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| << | < | > | >> |IndicePREMESSA 9 PARTE PRIMA - LA SIMULAZIONE DELL'ANIMA 17 1.1 INTELLIGENZA ARTIFICIALE E FILOSOFIA 19 1.2 ARTEFATTI 23 1.3 CRITERI D'INTELLIGENZA 26 1.4 MECCANISMI 29 1.5 ALGORITMI 33 1.6 EURISTICHE 37 1.7 SIMBOLI 40 1.8 PROBLEMI E OBIEZIONI 46 1.8.1 Comprendere i significati 46 1.8.2 Proprietà incomputabili 51 1.8.3 Conoscenza di sfondo e senso comune 57 1.8.4 Menti disincarnate 61 1.8.5 Apprendere 67 1.8.6 Agire entro un contesto 74 1.8.7 Avere uno scopo 78 1.8.8 Aspetti morali 84 1.9 SISTEMI E TEORIE 88 1.9.1 Modelli formali e materiali 88 1.9.2 Simulazioni 93 1.9.3 Reti 100 1.9.4 Realtà virtuali 105 1.10 PARADIGMI 109 PARTE SECONDA - IL RUOLO CAUSALE DELL'ANIMA 115 2.1 DOMANDE «PERCHÉ?» 117 2.2 TIPI DI SPIEGAZIONE 123 2.3 CAUSE, LEGGI DI COPERTURA 128 2.4 SPIEGARE MEDIANTE RAGIONI 132 2.5 DISPOSIZIONI AD AGIRE 136 2.6 SILLOGISMI 142 2.7 NESSI CONCETTUALI 146 2.7.1 Il contenuto concettuale dei termini 146 2.7.2 Inferenze formali e concettuali 150 2.8 NORMATIVITÀ 155 2.9 FISICALISMO 160 2.10 LA RIDUZIONE CAUSALE 165 PARTE TERZA - L'OGGETTIVAZIONE DELL'INTELLETTO SOCIALE 173 3.1 LA MENTE, IL FOLLE, IL LAVORO 175 3.2 DIALETTICHE DELLA RAGIONE 182 3.2.1 La tecnica come dominio 182 3.2.2 La critica della ragione strumentale 186 3.2.3 La tecnica, come "destino" degli esseri umani 189 3.3 IL DOMINIO DELL'INFORMAZIONE 192 3.3.1 La terza rivoluzione industriale 192 3.3.2 Cybercultura 194 3.3.3 Questioni ontologiche 197 3.3.4 Adattarsi alle protesi 201 3.3.5 Esempi 204 3.4 AUTOMI 211 3.5 L'INTELLETTO SOCIALE 221 3.6 LA RETE, LA "FINE DELLA PREISTORIA" 229 3.6.1 Sviluppi 229 3.6.2 Crisi 235 3.7 ACRASIA 242 NOTE 246 INDICE DEGLI AUTORI 283 |
| << | < | > | >> |Pagina 9Tradizioni remote, la cui traccia si perde nell'infanzia del genere umano, dipingono l'anima come una sorta di soffio: un ente impalpabile, leggero, invasivo, dotato di qualche energia, causa prima del moto, fonte di vita, contrassegno della persona, recetto della coscienza; un ente distinto dal corpo, ma in grado di rapprendersi in esso, per tutta la vita. Erano espressione di questo «soffio» (se noi moderni ne abbiamo compreso qualcosa) il ba dell'antica sapienza egiziana, il ch'i della medicina cinese, l' anima della tradizione romana, il pneuma alessandrino, il pneuma-psychikon del maestro Galeno. Un «soffio», come negli esempi citati, era anche il principio vitale concesso dal Dio della Bibbia (oppure da Atena, nel mito di Ovidio), dopo che il Dio (oppure l'Arcangelo, oppure Prometeo, a seconda della versione) aveva provveduto a modellare il primo uomo, facendolo di terra e di fango. Una tradizione più colta vuole invece che l'anima (designata col termine «psyché», che significa anch'esso, ancora una volta, «soffio» o «respiro») sia una sorta di forma: caratteristica dei sistemi viventi, principio organizzativo della loro struttura, insieme ordinato delle loro funzioni, condizione di adattamento e di resistenza, matrice dell'ontogenesi, essenza dei corpi che vivono nella natura. Per questi suoi connotati, il concetto di anima è stato per centinaia di anni un metro ordinario di classificazione: in sede teologica, sociale e biologica, l'attribuzione dell'anima - nelle sue gradazioni - ha avuto nei secoli un ruolo efficace di legittimazione delle gerarchie. Con l'era contemporanea, quando è giunta a maturazione la pretesa di aggredire sul terreno scientifico i principi primi dell'essere, è tornata la voglia di riprendere l'intera questione, nello stesso spirito apotropaico che aveva motivato il grande Lucrezio: chiarire la natura dell'anima è utile agli uomini, per scacciare il timore dell'Acheronte, che tormenta le loro vite. Ovviamente, il pensiero scientifico contemporaneo ha affrontato il problema coi metodi che gli sono propri. In primo luogo, ha cercato di applicare alla lettera il motto vichiano «verum ipsum factum», secondo il quale possiamo conoscere soltanto ciò di cui sappiamo fare un «quissimile». In fin dei conti, la «scienza dell'artificiale» è il risultato di questa tesi rinascimentale e barocca, già presente - con toni diversi - in Leonardo, Bacone, Mersenne, Hobbes e Gassendi.
In secondo luogo, l'approccio dell'antropologia, della storia e delle
scienze sociali al problema dell'anima
(e, più in generale, a quello dell'esperienza religiosa) è stato influenzato
nel XX secolo da orientamenti alquanto vicini a quelli espressi da Feuerbach:
quando i termini della religione e della filosofia vengono trattati come
enti,
essi non sono altro che il risultato di una inversione, la quale consiste nel
trasporre sul piano del pensiero le condizioni dell'individuo umano concreto.
Anzi, buona parte della sociologia del '900 ha considerato alla stregua di un
efficace principio euristico l'opinione espressa da Marx, nella sesta
Tesi su Feuerbach:
«Feuerbach risolve l'essenza religiosa nell'essenza
umana.
Ma l'essenza umana non è qualcosa di astratto che sia immanente all'individuo
singolo. Nella sua realtà essa è l'insieme dei rapporti sociali». Pur con tutte
le distinzioni del caso - che hanno impedito alla sociologia contemporanea, nei
suoi massimi esponenti, di cadere in qualche forma di determinismo economico -
era con questo principio che Max Weber faceva i conti, quando volle mettere in
luce le
affinità,
le
correlazioni,
le
congruenze
che sussistono, tra lo
spirito
del capitalismo e l'
etica
dei calvinisti.
A questi due aspetti della questione contemporanea dell'anima è dedicato il presente volume. Da una parte, il libro è rivolto all'analisi dei modelli dell'intelligenza (e relativi presupposti teorici) che sono stati proposti nella seconda metà del XX secolo (da quando, cioè, i sistemi in grado di elaborare l'informazione hanno iniziato a sostituire e a superare certe competenze tipiche degli esseri umani). Il lettore inesperto, che muova i primi passi su questo terreno, troverà un'esposizione aggiornata delle tappe fondamentali della ricerca, oltre a un resoconto dei problemi filosofici che essa ha sollevato. Il lettore più avvertito troverà invece un tentativo di riorganizzare l'intera questione, di mostrarne le radici remote, di svuotare e risolvere - se mai è possibile - alcuni nodi assai aggrovigliati. Se si volge lo sguardo ai risultati raggiunti negli scorsi decenni, appare evidente che il problema teorico dell'intelligenza non può essere racchiuso nel territorio della logica e dell'epistemologia; esso solleva questioni complesse, che hanno a che fare con la filosofia della mente, con la filosofia del linguaggio, con la psicologia, con le scienze dell'informazione, con la neuro-fisiologia e, preliminarmente, con alcuni interrogativi di ordine metafisico. Il problema maggiore, per chi si accinge a lavorare sui modelli dell'intelligenza, è dunque quello di ritagliare un percorso, che giustifichi la selezione degli argomenti trattati. In estrema sintesi, l'idea che sorregge la prima parte del libro (e che costituisce il nocciolo della discussione) è quella secondo la quale il modello di un dato comportamento può essere espresso nella forma di una corrispondenza particolare, la quale colleghi i comportamenti in esame (le azioni, i processi fisiologici, i processi mentali) ai loro presupposti iniziali (le percezioni, altri stati o processi fisiologici, altri stati o processi mentali). Questo semplice assunto - considerare ogni specifico comportamento come una relazione di corrispondenza - è alla base del programma di ricerca sull' Intelligenza Artificiale, che si fonda su altre due condizioni: - ogni istanza particolare degli stati mentali deve avere (almeno) una realizzazione di tipo fisico; - ogni relazione di corrispondenza effettiva (tra le cause che sono all'origine di un certo comportamento e la sua conclusione) può essere formulata come un algoritmo (come vuole una tesi alquanto diffusa tra i matematici e i logici contemporanei).
La prima parte del libro è rivolta a discutere questi tre presupposti, e le
relative obiezioni.
Quanto all'idea che si dia qualche tipo di correlazione - tra ogni istanza specifica (token) di uno stato mentale ed un qualche stato specifico del sistema nervoso centrale - si tratta di un punto assai controverso (riferibile, in qualche misura, al problema di carattere metafisico che era stato posto nelle Méditations cartesiane). La discussione non riguarda, ai giorni nostri, il fatto che qualche correlazione mente/corpo si debba pur dare; piuttosto, le opinioni divergono sulla rilevanza scientifica e filosofica che deve essere riservata al «supporto fisico» della mente, in tutti quei processi nei quali la mente è direttamente impegnata. La seconda parte del libro è dedicata a un aspetto particolare di questo problema: come faccia una intenzione (un desiderio, una credenza, un timore) a provocare un' azione, se è vero che tra questi due fatti c'è una differenza di genere (perché ogni azione è un fatto fisico, mentre una intenzione è - in primo luogo - un fatto mentale). Il problema è complicato dalla circostanza che la filosofia della scienza contemporanea - sulla scorta dello scetticismo di Hume - è alquanto restia ad accogliere tra le nozioni accettate il concetto di «causa» e quello di «determinazione»; concetti di questo genere vengono ammessi soltanto nel senso (alquanto neutrale) di «implicazione logica» (il quale toglierebbe ad ogni relazione di tipo «causale» qualsiasi connotato d'ordine «produttivo»).
Per chiarire in che senso la mente possa
determinare
le azioni, è dunque necessario fissare preliminarmente qualche senso plausibile
del termine «determinazione». Questo senso, che verrà proposto nella seconda
parte del libro, conforta a parere del sottoscritto l'idea spinoziana, secondo
la quale la mente non è dotata di alcuna
forza;
pertanto - come afferma Spinoza - qualsiasi atteggiamento filosofico di tipo
dualista non è affatto «acuto».
Ma la questione dell'anima - come ho ricordato all'inizio ha avuto anche un secondo risvolto, nell'epoca contemporanea. Anche se il problema tradizionale della priorità tra il pensiero e l' essere è un po' decaduto, la critica contemporanea s'è affannata a discutere le reciproche determinazioni che sussistono tra gli aspetti materiali delle forme di vita (da una parte) e (dall'altra) la cultura, le concezioni del mondo, il senso comune, la produzione intellettuale, le ideologie. Ora, succede questo: che i modelli particolari che la scienza contemporanea ha costruito, per descrivere e tentare di riprodurre le attività intelligenti, hanno assunto la potenza infettiva di un virus. Se è lecito estendere una metafora introdotta da Sperber, dobbiamo prendere atto che le tecniche contemporanee di elaborazione dell'informazione, grazie alla loro efficacia produttiva, hanno potuto diffondersi in una ventina di anni con la forza di una epidemia straordinaria, che ha l'aspetto di un evento epocale. Per quel che qui ci interessa, le trasformazioni indotte da questa «epidemia» non si devono misurare con il numero dei computer venduti, gli utenti connessi alla rete, la velocità o la potenza dei processori. Piuttosto, è il carattere pervasivo delle tecniche di elaborazione dell'informazione ciò che va rimarcato: queste tecniche, a partire dalla logica sulla quale sono fondate, tendono a trasformare lo stile delle rappresentazioni, il modo di porre i problemi, la scrittura, il linguaggio, le forme dello scambio e dell'organizzazione sociale, il lavoro, il non-lavoro, la finanza, la moda, l'arte, la scienza, il tempo libero, la guerra, il gioco, il potere, l'esercizio dei diritti e quello della democrazia (ove questa sia mai possibile, nell'era della «rete globale»). Sotto questo profilo, i modelli artificiali dell'anima tendono oggi a disporre le condizioni di vita degli uomini e - presumibilmente - a forgiare il loro pensiero. Se questo è il caso, ogni ulteriore obiezione - che venga avanzata nello stile assai raffinato dell'approccio «analitico» e che insista sulle competenze più astratte dell'intelligenza, sulle sole proprietà della mente, sulle astuzie della pura ragione, per mettere in luce i limiti dell'artificiale - risulterebbe alla fine dei conti alquanto sottodimensionata. Anche il tentativo qui delineato, di affrontare il problema sul terreno della logica e delle «scienze della natura», resterebbe esposto alla fine a più gravi obiezioni, condotte su un altro terreno. L'elemento aggiuntivo, che costringe a spostare l'ambito della discussione è infatti questo: da qualche tempo, si hanno fondati motivi per credere che i modelli dell'intelligenza stiano prendendosi qualche rivincita, rispetto a chi misurava con qualche soddisfazione la loro distanza dall'intelligenza degli esseri umani; in modo più insidioso, piuttosto che porsi l'obiettivo di simulare e raggiungere le attitudini umane, i modelli artificiali dell'anima cercano di trasformare quelle attitudini, riducendole ai loro stessi criteri. Per dirla in un modo un po' più elegante e - dal mio punto di vista - scontato: ogni discorso che riguardi l'intelligenza dell'anima non può limitarsi a investire gli aspetti logici ed epistemologici della questione; si tratta di un discorso che riguarda la condizione degli uomini e investe, in questo senso preciso, il terreno dell'ontologia. In particolare: quando ci sono fondati motivi per ritenere che un oggetto particolarissimo dell'indagine filosofica - qual è la mente - cominci a strutturarsi realmente secondo i modelli che ci siamo fatti di quell'oggetto, il pensatore dialettico potrà forse esultare; il pensatore romantico, ostile alle possibilità della tecnica, continuerà a lanciare anatemi; il filosofo critico, alquanto stordito dalla «fine della modernità», continuerà pazientemente a operare, chiedendosi quale sia la potenza aggiuntiva che sta generando quel corto-circuito, che bisognerebbe da qualche parte tagliare. | << | < | > | >> |Pagina 109In un articolo del 1988, che può essere considerato come un vero e proprio manifesto dell'approccio connessionista, Paul Smolensky ha voluto sottolineare con molta enfasi che - a suo modo di vedere - le ipotesi fondamentali del connessionismo sono del tutto «incompatibili», rispetto a quelle dei modelli cognitivi tradizionali. In particolare, le principali differenze tra i due approcci possono essere riassunte in questo modo: 1. le entità elementari considerate nei modelli tradizionali sono simboli, mentre quelle considerate nell'approccio connessionista sono componenti di simboli; 2. i modelli tradizionali si basano su procedimenti di tipo seriale, mentre quelli connessionisti fanno riferimento a sistemi massicciamente paralleli; 3. nei modelli cognitivi tradizionali prevale una formalizzazione di tipo discreto: categorie, regole di produzione, inferenze, si presentano come entità ben caratterizzate e distinte; nell'approccio connessionista le grandezze considerate (pesi, livelli di attivazione, eccetera) assumono valori continui; 4. dal punto di vista del funzionamento, i modelli cognitivi tradizionali si basano in ultima analisi sui principi di funzionamento delle macchine di Turing, i quali sono molto elementari; i sistemi connessionisti appartengono invece alla categoria dei sistemi dinamici complessi, olistici, caratterizzati da comportamenti non lineari; 5. i modelli cognitivi tradizionali sono caratterizzati da una notevole rigidità; i modelli connessionisti sono plastici, capaci di adattarsi al problema e alle sue condizioni particolari; 6. i modelli tradizionali si occupano in genere di processi cognitivi di alto livello; quelli connessionisti adottano invece una strategia «dal basso»: i processi di alto livello possono essere considerati «emergenti», rispetto a quelli più elementari. Nel corso della precedente esposizione, abbiamo cercato di mostrare in che senso l'approccio simbolico e quello connessionista mettano capo a problemi di tipo diverso e, più che presentarsi come «paradigmi contrapposti», con vocazioni egemoniche, debbano essere accolti come manifestazioni diverse di una stessa esigenza: quella di costruire modelli, per le diverse espressioni dell'intelligenza. | << | < | > | >> |Pagina 160È opportuno a questo punto riassumere i risultati raggiunti, ripercorrendo il cammino seguito. Nell'ambito dei modelli di spiegazione scientifica che l'epistemologia del '900 ha elaborato, abbiamo in primo luogo cercato di chiarire cosa potrebbe mai essere una «causa». Abbiamo dovuto farlo con una certa cautela, rischiando di ripetere risultati ben noti, perché si tratta di un concetto che ha subito l'impatto dello scetticismo humeano, è stato investito dalla critica kantiana ed è stato oggetto di moltissime analisi sottili, per tutto il corso del '900. Provvisoriamente, abbiamo concluso che - per parlare in modo appropriato di «cause» - sarebbe necessario individuare qualche caratteristica delle «leggi di natura», la quale consenta di distinguere le correlazioni di tipo «causale» rispetto a quelle che descrivono una mera co-occorenza tra eventi. Finora, la ricerca di questo carattere distintivo non è stata coronata da particolare successo. Abbiamo cercato quindi di capire cosa potrebbe essere una «ragione»: un antecedente logico, in grado di sostituire le «cause», quando l'evento da spiegare consista in qualche azione di tipo «intenzionale». Abbiamo osservato che anche le spiegazioni «intenzionali» richiedono asserti di copertura leggi-simili. Discutendo del «nesso concettuale» tra ragioni ed azioni, abbiamo avanzato la tesi che le spiegazioni che si basano sulle «ragioni motivanti» sono nel migliore dei casi spiegazioni incomplete: esse forse potrebbero dar conto dei ragionamenti che costituiscono la premessa di un dato comportamento, ma non investono il passaggio all'azione effettiva, il cambiamento di stato fisico che accompagna ogni comportamento reale. Abbiamo ricordato gli argomenti avanzati contro la possibilità di individuare leggi di tipo universale tra gli stati fisici e gli stati mentali. D'altra parte, abbiamo potuto osservare che il problema dell'esistenza di relazioni di questo genere viene sollevato - in modo forse inconsapevole - proprio da coloro i quali pretendono che vi sia qualche tipo di «causazione mentale». Infatti, finché la spiegazione viene espressa interamente al livello degli stati fisici (oppure interamente al livello degli stati mentali), non c'è alcun bisogno di invocare l'esistenza di leggi tra il fisico e il mentale; solo nel caso in cui si giunge ad affermare che gli eventi mentali sono la «causa» (nel senso tecnico del termine) di certi eventi fisici, allora è necessario che venga esibito qualche asserto universale di copertura, di tipo psico-fisico. Infine, nel quadro di una strategia di tipo «compatibilista», abbiamo cercato di indebolire i requisiti di nomicità, legalità naturale, normatività: non è a partire da una riflessione sui criteri della ricerca scientifica, né a partire da un'analisi sulla forma delle spiegazioni che è possibile tracciare una chiara differenza di genere per i processi mentali, rispetto agli altri processi che hanno luogo in natura. Ciò posto, e lasciando per un momento in sospeso il problema più generale della causalità, rimane ancora pendente una questione. Abbiamo accennato al fatto che la spiegazione di ogni processo fisico deve rispettare un requisito generale di «chiusura»: in ogni spiegazione che rispetti alcuni principi del tutto generali della natura (legati essenzialmente alla conservazione dell'energia), l'antecedente di ogni evento di tipo fisico non può che essere un altro evento fisico. Dunque, una spiegazione completa dei comportamenti (che voglia investire l'attività concreta degli uomini, con il relativo dispendio d'energia) rischia di essere solamente una spiegazione interamente svolta sul terreno fisico, programmaticamente orientata ad espellere qualsiasi riferimento al mentale. Resta dunque aperta - per dirla in termini espliciti - la questione oltremodo discussa del fisicalismo. Il «riduzionismo fisicalista» non gode in questi tempi di grandi favori: entro una cultura che tende a valorizzare, semmai, i saperi speciali, l'idea che si dia una gerarchia delle scienze (e la possibilità di ricondurle tutte a una scienza primaria) è quanto mai fuori moda. Eppure, anche l'anti-riduzionismo «di principio» si nutre molto spesso di luoghi comuni. Per esempio, è assolutamente bizzarro immaginare che qualcuno (ispirandosi al «fisicalismo») possa avanzare la tesi secondo la quale «si danno soltanto enti fisici», o secondo la quale «tutti gli enti esistenti non hanno che proprietà di tipo fisico». Infatti, è del tutto evidente che non sono affatto enti né proprietà di tipo fisico (sebbene anche un fisico possa ammetterne l'esistenza, in qualche senso del termine «esistere») le seguenti entità: il tasso di cambio dell'euro col dollaro, le combinazioni di N elementi a k a k, le regole di successione dinastica degli Hannover, il codice esadecimale, eccetera. Lungi dal negare l'esistenza di tali entità, un «fisicalista» potrebbe invece pretendere che, qualora certi fenomeni manifestino caratteristiche fisiche, essi rientrino a pieno titolo nell'ambito dei problemi dei quali si occupa la fisica; in casi del genere, una spiegazione completa del fenomeno richiede infatti che sia riconosciuto il suo carattere fisico. Come abbiamo già accennato nel capitolo 2.1, i monisti contemporanei - nelle loro diverse varianti - ammettono che gli eventi mentali siano (anche) eventi fisici. Qualche monista eviterebbe però il verbo «essere» - con valore di copula - per descrivere tale correlazione; qualcuno giudicherebbe mal posto il problema; qualcun'altro tenderebbe a dire che si tratta comunque di eventi eterogenei. Tuttavia, anche nel peggiore dei casi, nessun monista vorrà sostenere che si possono avere variazioni di uno stato mentale senza una corrispettiva variazione sul piano fisico. Però, malgrado questo riconoscimento da «materialismo del senso comune», bisogna prendere atto che molti monisti respingono con decisione l'idea che i fenomeni mentali possano essere spiegati sul piano fisico. Per quel che riguarda lo statuto ontologico delle proprietà della mente, questi monisti (che pure credono nell'unicità della sostanza) sono dunque dualisti. Al contrario, un fisicalista sosterrebbe che non solo il movimento, ma ogni tipo di attività (anche quella che ha luogo esclusivamente nel cervello e non impegna alcun apparato motorio) è - in senso proprio - un processo di tipo fisico. Ciò stabilito, il fisicalista potrebbe affermare che rientra allora nel programma di ricerca dei fisici fornire una spiegazione dell'attività cerebrale (e del nesso che lega l'attività cerebrale a quella motoria). In questo quadro, un fisicalista aggiungerebbe che il fatto di stabilire se si dia qualche correlazione costante (tra tipi di attività mentale e tipi di attività cerebrale) non è un problema di carattere logico, che si possa decidere a tavolino; piuttosto, il fisicalista sosterrebbe che si tratta di un problema da decidere empiricamente, con ricerche che investano il terreno della neurofisiologia e della psicologia. Consideriamo ad esempio il caso degli esperimenti condotti da Benjamin Libet e dei suoi collaboratori, a partire dal 1983: questi esperimenti dimostrano che la manifestazione verbale di una decisione è preceduta regolarmente da una certa attività cerebrale. Anche un fisicalista eviterebbe probabilmente di affermare che quella attività cerebrale sia la causa di una intenzione; anche il fisicalista si guarderebbe bene dall'affermare che quella attività sia l'intenzione; ciò nondimeno, opponendosi all'idea prevalente, secondo la quale l'attività neurale non è pertinente (e non ha alcun rilievo) nella spiegazione dei comportamenti, il fisicalista continuerebbe a pensare che è rilevante e sensato lavorare su quel risultato sperimentale. Grazie a questa sua «curiosità» costitutiva, la fisica che conosciamo è riuscita a spiegare fenomeni che, sulla scala temporale, coprono una impressionante estensione: da 10^(-42) secondi fino a circa 20 miliardi di anni luce, per un totale di oltre sessanta ordini di grandezza. Analoga, impressionante estensione ha il dominio dei fenomeni che la fisica studia, quando esso sia espresso nella scala delle lunghezze o delle energia. La fisica contemporanea dà conto di fenomeni che - rispetto all'apparato percettivo ordinario - si collocano ad un livello di precisione incomparabilmente più raffinato. Tutta la fenomenologia che ha a che fare con le caratteristiche ordinarie del mondo (alle scale rilevanti per la vita biologica) è suscettibile di una spiegazione fisica nell'ambito di due teorie ben conosciute ed estremamente ben corroborate: l' elettrodinamica quantistica e la teoria della gravitazione. Tuttavia, malgrado questa sua straordinaria potenza operativa e concettuale, la fisica che conosciamo è composta da un certo numero di teorie le quali: - sono irriducibili (in senso proprio) l'una all'altra; - sono incoerenti tra loro; - sono (per alcuni versi) inconsistenti al loro interno. | << | < | > | >> |Pagina 1923.3.1 La terza rivoluzione industriale È opinione alquanto diffusa che alla fine del XX secolo la storia degli uomini sia stata interrotta da un passaggio epocale, da una netta trasformazione delle forme di vita e del paradigma vigente; si tratterebbe di una cesura profonda, che - a partire da una «rivoluzione» di carattere tecnologico - avrebbe investito le basi della organizzazione economica, la cultura, l'intera vita sociale. Questo evento, paragonato alle rivoluzioni industriali del XVIII e del XIX secolo, viene unanimemente legato all'importanza che hanno assunto le tecniche di trattamento dell'informazione, a partire dall'uso imponente che ne è stato fatto nella produzione di beni e nell'erogazione di servizi. Più esattamente, la peculiarità della rivoluzione tecnologica contemporanea consisterebbe nella applicazione della conoscenza e dell'informazione a dispositivi per la generazione della conoscenza e per l'elaborazione/comunicazione dell'informazione, in un ciclo di feedback cumulativo tra innovazione e usi dell'innovazione. Così poste le cose, noi staremmo nel mezzo di una di quelle situazioni che si vengono a determinare quando si afferma un paradigma: il nuovo quadro di riferimento teorico tende a determinare gli indirizzi ed il contenuto di ogni ulteriore ricerca; il paradigma vincente tende a stabilizzare e ad estendere i propri assunti, il proprio dominio, i propri metodi e i propri criteri. | << | < | > | >> |Pagina 1943.3.2 CyberculturaIn un rapporto al Consiglio d'Europa, nel 1997, Pierre Lévy ha introdotto il neologismo «cybercultura», per designare «l'insieme delle tecniche (materiali e intellettuali), delle pratiche, delle attitudini, delle modalità di pensiero e dei valori che si sviluppano con la crescita del cyberspazio». In questa definizione, il termine «cyberspazio» è un perfetto sostituto del termine «rete», che designa a sua volta un'astrazione, così concepita: «lo spazio di comunicazione emergente dall'interconnessione mondiale dei computer e delle memorie informatiche». Queste definizioni del «cyberspazio» e della «cybercultura» sono tuttavia un po' troppo stringate, perché si possa facilmente vedere il carattere «rivoluzionario» della nuova cultura. In forma un po' più distesa, in uno dei primi lavori teorici dedicati all'argomento, Michael Benedikt ha dato piuttosto la seguente definizione: Il Cyberspazio è una realtà globalmente connessa, sostenuta dai computer, aperta ai computer e generata dai computer, multidimensionale, artificiale o «virtuale». In questa realtà, rispetto alla quale ogni computer è una finestra, gli oggetti visti o uditi non sono né oggetti fisici né - di necessità - rappresentazioni di oggetti fisici, ma sono piuttosto - per quanto riguarda la loro forma, il loro carattere e la loro azione - oggetti fatti di dati, di pura informazione. Questa informazione deriva in parte da operazioni compiute nel mondo fisico, naturale, ma nella maggior parte dei casi dall'immenso traffico dell'informazione che costituisce l'oggetto dell'impresa umana, nel campo della scienza, dell'arte, degli affari e della cultura. Approfondendo l'analisi del nuovo «paradigma della teoria dell'informazione», Manuel Castells ha indicato a sua volta cinque tratti distintivi: 1. il fatto che la «materia prima» della nuova tecnologia sia l'informazione; 2. il fatto che l'ambito di applicazione di questa tecnologia sia onnicomprensivo, giacché l'informazione è una caratteristica che riguarda ogni tipo di attività; 3. il fatto che la nuova tecnologia abbia una struttura reticolare; 4. il fatto che questa tecnologia sia estremamente flessibile; 5. il fatto che questa tecnologia determini l'integrazione di campi inizialmente distinti, quali l'elettronica, la logica, le telecomunicazioni, la psicologia, la neurologia, la biologia, eccetera. Ma, dal punto di vista che qui ci interessa, c'è un tratto ancora più caratteristico della nuova tecnologia che precede concettualmente tutti gli altri, rendendoli anzi possibili. Si tratta di una caratteristica già messa in luce da Wiener nel 1950, quando egli aveva accennato al fatto che la riduzione di ogni tipo di attività - nello spazio e nel tempo - a una mera sequenza di operazioni di carattere logico avrebbe consentito di superare una volta per tutte la frammentazione delle molteplici proprietà e relazioni che contraddistinguono i diversi processi lavorativi. In breve, l'elemento più peculiare e distintivo della nuova tecnologia dell'informazione risiede nella unicità del codice adottato e nella condivisione delle regole logiche. | << | < | > | >> |Pagina 228Allora, in conclusione, prima di concedere che l'intelletto sociale sia condiviso dall'intero genere umano (visto che esso coincide - di fatto, oltre che di diritto - con le competenze dialogiche che distinguono la specie), bisognerebbe controllare se per caso non ci sia qualche potente barriera, che blocca quel dialogo, che ostacola e costringe ogni libera comunicazione.Come abbiamo ripetuto più volte, l'intelletto sociale non aleggia nell'aria, non risiede in qualche memoria libera e condivisa; non è dislocato, come un'area di rifornimento, nelle «autostrade della comunicazione». Non si trova (o non si trova prevalentemente) nelle biblioteche universitarie, nelle librerie, nelle riviste scientifiche o nei manuali. Non c'è nemmeno nulla di simile al deposito universale immaginato da Borges, nel quale ognuno poteva passare la vita, cercando tra tanti volumi quello che descriveva il proprio destino. Il patrimonio intellettuale dell'era contemporanea non può essere ridotto a quello del copy writer, del grafico o del creatore di moda, che hanno assunto la comunicazione simbolica come una professione. Piuttosto, l'intelligenza che crea la ricchezza è oggi conservata gelosamente da qualche élite irrisoria, custodita dentro forzieri, nascosta in reti di comunicazione esclusive, separata dal resto del mondo, criptata, protetta da protocolli segreti, chiavi d'accesso, sistemi di sicurezza sempre più raffinati. Il più delle volte, non sappiamo neanche dove essa sia. Il general intellect è una merce preziosa; anche tra la comunità degli scienziati la maggioranza ha imparato a venderla bene, ad amministrarla con cura.
Non siamo uguali, rispetto all'intelletto sociale. La giustizia, come ebbe a
dire una volta un signore che se ne intendeva, non avrebbe bisogno di essere
agitata e perseguita, con tanta fatica, se essa fosse già nelle cose.
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