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| << | < | > | >> |IndicePrologo 7 1. Contro la reverenza 17 2. Contro la rassegnazione 63 3. Contro l'autorità 93 4. Contro la proibizione 125 5. Contro la sottomissione 155 Epilogo 191 Bibliografia 199 Indice dei nomi 225 |
| << | < | > | >> |Pagina 7«Se dovesse incontrare quel tipo, stia alla larga dalla teologia.» «Θ un argomento che raramente sollevo.» Nicholas Blake Mi ricordo quando viaggiavo, per studio o per lavoro, nelle sei contee dell'Ulster controllate dall'esercito britannico: la cosiddetta Irlanda del nord. Non pochi intellettuali, anche sofisticati, ritenevano che le truppe della Corona fossero là a «mantenere la pace», sedando un conflitto di matrice essenzialmente religiosa impressione spesso corroborata da vari giornali, radio e televisioni che, in Inghilterra e altrove, parlavano di secolare «faida» tra «cattolici» e «protestanti». Mi trovai a chiedere ospitalità per la notte presso una famiglia di campagna. Stavo già sistemando il bagaglio, ed ecco la domanda: «Cattolico o protestante?» Per trarmi d'impiccio, risposi: «Ateo». Un attimo di silenzio perplesso, poi un'altra domanda: «Si, ma ateo cattolico o ateo protestante?» Ciò mi fa ripensare a una lettura dei tempi di scuola, la raccolta di saggi di Bertrand Russell intitolata Perché non sono cristiano (la prima traduzione italiana, presso Longanesi, è del 1959). Allora appariva un testo trasgressivo, peggio di Lolita di Nabokov. Lo era almeno per me, che avevo come insegnante di religione (al liceo Berchet di Milano) nientemeno che Don Luigi Giussani, il quale sarebbe diventato fondatore e anima di CL, ovvero il movimento cattolico di Comunione e Liberazione. Difficile fargli accettare che un suo «allievo» potesse preferire Sir Bertrand a uno qualunque dei quattro Vangeli canonici. Mi colpivano, di Russell, l'argomento e il tono. «Trovo strano», scriveva quel filosofo e logico matematico nella Prefazione, «poter pensare che una divinità onnipotente, innocente e benevola abbia preparato il mondo, da nebulose senza vita, in tanti milioni di anni, per ritenersi soddisfatta dell'apparizione finale di Hitler, di Stalin e della bomba H.» Aveva scritto quelle righe nel 1957; non tanto per prendersela col Signore quanto per non dimenticare le responsabilità degli uomini. Ma persino dei papi si sono chiesti dove fosse Dio al tempo di Auschwitz. Già, dove? In qualche piega remota dello spazio-tempo einsteiniano, troppo lontano per vedere i dettagli della sua creazione e comprensibilmente disgustato dagli spettacoli offerti dall'incubo che chiamiamo storia? O al pub, autore pentito, a bere per dimenticare? Non sappiamo, dice l' agnostico. Piuttosto, non c'era, perché non c'è e non c'è mai stato, ribatte l' ateo. «Cattolico» o «protestante» che sia. Il libro di Russell è una raccolta di saggi di diversa data, ma legati da un coerente filo rosso. Include anche la trascrizione del dibattito con padre F.C. Copleston, S.J. (sta per Societatis Jesus), trasmesso dalla BBC nel 1948. Nelle prime battute il gesuita chiedeva se anche il filosofo, a prescindere dalle particolari tesi che avrebbe sostenuto, fosse convinto che «il problema di Dio era sempre della massima importanza» strappando un mezzo assenso a Russell. Mi chiedo cosa avrei detto io, se mi fossi trovato (indegnamente) nei panni di Sir Bertrand. Mi viene spontaneo «No: di scarso interesse». Allora, perché questo libro? Dopotutto, qualsiasi padre Copleston potrebbe obiettarmi che un ateo dovrebbe essere particolarmente coinvolto con Dio, dal momento che si prende la briga di negarlo. Ma chi o che cosa si vuole negare? In via preliminare accetto la «definizione» del buon padre, che è il nucleo del cosiddetto teismo: con la parola Dio «intendiamo un ente supremo, personale, distinto dal mondo e creatore del mondo». Non sarebbe allora più opportuno assumere la posizione dello stesso Russell: «Non sto dogmaticamente dichiarando che non c'è Dio: dico soltanto che noi non lo sappiamo»? Θ un atteggiamento che ha precedenti illustri come quello di Charles Darwin, il teorico dell'evoluzione per selezione naturale, che dichiarava nell' Autobiografia di non volersi imbarcare nelle discussioni di tali «astrusi problemi», aggiungendo: «Il mistero del principio dell'universo è insondabile per noi, e perciò, per quel che mi riguarda, mi limito a dichiararmi agnostico». A sua volta, Russell concludeva che «il mondo non ha bisogno di dogmi», nemmeno di quelli dell'ateismo militante. Ha però bisogno di «libera ricerca». Se non ci fossero stati i Free-thinkers, cioè i liberi pensatori, sarebbe stato necessario inventarli. E se guardiamo a quelle culture ove più sono affondate in profondità le cosiddette radici cristiane, possiamo operare la separazione, come indicava Russell, tra liberi pensatori «cattolici» e «protestanti»: sia gli uni sia gli altri possono limitarsi all'agnosticismo o assumere posizioni dichiaratamente ateistiche; resta che «nel tipo protestante l'allontanamento dalla tradizione è soprattutto di indole intellettuale, mentre nel tipo cattolico è principalmente di natura politica». Più seccamente, «si potrebbe dire che ai protestanti piace essere buoni, e hanno inventato la teologia per mostrarsi tali; mentre ai cattolici piace essere cattivi, ma hanno inventato la teologia per mantenere buono il prossimo». Ovviamente, la distinzione e per «tipi ideali» e non per individui in carne e ossa: in relativa autonomia dalla formazione religiosa ricevuta da piccoli (se c'è stata), nel concreto dell'esistenza non c'è la strategia cattolica pura o quella protestante altrettanto pura, ma un misto dell'una e dell'altra, con varie sfumature, anche se spesso una componente tende a prevalere sull'altra: per attenerci ad alcuni degli autori presi in considerazione nelle pagine che seguono, John Stuart Mill ci apparirà inclinare più verso il «protestante» (non foss'altro per la sua difesa appassionata di cause che il conformismo all'epoca sua e nel suo Paese giudicava eccentriche) e Sade più verso il «cattolico»; più «misto» (e con leggerezza) Voltaire, che detestava il Calvinismo, ma difendeva gli ugonotti vessati dai cattolici. Un pizzico di libero pensiero «protestante» farà capire la ragione della mia ipotetica risposta a qualsiasi padre Copleston: se c'è stato un tempo in cui poteva sembrare di moda dichiararsi senza Dio (solo qualche decennio fa!), oggi è arrivato quello in cui, come paventava Russell già in un saggio del 1928 (incluso appunto in Perché non sono cristiano), «col decadere del liberalismo [...] probabilmente gli atei saranno costretti a riunirsi in società segrete» celando il loro ateismo un po' come sembra facessero gli atei timidi (cioè timorosi di finire male) quando il loro critico più bizzarro e spregiudicato, Pierre Bayle, osservava nei Pensieri sulla cometa (1682) e nel Dizionario storico-critico (1695-1697 e 1702) che nel mondo cosiddetto civile non si era ancora costituita una «società di atei» solo perché costoro erano perseguitati dai fanatici religiosi al punto che dovevano procedere mascherati. Allora, essere agnostico non mi basta più. Preferisco dirmi ateo, perché si rigeneri quello che Russell chiamava «liberalismo»: la possibilità di confrontarsi e di scontrarsi se è il caso con i religiosi della più variegata estrazione (compresi coloro che dell'ateismo fanno una religione). Nella convinzione che ateo non sia tanto chi logora il proprio tempo nel cercare di dimostrare che Dio non c'è, ma chi decide di vivere senza o perfino contro Dio. Sotto questo profilo l'ateismo non è una dottrina definita, ma un complesso di atteggiamenti, alcuni dei quali mi paiono più efficaci della mera sospensione del giudizio. Vedo l'ateismo non come una rete di dogmi (simmetrici a quelli di qualsiasi teismo), ma come un repertorio di strumenti, intellettuali e pratici, che riguardano il nostro modo di indagare l'universo e di scegliere il nostro destino. Come sarebbe lusinghiero definirsi, in quest'ottica, «protestanti» (nel senso di Russell)! Ma il versante «cattolico» non può essere cancellato, facendo semplicemente finta che non ci sia... Il primo capitolo di questo libro espone una sorta di confutazione pratica del teismo. Alla presenza del male su questa Terra è dedicato il secondo capitolo. Il terzo analizza alcuni aspetti del (presunto) conflitto tra scienza e religione, per prospettarlo non come una contesa tra ragione e fede, ma come uno scontro politico. Θ su questo terreno che si giocano ancor oggi le sorti del liberalismo: la difesa del quale è affidata, nel quarto capitolo, a una modesta proposta metodologica, che unisce insieme ateismo e liberalismo o come io preferisco dire, ateismo e libertarismo (non è solo questione di parole). Il quinto capitolo riesamina le «prove» dell'esistenza di Dio; non si tratta di paradigmi di dimostrazione, bensì di modelli di sottomissione. Può darsi, infine, che le brevi conclusioni dell'Epilogo sorprendano il dogmatico, teista o a-teista che sia. Se andrà così, mi riterrò soddisfatto. | << | < | > | >> |Pagina 93L'insolenza degli scienziati «Anassagora osa pretendere che il Sole non è condotto da Apollo in quadriga? Lo si chiama ateo, e lo si costringe a fuggire» leggiamo nel Dizionario di Voltaire. Dall'accusa (432 a.C.) di empietà in Atene al filosofo di Clazomene, quante volte il Sole è «sorto» e «calato» sulle vicende umane? Il conflitto tra autorità e libera ricerca non è venuto meno semmai ha di continuo cambiato forma. «Ma sapete, Signori, da dove giunge questo diluvio di dottrine insolenti che rozzamente giudicano Dio e gli chiedono conto dei suoi decreti?» domanda ai suoi interlocutori il Conte delle Serate di Pietroburgo di Joseph de Maistre. Lo dica, Altezza: vogliamo saperlo anche noi! «Arriva dalla numerosa schiera dei cosiddetti scienziati che in questo secolo non abbiamo saputo tenere al loro posto che è il secondo. In altri tempi gli scienziati erano pochissimi; oggi non vi sono che scienziati: sono una corporazione, una folla, un popolo, e fra loro l'eccezione, già triste un tempo, è diventata regola. Hanno usurpato un'influenza senza limiti in qualsiasi campo; eppure, se oggi vi è una cosa certa in questo mondo, è che non spetta alla scienza guidare gli uomini.» A chi spetta, allora? «Ai prelati, ai nobili, ai grandi ufficiali dello Stato.» Tocca a loro «insegnare alla nazione qual è il male e qual è il bene, ciò che è vero e ciò che è falso nell'ordine morale e spirituale». Tutti gli altri «non hanno il diritto di ragionare su simili materie. Hanno le scienze naturali per divertirsi, di che cosa dovrebbero lamentarsi?» In realtà, «gli altri» non si lamentano affatto. Per dirla con le parole di Jules-Henri Poincaré, matematico, nonché fisico e tecnologo, quasi un secolo dopo (Il valore della scienza, 1905): «Θ in virtù della scienza e dell'arte che hanno valore le civiltà. Ci si è meravigliati della formula: la scienza per la scienza; ma vale più dell'altra: la vita per la vita, se la vita non è che miseria». Si, «il pensiero non è che un lampo in mezzo a una lunga notte. Questo lampo, però, è tutto». Umiltà cosmica oppure orgoglio luciferino? Bigotti come de Maistre, se avessero potuto fare un balzo di cent'anni, non avrebbero avuto dubbio alcuno. E pochi ne nutrono gli odierni critici dell'impresa tecnico-scientifica, stando ai quali la scienza impoverisce l'essere e la tecnologia riduce donne e uomini a meri congegni di qualche insensato ingranaggio. Non si annida nelle parole di Poincaré il nucleo di ogni scientismo? Le conseguenze perverse non sono sotto gli occhi di tutti, dall'uso dissennato delle fonti di energia all'inquinamento del nostro pianeta? E che dire del motto «La scienza per la scienza»? Qualcuno sbrigativamente concluderebbe che è solo un espediente per giustificare la mancanza di scrupoli degli scienziati nell'intraprendere qualsiasi avventura (dal nucleare agli OGM) in nome del sapere, senza preoccuparsi dei rischi per l'umanità. E le conseguenze morali? Ancora dalla Caritas in veritate di Benedetto XVI: «La fecondazione in vitro, la ricerca sugli embrioni, la possibilità della clonazione e dell'ibridazione umana nascono e sono promosse nell'attuale cultura del disincanto totale, che crede di aver svelato ogni mistero, perché si è ormai arrivati alla radice della vita». In realtà, quei programmi di ricerca che sarebbero promossi dalla cultura del disincanto prima ancora che applicazioni pratiche sono progetti di conoscenza che non pretendono di dissipare una volta per tutte «ogni mistero», ma cercano di far chiarezza su problemi niente affatto «risolti». Resta da chiedersi quali siano i tempi dell'«incanto del mondo» rimpianti dal Pontefice, per altro più sensibile alla questione dell'eutanasia («manifestazione non meno abusiva di dominio sulla vita»: il corsivo è mio) di quanto non sia ai (presunti) pericoli degli OGM. Ma non sono stati dei pensatori cattolici a rivendicare il merito storico del Cristianesimo nell'aver «disincantato» uomo e natura abolendo gli «dei cornuti» dei riti pagani macchiati dal sangue dei sacrifici umani? D'altra parte, l'impresa tecnico-scientifica ha un suo incanto: la meraviglia per fenomeni inattesi e per il successo tecnico era già il motore della ricerca stando a Platone e a Aristotele , come lo era nel nostro Novecento per fisici come Albert Einstein o matematici come René Thom. E anche quando i nostri teoremi, esperimenti o congegni colpiscono nel segno, la meraviglia resta; ma è l'incanto della comprensione attraverso il cervello o attraverso le mani dell'essere umano. Come notava Richard Feynman in un'intervista del 1981: l'unico sentimento che riscatta dallo sconcerto di «sentirsi persi in un universo misterioso privo di alcuno scopo». Ciò che l'autore della Caritas in veritate sembra oggi temere di più è (parola sua) «l'assolutismo della tecnicità», minaccia ancor maggiore dello sfruttamento dissennato delle risorse del globo. Il rischio è «che si produca una confusione tra fini e mezzi: l'imprenditore considererà come unico criterio d'azione il massimo profitto della produzione; il politico, il consolidamento del potere; lo scienziato, il risultato delle sue scoperte». Non si capisce, però, che c'entrino l'avidità o l'ossessione per il potere che hanno imperversato in epoche ben più «spirituali» di quella attuale con la scienza come tale. Non più, direi, di quanto la ricerca di ricchezze e dominio che ha caratterizzato non pochi momenti della storia della Chiesa c'entri con la fede in quanto tale. E cosa mai dovrebbe perseguire uno scienziato, se non qualche «risultato» nelle proprie indagini? | << | < | > | >> |Pagina 98Relativismo contro scientismoNella scienza, notava Popper, la critica viene impiegata allo scopo di mettere in luce quel che non funziona: «La nostra conoscenza si accresce nella misura in cui impariamo dagli errori, anche se non possiamo mai conoscere, nel senso di conoscere con certezza». Ma il fatto che non conosciamo «con certezza» non è un difetto; piuttosto, è una garanzia contro qualsiasi autorità che si arroghi un potere sulla scienza e contro il nostro stesso autocompiacimento. Quale scientismo, allora? Entro la scienza, nessuno. Nella Fides et ratio (1998) Giovanni Paolo II definiva tale atteggiamento la «concezione filosofica» che «Si rifiuta di ammettere come valide forme di conoscenza diverse da quelle che sono proprie delle scienze positive, relegando nei confini della mera immaginazione sia la conoscenza religiosa e teologica, sia il sapere etico ed estetico». Aggiungeva che in passato questo atteggiamento aveva trovato forma «nel positivismo e nel neopositivismo, che ritenevano prive di senso le affermazioni di carattere metafisico»; oggi si celerebbe «sotto le nuove vesti» di un pensiero che teorizza la tendenza della scienza «a dominare tutti gli aspetti dell'esistenza umana attraverso il progresso tecnologico». Tuttavia, un atteggiamento antimetafisico con buona pace di Wojtyla non comporta necessariamente la riduzione a pura emotività delle sfere dell'etica e dell'estetica. Nella Fides et ratio, inoltre, si insiste sul rischio che non pochi scienziati «consapevoli delle potenzialità insite nel progresso tecnologico» cedano, «oltre che alla logica del mercato, alla tentazione di un potere demiurgico sulla natura e sullo stesso essere umano». Ma non era stato quello stesso Papa, qualche anno prima (1995), a ingiungere: «Riempite la Terra e soggiogatela»? (parafrasava Genesi 1,28 sottolineando che Dio ha assegnato a uomini e donne «non soltanto il potere di procreare per perpetuare il genere umano», ma anche il «comune compito» di dominare la Terra). Ci pare singolare che un papa del Novecento si sia servito di termini come soggiogare, assoggettare, dominare ecc. con una certa insistenza, e per di più in una lettera rivolta Alle donne, cioè alla parte dell'umanità che porta incisi nella propria carne e nella propria storia segni di giogo e di dominio. In quella scelta linguistica c'è più «scientismo» che in qualsiasi celebrazione della scienza vetero o neopositivista: una forma di superbia accompagnata dal rinnovato invito a popolare e imbrigliare il Creato, di cui l'Uomo, sottomesso all'esclusiva potestà di Dio, sarebbe una sorta di piccolo padrone per «partecipazione alla signoria divina», come diceva Wojtyla già nella Veritatis splendor del 1993. | << | < | > | >> |Pagina 102La «dittatura del relativismo» era al centro delle preoccupazioni di Joseph Ratzinger almeno fin dall'omelia Pro eligendo romano pontifice (18 aprile 2005), ma pensare che essa destabilizzi non solo «la piccola barca» (Ratzinger) del pensiero dei cristiani bensì l'intera «realtà» (Bellieni) mi pare eccessivo. La scienza non darà acquisizioni definitive o immodificabili e lavorerà non su certezze ma su probabilità: essa, però, «Si piega» non «all'umore» del singolo ricercatore ma ai risultati di osservazioni ed esperimenti. Meglio il tono lapidario del filosofo Martin Heidegger (1924): «La paura del relativismo è la paura di esistere».| << | < | > | >> |Pagina 102Contro la scienza e la bellezza«Fu presa per la strada, spogliata nuda e poi, con conchiglie affilate, le tagliarono pelle e carne»; il corpo venne infine smembrato e bruciato. Così morì Ipazia «la filosofa», nel marzo del 415 d.C. stando alla cronaca di Socrate Scolastico, storico cristiano del V secolo. Il quale non manca di ricordare ai suo lettori che lei, figlia del matematico Teone, per la forza della sua intelligenza e la purezza del suo comportamento era «riverita e ammirata da tutti». Forse, non proprio tutti, visto che esecutori materiali del delitto furono alcuni cristiani agli ordini di un certo Pietro il Lettore, seguace del vescovo Cirillo, patriarca di Alessandria. Chissà se quest'ultimo era davvero il mandante? Sarebbe stato comunque un bizzarro caso di inefficienza, se Cirillo non avesse saputo controllare tali squadracce. Nonostante ciò, venne fatto santo e dichiarato Dottore della Chiesa. Per secoli quella donna fatta a pezzi è stata il simbolo dell'inarrestabile declino del Paganesimo di fronte alla marea montante della nuova religione dell'Impero. Analisi più recenti mostrano che la situazione era più complessa. I difensori degli antichi Dei avevano subito nel 391 l'offensiva dell'allora vescovo Teofilo, zio del summenzionato Cirillo. Alessandria era lacerata anche dai conflitti interni ai fautori del «Dio unico»: cristiani contro ebrei e cristiani delle varie tendenze in lotta tra di loro. Nata verso il 370, Ipazia sembra aver poco condiviso l'accanimento di parecchi intellettuali pagani nella difesa della loro cultura. Θ plausibile che fosse incline a riconoscere una sorta di unità profonda sotto le varie differenze di superficie fra le religioni e che affidasse non al culto bensì alla pratica filosofica il cammino della creatura umana verso il «Dio dei filosofi». Doveva comunque prendere le difese degli ebrei, accusati di deicidio dai seguaci di Cirillo e schierarsi al fianco del prefetto di Roma, Oreste, diventato anche lui cristiano senza però rinunciare a quella che noi oggi chiameremmo la laicità dello Stato. Coinvolta in una disputa di cristiani contro altri cristiani, Ipazia sarebbe stata colpita per ragioni tipicamente politiche e probabilmente abbandonata alla sua sorte da Oreste, dubbioso, come l'Amleto di Shakespeare, sul modo in cui reagire alle usurpazioni al proprio potere. L'accusa a questa aristocratica del pensiero era di stregoneria una calunnia escogitata per renderla invisa sia ai pagani (la cui legge prevedeva per tale reato una pena durissima) sia ai cristiani, che vi avrebbero scorto lo zampino di Satana. Ma noi continuiamo ad ammirare Ipazia per la sua brama di conoscere manifestatasi in particolare in matematica e astronomia. Aveva contribuito al commento dell'opera aritmetica di Diofanto, si era cimentata nella grande tradizione geometrica da Euclide a Apollonio e si era appassionata alla teoria del moto dei pianeti, consegnata ai posteri nella Grande compilazione di Tolomeo. Ha dunque colpito nel segno uno dei primi estimatori moderni di Ipazia, l'irlandese John Toland, il quale ci fa capire (1720) che gli assassini di quella donna straordinaria in lei avevano contemporaneamente colpito la femminilità, la libertà di religione e l'indipendenza della ricerca scientifica. In particolare, Toland non perdonava che fosse stato un vescovo poi santificato a istigare «un'azione tanto spavalda» e il suo clero a eseguire il dettato di «un furore così implacabile». Ma non è stato l'unico caso di qualche prelato o «santo» che ha preteso di sequestrare scienza e coscienza. | << | < | > | >> |Pagina 105«Eppur si muove»«Pertanto, volendo io levar dalla mente delle Eminenze e d'ogni fedel cristiano questa vehemente sospitione, giustamente di me concepita, con cuor sincero e fede non finta abiuro, maledico e detesto li suddetti errori ed eresie, e generalmente ogni e qualunque altro errore, eresia e setta contraria alla S. Chiesa; e giuro che per l'avvenire non dirò mai più né asserirò, in voce o in scritto, cose tali per le quali si possa avere di me simil sospitione; ma se conoscerò alcun eretico o che sia sospetto d'eresia, lo denunzierò a questo Sant'Offizio, o vero all'Inquisitore o Ordinario del luogo dove mi troverò.» Convento della Minerva, 22 giugno 1633. L' insolente scienziato che chiede umilmente perdono non è altri che il «matematico e filosofo della natura» del granduca di Toscana, Galileo Galilei , forzato senza troppi riguardi per i suoi capelli bianchi («dell'età mia d'anni 70») a una penosa ritrattazione; obbligato pure a dichiararsi disposto a diventare quel che tecnicamente si dice un infame, cioè un delatore di chi ha il torto di pensarla esattamente come lui. Il suo peccato è di essersi ostinato a difendere (parole sue) «la falsa opinione che il Sole sia centro del mondo e che la Terra non sia centro del mondo e che si muova», in particolare scrivendo e dando alle stampe «un libro nel quale tratto l'istessa dottrina già dannata e apporto ragioni con molta efficacia a favor di essa». Non aveva provocato qualsiasi anima pia con quel suo Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (che sono il tolemaico e il copernicano, 1632)? E non era stato già ammonito (1616) a non insistere sulla tesi copernicana dei moti della Terra, che parevano in stridente contrasto con la lettera della Sacra Scrittura? | << | < | > | >> |Pagina 111Che ottimista! L'autorizzazione a insegnare la teoria copernicana è stata concessa dalla Chiesa Cattolica Romana solo nel 1822 a quasi due secoli dalla morte di Galilei (1642). Il 31 ottobre 1992, alla Pontificia Accademia delle Scienze, Giovanni Paolo II ha dichiarato che «appartiene ormai al passato il doloroso malinteso sulla presunta opposizione tra scienza e fede», proponendosi così di chiudere il famigerato caso Galileo. Un'abile «operazione propagandistica», dice di tutto ciò (1994) Antonio Beltràn Mari, storico della scienza all'Università di Barcellona: «A questo punto, la maggior parte della gente pensa in tutta sincerità che Galilei abbia fatto del male e che la Chiesa, dando prova di bontà, abbia deciso di perdonarlo». Ma l'impresa scientifica non ha bisogno di perdono; semmai, è la Chiesa Cattolica Romana che ha disinvoltamente assolto se stessa.Antonio Beltràn Mari insegna in una Spagna di «cattoliche, anzi cattolicissime» tradizioni (o meglio, in Catalogna), ma lontano quanto basta dal Vaticano. Nella nostra Italia, invece, guai a dire che in questione non era il delitto di Galilei, ma il torto nei suoi confronti! | << | < | > | >> |Pagina 125| << | < | > | >> |Pagina 136Ateismo metodologicoNon perdiamoci in discussioni se lo Stato inteso come strumento al servizio della libertà sia o no un'utopia; piuttosto, esso rappresenta un'unità di misura che permette di valutare nel concreto quanta libertà siano disposti a concedere gli Stati di oggi, magari «democratici», a cittadine e cittadini, senza ridurli alla condizione di sudditi. Riscopriamo così, per questa via, il senso profondo dello slogan di Lysander Spooner per cui «i vizi non sono crimini» compreso quel particolare «vizio» che ci spinge a considerare gli istituti sociali via via realizzati come inadeguati alla difesa o all'incremento della libertà dei singoli, se tendono a tramutarsi in pervasivi strumenti di controllo e costrizione! I totalitarismi del Novecento sono stati fin troppo generosi nel metterci in guardia contro la libertà che degenererebbe in licenza. Come ricordava Hitler: «Quanto più si allentano i freni dell'organizzazione statale e si lascia libero campo alla libertà individuale, tanto più la storia di un popolo si avvia sui binari del regresso civile». Non c'è solo Hitler. Abbiamo nel mondo di oggi esempi di organizzazioni statali o comunitarie che vedono nella libertà individuale il peggior nemico e che, reprimendola, conculcano minoranze, violentano tradizioni e culture, eliminano sistematicamente garanzie giuridiche, censurano la stampa o Internet, pretendono di limitare la libertà di parola e di azione di altri Stati e di altri popoli. Per di più, non si tratta sempre o solo di forza bruta: la repressione dell'individualità, che implica prima o poi soggezione su larga scala, viene talvolta giustificata ed effettuata con le migliori intenzioni, invocando questo o quel valore che dovrebbe apparire «non negoziabile». Θ per questo che l'intreccio di libertà filosofica, responsabilità politica ed economica, e autonomia dell'impresa tecnico-scientifica rappresenta ancor oggi agli occhi degli illiberali di ogni risma «un peccato che deve essere espiato in nome della teleologia della giustizia», come ha scritto in un recente contributo il matematico e filosofo Jean Petitot. Non sono portatori di diseguaglianze e scompensi lo sviluppo capitalistico e la stessa crescita tecnico-scientifica? Non sono solidali a una forma di esasperato individualismo, che come un acido scioglierebbe qualsiasi legame comunitario? Le loro conquiste non vengono subite da coloro che si trovano esclusi da questo tipo di «progresso»? La risposta da parte di chi teme di pagare il prezzo di questa eccessiva libertà è che essa, come un peccato, vada repressa promuovendo gli esclusi a «motore di una salvezza redentrice». Petitot smaschera efficacemente il nucleo tirannico coperto da questa retorica: per essere «operativo», cioè incisivo sul piano della storia, tale «profetismo teologico-politico» esige che «una casta 'morale' imponga un potere clericale che [...] operi per reti di influenza e controllo dell'opinione pubblica, onde [...] conquistare il potere e mettere le tecniche di repressione al servizio della giustizia». Concordo con lui non solo sulla denuncia della trappola autoritaria, ma anche sul suo invito a resistere. Scrive Petitot che «di fronte alla potenza di quei clericalismi, bisogna riconquistare le posizioni di un ateismo metodologico, vale a dire di denuncia razionale», cioè di un atteggiamento capace di smontare tutte queste favole di «redenzione». Perché chiamarlo ateismo? Θ ovvio come ateismo e anticlericalismo non siano affatto sinonimi. Una prima ragione per insistere sull'ateismo è che il controllo sociale cui mirano i vari eserciti della salvezza è della stessa pasta di quello di tutte le chiese dell'intolleranza, che perseguono il loro progetto e impongono i loro ideali in nome di un qualche «Dio geloso», cui piegare le preferenze dei singoli. E allora, perché non tagliare, una volta per tutte, il filo diretto che tali burocrazie dello spirito pretendono di avere con la divinità? Anzi, che farsene della divinità, se si è ridotta a strumento di prevaricazione e inganno? E perché qualificare questo ateismo come metodologico? Riprendo qui il tema del Prologo. Non mi interessa in sé la questione dell'esistenza o della non esistenza di una qualche divinità se non esiste, ciò è bene per la nostra argomentazione; se esiste, è ancora meglio (più significato avrà la nostra ribellione) quanto il fatto che Dio può venire impugnato come una clava per sottrarci ogni forma di autonomia filosofica, politico-economica, tecnico-scientifica. Si tratta di evidenziare l'infondatezza di tale pretesa, da qualunque parte venga avanzata: maghi, incantatori, sacerdoti, funzionari di partito, imbonitori della televisione ecc. E soprattutto, attenzione al linguaggio: perché parlare di salvezza o di redenzione? Chi si esprime in questo modo non dovrebbe anche avere l'onere di indicare il pericolo o il peccato? Θ la libertà una malattia mortale? O addirittura la vera ragione per cui il mondo sarebbe corrotto? Anche dei filosofi sembrano aver pensato così (vedi oltre il caso del Platone della Repubblica). Ma per me la libertà non è un'influenza contro la quale bisogna vaccinarsi, bensì la condizione di base per la vita che decidiamo di vivere, senza che nessuno venga a dettar legge alla nostra coscienza. | << | < | > | >> |Pagina 140«Tra il Diavolo e il profondo mare azzurro»Anno Domini 1725. Un reverendo, diretto dalla madrepatria inglese a New York, sale sul mercantile che dovrebbe portarlo a destinazione. Non apprezza l'indifferenza della gente di mare per tutto quello che concerne il destino dell'anima dopo la morte; si prodiga allora a distribuire copie della Bibbia ai membri della ciurma. Per tutta risposta, una notte i marinai si intrufolano nella cabina ove è alloggiato e gli tagliano «l'amaca da sopra» mentre dorme, lo sodomizzano «più volte» e infine lo picchiano violentemente sul capo... con una sua Bibbia. Era l'epoca in cui gli equipaggi sia delle navi legali sia di quelle dei pirati venivano reclutati indifferentemente tra membri di una Chiesa di Stato (come in Inghilterra), presbiteriani, dissenzienti e settari vari; non mancavano cattolici romani e perfino ebrei o musulmani per non dire di «pagani» della più varia estrazione. Sarebbe mai stato pensabile, sulla tolda della nave o nella stiva, che venisse turbata la pace per qualche sottile questione teologica come la salvezza attraverso le opere, la sostanza trinitaria di Dio o la natura umana/divina di Cristo? E se alcuni capitani ritenevano che potesse essere motivo di discordia la presenza di donne o di ragazzini a bordo, più nefasta era considerata l'invadenza di un prete di qualsiasi denominazione! | << | < | > | >> |Pagina 172Ma se le cose stanno così, non c'è nemmeno bisogno di una a-teologia, cioè di un'antiteologia propinata da atei convinti di poter fornite «prove» della non esistenza di Dio. Il punto è delicato: le «prove» di Dio fin qui esaminate non ci convincono, non ci danno nessuna dimostrazione d'esistenza (a meno di non dare per scontate asserzioni ancor più discutibili di quello che vorrebbero provare). Ma ciò non significa che dimostrino l'inesistenza di Dio. L'unica conclusione che riteniamo lecito trarre è di natura pragmatica, e riprende un paragone già di successo ai tempi di Russell, quello della Teiera volante. Se qualcuno ci viene a dire che esiste quella «cosa» (la teiera) in orbita, poniamo, intorno alla Terra e che dovremmo inginocchiarci per adorarla, non spetterebbe a costui l'onere della prova? Come appello all'insubordinazione, tale ragionamento è efficace: non rivolgeremo preghiere a nessuna teiera! Ma è meno cogente sul piano, per così dire, antiteologico. Come ricordava Nozick , «richiediamo una prova a chiunque faccia un'asserzione esistenziale», e tale è ovviamente l'asserzione che c'è Dio o che c'è una Teiera volante; ma lo è anche l'asserzione che c'è un universo senza Dio, o senza una Teiera in orbita o almeno che c'è un universo le cui leggi (in senso lato) fisiche spiegano i fenomeni, rendendo superflua qualsiasi divinità...Come, sulla scorta di un teologo come Miegge, abbiamo lasciato il Dio «astratto» costruito da coloro che sono affascinati esclusivamente dalla purezza della logica per ritrovare invece la concretezza di un Dio che si è fatto carne, vediamo ora cosa significhi in questo mondo il vivere o il morire senza più invocare un Dio, né messo in croce né rinchiuso in qualche teiera. «Non fiutiamo ancora il lezzo della divina putrefazione? Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso!» Nell'aforisma n. 125 della Gaia scienza (1882) di Friedrich Nietzsche così grida «l'uomo folle», che irrompe nella piazza del mercato, mentre gli altri restano indifferenti o imperturbabili. Chi sarà mai quel matto? Θ uno che, a modo suo, fornisce paradossalmente una prova di esistenza non più nel rigore geometrico di Anselmo o di Cartesio, bensì nel colore livido della Passione: se Dio è morto, vuol dire che prima esisteva, anche se ora non esiste più. E «l'uomo folle» dichiara che noi tutti siamo gli assassini: «Ma come abbiamo fatto questo? Come potemmo vuotare il mare bevendolo fino all'ultima goccia? Chi ci dette la spugna per strofinare via l'intero orizzonte? Che facemmo per sciogliere questa Terra dalla catena del suo Sole? Dov'è che si muove ora? Dov'è che ci muoviamo noi? Via da tutti i Soli?» Avremmo così liquidato Dio entro la nostra cultura, il nostro intelletto, la nostra coscienza, il nostro modo di vivere. Attenzione a quel «via da tutti i Soli»: Nietzsche è piuttosto rigoroso nel trarre «le conseguenze nichilistiche della [...] scienza della natura», perché, ci dice, «da Copernico in poi 'l'uomo rotola dal centro verso la x». Per lui sembrerebbe valere il secondo corno del dilemma di Nozick: c'è davvero un universo le cui leggi spiegano i fenomeni e niente Teiera volante! Ma quell'universo è tanto «determinato» dalle leggi che i fisici e le altre persone di scienza così pazientemente individuano quanto lo era l'unico Dio di Ash'arξ! Dovremmo considerare le teorie scientifiche come «metafore», concedendo la loro efficacia (per esempio sul piano tecnologico, ma non solo), senza dare alcuna «interpretazione materiale»? La concezione della scienza di Nietzsche (così icasticamente espressa in quel «verso la x») si oppone e non è l'unica a quel realismo filosofico per cui le nostre teorie dovrebbero essere resoconti «letteralmente veri» di come stanno le cose «in realtà». Analogamente, quanto si deve prendere sul serio l'immagine nietzscheana della «morte di Dio»? Rottura evidente col Cristianesimo? O accordo profondo, più di quanto non sospetti un lettore frettoloso? | << | < | > | >> |Pagina 176[...] Paolo (Prima lettera ai Corinzi 15,14): «Se Cristo non è risuscitato, vana è adunque la nostra predicazione, vana è ancora la vostra fede».
Gli esperti di teologia che oggi voltano le spalle
a questo avvertimento mi paiono esattamente
speculari agli
esprits forts
descritti da Bayle, che
già allora non si stancavano di escogitare controprove «geometriche» per negare
un Dio trascendente, la Trinità, l'Incarnazione, la Resurrezione
di Cristo ecc. Ma quel
pensiero forte
non scalfiva la fede cristiana, né lo farebbe oggi, più di quanto
difendano il Cristianesimo le retoriche di coloro
che dichiarano di «credere di credere», castrando
la pregnanza dell'asserzione paolina. Domanda: in
cosa
crede
chi
crede?
Paradossalmente, tocca all'ateo irriverente, non rassegnato, che fa del proprio
ateismo una questione di metodo, rispondere
prendendo il Cristianesimo come scelta di vita
più sul serio di quanto facciano certi specialisti
della Parola del Signore. Di fronte alla loro debolezza intellettuale mi sento
spinto, almeno per amicizia verso i credenti onesti, a difendere il nucleo
profondo della loro fede che quei «teologi»
compiacenti sono invece disposti a svendere in
cambio di consolazioni a buon mercato. Se mai
dovessi credere nel Dio dei cristiani, che me ne
farei di un Cristianesimo privato della sua componente escatologica e ridotto a
una qualche versione di platonismo, magari riverniciata con
estrapolazioni più o meno vaghe tratte alla
rinfusa dalla fisica quantistica, dalla cosmologia
del Big Bang o dalla biologia postdarwiniana?
Aveva ragione Heidegger: Dio non ha bisogno
di teologi siffatti. Modestamente, neanch'io.
Debolezza teologica e forza ateistica Per contrasto: c'è ancora bisogno di un ateismo militante, difeso da una legione di dottrinari, che si dedichino allo smantellamento dei capisaldi di questa o quella rivelazione? Come lettrici e lettori avranno intuito, ritengo futile un ateismo che pretenda di fondarsi su un corpus di prove della non esistenza di Dio. E continua a stupirmi chi proclama che «dopo Hume e dopo Darwin» il corso del pensiero dovrebbe «imporre al filosofo l'ateismo». Né lo Hume scettico della Storia naturale della religione né il Darwin agnostico dell' Autobiografia avrebbero mai inteso che le loro analisi filosofiche o scientifiche dovessero imporre qualosa del genere; ed è bene rammentare che in filosofia non si impone un bel nulla, e che un filosofo degno di questo nome non accetta imposizioni, e non si sogna di farne agli altri. Nella Lettera ai cercatori di Dio (2009) della Conferenza Episcopale Italiana c'è un paragrafo intitolato «Tanti modi di servire»: sono troppi; anzi, è di troppo anche uno solo. La forza dello spirito, per l'ateismo, non sta nel dimostrare che Dio non c'è, bensì nel rifiuto di riconoscerlo come un padrone: Non serviam, come dice Stephen Dedalus nell' Ulisse di Joyce , ove quel giovane «ateo cattolico» esibisce la sua pratica miscredenza nella più nota casa di malaffare di Dublino. E già Bayle: «Tutti sanno che le grandi città sono piene di luoghi infami, e che quell'angolo di mondo, in cui noi crediamo che Dio abbia stabilito la Santa Cattedra Apostolica, è letteralmente sommerso dalla lussuria». Kierkegaard: le luterane rocche del Protestantesimo non stanno meglio di Roma; ogni chiesetta di un Cristianesimo addomesticato al raziocinio dei mediocri è più oscena di qualunque taverna. Così si diceva tre o due secoli fa. Attualizzando, potremmo affermare che è meglio la discoteca. | << | < | > | >> |Pagina 188«Se questo discorso vi piace e vi sembra forte, sappiate che esso proviene da un uomo che s'è messo in ginocchio prima e dopo, per pregare quell'Essere infinito e senza confini, al quale egli sottomette tutto il suo essere affinché si sottometta anche il vostro essere per il vostro bene e per la sua gloria; e sappiate che così la forza si accorda con questo abbassamento.»Con questa piccola confessione, che sa di autobiografia, Pascal si è tradito. Da atei «protestanti» rivolti al cattolico «scettico»: mai, mai e poi mai saremo disposti a rinunciare alla nostra libertà di stare in piedi davanti a qualsiasi Essere (nome o verbo che sia), anche «infinito e senza confini», per ricevere in cambio quel gioco speculare di sottomissione che la pagina dei Pensieri rende così efficacemente. A parte lo stile (magnifico), il discorso di Pascal non mi piace né mi pare stringente. Ma sento per lui gratitudine: ho trovato (grazie a un cattolico) la risposta al problema che ponevo nel Prologo: ateismo per me ora vuol dire niente abbassamento. | << | < | > | >> |Pagina 191Ni dieu ni maξtre, ovvero né dio né padrone, recita il motto degli anarchici. Mi piace. | << | < | > | >> |Pagina 195Nel lontano 1962 l'epistemologo Imre Lakatos , guardando retrospettivamente a un secolo di studi sui fondamenti della matematica, si chiedeva: «Perché andare in cerca di test ultimi o di autorità finali? Perché i fondamenti, se si ammette che sono soggettivi? Perché non riconoscere onestamente la fallibilità [della matematica] piuttosto che illuderci di riuscire a rammendare in modo invisibile l'ultimo strappo nel tessuto delle nostre intuizioni?» Sostituiamo nel testo di Lakatos solidarietà a matematica. Quella che noi cerchiamo è una solidarietà fra individui, ciascuno indipendente nelle proprie scelte. C'è ancora bisogno di fondarla su qualche «solida roccia»? Non possiamo ammettere, invece, che vogliamo costruire qualcosa come una rete senza centro (cioè senza una gerarchia con un Papa al vertice della piramide), una democrazia che guarda con sospetto persino all'idea di una sovranità democratica perché teme la collera dell'individuo «comune» nel senso di Chesterton ? Pare sia abbastanza invalso, in alcune democrazie del nostro Occidente, pensare che governi eletti a (larga) maggioranza siano per ciò stesso «unti dal Signore»: ma è un doppio errore. Primo, perché il Signore (forse) non c'è; ma se anche ci fosse, questa non sarebbe ancora una ragione per obbedirgli, o meglio per obbedire ai rappresentanti terreni di quel potere che godrebbe della garanzia divina: rivendichiamo la libertà dell'ateo, che è quella di «resistere» a quel Dio. Secondo, perché, anche sotto il profilo storico, i più vitali esperimenti democratici sono quelli che inseriscono nelle loro carte costituzionali un sistema di checks and balances (controlli e contrappesi) che fanno sì che una democrazia non totalitaria garantisca per prime le minoranze (sì, anche quelle formate da un solo individuo!) contro la tirannia della maggioranza, magari riassunta in un uomo solo. Sicché nessun mandato plebiscitario può far di costui un intermediario tra noi e il Signore. Il detto vox populi vox Dei non piace a chi ha gustato l'ateismo della libertà: se mai Dio parla, parla alla e nella coscienza dei singoli e non ha nessuna «voce di popolo»; e il popolo stesso, in questa accezione totalizzante, non è che un feticcio, di cui l'ateo ha tutto il diritto di farsi beffe (sicché, per esempio, una locuzione come popolo delle libertà è fuorviante peggio di circolo quadrato).
Per il fatto di essere prive di giustificazione teologica saranno meno
significative le nostre azioni,
nelle nostre singole esistenze come nella vita associata, specie se intese alla
cooperazione di individui liberi con altri individui liberi? Si potrà obiettare
che non sapremo mai se queste nostre azioni
sono «buone»! Lo concediamo,
non
lo sapremo mai
con certezza,
e le nostre valutazioni non saranno che fallibili congetture, rivedibili e
migliorabili. Tuttavia, «il problema di come vivere, agire,
lottare, morire quando non ci si può affidare
che a congetture» (Lakatos) costituirà questo
sì! la sfida per un nuovo Illuminismo, inteso
non solo come uno strumento di difesa dalle forme di dispotismo con cui saremo
chiamati a confrontarci ma come un buon compagno di strada
anche per quelli che ancora avvertono il bisogno
di amore che in passato è stato chiamato
Dio.
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