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| << | < | > | >> |IndicePrefazione di Giorgio Galli XII Avvertenza al lettore XV ______________________________________________________________________________ 1. Le difficoltà di lettura e di comprensione di Marx 1 1.1. Introduzione 1 1.2. I pesanti costi intellettuali della Guerra Fredda 2 1.3. Gli antecedenti secolari della Guerra Fredda e delle resistenze alla comprensione di Marx 7 1.4. Le ragioni di una rilettura di Marx 14 ______________________________________________________________________________ 2. Il metodo di Marx 19 2.1. La centralità dialettica della contraddizione 2.1.1. Tre tipi di contraddizioni 22 2.1.2. La "prigione" a-dialettica della ricerca di verità definitive sull'uomo 26 2.2. Fino a quando saranno valide le tesi de Il capitale? 30 2.2.1. L'inverso: l'"inveramento differito" e il sottointeso oracolare 35 2.3. L'illusorietà dei fatti e i limiti del senso comune e dell'empirismo ingenuo 37 2.4. Il nodo dell'astrazione 41 ______________________________________________________________________________ 3. La formazione del valore è il centro de Il capitale 45 3.1. Il centro de Il capitale 45 3.2. La duplice natura del valore 48 3.2.1. Valore d'uso 48 3.2.2. Valore di scambio e doppia contabilità 50 3.2.3. La spiegazione del valore di scambio attraverso il valore aggiunto 52 3.2.4. Tutta la ricchezza deriva dal lavoro 56 3.2.5. Anche le risorse "naturali" sono un deposito di lavoro trapassato 59 3.3. Il lavoro astratto è la misura del valore 60 3.3.1. Il lavoro astratto di Marx è oggi diventato concreto? 61 3.3.2. La distinzione centrale tra lavoro e forza lavoro 65 ______________________________________________________________________________ 4. Come funziona il capitalismo 77 4.1. Premessa al capitolo 77 4.2. Il primato assoluto della valorizzazione: dal "vendere per comprare" al "comprare per vendere" 78 4.3. Le false opinioni sulla fonte e sull'origine del profitto capitalistico 80 4.4. Le autentiche origini del plusvalore e del profitto 86 4.4.1. La forza lavoro si compra e si vende come tutte le merci, ma ha una peculiarità 86 4.4.2. Senza sovraprodotto non c'è capitalismo, ma il sovraprodotto c'è sempre stato nella storia umana 87 4.5. I "marcatori" del plusvalore e del profitto nel capitalismo 90 4.5.1. "Marcatore" a): il salariato deve vendere la sua forza lavoro 91 4.5.2. "Marcatore" b): i salariati sono in concorrenza tra loro e quasi stabilmente in sovrannumero 96 4.5.3. "Marcatori" c) e d): i salariati sono stabilmente sospinti verso il salario di "sopravvivenza" 103 4.5.3.1.Due tipi di imprese manifatturiere e lo sfruttamento ottocentesco occulto di oggi 105 4.5.3.2.L'antitesi dialettica degli elogi del capitalismo da parte di Marx 107 4.5.3.3.Marx relativista etico 113 4.5.4. "Marcatore" e): i salariati sono estromessi dalle decisioni sulla produzione 116 4.6. La dinamica del capitalismo 119 4.6.1. La concorrenza ostile tra i capitalisti 121 4.6.2. La ricerca dei super-profitti 125 4.6.3. Il capitalismo è forzato al progresso tecnologico e scientifico 129 ______________________________________________________________________________ 5. La controversia intorno alla scientificità della teoria del valore-lavoro 133 5.1. L'attacco di Böhm-Bawerk alla teoria del valore-lavoro 135 5.1.1. La doppia contabilità non ha ragione di esistere: esistono solo i prezzi 136 5.1.2. Se il valore non è trasformabile in prezzi, la teoria del valore-lavoro non è scientifica 137 5.1.3. Le prime reazioni di sconcerto e di rifiuto 141 5.2. La ripresa della teoria del valore-lavoro dopo la sua traduzione in linguaggio matematico 143 5.2.1. Sraffa 144 5.2.2. Due modi di intendere il salario: prezzo della forza lavoro di pura sussistenza o comprendente parte del surplus 146 5.2.3. I prezzi sono denominati con una valuta e sono il risultato di un confronto con una merce-numerano 148 5.2.4. Le difficoltà, insuperabili prima di Sraffa, del pensiero classico sulla relazione tra prezzi, salario e profitto 150 5.2.5. La soluzione di Sraffa nella merce tipo 154 5.3. Il rilancio scientifico di Marx da parte di Morishima 156 5.3.1. La traduzione matematica della teoria del valore-lavoro 157 5.3.2. L'operazione di Morishima pone fine all'"astrattezza" di Marx 167 5.3.3. Il superamento dialettico della "contraddizione" di Marx 167 5.3.4. La dimostrazione di un legame debole tra prezzi e valori 169 5.3.5. Il conflitto tra il I e il III libro può essere fecondo in una visione moderna del metodo scientifico 170 5.3.6. Gli "incidenti" logici del pensiero ortodosso, affrontabili con la teoria del valore-lavoro 174 5.4. Morishima scopre un sottile ponte tra l'economia matematica della teoria del valore-lavoro e la teoria della soggettività di Marx 178 5.5. Considerazioni conclusive 182 ______________________________________________________________________________ 6. Rendita, Stato, proprietà e patrimoni 185 6.1. Le forme della rendita 185 6.2. Il ruolo dello stato nella divisione del plusvalore sotto forma di rendita 191 6.3. Il conflitto tra rendita/proprietà "assoluta" e impresa concorrenziale 197 6.4. La concentrazione della ricchezza e la disuguaglianza 201 ______________________________________________________________________________ 7. Crisi e destini del capitalismo 207 7.1. L'enigma della moneta 207 7.2. Le crisi cicliche del capitalismo 215 7.3. Le crisi nell'interpretazione di Marx 216 7.3.1. "Anarchia produttiva", sproporzione e sovrapproduzione 217 7.3.2. La funzione "salvifica" delle crisi 219 7.3.3. La causa delle crisi è sempre la povertà 220 7.3.4. Il volano della crisi è il credito 223 7.4. La caduta tendenziale del saggio di profitto (CTSP) 231 7.4.1. Le Cause antagonistiche frenano la CTSP 234 7.4.2. La difficile interpretazione della CTSP 237 7.4.3. Le conseguenze a lungo termine della CTSP e delle crisi e del conflitto espansione/conservazione del capitale 240 7.5. Il crollo del capitalismo 243 7.6. La crescita e le illusioni dell'individualismo di massa 250 ______________________________________________________________________________ 8. Puntualizzazioni sulla dialettica e considerazioni finali 257 |
| << | < | > | >> |Pagina 11.1. Introduzione Questo libro non è un testo accademico. Una delle ragioni che mi hanno indotto alla sua redazione e ne giustificano la forma editoriale è la verifica, in vari anni di insegnamento (e non solo), del miserevole livello di conoscenza dell'opera fondamentale di Karl Marx. Questo personaggio centrale della cultura e del pensiero politico-sociale è per lo più ignoto. Il problema, però, è che oggi l'opera di Marx e, in particolare, Il capitale e i testi più strettamente collegati sono il più potente strumento a disposizione per portare chiarezza nella condizione umana della società borghese. Una condizione, non solo economico-sociale, che appare sempre più sconcertante e inafferrabile e nella quale vari dei più diffusi strumenti conoscitivi ci portano solo a perderci e a riperderci, come in un labirinto, per usare un'espressione di Marx. Una cosa ancora. C'è la presunzione abbastanza diffusa (anche in persone di alto livello intellettuale) di padroneggiare il marxismo, almeno nelle linee generali, mentre, in realtà, così non è. Una causa primaria di ciò (ma certo non l'unica) è che la lettura di Marx, per la maggioranza dei suoi misurati lettori, è circoscritta a poche opere. Tra queste, in genere, non c'è Il capitale, che, con le altre opere collegate e preparatorie, centrali della maturità, cioè Per la critica dell'economia politica, Grundrisse e Storia delle teorie economiche, è tra le più ignorate. Non c'è dubbio che un motivo sta nella loro mole: nelle edizioni da me considerate, Il capitale e le altre tre opere ammontano a più di 5300 pagine di aspra lettura, che, in gran parte, sono arrivate a noi in forma di manoscritti, non ancora ritenuti dall'autore pronti per la pubblicazione e, per questo, spesso ermetici. Esiste dunque un "analfabetismo" diffuso che è rafforzato da una "tacita" complicità delle stesse singole ignoranze, che si giustificano e perciò si puntellano vicendevolmente, per non approfondire e dover così aprire questa partita onerosa. Tuttavia, non si può parlare solo di ignoranza. Sul pensiero di Marx circolano false credenze, pregiudizi, stereotipi che sono tanto comuni e diffusi quanto gravemente deformanti. Ne è derivata, come appena detto, una specie di complicità nell'ignoranza, per cui, quanto più si ripetono i luoghi comuni più triti, tanto meno si è in grado di criticare le credenze più diffuse, come preludio a un riesame e, magari, a una lettura approfondita di questo pensatore. Se si vuole superare questo stato di cose - e io credo che, a questo punto della storia della nostra società, ciò sia proprio indispensabile allora bisogna accettare di riconoscere un deficit di conoscenza che eviti conclusioni troppo semplici e affrettate. Non è, però, possibile introdurre il pensiero di Marx e, in qualche modo, facilitare il superamentò dei limiti, di cui si è detto, senza capire le cause più recondite e interne dell'ignoranza deformante del suo pensiero, che il lettore vedrà essere multiformi. Il primo passo è dunque ricostruire storicamente, ma in breve, ciò che allontana dalla comprensione di questo pensiero. Trattare delle resistenze a capire i testi marxisti significa comprendere le cause molteplici di avversione ad essi nella nostra cultura. Queste sono di tre tipi: motivi storico-politici, difficoltà di varia natura del testo di Marx e, infine, ragioni collegate all'oggetto stesso dell'analisi: la società capitalista. Il breve studio di questi fattori frenanti negativi aiuterà molto il lettore nella comprensione. | << | < | > | >> |Pagina 202.1. La centralità dialettica della contraddizioneAlla base dei principi metodologici de Il capitale c'è la centralità della contraddizione e del negativo come costituenti basilari di ogni cambiamento. Il lettore cominci ad annotare cambiamento come una parola chiave per capire Marx. Questo anzitutto nel senso che le cose umane del mondo, anche quando appaiano illusoriamente fisse e perenni, sono viste da Marx in costante mutamento perché esse hanno sempre in sé i germi della loro trasformazione, appunto, in collisione/contraddizione con lo stato precedente. In particolare, il capitalismo non va visto come una realtà statica né, tantomeno, immutabile, simile al meccanismo di un orologio, che replica il proprio inalterabile movimento col moto regolato delle sue parti coerenti e ben progettate, bensì come un modo di produzione sfuggente a ogni facile descrizione. Il capitalismo, per Marx, prima o poi, contraddice ogni suo irrigidimento in un'immagine statica e, nel continuo mutamento, autoproduce ostacoli e antagonismi, ma, al contempo e senza sosta, infrange i suoi orizzonti appena posti. La primaria contraddizione sta, certo, nella creazione capitalistica di una classe che porta interessi antagonistici: la classe dei salariati. Il modo di produzione capitalistico crea, però, anche reiterati urti entro la stessa classe dei capitalisti in concorrenza tra loro. Questa ininterrotta auto-generazione di parti di sé contrastanti e oppositive - noi diremmo le sue negazioni - è la sua fonte di instancabile rinnovamento, rigenerazione e rinascita, ma poi anche di fatale autodistruzione. Si può dire che il capitalismo, per Marx, non possa letteralmente esistere senza avversare mortalmente se stesso, cioè senza opporre di continuo a se stesso quello che abbiamo definito il suo negativo. Il che, al contempo, lo rende più forte, proprio perché è il capitalismo stesso a togliere di mezzo le sue realizzazioni deboli, trapassate e superate, ma pure lo condanna, perché l'incessante produzione di negativo finisce per diventare incontrollabile e lo sospinge verso l'auto-annientamento. Non solo Marx, ma anche altre figure storiche di economisti non-marxisti, come Schumpeter (α 1883 - ω 1950), hanno colto sia la nascita del capitalismo dallo sfaldamento del precedente modo di produzione sia questo aspetto di autodistruzione creativa, ma è solo del marxismo attribuire al capitalismo un destino storico (qui è la differenza) di completa autodistruzione finale per affastellamento caotico di contraddizioni. Vedendo le cose più dappresso, ne risulta che il capitalismo va ritenuto, secondo la dialettica di Marx, come una formazione storica più simile a un processo che a un meccanismo risolto e compiuto come l'orologio, che necessita, al più, di qualche regolazione. Il capitalismo, in quanto processo storico, è, per Marx, una formazione confinata in un arco temporale finito, seppur secolare, la cui vera natura è la collisione di opposti: la presenza simultanea di positivo e negativo, dell'essere qualcosa e, poco dopo, del suo non esserlo già più. Il capitalismo è una tale miscela di opposti che, nel suo continuo movimento, le "ordinarie" forme del pensiero faticano a fissarlo: quando pare di averlo capito e serrato in una descrizione esauriente, ecco che, a un esame più attento, mostra di non essere più del tutto ciò che prima risultava. Sicché, si potrebbe concludere che il capitalismo, nelle sue normali manifestazioni, è e non è al tempo stesso. Il lettore, già da queste semplici proposizioni, comprende come il ragionamento dialettico appaia paradossale: come si può essere una cosa e non esserlo assieme?! Siamo temerariamente prossimi al controsenso e al ragionamento incoerente. Il buon senso comune si ribella! La contraddizione è, infatti, prima di tutto e per tutti, il plateale segno di un ragionare erroneo e di cattiva qualità. Il buon senso comune respinge l'idea della fecondità della contraddizione e questo anche perché, come vedremo meglio, in generale concepisce la realtà come finita, fissa e statica. | << | < | > | >> |Pagina 34Marx parla del comunismo come di un «movimento reale» di fuoriuscita dal capitalismo, a indicare le vaste forze articolate, delle quali il marxismo stesso è solo una parte. Poiché Marx è convinto che la conoscenza dell'umano sia strettamente relativa all'epoca in cui la ricerca ha luogo (e, naturalmente, al passato), non tratta, se non per sommi capi, del socialismo e del comunismo, che sono di là da venire. Certo, della società futura se ne può e deve parlare; di sicuro si possono esprimere giudizi, auspici, timori, ma tutto questo riguarda un mondo che ancora non c'è, dunque non se ne può teorizzare, almeno con i mezzi di indagine appropriati per una realtà attuale e presente. Si capisce allora come Marx, pur essendo fino agli ultimi suoi giorni e su basi razionali (e non meramente sentimentali) un fervente comunista, non abbia mai parlato in profondità di comunismo. Marx dunque è un teorico del capitalismo, mentre non è affatto un teorico del socialismo o del comunismo. Per essere ancora più precisi, secondo Marx, nell'attualità ci sono vari segni anticipatori del socialismo e alcune sue manifestazioni precoci, ma sono poca cosa. Mentre sono presenti tutte le contraddizioni e tutti i limiti del capitalismo che porteranno al socialismo, questi sì conoscibili perché attuali.| << | < | > | >> |Pagina 453.1. Il centro de Il capitale Come forse è noto, Il capitale (libro primo), inizia con un capitolo sulla merce. Già la prima frase è di straordinaria importanza per una lettura moderna dell'opera: La ricchezza delle società nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico si presenta come una "immane raccolta di merci" e la merce singola si presenta come sua forma elementare. Perciò la nostra indagine comincia con l'analisi della merce (C I, p. 67) Marx non inizia la sua opera principale con una frase come "La ricchezza delle società ... è una 'immane raccolta di merci' ..."; egli, pur volendo proprio dire è, usa, invece, il termine «si presenta», da subito, rimarcando che la società capitalistica, come tutte le altre nella storia, ha un suo presentarsi, un apparire, distinto dalla sostanza, una sua evidenza chiara a tutti, ma che nel capitalismo, a differenza degli altri modelli di società, più di frequente può essere lontana dalla realtà. Dunque, Marx, da subito sente la necessità, anche se in questo punto dell'opera non ce ne sarebbe veramente bisogno, di avvertire il lettore che la comprensione della società in cui vive non è immediata, ma si ottiene tenendo sempre conto di due livelli di analisi: l' apparenza e la sostanza. La prima frase de Il capitale è un vero e proprio programma metodologico: non c'è un'autentica scienza sociale ed economica senza la sana cautela di fare sistematicamente attenzione all'illusorietà del nostro modo immediato di percepire i fenomeni umani, economici e sociali. L'"immane raccolta di merci" nei nostri anni 2000 certo non è illusoria, bensì un dato di fatto che nessuno può discutere e, purtuttavia, la questione è molto aggrovigliata, per cui questo richiamo contro l'ingenuità delle prime apparenze anche qui ha un senso. Il capitale fu pubblicato per la prima volta nel 1867; ci chiediamo: ma era proprio vero che 150 anni fa nei Paesi a predominio capitalistico la ricchezza si presentasse come una "immane" raccolta di merci? Forse sì - dipende dai punti di vista; ma più probabilmente no. | << | < | > | >> |Pagina 133LA CONTROVERSIA INTORNO ALLA SCIENTIFICITÀ Intorno alla teoria del valore-lavoro di Marx si è sviluppato un dibattito che, a questo punto, possiamo definire già secolare, con una traiettoria che riflette abbastanza strettamente tutti i conflitti sociali e politici del periodo e, naturalmente, della Guerra Fredda. Per sommi capi, si può dire che, fino alla Rivoluzione di Ottobre del 1917, questa teoria, pur negli aspri scontri sociali e ideologici, è stata trattata in modo passabilmente obiettivo, serio e con qualche esempio di straordinarie onestà e imparzialità. Dopo il 1917, la fondazione dell'URSS e la sua stabile "realizzazione" come socialismo in un solo Paese, la teoria di Marx è stata sbalzata al centro del conflitto politico-militare tra Stati e sistemi sociali. Silenzio, grossolanità, superficialità da una parte e, dall'altra parte, cristallizzazione celebrativa e congelamento acritico hanno degradato brutalmente la qualità del dibattito. Fanno eccezione, in questo secondo periodo, pochissime personalità che hanno mantenuto un'onorabilità e una integrità intellettuali, ma si tratta di rari casi. L'analisi dettagliata di questo dibattito richiede specifiche conoscenze tecniche e trascende, di molto, lo scopo di questo testo. D'altra parte, ci è assolutamente vietato ignorare questo tema per un solido motivo: da decenni si è pietrificata la convinzione che il pensiero di Marx sia, sul piano scientifico, superato o del tutto errato. Da ciò, una drastica limitazione dell'approccio alla sua lettura, anche da parte di molti seguaci. Oggi diversi marxisti professi, se si può usare questa espressione, e altri simpatizzanti di vario grado evidenziano sì l'acume delle profezie (spesso ci si esprime proprio così...), ma raccomandano una lettura de Il capitale soprattutto sociologica, etica e, talora, ma oggigiorno meno, politica. Si può ben dire: esattamente l'opposto dell'intento e del programma scientifico di Marx. Ripetiamolo, Marx pose sempre in primo piano etica e politica, a partire dal suo agire pratico, tuttavia il centro vero della sua attività intellettuale matura fu la comprensione scientifica del capitalismo. Ci chiediamo: perché tanta insistenza di Marx sulla scientificità? Perché tanta ostinazione su un tema per natura scivoloso? Non bastava elaborare un buon programma politico e un buon piano per la società futura? Sono state date risposte di ogni tipo. Talvolta semplicemente è stata attribuita a Marx una simpatia e una propensione illuminista per la scienza. Oppure, si è detto che il socialismo/comunismo sia da ritenere una "necessità" storica, cioè un esito, o un destino obbligati che devono essere visti e accettati come tali, proprio in quanto verità scientifica. Questa visione, che vedremo meglio nel 7° capitolo, ha prevalso specie nei momenti più neri del movimento socialista/comunista, quando cioè le sconfitte dovevano avere una giustificazione e un senso, almeno in una prospettiva futura. Non penso che queste spiegazioni siano corrette. Marx era piuttosto convinto che la storia non la costruiscano i sapienti, cioè i filosofi o gli scienziati sociali, secondo un piano che nasca dalla loro mente, ma sia piuttosto il risultato di spinte e controspinte di movimenti collettivi, ossia della composizione di forze di una scala assolutamente superiore. Ma questi smisurati movimenti non sono arbitrari o caotici, bensì rispondono a logiche, o, per meglio dire, a "meccaniche" collettive e di sistema, che, come abbiamo ostinatamente ripetuto, non sono di lettura immediata e danno, appunto, una prima impressione di disordine, se non di follia. Per Marx si tratta allora di decifrare - con rigore scientifico: non c'è altra via o surrogato - secondo quale regola si svolga il moto economico-sociale delle forze coinvolte. Il fine è pratico (in questo senso va interpretato il monito di Marx ai filosofi di cambiare il mando): l'azione di trasformazione è destinata, infatti, a sicuro fallimento se non tiene conto della composizione delle forze sociali e dei tempi relativi del loro dispiegarsi. Dal che, la previsione pessimistica di Marx sui destini della Comune di Parigi, pur avendone lodato, con trasporto, gli intenti e molte innovazioni del suo programma; allo stesso modo, va interpretata la cautela, venata di profondo pessimismo, sulle possibilità di edificare il socialismo nella Russia zarista. Proprio in questo primato dell'analisi scientifica, penso stia l'attualità piena de Il capitale e il suo potenziale futuro, solo ben inteso che si accetti di occuparsene, mettendo tra parentesi le soffocanti incrostazioni decennali dei pregiudizi, dei giudizi sbrigativi e dell'onnipresente ignoranza. Sto sfogliando un manuale di economia politica di un corso di laurea di economia del mio Ateneo. Non c'è nessun accenno, di nessun tipo a Marx, che non viene mai nominato. Non credo di dovermi dilungare sulla, diciamo così, estrosità di omettere qualsiasi cenno al pensatore economico che ha così influenzato la storia recente e rimane, almeno ufficialmente, il riferimento teorico della seconda (e prossima prima) potenza economica mondiale. Le cause di questo rifiuto fobico le abbiamo già viste, rimangono i temi di carattere metodologico e scientifico, che adesso affronteremo. | << | < | > | >> |Pagina 2016.4. La concentrazione della ricchezza e la disuguaglianzaSiamo partiti dal problema dei destini e della spartizione del plusvalore e, in dettaglio, dalla sua appropriazione nella forma della rendita, attraverso l'esercizio del potere sociale, politico e istituzionale delle classi borghesi (e nobiliari) privilegiate sul resto della borghesia e sui lavoratori. Il tema della rendita - abbiamo detto - è centrale ne Il capitale, da vari punti di vista. Ora, e anche in preparazione al prossimo 7° capitolo, consideriamo la sua rilevanza per il problema dinamico della concentrazione della ricchezza e della disuguaglianza. Su questi temi, dopo la crisi del 2007-2008, è sorto un grande ed articolato dibattito, con al centro la tesi - ormai assai diffusa - per cui la ricchezza si è concentrata, le disuguaglianze sono cresciute e stanno ulteriormente crescendo. Non è, dunque, un caso che Stiglitz, nel saggio con coerenza intitolato Il prezzo della disuguaglianza (Einaudi, Torino 2013), imputi alla disuguaglianza un freno alla crescita. A sostegno di questa tesi, si veda in lingua italiana l'agile, recente e documentato piccolo volume di M. Franzini e M. Pianta, Disuguaglianze. Quante sono e come combatterle (Laterza, Roma-Bari 2016). Alcuni dati, riportati da Franzini e Pianta (pp. 69-72) e dal già citato Piketty (p. 556) mostrano come in due secoli (1810-2010) la concentrazione della ricchezza abbia avuto un decorso "ciclico". Un trend secolare dal 1810 fino al 1910 circa, in cui la ricchezza in Occidente (sia pure con varie modalità) si è sempre più concentrata nelle mani del 10% della popolazione (e, in particolare, dell'l%). Dal 1910 al 1950 c'è stato un movimento opposto, cui è seguita una stabilizzazione, mentre dal 1970 la concentrazione ha ripreso a crescere. Ci sono anche periodizzazioni diverse (si veda il rapporto della Fondazione Hume, Disuguaglianza economica in Italia e nel mondo, Dossier 1/2015, release 3.0, p. 6): ciò dipende da come viene definita la disuguaglianza, da quale base di misurazione si adotta (misura su scala internazionale, nazionale) e da altre questioni statistiche, come, per esempio, se la disuguaglianza è misurata sulla base del patrimonio o del reddito. Pare esistere, tuttavia, una certa concordanza sulla costante crescita del fenomeno lungo tutto l'Ottocento. Marx conobbe dunque un'era di crescita uniforme della disuguaglianza. Piketty offre diverse misure del fenomeno, una di queste consiste nell'andamento in Francia della percentuale di coloro che hanno ricevuto, dal tardo Settecento ai nostri giorni, un'eredità pari a quanto mediamente guadagna, in un'intera vita, chi appartiene alla metà meno abbiente di tutti i lavoratori (p. 651). Il trend di questa popolazione, erede di un patrimonio significativo, è variato da un 10% scarso nel 1790 a poco più del 2% nel periodo 1900-1920, per poi risalire a circa il 13% nel 2010. Piketty osserva che «[...] siamo passati da una società con un piccolo numero di grossi rentiers [si riferisce agli inizi del Novecento] a una società con un numero molto più elevato di rentiers meno danarosi: una società di piccoli rentiers, per così dire» (p. 650). Lo studioso usa il termine rendita, redditiere (rentier) - indicando sia la rendita di cui parla in prevalenza Marx sia tutti i redditi da capitale (con la sola esclusione dei profitti derivati dall'esercizio dell'impresa), inclusi anche da Marx, ma parzialmente. È importante osservare come Piketty attribuisca alla rendita - intesa in modo generico, forse come guadagni dai patrimoni - un vissuto psicologico sempre più negativo nella storia. Franzini e Pianta sulla stessa lunghezza d'onda - attribuiscono la crescita delle diseguaglianze a quello che è definito un capitalismo oligarchico: Il modo in cui tale ricchezza viene ottenuta è sempre meno il risultato di processi competitivi, innovazioni [...], successi sul mercato. Ha sempre più a che vedere con rendite monopolistiche, protezioni dalla concorrenza, bolle immobiliari e finanziarie. I "super ricchi" hanno sempre più le caratteristiche di oligarchi, la cui ricchezza proviene dal potere e dal privilegio - protezioni politiche, posizioni monopolistiche, acquisizioni di imprese pubbliche privatizzate - piuttosto che dal successo economico. (p. 8) Anche G. Galli e M. Caligiuri (Come si comanda il mondo. Teorie, volti, intrecci, Rubbettino, Soveria Mannelli 2017) partono dallo stesso assunto, ma, in più, colgono nell'attualità un aspetto della riflessione di Marx sull'intreccio tra rendita (nella sua concezione estesa) e potere sulla politica che, nell'Ottocento, si poteva solo intuire e solo su scala nazionale. La tesi di Galli e Caligiuri è che nel mondo il potere economico si sia concentrato nelle mani di una super classe, ristretta, che domina la politica (per la precisione, gli studiosi usano il concetto/termine di «neutralizzazione» della politica). Galli e Caligiuri aggiungono un altro importante concetto che richiama la concezione dei limiti della razionalità proposto da Marx. Gli studiosi, infatti, ritengono che la prima apparenza del potere economico/politico sia fallace: i comuni cittadini vedono nei politici chi esercita realmente il potere, perché questa è la prima erronea evidenza dei fatti, oppure, in alternativa, ritengono il potere qualcosa di impersonale, sfuggente, indefinibile. In realtà, Galli e Caligiuri nella loro ricerca mostrano come questa superclass sia facilmente identificabile. Il termine superclass è stato coniato da D. Rothkopf (Superclass, Mondadori, Milano 2008), che così scrive: [...] in un mondo in cui il potere è notevolmente concentrato, esiste una comunità composta da alcune migliaia di persone che in un certo senso è padrona del destino del pianeta (p. 410). Non molto diversamente dalla situazione in Francia descritta da Marx, quando sosteneva: «Sotto Luigi Filippo non era la borghesia francese che regnava, ma una frazione di essa». Com'è forse noto, Il capitale termina col capitolo, appena iniziato, sulle classi sociali; probabilmente, se Marx fosse vissuto più a lungo, gli stretti rapporti tra Stato, economia, globalizzazione e rendita, intravisti nelle opere degli anni Cinquanta, avrebbero avuto uno spazio e una rilevanza ben maggiori. Il controllo/potere sull'economia e sulla politica non significa certamente, però, che il sistema si muova come un preciso orologio, governato da esperti "orologiai". Le cose vanno diversamente. Come si vedrà nel prossimo capitolo sulla crisi economica, che mostrerà tutta l'anarchia di un sistema che soffre, per Marx, di contraddizioni interne troppo gravi per essere davvero governate. Di recente, anche sulle disuguaglianze, intese genericamente come gap tra la parte più ricca della popolazione e quella più povera, ci sono state sia una grande copertura nei mass-media (con un notevole sensazionalismo) sia una singolare convergenza delle opinioni e delle rappresentazioni dei cittadini (specie dei paesi più avanzati) e dei report di centri studi come Pew Research Center, Oxfam, ecc. Inoltre, si è pure avuta una notevole sterzata nell'orientamento dei grandi organismi internazionali di governo e di difesa del capitalismo: OCSE, FMI, World Economic Forum, ecc., che hanno rimarcato i pericoli collegati alla concentrazione del potere economico e alla marginalizzazione del lavoro. Non desta dunque sorpresa che ancora Mario Draghi abbia più volte sollecitato decisi incrementi salariali per aumentare i consumi e per uscire dalla crisi: «i salari sono ben al di sotto delle medie storiche», «bisogna aumentarli», «ancora non ci siamo» (fonte: «La Repubblica», giovedì 21 settembre, p. 32 e sabato 25 novembre 2017, p. 43). Draghi ha anche implicitamente e sommessamente sollecitato i sindacati a sostenere battaglie salariali e quindi non solo a difendere l'occupazione, per lo più precaria, al prezzo, appunto, di salari da fame. Altri banchieri centrali - Ignazio Visco (Banca d'Italia) e Jens Weidmann (Presidente della Bundesbank tedesca) anche in anni precedenti, avevano sollecitato ì sindacati, più o meno, nella stessa direzione. Questa singolare concordanza di rappresentazioni sociali diffuse e di suggerimenti e analisi tecniche anche di organismi per tradizione non votati all'egalitarismo è certamente indicativa, anche se, indubbiamente, è necessaria una grande prudenza sulle evidenze statistiche e sulla loro chiamata a sostegno delle tesi de Il capitale. Come in molti fenomeni complessi, oltretutto valutati su scala planetaria, ci sono superiori difficoltà concettuali e metodologiche che obbligano ad una lettura molto ragionata e cauta dei dati. Lo studio della disuguaglianza economica è per certo materia sofisticata e non priva di trappole. Come già visto, si va dalle difficoltà definitorie (cos'è davvero la disuguaglianza? Questo concetto che confini ha?), alle complessità di misurazione (si misura la disuguaglianza del reddito o della spesa?), al nodo della disomogeneità, dell'affidabilità e della confrontabilità nei vari paesi dei dati, o alla loro mera disponibilità, ecc. Più che ogni discorso, vale la semplice constatazione delle disomogeneità rilevate tra i vari istituti di ricerca sugli andamenti di lungo periodo. Ovviamente, non possiamo soffermarci. | << | < | > | >> |Pagina 257PUNTUALIZZAZIONI SULLA DIALETTICA Il contributo alla comprensione della società borghese più originale de Il capitale è l'opzione di metodo avversa ad ogni visione lineare e unilaterale delle condizioni umane nella società, a prescindere dall'orientamento ideologico o politico. Marx aveva, infatti, criticato gran parte del pensiero socialista tradizionale, che si era bloccato in questo tipo di visione, perché non era riuscita ad andare molto oltre la denuncia dell'ingiustizia e della disumanità della società contemporanea. Allo stesso modo, anche quasi tutta l'ortodossia dell'apologetica borghese ha sempre condiviso una visione lineare e unilaterale che, però, si è espressa nell'opposta minimizzazione/negazione delle contraddizioni del capitalismo. Questo modo di approcciare le società, che per Marx è un vero e proprio errore di fondo, si è ingigantito, nelle due parti, al crescere della tensione nella Guerra Fredda. Marx, però, non scelse una "terza via": dare un po' di ragione a tutti per avere in qualche modo sempre ragione, "un colpo al cerchio e uno alla botte". Mantenne sempre una netta scelta di campo: condannò sempre il capitalismo come sistema non solo iniquo e irrazionale, ma anche segnato storicamente. Tuttavia, nella fase matura del suo pensiero, egli ritenne prioritario comprendere la natura del capitalismo, perché, a differenza di come la pensavano quasi tutti i socialisti/comunisti del tempo, questo sistema non era affatto trasparente, come le infinite e palesi ingiustizie lasciavano credere. La sua dialettica parte, dunque, dall'assunto opposto: la realtà capitalistica non si fa afferrare tanto facilmente perché si distingue da tutte le formazioni sociali e i modi di produrre del passato, per il cumulo immenso di contraddizioni che la costituiscono e che incessantemente produce. Marx accettò a fondo questa realtà e, con essa, si sobbarcò il compito di incorporare, in modo governato, le contraddizioni nel suo pensiero, ritenendo compito del teorico il padroneggiare la loro spiegazione, senza, però, cadere in contraddizioni formali, false spiegazioni circolari, tautologie con l'apparenza di rapporti causali e senza perdersi in eclettismi vuoti e frivoli. Marx, per usare una sua espressione, non fu nemmeno preso dal «raccapriccio» davanti all'arcano delle contraddizioni che l'ortodossia economica non riusciva a spiegare. Così nella teoria di Marx possono stare assieme la funzione di progresso e di civilizzazione del capitalismo e la forza con la quale, costantemente, il capitalismo stesso li vanifica, aumentando lo sfruttamento e la disumanizzazione del lavoro. È il caso della miseria nell'abbondanza, dell'aumento dello sfruttamento e dell'intensità del lavoro in presenza di un progresso tecnologico che potrebbe, non solo eliminare la fatica, ma forse eliminare totalmente il lavoro come pena. È anche il caso della crescita civilizzatrice dei desideri di consumo che valorizzano la vita, ma anche, al contempo, della "insoddisfazione programmata" dei beni, che serve a mantenere elevato il livello dello smercio e, con esso, della produzione di valore. La stessa valorizzazione personale, assente nelle epoche precedenti e che ha, come naturale sbocco, l'individualismo è, nella società capitalistica, un legame del salariato individualista alle condizioni dello sfruttamento del lavoro salariato, ancora più forte e interiorizzato. Come il lettore che è giunto alla fine di questo libro avrà notato, Marx riesce a comprendere, nel suo sistema teorico, anche contraddizioni dello stesso sistema capitalistico, per così dire, più interne alla stessa classe dei capitalisti. La visione storico-dialettica del funzionamento del sistema capitalistico consente, infatti, di comprendere il rebus della meccanica dello sviluppo che garantisce la vitalità e la stessa sopravvivenza del sistema solo attraverso le sue crisi. Le crisi distruggono parte della stessa classe dei capitallisti, ma, in questo modo, consentono un ricambio e la stessa sopravvivenza della classe nella sua interezza. L'autodistruttività del capitalismo è l'altra grande contraddizione del sistema. È autodistruttivo un sistema che, per ricercare super-profitti, riduce il lavoro umano, minando l'unica fonte di valorizzazione che è la sua ragione di esistenza. È autodistruttivo il sistema che deve aumentare lo sfruttamento e quindi l'antagonismo di classe per compensare l'altro effetto autodistruttivo dell'introduzione delle macchine. Solo l'approccio dialettico di Marx riesce a far stare assieme, nella stessa spiegazione, la crescita del capitalismo concorrenziale - cioè nella sua forma più essenziale e pura - e la crescita a dismisura della rendita e i monopoli di tutti i tipi che ne sono la negazione e, di conseguenza, la celebrazione della libertà di iniziativa con la crescita delle funzioni dello Stato, a garanzia e sostegno della rendita e del capitalismo nel suo complesso.
La lettura de
Il capitale
mostra impietosamente al lettore contemporaneo
l'oceano di paradossi dell'attuale sistema economico-sociale, oggi ancor più
numerosi di quando Marx scrisse la sua opera. Il senso comune rifiuta, con
insofferenza, l'incapacità di sciogliere enigmi e cerca soluzioni facili e
intuitive, che, oltre ad essere errate, sono spesso pericolose. Incolpare di
malvagità e stupidità è, nelle sue mille varianti, la via preferita per
scaricare il peso dei patimenti e della frustrazione per il non capire. Marx
insegna che, anche quando effettivamente operano malvagità e stupidità, è
compito della ragione capirne le origini, se non altro perché, senza l'esercizio
della ragione, alla malvagità e alla stupidità sarebbe data l'ultima parola.
Oggi, quando la realtà
sociale ed economica assume i contorni di un intrico di paradossi dolorosi e
insondabili, la rilettura de
Il capitale
e la ripresa del suo messaggio scientifico
possono essere risolutivi o, quantomeno, possono essere un modo di evitare la
resa del pensiero e la tentazione, sempre presente, dell'irrazionalismo.
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