizi alla salute, la formazione e il tempo libero costituiscono settori di primaria importanza.

- Gli attori centrali, che nella società industriale erano i maschi, gli imprenditori, gli operai, i sindacalisti, i militari, nella società postindustriale sono i finanzieri, i banchieri, gli scienziati, i tecnici, gli artisti, le donne, i gestori delle informazioni, gli intellettuali, gli operatori della salute e del tempo libero.

- Se la società industriale era organizzata all'insegna della separazione (quartieri industriali separati dai quartieri dormitorio e da quelli commerciali; lavoro separato dal tempo libero ecc.), la società postindustriale è organizzata all'insegna della connessione.

- Il pianeta tende a trasformarsi in un «villaggio globale» in cui i rapporti virtuali prevalgono su quelli fisici, la velocità prevale sulla lentezza e le distanze spazio-temporali tendono ad azzerarsi.

- La nuova società è articolata in subsistemi sempre piú numerosi e interdipendenti fra loro. In essa sono compresenti tre livelli: quello virtuale costituito dai mass media e dalle reti telematiche; quello tangibile, costituito dai soggetti e dagli oggetti fisici nonché dalle interazioni fisiche tra loro; quello finanziario, costituito dai flussi monetari sempre piú veloci, che eccitano e complicano la dinamica dell'economia.

- L'autonomia della sfera politica è sempre piú insidiata dalla sfera economica, dalla finanza e dai media.

- I luoghi preminenti sono non-luoghi: l'informatica distribuita, l' electronic cottage, il telelavoro, la fabbrica diffusa, i luoghi di transito, i media.

- Se nella società industriale «piccolo è bello»; nella società postindustriale sono belli sia il piccolo che il grande.

- Le sfide principali e le poste in gioco sono costituite dalla salute del pianeta; dalla salute e dalla longevità degli individui; dalla previsione e progettazione del futuro; dalla qualità della vita, del lavoro e del tempo libero; dalla riduzione del disorientamento e dello stress; dalla soddisfazione dei bisogni post-materialisti; dalla convivialità; dall'equa distribuzione della ricchezza, del lavoro, del potere, del sapere, delle opportunità, delle tutele; dall'elaborazione e adozione di modelli eccellenti di organizzazione sociale; dalla conciliazione della cultura e dell'economia globale con le culture e le economie locali.

- I fattori di coesione, sempre piú inefficaci, sono i network, la famiglia, lo scopo immediato, la mission condivisa, il movimento di contestazione cui si partecipa di volta in volta, le religioni, la sopravvivenza del pianeta.

- Il tempo libero prevale sempre piú sul tempo di lavoro; il problema della qualità della vita prevale sul problema del consumismo. Si avverte l'urgenza di riprogettare la famiglia, la scuola, lo spazio, il tempo, la vita in funzione di queste nuove priorità.

- I conflitti, che nella società industriale si traducevano in lotta di classe, guerre locali e guerre mondiali, nella società postindustriale si traducono in disaffezione, mobbing, movimenti sociali, lotte urbane, microconflittualità, guerriglia, terrorismo, guerre locali. Su tutti domina la paura di una guerra nucleare. La principale posta in gioco dei conflitti non è piú la ripartizione della ricchezza ma la progettazione di futuro: chi vince si accaparra il diritto di programmare l'avvenire proprio e degli altri.

- I movimenti senza leader e i nuovi soggetti senza ideologie rappresentano la trama e l'ordito della dinamica sociale.

- Mentre nella società industriale erano i poveri a muovere guerra contro i ricchi, oggi sono i ricchi a muovere guerra contro i poveri e la conducono riducendo il welfare e le altre forme di protezione sociale, allargando la forbice tra le retribuzioni dei vertici e quelle della base, dequalificando la formazione, abbandonando a se stesse le vittime del progresso e della concorrenza, colpevolizzandole come artefici delle proprie disgrazie.

- La mancanza di un confronto con modelli basati sulla solidarietà (come pretendeva di essere il socialismo reale) lascia senza concorrente proprio quel capitalismo economico che sulla concorrenza fonda il proprio sistema.

- Man mano che ci si allontana dalla caduta del muro di Berlino, appare sempre piú chiaro il divario tra i Paesi comunisti, che furono abbastanza capaci di distribuire la ricchezza ma incapaci di produrla, e i Paesi capitalisti, capaci di produrla ma sempre piú incapaci di distribuirla.

- L'importanza di una nazione è ormai legata alla sua capacità di ideare prodotti, processi, estetiche e mercati nuovi. Si va affermando una drastica gerarchia tra i Paesi e i gruppi egemoni, che monopolizzano le attività ideative scientifiche e artistiche; i Paesi emergenti, che svolgono attività prevalentemente produttive ed esecutive; i Paesi sottosviluppati, condannati al semplice consumo passivo di beni obsoleti, ottenuti in cambio di manodopera e materie prime sottocosto, subordinazione militare e gregarietà politica.

- Poiché il sistema si alimenta di creatività, intesa come sintesi di fantasia e concretezza, razionalità ed emotività, il razionalismo palesa i suoi limiti e la sfera emotiva risulta imprescindibile, insieme all'ibridazione di logiche diverse, al lavoro interdisciplinare, alla promozione di un contesto e di un clima creativogenici.

- L'analisi, l'azione e l'organizzazione del lavoro fanno crescente ricorso a metodi basati sulla modellistica, sulle ricerche previsionali, sulle simulazioni, sull'invenzione.

- Nel rapporto con il tempo, prevale l'orientamento verso il futuro, l'autogestione dei ritmi, la costruzione di scenari a medio-lungo termine, i feedback in tempo reale.

- Nel rapporto con lo spazio, il trasferimento di merci e persone è accelerato da mezzi di trasporto mai prima cosí veloci; il trasferimento di informazioni avviene in tempo reale; i processi di interazione culturale sono agevolati dai social network; la destrutturazione informatica consente una crescente integrazione tra i luoghi di lavoro e i luoghi di vita; diventano consuete le interazioni transnazionali, la visibilità reciproca anche a distanza, la sensazione di essere davvero in un pianeta dalle dimensioni e dalle risorse «finite».

- Rispetto alle società precedenti, i vantaggi offerti da quella postindustriale sono rappresentati dalla maggiore longevità e disponibilità di tempo libero, dall'istruzione di massa, dalla facile accessibilità alle informazioni, dalla possibilità di inventare nuovi materiali, nuovi oggetti, nuovi bisogni, nuovi piaceri, nuovi stili di vita.

- Gli svantaggi, invece, consistono nel maggior pericolo di manipolazione, eterodirezione, eterocontrollo, egoismo, rancore, astrazione eccessiva, violazione della privacy, emarginazione, disoccupazione, digital divide e stress.

- Tutto questo capita in un mondo ormai globalizzato dove poche multinazionali monopolizzano un immenso potere planetario; tutta l'umanità avverte simultaneamente le medesime paure e nutre le medesime speranze; l'economia prevale sulla politica, la finanza prevale sull'economia, l'omologazione prevale sull'identità, l'ibridazione prevale sulla separazione, la mercificazione si estende dai beni materiali ai beni immateriali, ai rapporti, alla cultura.


Tutte queste trasformazioni agiscono simultaneamente e sinergicamente sulla rappresentazione simbolica, sulla cultura, che un numero crescente di umani va facendosi del proprio mondo e del proprio destino. Esse rappresentano l'esito storico di un percorso millenario segnato dalla persistente volontà di liberare gli umani dalle ataviche schiavitti della fatica, dell'ignoranza e dell'indigenza. Cogliere queste grandi novità riesce tuttora difficile a quanti si ostinano a leggere la società postindustriale in chiave industriale e, interpretando il nuovo con categorie vecchie, finiscono per approdare a un pessimismo cosmico.

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Pagina 704

Identikit del lavoro postindustriale.


Dopo avere elencato sinteticamente le trasformazioni avvenute nella società, tento di fare altrettanto per quanto riguarda il lavoro e il suo mercato.


- Se nella società industriale si «faceva a macchina», nella società postindustriale «si fa fare alla macchina».

- Il robot, con i suoi arti, con i suoi occhi, sostituisce la forza muscolare, i lavori nocivi e noiosi. L'intelligenza artificiale consente alle macchine di apprendere per sostituire sempre piú lavoro umano di tipo intellettuale.

- Informatica e intelligenza artificiale sostituiscono il sistema nevralgico aziendale prima assicurato dalle comunicazioni scritte e orali, e sostituiscono una parte delle attività decisionali, fornendo le informazioni e molti criteri indispensabili per prendere decisioni.

- Man mano che le macchine elettromeccaniche e digitali assorbono il lavoro ripetitivo ed esecutivo (fisico o intellettuale che sia), ai lavoratori resta il monopolio del lavoro ideativo, che impegna il cervello piuttosto che i muscoli e che, per sua natura, è svolto sempre piú spesso dalle donne e si destruttura nel tempo e nello spazio. Inoltre, assorbe il cervello, tutto o in parte, durante tutte le ventiquattr'ore del giorno e della notte. Un pubblicitario, un giornalista, un imprenditore, uno stilista, un manager alle prese con la necessità di ideare qualcosa di nuovo, porta con sé, ventiquattr'ore su ventiquattro, il gioioso assillo della creazione e spesso finisce per trovare la soluzione giusta nel luogo e nel momento piú impensati.

- All'interno dell'azienda, le nuove strumentazioni tecnologiche, unite alle nuove forme organizzative, liberano un numero crescente di persone dal loro lavoro e, di conseguenza, dal loro salario. Purtroppo l'evoluzione sociale è assai piú lenta di quella scientifica e tecnologica per cui si stenta a mettere in atto i meccanismi di ridistribuzione dei compiti in modo che si possa lavorare tutti e meno: si possa, cioè, portare a compimento uno dei piú grandi sogni dell'umanità alla cui realizzazione mai l'umanità è stata così vicina come oggi. Il risultato piú temibile è che, almeno per alcuni decenni, la disoccupazione cresca, e con essa crescano la violenza e l'illegalità diffusa, che farebbero pensare alla decomposizione della vecchia società piú che alla nascita di una società nuova.

- Le tecnologie disponibili realizzano (già qui e ora) il sogno antico dell'ubiquità, e le informazioni, materia prima del lavoro intellettualizzato, sono suscettibili, per loro natura, del massimo decentramento in tempo reale. In altri termini, il luogo di lavoro non costituisce piú una variabile indipendente del teorema organizzativo, e l'orario rigidamente sincronizzato di più persone che collaborano a un processo produttivo non costituisce piú l'esigenza imprescindibile della produzione.

- Nella sfera del lavoro organizzato, le trasformazioni in atto determinano la rapida eliminazione della fatica fisica, la drastica riduzione dell'orario di lavoro, il massiccio spostamento dell'attenzione dal luogo e dal tempo della produzione materiale ai luoghi e ai tempi della riproduzione, dell'introspezione, della convivialità, del gioco, dell'amicizia, dell'amore: di quelli che Agnes Heller ha chiamato bisogni «radicali», contrapponendoli ai bisogni «alienati» del potere, del possesso e del denaro.

- Il lavoro, man mano che diventa flessibile e creativo, smette di essere antitetico al tempo libero e allo studio per diventare consustanziale a essi in quell'attività una e trina che piú avanti chiamerò «ozio creativo».

- L'emarginazione delle donne si rivela sempre piú come un inutile spreco di intelligenze oltre che un'inaccettabile ingiustizia sociale.

- All'interno dei luoghi di produzione, risultano profondamente trasformate - rispetto alla vecchia fabbrica tayloristica - la quantità e qualità della forza lavoro, la rete dei sistemi informativi, la struttura gerarchica, il rapporto tra azienda e società.

- Poiché la produttività del lavoro cresce rapidamente ma l'orario di lavoro resta fisso o decresce lentamente, si creano sacche patologiche di disoccupazione e situazioni paradossali per cui il padre sgobba otto o dieci ore al giorno mentre il figlio resta completamente disoccupato.

- La polverizzazione azionaria, la divisione internazionale del lavoro sempre piú spregiudicata, la crisi dell'ideologia solidarista, la diffusione del benessere nei Paesi industrializzati, l'omologazione culturale, la convivenza di piú ruoli nel medesimo soggetto, hanno ridotto la combattività dei lavoratori, creato apatia sindacale, insabbiato la lotta di classe sostituendola con forme corporative di conflittualità collettiva o con forme soggettive di microconflittualità.

- L'attenuarsi delle differenze culturali tra capi e dipendenti ha agevolato il passaggio degli assetti gerarchici e dei tipi di leadership da forme autoritarie a forme consultive e partecipative.

- Mentre il lavoro fisico e ripetitivo della catena di montaggio era sottoposto a controlli rigidi di quantità del rendimento, l'attività intellettuale e creativa prevalente nell'azienda postindustriale è incentivabile non con il controllo ma con la motivazione. L'organizzazione per obiettivi permette ai capi di controllare i risultati piuttosto che i processi, rispettando l'autonomia professionale dei lavoratori.

- Le aziende passano sempre piú da una filosofia «product oriented» a una filosofia «marketing oriented», sfruttando al massimo le scienze psicosociali per individuare tempestivamente i bisogni del mercato e sfruttando al massimo le opportunità tecnologiche per rendere flessibile la produzione fino a farla aderire perfettamente ai gusti soggettivi e alle domande segmentate dei singoli consumatori.

- Il caos urbano rende i cittadini sempre più insofferenti verso la vita metropolitana e verso gli spostamenti quotidiani che corrodono in misura ormai intollerabile il tempo libero, il risparmio, l'equilibrio psichico. Appare sempre piú chiara l'inutilità del lavoro svolto nell'unità di tempo e di luogo del grande ufficio centralizzato; si diffonde l'aspirazione verso una gestione autonoma, flessibile, soggettiva e decentrata del proprio lavoro; si prende coscienza delle opportunità sempre piú rivoluzionarie offerte dal progresso tecnologico, capace ormai di rendere ubique le informazioni e di annullare i vincoli spazio-temporali, consentendo forme molteplici di smart work e di telelavoro.

- Si diffonde sempre piú l'esigenza di un'organizzazione di tipo «olografico» in cui, cioè, regni la massima diffusione delle informazioni e l' overlapping tra le mansioni. La specializzazione è considerata valida solo nella misura in cui consente il lavoro interdisciplinare. Le metafore della catena di montaggio, della piramide e del cronometro cedono il passo ad altre metafore organizzative come la rete, la cellula, il cervello, l'alveare.


Tutte queste trasformazioni agiscono simultaneamente e sinergicamente sulla rappresentazione simbolica che un numero crescente di lavoratori va facendosi del proprio lavoro, della propria azienda, della cooperazione e del conflitto. Sulla carta esistono tutte le condizioni perché dalle aziende escano ogni sera prodotti perfetti e lavoratori felici, come sognava Simone Weil. Ma gli esseri umani sono in grado di stravolgere in danno anche le migliori invenzioni e condizioni. Cosí la riduzione di lavoro è tradotta in disoccupazione; il tempo libero è tradotto in consumismo, noia, scioperataggine, violenza; la longevità è tradotta nell'inerzia forzata del pensionamento. È possibile evitare queste degenerazioni? È possibile ricomporre il lavoro con lo studio e con il tempo libero? È possibile attuare le meravigliose potenzialità del sistema postindustriale? Il prossimo capitolo è dedicato ad abbozzare una risposta a questi interrogativi.

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Prospettive per i nostri figli.


Nel 1891 gli italiani erano 40 milioni e lavorarono 70 miliardi di ore; cento anni dopo, nel 1991, erano 57 milioni e lavorarono 60 miliardi di ore. Dunque, pur essendo molto piú numerosi, lavorarono dieci miliardi di ore in meno ma produssero tredici volte di piú. Venticinque anni dopo, nel 2016, erano 61 milioni, lavorarono 40 miliardi di ore e produssero ancora molto di piú. Esclusi i mini jobs, oggi in Germania l'orario medio annuo di lavoro è di 1371 ore mentre in Italia è di 1725 ore. Di conseguenza, l'occupazione in Germania è al 79% mentre in Italia è al 58%. È importante notare che, lavorando il 20% meno di un italiano, un tedesco produce il 20% in piú.

In pratica, la produzione postindustriale dipende sempre meno dalle ore lavorate e sempre piú dalla produttività, affidata prevalentemente alla direzione dell'impresa, alla sua dotazione tecnologica e alla motivazione dei lavoratori. Se l'introduzione di nuove macchine comporta, ad esempio, il risparmio del 10% di ore lavorate, posso licenziare il 10% dei dipendenti o posso ridurre del 10% l'orario di lavoro per tutti. Sto semplificando al massimo ma, in fin dei conti, sono questi i due approcci antitetici scelti da Germania e Italia, due Paesi confinanti, rispettivamente primo e secondo produttore industriale d'Europa. In Germania, dove i lavoratori partecipano alla direzione delle imprese, il sindacato IG Metail ha firmato (senza neppure un'ora di sciopero) un accordo pilota con le aziende metalmeccaniche, operativo dal 2019, per cui i lavoratori che hanno bisogno di maggiore tempo libero per accudire i figli o per risolvere altri problemi familiari possono adottare un orario settimanale di 28 ore. Il loro stipendio è stato aumentato del 4,2%.

John Maynard Keynes ha scritto che «i difetti piú evidenti della società economica nella quale viviamo sono l'incapacità di prevedere la piena occupazione e la distribuzione arbitraria e iniqua delle ricchezze e dei redditi». Il problema dell'occupazione e della disoccupazione è stato centrale nella produzione scientifica di questo grande economista in cui l'acume economico, la dimensione sociologica e lo stile letterario si fusero a livello altissimo. La Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta pubblicata nel 1936 resta pietra miliare nell'economia del lavoro ma, già sei anni prima, Keynes aveva elaborato un suo scenario profetico sulla necessità di compensare la disoccupazione tecnologica con la riduzione dell'orario e sul rapporto che si sarebbe venuto a creare tra lavoro e tempo libero. Economic Possibilities for our Grandchildren è il testo di una conferenza che egli tenne in Spagna, a Madrid, nel giugno del 1930, rintracciabile ora nel nono volume dei suoi Collected Writings intitolato Essays in Persuasion. Le idee portanti della conferenza dovevano maturare da tempo nella testa di Keynes e dovevano stargli particolarmente a cuore se, fin dal 1928, egli ne aveva fatto oggetto di numerosi discorsi tenuti qua e là, su invito di associazioni culturali come la Essay Society del Winchester College o il Political Economy Club di Cambridge.

Keynes è nato nel 1883 ed è morto nel 1946. La sua conferenza è intitolata Prospettive economiche per i nostri nipoti. I nipoti cui si riferisce il nostro illustre quarantasettenne nel 1930, corrispondono piú o meno ai giovani che entreranno nel mercato del lavoro cento anni dopo, nel 2030: cioè, i nostri figli. Per quanto lontano dai successivi sviluppi, già nel 1930 il progresso tecnologico doveva apparire a Keynes come un fenomeno portentoso, destinato a crescere con quel ritmo a valanga che oggi misuriamo secondo la legge di Moore. Quali saranno, dunque, le prospettive economiche dei giovani alla ricerca di un lavoro?

Provo a sintetizzare il ragionamento di Keynes. La sua conferenza attacca con riflessioni che potrebbero essere ripetute alla lettera anche oggi: siamo presi da un attacco di pessimismo cosmico perché il progresso tecnologico elimina piú manodopera di quanta riusciamo a riassorbirne, ma quelli di cui soffriamo non sono acciacchi della vecchiaia, ma disturbi di una crescita fatta di mutamenti troppo rapidi, e dolori di riassestamento da un periodo economico a un altro. Dal Duemila a.C. fino al XVIII secolo il livello di vita dell'uomo non ha subito grandi mutamenti ma dal XIX secolo in poi gli sviluppi scientifici e tecnologici sono stati incredibili: carbone, vapore, elettricità, petrolio, acciaio, gomma ecc. Ciò lascia supporre che, nel giro di pochissimi anni, tutte le operazioni dei settori agricolo, minerario, manifatturiero potrebbero essere compiute con un quarto di quella energia umana che eravamo abituati a impegnarvi (e noi oggi sappiamo per esperienza diretta che cosí è stato. Anzi, Ie previsioni di Keynes si sono rivelate inesatte per difetto).

Nel 1930, e purtroppo ancora oggi, qualsiasi economista liberista avrebbe sentenziato che i posti di lavoro assorbiti dalle macchine sarebbero stati ampiamente compensati dai posti di lavoro necessari per costruire quelle macchine e per soddisfare i nuovi bisogni indotti dai prodotti di quelle macchine. Keynes, invece, cerca di guardare oltre l'atroce anomalia della disoccupazione che impedisce di vedere le tendenze autentiche celate sotto il pelo dell'acqua.

Siamo colpiti da una nuova malattia di cui alcuni lettori possono non conoscere ancora il nome, ma di cui sentiranno molto parlare nei prossimi anni: vale a dire la disoccupazione tecnologica. Il che significa che la disoccupazione dovuta alla scoperta di strumenti economizzatori di manodopera procede con ritmo piú rapido di quello con cui riusciamo a trovare nuovi impieghi per la stessa manodopera. Ma questa è solo una fase di squilibrio transitoria. Visto in prospettiva, infatti, ciò significa che l'umanità sta procedendo alla soluzione del suo problema economico [...] Il problema economico può essere risolto, o per lo meno giungere in vista di soluzione, nel giro di un secolo. Ciò significa che il problema economico non è, se guardiamo al futuro, il problema permanente della razza umana [...] Sarà un bene? Se crediamo almeno un poco nei valori della vita, si apre per lo meno una possibilità che diventi un bene.

Le conseguenze prevedibili di questa rivoluzionaria novità sono paurose ed esaltanti al tempo stesso. Pericolose perché, per millenni, «la nostra evoluzione naturale, con tutti i nostri impulsi e i nostri istinti piú profondi, è avvenuta al fine di risolvere il problema economico. Ove questo fosse risolto, l'uomo rimarrebbe privo del suo scopo tradizionale» dovendo ridimensionare «abitudini e istinti concresciuti in lui per innumerevoli generazioni e che gli sarà chiesto di scartare nel giro di pochi decenni». Novità esaltanti perché, per la prima volta dalla sua creazione, l'uomo sarà riuscito a riconquistare l'Eden e, disabituato a goderne l'ozio creativo, dovrà inventarsi una vita nuova, «come impiegare la sua libertà dalle cure economiche piú pressanti, come impiegare il tempo libero che la scienza e l'interesse composto gli avranno guadagnato, per vivere bene, piacevolmente e con saggezza».




Perizia nella vita.


Per riconquistare l'Eden Keynes sostiene che occorre sostituire la perizia nel lavoro con la perizia nella vita. La trasformazione avverrà gradualmente. In una prima tappa, di natura organizzativa, durante la quale il lavoro diminuirà drasticamente senza ancora scomparire del tutto, occorrerà ridistribuirne il residuo in modo che ognuno possa essere occupato sia pure per un tempo minimo: «Turni di tre ore e settimana lavorativa di quindici ore possono tenere a bada il problema per un buon periodo di tempo. Tre ore di lavoro al giorno, infatti, sono piú che sufficienti per soddisfare il vecchio Adamo che è in ciascuno di noi».

Man mano che le ore dedicate al lavoro diminuiscono, l'uomo dovrà costruirsi un nuovo modello di vita e non serviranno piú gli indefessi, decisi creatori di ricchezza ma «solo coloro che sanno tenere viva, e portare a perfezione, l'arte stessa della vita, e che non si vendono in cambio dei mezzi di vita». Muterà il nostro codice morale e ci libereremo di tutti i «principi pseudomorali che ci hanno superstiziosamente angosciati per due secoli. Dovremo distinguere tra l'amore per il denaro come mezzo per godere i piaceri della vita e l'amore per il denaro come possesso, come passione morbosa, un po' ripugnante, «una di quelle propensioni a metà criminali e a metà patologiche che di solito si consegnano con un brivido allo specialista di malattie mentali».

Come Taylor seppe vivere in piena coerenza con la sua utopia (liberare l'uomo dal lavoro attraverso la tecnologia e lo scientific management), dedicandosi sempre meno alla professione di ingegnere e sempre piú al giardinaggio e alla vita di relazioni, cosí Keynes seppe anticipare la realizzazione della sua utopia (vivere esteticamente, in vintú e saggezza, liberati dall'assillo del lavoro e del guadagno) attraverso l'esperienza multidisciplinare e raffinatissima del circolo di Bloomsbury. Il suo sodalizio con Vanessa e Clive Bell, con Virginia Woolf, con Wittgenstein, con Bertrand Russell, con Strachey, con Forster, costituisce infatti la mirabile anticipazione di una possibile società postmoderna fondata sui bisogni radicali della cultura, dell'amicizia e della bellezza, contrapposta all'abbrutimento del lavoro e al perbenismo borghese: «Preferiremo il bene all'utile. Renderemo onore a chi saprà insegnarci a cogliere l'ora e il giorno con virtú, alla gente meravigliosa capace di trarre un piacere diretto dalle cose, i gigli del campo che non seminano e non filano».

Le dieci paginette della conferenza tenuta da Keynes nel 1930 sono state riscoperte solo recentemente in tutta la loro potenza profetica. In esse, per la prima volta nella storia dell'economia e della sociologia, il progresso è visto come un lungo itinerario dell'umanità verso l'intenzionale liberazione dalla fatica fisica prima e dalla fatica mentale poi. Dalle origini della nostra storia fino al Medioevo, l'uomo è riuscito a realizzare la propria liberazione dalla schiavitú; dal Medioevo ai giorni di Keynes ha realizzato la sua liberazione dalla fatica; da quei giorni a oggi, finalmente si è avvicinato alla liberazione dal lavoro tout court.

Nel 1930 non erano stati ancora inventati il computer, la fissione e il reattore nucleare, il transistor, le stazioni spaziali, il robot, internet, e l'intelligenza artificiale. Gran parte degli oggetti e delle funzioni che compongono il nostro attuale universo quotidiano - smartphone, app, Facebook, Skype, droni - esulavano dall'esperienza personale del raffinato economista di Bloomsbury. Eppure il suo acume, umanistico e sociologico prima ancora che economico, riuscí a guidarlo oltre i confini dell'economia, angusti allora come ancora oggi. Di giorno in giorno il fantasma della disoccupazione tecnologica diventa piú allarmante e la profezia di Keynes risulta piú sorprendente nel suo lucido realismo capace di svelarci dove va il lavoro e come trasformare in esito felice lo sgomento per la sua scomparsa.

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Undici tesi sul lavoro nel XXI secolo


In base ai ragionamenti svolti fin qui, possiamo avanzare le seguenti tesi per quanto riguarda il lavoro e il suo mercato nel XXI secolo.

1) Il progresso umano è null'altro che un lungo itinerario verso l'intenzionale liberazione dalla fatica fisica prima e dalla fatica intellettuale poi. Nel XX secolo si è realizzato pienamente ciò che Marx aveva previsto nei Grundrisse sostenendo che ogni innovazione tecnologica

[...] scompone progressivamente l'attività del lavoratore in una sequenza di operazioni elementari in modo che a un certo punto una macchina possa prenderne il posto. Cosí si può vedere direttamente come una specifica forma di lavoro si trasferisca dal lavoratore al capitale, che assume la forma di macchina e come, in conseguenza di questo processo, il valore del lavoro stesso venga ridotto. Ecco qui la lotta del lavoratore contro la macchina. Ciò che un tempo era dominio dell'attività del lavoratore, diviene quello della macchina.

Nel XXI secolo il progresso tecnologico, arricchito dall'intelligenza artificiale e dall'industria 4.0 mirerà alla liberazione dal lavoro tout court, per lasciare all'uomo le attività propriamente «umane» in cui studio, lavoro e tempo libero finiscono per coincidere.

2) A livello planetario il surplus crescente di manodopera rispetto alle esigenze reali della produzione è accentuato dalla crescita numerica della popolazione mondiale e dal recente accesso al mercato del lavoro centrale sia da parte delle donne, sia da parte dei lavoratori del Terzo Mondo. Ogni volta che una nuova tappa tecnologica consente di scaricare la fatica umana su macchine piú potenti, il fenomeno è vissuto come disoccupazione e come minaccia all'equilibrio sociale; ma in una fase successiva esso è apprezzato come affrancamento dalla schiavitù del lavoro.

3) In passato erano le aziende in crisi a ridurre il proprio personale; oggi licenziano anche le aziende di successo, perché possono permettersi macchine piú capaci di sostituire i lavoratori in carne e ossa. Il trend di lunga durata rivela alcune costanti: a volte la disoccupazione tende a dipendere da una domanda di lavoro e da un'organizzazione sociale incapaci di articolarsi nel modo piú adatto a valorizzare le risorse umane disponibili; altre volte si sottoutilizza la tecnologia e l'organizzazione pur di non creare disoccupazione; altre volte ancora si ritarda la liberazione dalla fatica o dal lavoro per incapacità di trarre dalla tecnologia e dalle scienze organizzative tutti i vantaggi che esse sono in grado di offrire; altre volte si è incapaci di riprogettare il sistema sociale, mettendolo in grado di valorizzare il tempo libero trasformato in ozio attivo, cioè nella facoltà tutta umana di introspezione, ideazione, produzione creativa, riproduzione vitale, gioco inventivo.

4) Il continuo aumento di disoccupati, da una parte induce gli economisti del lavoro a elevare progressivamente il limite di disoccupazione considerato fisiologico; dall'altra, induce i policy makers a escogitare trucchi statistici e occasioni pretestuose per mantenere una parte della popolazione attiva in condizione di apparente occupazione e di reale subordinazione. Allo stato attuale tutto lascia supporre che il coraggio di accettare e pianificare la liberazione dal lavoro si troverà soltanto dopo che la totale sconfitta di questi sforzi sarà diventata evidente per tutti e avrà costretto gli emarginati a reazioni violente.

5) A differenza della Grecia classica, che invece di puntare sul consumismo aveva imparato ad arricchire di significati gli scarsi oggetti a sua disposizione, la società industriale ha preferito ingolfarsi di un surplus di prodotti apprezzando la sovrapproduzione anche di oggetti inutili o rapidamente obsoleti e l'induzione di bisogni alienati per creare domanda fittizia di oggetti nuovi, a loro volta destinati a una rapida obsolescenza. Nel XXI secolo si tenderà ad arricchire di significato gli oggetti disponibili, a soddisfare gratuitamente i bisogni culturali di informazioni, musica, immagini ecc., a dare la precedenza ai bisogni che Agnes Heller classifica come qualitativi e radicali.

6) La liberazione dal lavoro, che caratterizzerà il XXI secolo, si profila con caratteristiche sue proprie. Delegato alle macchine quasi tutto il lavoro fisico e buona parte del lavoro intellettuale, l'essere umano conserverà il monopolio dell'attività creativa che, per sua natura, richiede meno occupati, meno divisione dei compiti, meno scissione fra tempo di lavoro e tempo libero, ammettendo forme di vita ben piú libere e felici: non solo una maggiore agiatezza diffusa, ma anche una maggiore autodeterminazione dei compiti, dei tempi e dei luoghi, un'attività intellettuale piú ricca di contenuti, maggiore importanza data all'estetica e alla qualità della vita, maggiore spazio per l'autorealizzazione soggettiva.

7) La possibilità di rifornire l'umanità dei beni e dei servizi che le sono necessari, impiegando una minima quantità di lavoro umano, comporta l'esigenza di progettare una ridistribuzione del lavoro, della ricchezza, del sapere e del potere. Poiché un numero crescente di persone fruirà di beni e servizi che non contribuisce direttamente a produrre, occorreranno forme nuove di welfare per soddisfare i bisogni di chi non lavora e forme nuove di gratificazione per soddisfare i bisogni di chi lavora.

8) Nel XXI secolo, piú di quanto avvenga già oggi, saremo capaci di produrre piú di quanto necessario a garantire il benessere di tutta l'umanità. Se ora tre miliardi e mezzo di persone muoiono di fame non è perché non sappiamo produrre il cibo necessario ma è perché non sappiamo distribuirlo. Nella società industriale la ricchezza è stata distribuita soprattutto in base alla quantità e alla qualità del lavoro svolto da ciascuno. Dopo di che, soddisfatti del parametro «lavoro», si è arrivati a dire: tu riceverai una retribuzione purché lavori, anche se questo tuo lavoro non produce nulla e non serve a nulla; persino se questo tuo lavoro è nocivo per te stesso e per la società. L'importante è che tu faccia qualcosa che le statistiche ufficiali possano classificare come «lavoro» e che l'economia corrente possa considerare degno di retribuzione. In base a queste convenzioni, se due donne badano ciascuna al proprio figlio, sono considerate casalinghe e non vengono pagate; se ciascuna di esse bada al figlio dell'altra, è considerata baby sitter e va retribuita. Un ventenne che lavora otto ore al giorno in banca percepisce lo stipendio; il suo coetaneo che studia otto ore al giorno nell'università non solo non percepisce nulla ma deve pagare le tasse di iscrizione. Nel XXI secolo, in cui la ricchezza crescente è sempre meno prodotta dall'uomo, sarà impossibile ridistribuirla solo in base al criterio del lavoro umano, come proponeva Smith nella Ricchezza delle nazioni. Occorrerà dunque mettere a punto criteri nuovi, capaci di coniugare i meriti con i bisogni.

9) All'interno delle organizzazioni, la scienza di pianificare e controllare le attività dei «dipendenti» deve rapidamente convertirsi nell'arte di motivare alla creatività e rimuovere le barriere con cui la burocrazia tende continuamente a ostacolarne le espressioni. All'interno della società, la preparazione professionale al lavoro creativo dev'essere integrata con la preparazione professionale all'ozio attivo, in vista di un sistema fatto prevalentemente di «nuovi disoccupati», cioè di liberati dalla schiavitú del lavoro di tipo industriale.

10) Nel XXI secolo sarà necessario rieducare milioni di cittadini del Primo Mondo, abituati a centrare tutta la propria vita sul lavoro, in modo che imparino a riprogettarla centrandola anche sul non-lavoro. Il problema della disoccupazione può essere vinto solo adottando tutte insieme le soluzioni disponibili: creando nuovi posti di lavoro solo se realmente utili, riducendo drasticamente l'orario di lavoro quando si tratta di mansioni esecutive e destrutturandolo in tutti i casi in cui la sua natura lo consente. Ma il problema della disoccupazione non dovrà mettere in secondo piano il problema del tempo libero dal lavoro che, nelle prospettive di un ventenne, già oggi rappresenta i sei settimi della vita che lo attende. Nella società preindustriale molto lavoro si mischiava con il tempo libero, e la socializzazione avveniva in casa, in piazza, nella bottega, nei campi, in parrocchia, nella bettola, a scuola. Pretendere oggi che il lavoro sia la fonte principale di socializzazione e di identità significa negare socializzazione e identità ai cinque sesti della popolazione mondiale: ai bambini, agli studenti, alle casalinghe, agli anziani, ai nomadi, ai disoccupati, a tutti coloro che, nel Terzo Mondo, non hanno alcuna dimestichezza con la categoria del lavoro così come viene inteso nel Primo Mondo. E significa fingere di non sapere che nel lavoro assai spesso non si trova identità e socializzazione ma abbrutimento, emarginazione, conflittualità, isolamento. Oggi la maggioranza dei lavoratori investe nella carriera tutte le proprie energie, trascorre in ufficio gran parte della giornata, perde il gusto della vita familiare e dello svago. Nel XXI secolo sarà necessario porre mano a una grande opera di educazione dei giovani e rieducazione degli adulti work-alcolizzati affinché apprendano come conferire senso e valore al tempo libero arricchendolo di introspezione, creatività e convivialità.

11) Nel XXI secolo sarà necessario rieducare miliardi di cittadini del Terzo Mondo, che non hanno mai lavorato e che si sono abituati a centrare tutta la propria vita sul non-lavoro, in modo che imparino a valorizzarla anche attraverso il lavoro. Queste popolazioni hanno il diritto di coltivare bisogni piú propriamente umani come la sicurezza, la longevità, la liberazione dal dolore fisico, il benessere. Una volta evocate le forze di questi nuovi bisogni, occorre soddisfarli creando ricchezza. Ciò comporta l'educazione al lavoro razionalmente e tecnologicamente potenziato, la produzione efficiente di beni utili e servizi moderni. E il tutto va realizzato duplicando nel Terzo Mondo i vantaggi dell'industrializzazione già sperimentata nei Paesi ricchi, senza però ripeterne gli errori. Va cioè realizzato, dovunque possibile, un salto diretto dallo Stato preindustriale a quello postindustriale, evitando il pedaggio dell'esperienza industriale. Quando, nel XXI secolo, sarà compiuta questa imponente rivoluzione culturale, quando anche nel Terzo Mondo i bisogni saranno evoluti e la popolazione avrà appreso l'arte di creare la ricchezza necessaria per soddisfarli, il problema oggi assillante nel Primo Mondo, di come ridistribuire il lavoro e il denaro, il sapere e il potere, si riproporrà su scala planetaria.

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