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| << | < | > | >> |Pagina 3| << | < | > | >> |Pagina 6Per l'architettura, questo primo ventennio di secolo si avvia a scadere avvolto dalla paura. La più umana delle arti, in modo apparentemente inspiegabile, sta vivendo una fase in cui stenta a trovare una dimensione sociale. L'agire dell'uomo su città e paesaggi, è il primo imputato della devastazione del pianeta. Il costruire senza scopo, l'abbozzare senza finire o il finire rendendo l'oggetto architettonico già pronto al degrado, sono le più evidenti rappresentazioni di questo disagio. Questo ci ha resi nemici di Dio e possibili imputati della devastazione del creato. Alla fine, non siamo più neanche soddisfatti dello scintillio provocato dalle architetture trasparenti e dagli insediamenti levigati, frutto di metropoli realizzate da ricchi occidentali e orientali. Luoghi che, ormai, assomigliano a Luna Park per viaggi occasionali piuttosto che a posti da abitare veramente. Neanche il pauperismo pieno di sensi di colpa, che caratterizza i progetti degli ultimi anni (frutto del ritorno di teorie completamente narcotizzate), riesce a rianimarsi. E, tutto è ancor meno interessante quando pretende di essere à la page, mescolando l'eredità del razionalismo storicista italiano, ai linguaggi dell'architettura radicale e al lato che nobilita la speculazione edilizia globalizzata. Quella un po' comica in grisaglia e gemelli d'oro che vorrebbe produrre città smart ed elitarie vestite alla maniera della avanguardia internazionale dell'ultimo Novecento e che si è fatta malissimo scontrandosi a tutta velocità con il fallimento Lehman Brothers, primo vero e proprio bagno di umiltà per l'ottimismo finanziario dell'inizio di questo secolo. A ben vedere, tale strano modo di immaginare l'architettura, la città e i paesaggi, tranne in rare occasioni, investe anche la green architecture diventata, oggi, un format canonico e tranquillizzante. È un approccio senza quella maleducazione che consentirebbe al costruire ecologico di smetterla di agitare solo paure ma di immaginarsi come costellazione di assetti abitati densamente figurativi e pronti ad essere avvolti da selvagge e impenetrabili foreste mediterranee. Sarebbe bello se la città con suo meraviglioso disordine e la sua naturalezza artificiale fosse come la foresta c compenetrandosi con essa potesse vivere in mille quadri, parafrasando Mare Antoine Laugier. Peccato. Nessuno vuole un nuovo Medioevo post-atomico dove il pianeta torni rinvigorito e denso di forme mai viste prima! E, proprio per contrastare questo pessimismo, dobbiamo rischiare e perseguire una dark ecology basata sulla manipolazione visionaria della materia senza il pericoloso tentativo di eliminarla per pulire il pianeta col solo risultato concreto di avvelenarlo. Si dovrebbero, invece, cercare forme molteplici e verosimili per migliorare e dare forma a tutte le figure architettoniche che potrebbero passare dalla realtà alla nostra mente. Fisionomie che, spesso, sono sotto i nostri occhi e fanno parte di quello che quotidianamente vediamo, sebbene, una certa pigrizia da europei vincenti non aiuti a rintracciarne le potenzialità nascoste senza stimolarne il loro uso fuori dagli schemi. È come se non ci sentissimo invogliati a cambiare l'architettura di quel poco che basterebbe a renderla potente, anche in situazioni difficili, agendo su tutte le sue più inimmaginabili eventualità. Siamo invasi da una piacevolezza scontata e inutilmente violenta che ci priva di sussulti e di emozioni. E, allora, le cose che esistono, vogliono essere sottratte al loro limbo senza incidenti. Chiedono di essere alterate, infuocate, ricostruite nella necessità di un'estetica fatta di urla e silenzi, di alternanze fulminee di toni. Se dessimo loro ascolto, il futuro potrebbe liberarsi di una bellezza piuttosto scadente. Per questo, dobbiamo trovare un punto di partenza che non si veda. Un racconto da leggere come la prima azione per costruire altri apparati figurali. Certo, poi li potremmo trasportare nella realtà. Prima, però, sarebbe bello provare un esercizio che ci faccia ricavare degli elementi architettonici dai mondi senza figure evocati nella letteratura. Non dovremmo essere obbligati a illustrare alcuna trama. Questo è già, troppe volte, avvenuto. Potremmo, piuttosto, scegliere un frammento, una frase, un ritmo, una punteggiatura per costruire un nuovo album di segni, una carica corrosiva veramente a portata di mano per le discipline del progetto. A questi pensieri devono seguire delle prove e delle applicazioni tese ad alterare l'esistente. Ho voluto, perciò, scrivere questo libro e illustrare le parole che, fino ad ora, avete letto. Per farlo, ho scelto il posto dove insegno progettazione architettonica: un Dipartimento di Architettura intitolato a Luigi Vanvitelli, fastoso cantore delle cose comuni portate al limite di un'espressività favolosa. Questo signore teneva insieme lo sguardo di due geniali trasformatori di sostanze povere come Francesco Borromini e Ferdinando Sanfelice senza aver paura di agitare la tranquillità del classicismo. Riusciva a immaginare triangolazioni e citazioni riprese da antiche leggende, da racconti, da storie, da vite lontane di imperatori romani. In tal modo ritrovava il fasto dello sbalzo rubato a Borromini e la vertigine della scala negli stretti spessori murari ripresa dal lavoro di Sanfelice. In un racconto straordinario, l'architetto faceva vibrare l'immagine del vuoto e la sicurezza della balaustra. Ho la sensazione che Vanvitelli componesse elementi fondati sulla traduzione in disegni di cose lette o ascoltate. Costruiva, infatti, un acquedotto come strumento di osservazione, difesa e conquista non guardando solo alle rovine classiche. Mi piace pensare che nella realizzazione del fantastico belvedere su archi, si sia lasciato guidare dalla lettura di Giulio Cesare e dalla descrizione dei paesaggi tra Roma e la Gallia. Per questo amo insegnare architettura aiutando la nascita di nuovi simboli attraverso il progetto. Quando comincio il mio corso faccio risuonare l' incipit dell' Ulisse di James Joyce pensando solo a una scala tonda e a cosa possa sorgere dal pensiero ossessivo sulla sua forma più banale. Così ho disegnato un laboratorio di Laurea come un luogo di ricerca che ha prodotto venticinque tesi a partire da altrettanti libri scelti dai candidati, evocando cinque grandi dispute umane. Ero e sono consapevole di non volere solo parole d'architettura. I primi aspiranti progettisti si sono concentrati sulle forme da dare al tempo, altri sul grande mondo della mente, altri ancora sulla nebulosa del mare, qualcuno ha scelto la costellazione dell'avventura e c'è anche chi ha voluto osservare il dramma della guerra. Il gioco del progetto verosimile è iniziato, allora, ad occhi chiusi. Ogni candidato ha proposto un libro da cui partire e, da quel momento, ha preso vita un serrato confronto tra lettura e progetto. È nata una irripetibile girandola di figure e parole dense di entusiasmo. Non mi ha interessato la qualità della scelta letteraria (che ho voluto lasciare ai gusti della mia classe di aspiranti architetti); ho ritenuto più opportuno soffermarmi sulla trasformazione di qualunque testo in una composizione nuova, riguadagnando la vista solo alla fine della lettura. E questo è il momento in cui ho, veramente, potuto celebrare il trionfo di quella rètina che avevo messo in pausa per cercare di attraversare tante parole a cui mancava qualcosa. Parole che mi sono sembrate felici solo quando ho loro restituito la nobile speranza di riuscire a modificare la materia per troppo tempo nemica. | << | < | > | >> |Pagina 10| << | < | > | >> |Pagina 17L'insostenibile leggerezza dell'essere - famoso libro del grande scrittore boemo Milan Kundera - è una delle icone più tormentate e rappresentative delle contraddizioni insite nella mente umana durante gli anni Ottanta del secolo scorso. È un testo composto da un gioco continuo di trame alternate come sequenze di spazi verticali e orizzontali. Questi luoghi, nella moltitudine di intrecci e di ritorni, di opposizioni tra le ragioni del peso e quelle della leggerezza, manifestano ogni forma di ambizione. È un volume singolare che vorrebbe essere il "libro dei libri" dove amori, politica, città, campagna, viaggi si ricompongono in una metafora salvifica ma, purtroppo, solo sognata.C'è un grattacielo di cemento e vetro abbandonato da anni sulla via Domiziana verso Roma che sembra racchiudere tutti gli enigmi del libro. Si trova sulla strada più inquinata dai rifiuti tossici della cosiddetta Terra dei fuochi, quel sito a Nord di Napoli dove negli ultimi anni sono stati sotterrati enormi quantità di rifiuti tossici andando a distruggere le potenzialità agricole di un luogo di grande bellezza sin dall'epoca degli antichi Romani. Questo alto edificio ormai consunto sembra sorgere da una discarica con la sua massa enorme e silente. Abbiamo pensato di raccontare le contraddizioni del libro applicandole al grattacielo affinché potesse vantare una forma espressiva che potesse accogliere tanti ambienti diversi ma collegati e trasformarsi in una macchina di purificazione psicologica. Volevamo uno spazio in cui alloggiassero tutte le buone intenzioni del genere umano, che servisse ad ospitare le tecnologie utili a pulire la vita dell'uomo e a rendere possibile ogni suo amore, senza intravederne subito i confini. Doveva essere un'industria per purificare l'aria, per disinquinare l'acqua, per pulire la terra. Volevamo una macchina che ricordasse le fisionomie verticali degli architetti futuristi e che si legasse al suolo come un grillo. Speravamo di dare forma a qualcosa dove ritrovare finalmente la leggerezza mancata. Ed è così che la pianta rende la nuova torre simile ad un mostro buono e simmetrico con gli interni freschi come quelli di un convento, con cavità libere e ciminiere dalle forme meravigliose che emettono profumo. Un sogno dove il progresso diventa buono come lo immaginavamo anni fa e ristabilisce la densità figurativa della vita dei campi enfatizzata dalla presenza di questa architettura così intensamente psicoanalitica. | << | < | > | >> |Pagina 22Questo non è solo un romanzo.È la storia della sconfitta e della desertificazione della fabbrica posta al cospetto di uno dei più bei panorami del mondo. C'è un uomo piccolo e moderato, c'è quello che rimane dell'aristocrazia operaia di una città grande come Napoli, c'è uno spazio urbano che inizia un fenomeno di singolare scomparsa. L'acciaieria di Bagnoli e i suoi altoforni sono al centro del libro di Ermanno Rea che si interroga su cosa sia successo dopo uno dei più traumatici eventi sociali del dopoguerra italiano: la chiusura della più grande opificio napoletano, un luogo dove la classe operaia si raffigurava in una prospettiva legale e politica, esprimendo parlamentari che erano capi reparto ma soprattutto dando una prospettiva di duro ma consapevole lavoro ad una città. Un sito dove la borghesia aveva visto il velocissimo palesarsi della camorra con i suoi vogliamo tutto subito. Una zona grigia, un minuetto tra grisaglie e tatuaggi non ha saputo inventarsi un futuro per una delle più belle baie del mondo. Politici e notabili gestivano il successo di subappaltatori ed il fugace consenso senza la speranza di tante persone che non riuscivano ad immaginarsi una vita lontana dalla produzione e dalla acciaieria. Abbiamo visto questo luogo con gli occhi desolati del deserto di oggi e soprattutto senza lasciarci prendere dall'equazione architettonica tra fabbrica e degrado visivo in un posto dove era facile puntare il dito sul brutto della produzione ed il bello del paesaggio. Vincenzo Buonocore, il protagonista del romanzo, è un fantasma ed è costretto ad immaginare nella chiusura della produzione, nel parco turistico e nell'approdo, l'unica via di uscita. Non vogliamo annacquare la carica c la memoria della dismissione. Napoli sarà una sterminata pizzeria e un posto da aperitivi ma almeno non cancelliamone l'impronta possente, anzi, partiamo da li. Il laminatoio rosso diventa il cuore pulsante, la casa, la fabbrica vegetale, il belvedere denso di logge dalle forme molteplici ed aperto verso Miseno, Procida, Nisida e Ischia. Allora, possenti come un pattern Mediterraneo, appaiono intorno alla complessa e monumentale forma dell'edificio una moltitudine di isolati, di tessuti a patii e spazi intro ed estroversi per vivere (in precedenza immaginati nella grande tavola picta intitolata Supernapoli). Lo stile e la memoria dell'industria non cambia, il ricordo della dismissione non cancella il fascino e la severità del luogo sofferente di lavoro. Appare un monumento di centinaia di logge molteplici da cui Napoli entra da Occidente e si candida ad essere guida simbolica del Mediterraneo. | << | < | > | >> |Pagina 82Un isolotto tra Positano, la Punta della Campanella e Capri. Il suo nome è bello e misterioso: si chiama Isca, ricorda suoni remoti, lische di pesce, isole vulcaniche ma è vicinissimo alla terra ed ha una consistenza meravigliosamente agricola come si può dire dell'intera Costiera Amalfitana.Il mare è verdissimo proprio per la vegetazione e i filari di viti, limoni e ulivi che vi si specchiano. Non ha il blu duro di Capri impervia, dolomitica e - in origine - brulla. Questo isolotto fu abitato fin dall'epoca preromana, accolse cacciatori, contadini e divenne luogo dove alte reti imprigionavano la selvaggina di passo. Nel dopoguerra, Eduardo De Filippo lo acquistò per ritirarsi a scrivere le sue commedie in una casa con un approdo che guarda verso Positano, una casa dalla grande massa muraria e da un terrazzo come una passeggiata. L'isolotto era incredibilmente denso di salti di quota, conservava sentieri oltre che un vero e proprio altopiano coltivato. La compagna del grande commediografo, Isabella Quarantotti, in un piccolo libro intitolato, appunto, In mezzo al mare un'isola c'è, racconta il canto delle cicale, l'urlo della tempesta, la forza della campagna, le fughe a Positano con il gozzo San Pietro. Questa era la barca da pesca che serviva a De Filippo per raggiungere la terra ferma e per passare dall'arcipelago de Li Galli tanto amato da Léonide Massine. Tutto molto sereno, forse fin troppo. Isca ha bisogno di un'altra potenza e la immaginiamo costruita sul lato che guarda la terraferma, la baia misteriosa dal nome di Recommone. Abbiamo, dinnanzi ai nostri occhi, la murazione massiccia al largo della Licia, in Turchia, che segna come un belvedere bizantino l'isola di San Nicola. Pensiamo a un filamento lapideo dalla grande potenza plastica divenuto strada tra il verde delle coltivazioni tingendo di pietra l'azzurro del mare. Come un serpente, si muove lento con le sue spire. Si allarga e si stringe sul bordo a nord di Isca. Questo corridoio abitato è già casa ma non è domus. È, piuttosto, il duro rifugio dove poligoni di cemento candido, come frammenti di torri, si reggono determinando gli spazi umbratili e protetti per il sonno e la quiete. C'è una strana idra turca nei disegni che partono dalla calma quasi banale del libro sovvertendone la bonaccia estiva senza sorprese in uno spirito belligerante. Dal muro, inquietanti come gli umori mutevoli di Eduardo, i miradores catturano il cielo della costa, aprono lontano le direzioni di sguardo, tramutano in un corpo solo il segreto insondabile della natura e dell'artificio. | << | < | > | >> |Pagina 136Un libro illustrato in cui è difficile riconoscere paesaggi totali.Un libro di continue inquadrature popolato da storie di genti diverse. Joe Sacco pubblica nel 2003 un volume dove il sottofondo di una questione antichissima e cioè la convivenza tra Israeliani e Palestinesi diventa una continua revisione di posizioni, un gioco di interviste e dichiarazioni. Il disagio - qui - è materia scottante, sostanza del vivere o, piuttosto, sostanza del convivere in una parte della terra che da migliaia di anni è sempre stata una polveriera. Nella guerra dei sei giorni del 1967, i caccia-bombardieri con la Stella di Davide - indirizzati da Moshe Dayan - generarono l'ennesima frantumazione di un territorio che ancora oggi non trova pace ed equilibrio. Da questo punto giungiamo fino al bel libro pensato per essere fulminea testimonianza - solo apparentemente asettica - di un dramma senza fine. Ci sono i volti che dicono tanto ma è necessario affrontare una volta per tutte la costruzione di un'architettura per Gaza che renda riconoscibile lo stile e la centralità di questo territorio vicino al Mediterraneo. Pensiamo ai tunnel che rendono possibili durissime percorrenze difensive in una guerra che non conosce limiti temporali e spaziali. Progettiamo una duplice cavità in cemento ossidato abitata da aperture decorate da ceramica come se la vita quotidiana avesse diritto a una sua gentilezza. All'esterno, come una fitta sequenza di baluardi, le insenature cementizie si aprono protette da ciglia metalliche. I tubi entrano ed escono da terra, collegano i due blocchi e l'idea di una piazza protetta è solo una meravigliosa illusione. Il monumento a Gaza è un bunker che non offre abbracci. Solo il suo tetto si apre nella memoria araba di giardini pensili da cui guardare il mare di pura sfuggita. Qui il Mediterraneo è plumbeo come l'Oceano e, chi si spinge sul tetto, non ha altra speranza che provare a resistere agli esplosivi e ai proiettili dei cecchini. | << | < | |