Copertina
Autore Lawrence M. Krauss
Titolo Dietro lo specchio
SottotitoloIl misterioso fascino delle dimensioni addizionali, da Platone alla teoria delle stringhe e oltre
EdizioneCodice, Torino, 2007 , pag. 290, ill., cop.fle., dim. 14,3x21,5x1,8 cm , Isbn 978-88-7578-070-8
OriginaleHiding in the Mirror. The Mysterious Allure of Extra Dimensions from Plato toString Theory and Beyond [2005]
TraduttoreSergio Orrao
LettoreCorrado Leonardo, 2007
Classe fisica , cosmologia
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Indice


    Reminiscenza
 xi Una storia d'amore dimensionale

    Capitolo 1
  3 Vivere nello spazio: un privilegio?

    Capitolo 2
 15 Dalle zampe delle rane ai campi

    Capitolo 3
 27 In cammino verso la relatività

    Capitolo 4
 35 La quarta dimensione

    Capitolo 5
 49 L'universo perturbato

    Capitolo 6
 63 La misura di tutte le cose

    Capitolo 7
 75 Da Flatlandia a Picasso

    Capitolo 8
 95 Il primo universo nascosto:
    una dimensione addizionale della fisica

    Capitolo 9
109 Andata e ritorno, per l'ennesima volta

    Capitolo 10
127 Sempre più curiosi!

    Capitolo 11
137 Via dal caos!

    Capitolo 12
151 Alieni da altre dimensioni

    Capitolo 13
167 Un nodo indissolubile

    Capitolo 14
187 Super-tempi per super-mondi

    Capitolo 15
203 M come "mamma"

    Capitolo 16
223 D come "braneworld"

    Capitolo 17
243 Una teoria del nulla?

    Epilogo
263 Bellezza e verità

275 Ringraziamenti

277 Glossario

287 Indice analitico


 

 

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Pagina xi

Reminiscenza

Una storia d'amore extradimensionale


Una coppia di genitori viene svegliata nel cuore della notte: sentono in lontananza il pianto della loro bambina. Il padre si precipita nella sua stanza da letto, ma la figlia non c'è più. Si mette disperatamente a cercarla dappertutto, fino a doversi dolorosamente convincere che è davvero scomparsa. La moglie sopraggiunge poco dopo, sopraffatta dal panico. Non sapendo che pesci pigliare, l'uomo si catapulta nel soggiorno, solleva la cornetta e chiama un vicino. Dopo essere tornato dalla moglie, pronuncia una frase che è probabilmente unica in tutta la storia dei copioni televisivi. Ecco cosa le dice: «Bill sta arrivando. Dopotutto è un fisico! Dovrebbe poterci dare una mano!».


Quarantadue anni fa, quand'ero ancora molto giovane, questo episodio della serie Ai confini della realtà, intitolato Little Girl Lost, riuscì letteralmente a terrorizzarmi. Facendo leva su una comune angoscia infantile, la paura d'essere separati dalla sicurezza dell'ambiente familiare e dalla protezione dei genitori, quella puntata narrava di una bambina precipitata in un'altra dimensione.

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Pagina 3

Capitolo 1

Vivere nello spazio: un privilegio?


Chiamo il nostro mondo Flatlandia non perché sia così che lo chiamiamo noi, ma per renderne più chiara la natura a voi, o Lettori beati, che avete la fortuna di abitare nello Spazio. EDWIN A. ABBOTT


Così comincia quello che, probabilmente, è il più famoso racconto matematico che sia mai stato pubblicato. Fu scritto nel 1884, ovvero 21 anni prima che Albert Einstein rivoluzionasse la nostra cognizione del tempo e dello spazio. L'autore era un esperto della letteratura shakespeariana, il reverendo Edwin A. Abbott, che lo firmò però con lo pseudonimo di "A. Square". Flatlandia è il racconto graffiante propostoci da un malinconico essere bidimensionale, che ha appena scoperto l'esistenza miracolosa di uno spazio tridimensionale e vorrebbe disperatamente poterne approfittare. L'infelice eroe di questa saga non può quindi far altro che esortare tutti noi, fortunati abitanti di Spacelandia, a riconoscere la bellezza degli universi extra-dimensionali che ha potuto immaginare grazie alla sua scoperta.

Più o meno nello stesso periodo in cui Abbott procedeva alla stesura del suo Flatlandia, un solitario e tragico artista del continente europeo stava immaginando un altro universo, posto anch'esso al di là dei confini della percezione umana. Vincent Van Gogh era un genio tormentato e si dice che nella sua vita abbia venduto soltanto una delle sue opere. Eppure oggi non è possibile percorrere una qualsiasi via di Amsterdam senza notare nelle vetrine dei negozi riproduzioni dei suoi indimenticabili autoritratti o dei paesaggi con i tipici cieli gialli e la terra blu. Nel 1882, Van Gogh scriveva al fratello, suo unico sostenitore: «Sono certo di avere una sensibilità per il colore e la renderò sempre più profonda». Con i suoi dipinti Van Gogh ha liberato la nostra mente dalla "tirannia" del colore, sfidandoci a immaginare gli oggetti della vita quotidiana in modi completamente diversi, e dimostrando così che ci sono realtà esotiche che possono essere svelate persino negli oggetti più comuni. Se le sue opere ci ammaliano non è per la loro assoluta eccentricità, ma per il fatto che sono insolite quanto basta per permetterci di cogliere l'essenza della realtà, costringendoci nel contempo a riesaminarne la sua vera natura.

Ecco in cosa consiste il fasto e la sontuosità dell'arte e della letteratura: creare mondi immaginari che ci spingono a riconsiderare la nostra posizione nel contesto del nostro stesso mondo. Anche la scienza ha un impatto del genere. Anch'essa svela infatti una gamma alternativa di realtà misteriose, che però speriamo possano esistere realmente e che, soprattutto, ci auguriamo possano essere misurate. Comunque sia, il risultato è analogo: alla fine otteniamo una nuova interpretazione della nostra collocazione in seno all'universo.

Tutte queste manifestazioni della creatività umana riflettono l'essenza della nostra capacità immaginativa, la scintilla che eleva la nostra esistenza trasportandoci dall'ordinario allo straordinario. Se non potessimo immaginare un mondo diverso da quello in cui viviamo, probabilmente la realtà della nostra esperienza risulterebbe intollerabile.

Forse è proprio tale capacità immaginativa a meglio descrivere in cosa consista l'essere umani. Ben 14000 anni fa, in quella che oggi chiamiamo Francia, un vecchio antenato dell'Era glaciale fece una passeggiata con un ragazzino, penetrando in quella che si pensa sia stata una zona tabù. Nella profondità di una caverna sotterranea, l'adulto appoggiò la piccola mano del giovane sulla parete e la cosparse di un pigmento blu. Lasciò così un'impronta, del tutto simile a un'ombra, che possiamo ammirare ancora oggi.

Non sapremo mai quale sia stato lo scopo di quell'avventura. Aveva qualche misterioso connotato spirituale, o si trattava di un semplice gioco? Di certo non era un'attività comune, giacché i nostri antenati Cro-Magnon non erano soliti vivere nei profondi recessi di caverne di quel genere. Quale che fosse il suo scopo, rappresenta qualcosa di speciale, che nell'albero dell'evoluzione distingue nettamente la razza umana dai suoi parenti più prossimi.

Non intendo riferirmi all'arte in quanto tale. Voglio piuttosto far notare il suo connotato più profondo, la rappresentazione simbolica del sé che si riflette nell'arte. L'idea che quell'impronta sulla parete possa registrare in modo permanente la presenza dei due individui che si trovarono un giorno nella caverna implica non solo una testimonianza della loro stessa esistenza, ma anche il loro desiderio di preservarne una qualche traccia a dispetto delle vicissitudini di quel mondo così pericoloso. In pratica è proprio dalla percezione del sé che nasce la consapevolezza di tutto ciò che non è sé, ovvero delle «possibilità infinite dell'esistenza», come le definisce in una certa occasione il semidio alieno Q della serie Star Trek.

Il fatto che persino i primi umani abbiano considerato tali eventualità sconosciute è testimoniato dall'esistenza di altre rappresentazioni artistiche, antecedenti l'arte rupestre francese di almeno 18000 anni. In una caverna presso il sito archeologico di Hohlenstein-Stadel, nell'attuale Germania, è stata scoperta una statuetta dell'altezza di circa 30 centimetri raffigurante un essere umano in posizione eretta. Ancor più dell'abilità dell'artista che la creò, sorprende la concezione dell'opera: la statuetta d'avorio di mammut non ha una testa umana, ma leonina.

Possiamo ipotizzare che si tratti di una delle più primitive rappresentazioni di una divinità? O forse sta a significare semplicemente che, visto che esisteva il leone, e che esistevano pure gli umani, da qualche parte poteva ben esserci un'esotica combinazione delle due specie? Anche in questo caso sarà ovviamente ben difficile ottenere una risposta, e non sapremo mai cosa si proponesse quel nostro antenato scultore. Resta però la dimostrazione di una capacità d'immaginazione artistica, in relazione alle circostanze di questo o di un altro mondo.

Nei 300 secoli trascorsi dalla realizzazione di quell'opera, la civiltà e l'immaginazione umana si sono evolute considerevolmente. Tra le nostre attuali opere d'arte e quei primi tentativi è rimasto peraltro un collegamento fondamentale: quando immaginiamo il mondo che non abbracciamo con la nostra esperienza, stiamo scavando nelle profondità della nostra stessa psiche.

Con la celebre citazione da I confini della realtà con cui ho iniziato quest'opera, Rod Serling ci dice che l'immaginazione rappresenta la terra di confine tra scienza e superstizione. Tenendo ciò a mente, il nocciolo della faccenda è scoprire fino a che punto la nostra capacità immaginativa rifletta le nostre stesse predilezioni, o possa invece rispecchiare la realtà in tutte e per tutto.

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Pagina 75

Capitolo 7

Da Flatlandia a Picasso


    Sempre più giù, lungo la corrente.
    Indugiando in questo bagliore dorato.
    Cos'è la vita, se non un sogno?

    LEWIS CARROLL



Per quanto la vita possa imitare l'arte, è parimenti vero il contrario. Ci si potrebbe quindi chiedere se fu solo per coincidenza che la pubblicazione di Flatlandia, il già citato romanzo di Abbott, ebbe luogo entro un decennio dalla scoperta di Maxwell sugli altrimenti invisibili campi magnetici ed elettrici, e meno di un decennio prima dell'esperimento di Michelson-Morley sulla natura dell'etere e delle ipotesi pionieristiche di Lorentz sulla natura dello spazio. C'era forse qualcosa nell'aria, negli ambienti intellettuali dell'epoca, che lasciava presagire che si sarebbe ben presto giunti a una fase rivoluzionaria nella nostra comprensione della natura?

Per molti versi, la risposta a quest'interrogativo è chiaramente negativa. Dopotutto, la celebre dichiarazione di Lord Kelvin , con cui si asseriva che tutte le leggi della fisica erano ormai state scoperte e che non restava altro che procedere a misurazioni sempre più accurate, risale proprio al 1900. Eppure, nonostante quella tracotanza, gli interrogativi scientifici e matematici circa la natura del tempo e dello spazio avevano già cominciato a manifestarsi in campo letterario per più di un secolo prima che Abbott scrivesse il suo Flatlandia.

Fu nel 1754 che si fece per la prima volta cenno alla possibilità che il tempo potesse essere considerato una quarta dimensione. Per l'esattezza quell'idea fu pubblicata in un articolo di Jean Le Rond d'Alembert sulle "dimensioni" nel contesto della sua Encyclopédie, sebbene egli avesse attribuito l'idea a un amico, che presumibilmente era il matematico francese Joseph-Louis Lagrange. Un centinaio d'anni dopo, Gustav Fechner, psicologo e spiritualista tedesco, scrisse una satira in cui appariva un "uomo-ombra", ovvero la proiezione dell'ombra di una figura tridimensionale. È interessante notare come Fechner avesse ipotizzato che quel genere di "figure d'ombra" potessero interpretare gli effetti del moto perpendicolarmente al piano della loro esistenza (che, ovviamente, non potevano percepire come movimento nello spazio) come se si trattasse dello scorrere del tempo. L'interesse di Fechner per le dimensioni addizionali e per lo spiritualismo lasciava presagire, come vedremo, eventi che avrebbero avuto luogo una cinquantina d'anni dopo.

In definitiva il concetto di tempo come quarta dimensione venne reso famoso nel contesto della cultura popolare una decina d'anni prima della relatività speciale di Einstein e 13 anni prima che Minkowski chiarisse la relazione dimensionale tra spazio e tempo; a farlo fu nientedimeno che H.G.Wells in quello che sarebbe divenuto un classico della fantascienza: La macchina del tempo, pubblicato nel 1895.

Nella prima pagina del racconto, l'eroe di Wells, il Viaggiatore nel tempo, illustra la sua conoscenza a un pubblico invitato per l'occasione:

«Seguitemi attentamente: dovrò contraddire un paio di idee che sono quasi universalmente accettate. Per esempio, la geometria come ve l'hanno insegnata a scuola è basata su una concezione errata».

«Non è forse un pò troppo pretendere che incominciamo con un argomento così importante?», l'interruppe Filby, un tipo dai capelli fulvi, cui piaceva cavillare.

«Non intendo farvi accettare nulla di infondato; ammetterete ben presto anche voi quanto vi chiedo. Sapete certamente che una linea matematica, una linea di spessore zero, non ha reale esistenza. Ve l'hanno insegnato, vero? Lo stesso dicasi per il piano matematico: si tratta di semplici astrazioni».

«Giusto!», disse lo Psicologo.

«Neppure un cubo, che abbia solo lunghezza, larghezza e spessore, può avere reale esistenza».

«Qui non sono d'accordo disse Filby. «Ma certo che un corpo solido può esistere. Come tutte le cose reali».

«È così che la pensa la maggior parte della gente. Ma aspettate un momento. Credete che un cubo ISTANTANEO possa esistere?».

«Non la seguo», fece Filby.

«Un cubo che non dura neppure per un istante, può avere un'esistenza reale?».

Filby si fece pensieroso. «Ovviamente - continuò il Viaggiatore nel tempo - qualsiasi corpo reale deve estendersi nelle QUATTRO direzioni: deve cioè possedere lunghezza, larghezza, spessore e anche durata. Tuttavia, a seguito di una naturale debolezza della carne, di cui vi parlerò tra qualche istante, siamo inclini a trascurarlo. Ci sono davvero quattro dimensioni, tre delle quali possono essere definite i piani dello spazio, mentre la quarta è il tempo. Ma c'è peraltro la tendenza a stabilire una distinzione illusoria tra le prime tre dimensioni e l'ultima, perché la nostra coscienza continua a muoversi in modo intermittente nella stessa direzione del tempo, dall'inizio alla fine della nostra vita».

«Ecco!», fece un giovane, mentre tentava spasmodicamente di riaccendersi il sigaro sul lume. «Ecco... Davvero molto chiaro!».

«Orbene, è davvero singolare che tale dato di fatto sia trascurato collettivamente», continuò il Viaggiatore nel tempo, con un leggero moto di compiacimento. «In realtà è proprio ciò che s'intende dire quando si parla di quarta dimensione, sebbene ci siano persone che, pur menzionandola, non sanno di che cosa si tratti. Si tratta solo di una valutazione alternativa del tempo. NON C'È DIFFERENZA TRA IL TEMPO E UNA QUALSIASI ALTRA DIMENSIONE DELLO SPAZIO, ECCETTO IL FATTO CHE LA NOSTRA COSCIENZA LO SEGUE. Peraltro alcuni sciocchi hanno interpretato tutto ciò alla rovescia. Avete sentito che cosa dicono a proposito di questa quarta dimensione?».

«Io no», disse il Procuratore distrettuale.

«È semplice. Allo spazio, così come inteso dai nostri matematici, sono attribuite tre dimensioni, che potremmo chiamare lunghezza, larghezza e spessore; lo spazio è inoltre sempre definibile in riferimento a tre piani, ognuno dei quali è posto ad angolo retto rispetto agli altri. Però alcuni filosofi si sono chiesti perché TRE dimensioni in particolare, e perché non un'altra direzione ad angolo retto rispetto alle prime tre, e quindi hanno costruito una geometria a quattro dimensioni. Il professor Simon Newcomb ne ha parlato alla New York Mathematical Society solo un mese fa. Come sapete, su una superficie piatta, che ha solo due dimensioni, è possibile raffigurare un solido tridimensionale, e così questi signori pensano che attraverso modelli delle tre dimensioni se ne potrebbe rappresentare una quarta, basterebbe riuscire a capire come costruirne la prospettiva. Capito?».


Si tratta di un passo sorprendente, non solo perché Wells vi anticipava la connessione tra spazio e tempo in una struttura a quattro dimensioni, ma perché riconosceva correttamente che ciò che affascinava gli scrittori e il loro pubblico non era una quarta dimensione temporale, ma spaziale.

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Pagina 79

Il matematico Charles Dogson - meglio conosciuto come Lewis Carroll (pseudonimo con il quale firmò Alice nel paese delle meraviglie e altre opere) - partecipò anch'egli alla popolarità degli esseri bidimensionali. In un racconto del 1865, intitolato Dynamics of a Particle, descrisse una storia d'amore tra una coppia di lineari, animali dotati di un occhio solo e in movimento su una superficie piatta. La prima volta che ne ho sentito parlare questa faccenda mi ha particolarmente incuriosito, perché a quanto potevo ricordare Attraverso lo specchio (1872) era il primo racconto in cui s'ipotizzava la presenza di un mondo sconosciuto, celato proprio sotto i nostri occhi. Inoltre si trattava di un mondo che mi aveva affascinato sin da piccolo, tant'è vero che il titolo stesso di questo libro ne trae ispirazione. E se il mondo che si nascondeva dall'altra parte dello specchio fosse stato reale?

Ho poi appreso che in realtà Dodgson intendeva ironizzare sul fascino che il motivo letterario della quarta dimensione esercitava sui lettori britannici dell'epoca. Il mondo speculare da lui descritto, fatto di pezzi degli scacchi parlanti e di gigli cinesi, potrebbe non sembrare direttamente atto allo scopo, almeno non agli occhi di un lettore moderno, ma a quanto pare la psicologia dei lettori britannici del XIX secolo era più sensibile a quel genere di satira. E comunque i ricordi della regina bianca riguardavano sia il passato che il futuro, quindi il tempo pareva davvero essere fortemente implicato nella faccenda. O forse i poteri di quella regina, che riusciva a credere a sei cose impossibili prima di far colazione, erano lo strumento di cui Dodgson si serviva per prendere per i fondelli i capricci dell'epoca. In realtà, alla fine lo stesso Dodgson avrebbe poi finito per interessarsi all'occulto, e con ciò è facile presumere che cessò anche il suo scetticismo rispetto alle dimensioni addizionali.

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Pagina 123

Comunque sia, dopo che Hubble ebbe scoperto l'espansione del cosmo il nostro modo di concepire la storia "universale" cambiò radicalmente. Infatti, se l'universo si sta tuttora espandendo, in precedenza doveva evidentemente essere più piccolo. Ipotizzando che l'espansione sia proseguita senza pause fino a oggi, e ripercorrendone la storia a ritroso, giungiamo alla conclusione che in un certo preciso momento del passato l'universo visibile fosse tutto quanto racchiuso in un punto. Ciò implica innanzitutto che esso abbia avuto un inizio. In realtà, allorché Hubble prese a misurare il tasso di espansione al fine di determinare l'età dell'universo, trovò un limite massimo di due miliardi. Si trattava di un risultato imbarazzante, perche tutti già sapevano - e lo sanno bene ancor oggi (eccezion fatta forse per i consigli scolastici dell'Ohio, della Georgia e del Kansas) — che la Terra risulta molto più vecchia. Fortunatamente Hubble si era sbagliato (inaugurando così un'ormai nobile tradizione di abbagli cosmologici): quella sua prima misurazione era 10 volte inferiore al valore ottenuto oggi, che ci porta a valutare l'età dell'universo in circa 14 miliardi di anni.

Peraltro l'espansione accertata da Hubble non aveva come unica conseguenza che l'universo avesse un'età definita. Continuando a procedere a ritroso nel tempo, si riducono anche le dimensioni della regione occupata dagli universi attualmente osservabili. Originariamente, corpi macroscopici come le stelle e le galassie dovevano trovarsi racchiusi, ammassati fino a occupare un volume di dimensioni inferiori a quelle di un atomo. In tal caso, la fisica a cui erano vincolati quei primissimi momenti del Big Bang doveva implicare processi su scala infinitesimale. E su quella scala, almeno per quanto ne sappiamo, regnano sovrane le bizzarre leggi delle meccanica quantistica. Ecco quindi che, andando ad analizzare proprio quei primi istanti, in cui tutta la materia dell'universo osservabile era raccolta virtualmente in un singolo punto, scopriamo che la natura stessa dello spazio (e probabilmente anche quella del tempo) poteva essere totalmente diversa. Forse l'intero universo, così come lo conosciamo, emerse da dietro lo specchio, da un'altra dimensione della vista e del suono. Improvvisamente, dovendoci confrontare con una possibile singolarità agli albori del tempo, la verità diventa più inconcepibile della fantascienza.

Sebbene il passato rappresenti un argomento di grande fascino, il futuro di norma è di interesse pratico superiore. E un universo tuttora in piena espansione potrebbe avere tre possibili esiti: l'espansione potrebbe continuare all'infinito senza incontrare ostacoli, oppure rallentare senza mai fermarsi, o ancora arrestarsi e trasformarsi in un progressivo collasso gravitazionale. Nella parte restante del XX secolo, i cosmologi avrebbero continuato a spremersi le meningi, nel tentativo di determinare quale destino spettasse al cosmo, sulla base della grandezza di ogni singolo termine delle equazioni di Einstein riferite a un universo in espansione. Negli anni Novanta si era pensato che la risposta definitiva fosse finalmente a portata di mano. Ma l'universo ci ha sorpreso un'altra volta (sembra davvero che il suo stile sia questo!). Come vedremo, sembra proprio che sia lo spazio vuoto - e non la materia o la radiazione - a poter determinare cosa ne sarà di noi. Aver cercato di capire la nascita del cosmo ci ha costretti a valutare la natura ultima dello spazio e del tempo. Oggi constatiamo che il nostro stesso futuro potrebbe dipendere dal fatto che ci sia molto più spazio vuoto di quanto riescano a percepire i nostri occhi.

Queste rivoluzioni nella comprensione dell'universo su scala fondamentale, dall'esistenza dell'antimateria e delle particelle virtuali all'apparente esplosione demografica di particelle e forze, fino alla natura dinamica dello stesso spazio, hanno completamente trasformato il panorama della fisica e trasfigurato gli interrogativi sulla natura a cui i fisici potrebbero trovarsi a dover rispondere. Fortunatamente, buona parte della confusione generata da quelle inattese scoperte è già stata interpretata e risolta (ne parleremo nei prossimi capitoli). Ma restano ancora diversi punti oscuri e nel contempo si sono manifestati altri enigmi, il che ha reso le conquiste preliminari della fisica dell'inizio del XXI secolo stranamente simili alle speculazioni filosofiche che ispirarono così profondamente Poincaré , Wells, Picasso e gli altri artisti e scienziati dell'inizio del secolo precedente.

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Pagina 223

Capitolo 16

D come "braneworld"


E il piccoletto chiese a quell'altro: «Se un saggio ha un sasso, dove lo nasconde?». E il lungagnone gli rispose a bassa voce: «Sulla spiaggia». G.K. CHESTERTON


Quando ci si trova nel bel mezzo di una discussione su argomenti come le D-brane e il conteggio degli stati supersimmetrici, è facile che si finisca per dimenticare di che cosa si stava realmente parlando. Al fine di comprendere ciò che potrebbe altrimenti essere considerato un comparto della teoria fisica in un certo qual modo esoterico (mi riferisco alle possibili intersezioni di gravità e meccanica quantistica), la teoria delle stringhe (o la teoria-M, suo successore) richiede che il mondo della nostra esperienza sia considerato soltanto un riflesso di second'ordine di una realtà extra-dimensionale. Le tragedie dell'esistenza umana possono essere molto toccanti e l'evoluzione del nostro universo visibile può sembrarci straordinaria, ma, alla fine dei conti, si tratterebbe soltanto di una sorta di ripensamento cosmico.

Per qualche motivo la chiave della nostra esistenza è custodita in una vasta serie di possibilità, che benché non siano ancora ben comprese, caratterizzano un universo che dispone probabilmente di sette dimensioni addizionali, sebbene una o più di queste possano comportarsi in modo assai diverso dalle dimensioni di cui facciamo quotidianamente esperienza. Inoltre è opinione diffusa che queste sette dimensioni possano essere "compattificate", ovvero impacchettate, per ragioni ancora sconosciute, in regioni dello spazio talmente piccole che uno delle migliaia di sassi che troviamo su una spiaggia potrebbe essere, a loro confronto, vasto come una galassia. Tutto ciò trova conferme nella tradizione stabilita da Kaluza e Klein quasi un secolo fa.

Ovviamente una teoria del genere solleva profondi interrogativi, alcuni dei quali sono già stati presi in considerazione nei capitoli precedenti. Se le convoluzioni idonee alla fisica delle dimensioni addizionali ci portano infine a una rappresentazione del nostro universo a quattro dimensioni tale da riprodurre fedelmente la realtà da noi sperimentata, e nello stesso tempo tali dimensioni addizionali restano e resteranno per sempre nascoste — effimere entità teoriche inaccessibili alla sperimentazione, e forse persino alla nostra immaginazione — come potremo mai pensare che siano qualcosa di più di una semplice costruzione matematica? E soprattutto, in un contesto del genere, che significato attribuiamo al termine "reale"?

A volte mi chiedo se Michael Faraday abbia mai ritenuto le sue fantastiche congetture (che risalgono al 1840) sugli ipotetici campi elettrici e magnetici che permeavano lo spazio troppo semplici e belle per non poter esistere realmente. O forse le considerava semplici stratagemmi matematici, messi lì apposta perché anche un profano, privo d'istruzione matematica (come lui, del resto) potesse capire in modo intuitivo alcuni frammenti del mondo fisico?

Come ho già osservato, nel mondo della fisica c'è, inutile negarlo, tutta una nobile tradizione di espedienti matematici che alla fin fine si sono rivelati essere dotati di realtà fisica. I campi magnetici di Faraday sono soltanto uno dei tanti esempi possibili. Anche i quark, al momento della loro prima introduzione, erano considerati soltanto uno schema di classificazione matematica, piuttosto che entità dotate di vera e propria esistenza. E in quanto a ciò, lo stesso può dirsi per gli atomi. In effetti, Ludwig Boltzmann si suicidò, in parte, proprio perché aveva intuito di non poter dimostrare ai suoi contemporanei che gli atomi erano necessariamente reali.

D'altro canto molti dei modelli matematici fin qui proposti non hanno alcuna relazione col mondo reale, e tra questi troviamo persino quelle congetture matematiche che in certo periodo della loro storia sono sembrate custodi delle più grandi promesse. Ecco perché le domande formulate in precedenza restano di grande attualità, e in mancanza di una conquista teorica capace di regalarci una previsione corretta delle leggi della natura, che corrisponda inequivocabilmente a quanto osservato, l'unico modo per appurare se qualcuna di queste ipotesi extra-dimensionali sia sensata è riuscire in qualche modo a investigare sperimentalmente le dimensioni addizionali, in modo diretto o indiretto.

Per tradizione, nel contesto della teoria delle stringhe tale obiettivo è sempre sembrato assolutamente irraggiungibile. Se davvero la scala della teoria delle stringhe è paragonabile a quella Planck (circa 10^-33 cm, condizione nella quale tutti gli effetti quanto-meccanici della gravità dovrebbero diventare importanti), si tratta di qualcosa che nessuna ricerca e nessun laboratorio potrà mai lontanamente avvicinare.

Immaginiamo di osservare la nostra galassia attraverso un telescopio, posto a enorme distanza in un'altra remota galassia. Immaginiamo inoltre che col nostro telescopio si possano a malapena risolvere le singole stelle più luminose della Via Lattea, un po' come il telescopio spaziale Hubble riesce a fare con quelle della galassia di Andromeda, che si trova a due milioni di anni luce. Ebbene, le problematiche della misurazione delle dimensioni addizionali a livello della scala di Planck sono analoghe a quelle a cui andremmo incontro se provassimo a sondare i singoli atomi della Via Lattea servendoci di un telescopio sistemato in un'altra galassia!

Comunque sia, nell'ultimo decennio si sono prodotte alcune straordinarie trasformazioni relative alla concezione stessa delle fondamenta della fisica, e sono felice di poter dire che ciò è stato il risultato delle sorprese che la natura ci teneva in serbo.

Per scuoterci e farci aprire gli occhi, la natura ha infatti prodotto uno stratagemma cosmico, sotto forma della materia oscura, un fenomeno che neppure chi si è inabissato al 100% nella matematica a 11 dimensioni può permettersi d'ignorare. In particolare, la scoperta che la materia oscura domina l'espansione dell'universo ha implicazioni importantissime, giacché sembra del tutto probabile che la sua presenza sia connessa a qualche aspetto assolutamente fondamentale nella struttura dello spazio e del tempo. E dal momento che la teoria delle stringhe ha assunto come suo "mantra" la rivelazione di profonde e nuove verità in tali aree, la comparsa inattesa della materia oscura ha rappresentato una sorta di sirena d'allarme. O come minimo è risultata talmente irritante da costringere anche i più svogliati a darle un'occhiata.

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