Copertina
Autore Camillo Langone
Titolo Il collezionista di città
SottotitoloViaggi italiani
EdizioneMarsilio, Venezia, 2006, Gli specchi della memoria , pag. 252, cop.fle., dim. 13,5x21x1,8 cm , Isbn 978-88-317-8961-5
LettoreElisabetta Cavalli, 2007
Classe citta' , collezionismo
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Indice

     9  Parma
    21  Milano
    33  Venezia
    45  Padova
    57  Trieste
    69  Emilia contro Romagna
    81  Bologna
    93  Ferrara
   101  Romagna
   113  Riccione
   125  Toscana
   137  Umbria
   149  Ancona
   161  Marche
   173  Roma
   193  Teramo
   201  Napoli
   213  Irpinia
   225  Marsala
   237  Potenza

 

 

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Pagina 9

PARMA



Le donne hanno tutte un segno zodiacale e quando da desiderabili vogliono trasformarsi in detestabili pretendono che ce l'abbia anch'io, e mi chiedono quando sono nato. L'anno, neanche se si mettono a piangere. Il giorno e il mese, ingredienti specifici dell'astrologica pozione, possono reperirli solo scendendo tutti i gradini dell'abiezione femminile: frugare nella tasca della giacca, fra i documenti, nell'agenda, alla ricerca di carta d'identità e codice fiscale. Le donne hanno tutte un segno zodiacale e quando ci si mettono puzzano di zolfo. Le città no, che io sappia non hanno segno anche se un po' di zolfo quello sì («La vita della città non è stata creata da Dio», Erskine Caldwell). Tutte senza astrologia salvo Roma, nata il 21 aprile, e Parma, nata non si sa con precisione quando ma senz'ombra di dubbio sotto il segno del Culatello (altro che Pesci, Acquario, Capricorno...) e da allora la città più fortunata d'Italia.


Parma è nata fortunata perché, dovendo scegliere fra i Bertolucci, pochi hanno letto Attilio e molti hanno visto Bernardo. Chi non ci è mai stato è convinto che sia una piccola Parigi e che si faccia un gran uso di burro non solo per cucinare. Eppure il padre la verità l'ha detta chiaramente, in una poesia che si intitola appunto Parma: «Vorrei ricostruire la città, così che dopo la sua distruzione / altri da noi vedano come essa era bella». Il Divino Egoista vedeva ciò che gli altri, turisti e concittadini, non riescono nemmeno a sospettare, con quegli occhi foderati di culatello che si ritrovano. Qui l'opera di smantellamento va avanti da almeno un secolo, bombardieri americani, architetti svizzeri, amministratori locali hanno avuto molto tempo e molti modi per accanirsi contro l'odiata bellezza. Soffrirei di meno se non avessi letto tanti libri, se non avessi guardato tante vecchie fotografie. Quando esco dalla stazione non sentirei come atroce la perdita del monumento a Giuseppe Verdi, «incautamente abbattuto nell'immediato dopoguerra» (Enciclopedia di Parma, Franco Maria Ricci), che col suo colonnato quasi berniniano abbracciava il viaggiatore facendogli sentire di essere arrivato nella città della Musica. (Nessuno a Roma penserebbe di abbattere il colonnato di San Pietro. Qui non solo lo hanno pensato, lo hanno fatto). Se non avessi in mente tante vecchie stampe non farei caso ai pessimi edifici della via che ha preso il posto dell'opera di Cusani e Ximenes, sedi di banche e camere di commercio in stile moderno e quindi già obsoleto, vetrocemento troppo costoso da mantenere, da riscaldare (inverni freddissimi, la notte di Natale -9,2 gradi) così come da rinfrescare (estati torride e condizionatori a palla per i blackout prossimi venturi). Nel piazzale della Pilotta vedrei semplicemente un campo da golf (passando di giorno) o un cimitero americano (di notte con le lucine) e non invece il Grande Buco che i parmigiani hanno accettato al posto di quello che fu il cuore della città ducale. (Dov'è finito il teatro Reinach dove D'Annunzio declamava? Nel Grande Buco firmato Mario Botta. Dov'è finito il Palazzo Ducale dove Maria Luigia ducheggiava? Nel Grande Buco firmato Mario Botta). Se non li avessi visti in un allegato della «Gazzetta» non rimpiangerei, passando davanti al Regio, gli Archi della Posta, quinta scenografica che separava con grazia e misura le funzioni urbane. Sottopassandoli si poteva godere la sensazione molto italiana di un rapido, agevole passaggio dal Potere al Piacere, dal Palazzo al Teatro e viceversa: un'emozione abbattuta ai primi del Novecento dal sindaco Mariotti che in premio ebbe intitolato un viale (avendo abbattuto non muri bensì cristiani, Tito è stato ritenuto a Parma meritevole non di uno ma di due toponimi, un largo e una via). Questi e altri brividi melanconici sono racchiusi in un piccolo oggetto meraviglioso, il Meridiano Mondadori dedicato ad Attilio. Ma Parma è fortunata: la gente compra i Meridiani solo perché fanno bella figura in libreria. I film invece li guarda davvero e al cinema la città torna a splendere sotto l'egida del succitato salume (e dei bravissimi direttori della fotografia di Bernardo).


Da qualche parte in Italia c'è sempre un ipocrita lettore, e oggi costui si domanda come mai Calisto Tanzi venga criticato solo ora. Se non si può dire la verità di un potente in disgrazia di chi mai si potrà dire? Di Dolce & Gabbana forse? O di Tronchetti Provera? Di Miuccia Prada e don Verzè? L'ipocrita lettore pensa che la casa sul cardo e una vita di agi siano pagate con l'obolo stitico che ogni giorno versa in edicola. A pagare è ovviamente la pubblicità ed è per questo che per Guido Barilla ho in serbo solo belle parole. Se compra una pagina scriverò che la mia dispensa rigurgita di pasta Barilla. Se ne compra due scriverò che il suo Barilla Center è il toccasana per la crisi del commercio del centro storico e che il Warner Village ivi inserito è una fantastica occasione di rilancio per il cinema italiano. Se non ne compra nessuna scriverò che sua moglie è bellissima (le bugie a pagamento, la verità gratis).


Non c'entra con Parma ma con la vanità della scrittura. Attilio non lo legge nessuno e va bene, è normale, è un poeta. Ma Naomi Klein è stata per mesi in classifica. Tutto inutile (se non dal punto di vista del suo conto in banca) perché sono settimane che giro per la città alla vana ricerca di un portachiavi no logo. Quello vecchio si sta sfasciando, ogni volta che apro la bici mi cadono delle chiavi e mi è andata ancora bene se nessuna ha mai infilato un tombino. Sono entrato in pelletterie di alto livello, di medio livello, di basso livello, le cui proprietarie hanno ascoltato chi allibita chi divertita chi dispiaciuta la mia curiosa richiesta: un portachiavi di pelle senza marchi, possibilmente nero o rossiccio o marrone scuro ma al limite anche di altri colori purché non a pois, di lunghezza atta a contenere chiavi tipo porta blindata. Niente da fare. E non ho fatto questioni di prezzo, a un certo punto mi sono reso disponibile anche ad acquistare un portachiavi di coccodrillo (pur se in deroga alla sostanza della mia legge morale, assomigliando un eventuale portachiavi no logo in coccodrillo a un'aragosta mangiata il venerdì per rispettare il giorno di magro). Niente da fare lo stesso. Poi mi è sovvenuto che forse l'oggetto dei miei desideri poteva trovarsi nei negozi del commercio equo e solidale, quei bugigattoli che offrono prodotti artigianali e demarcati circonfusi da un leggero tanfo di etnico che a questo punto, in mancanza di alternative, mi sarei sforzato di tollerare. Grazie agli artigiani extraeuropei ho già risolto il problema della croce, comprata a Novara in corso Cavour da un banco pre-natalizio della Compagnia delle Opere. Una croce perfetta e senza fronzoli, prodotta a Betlemme da falegnami eredi di San Giuseppe sperabilmente cristiani, in filologico legno d'olivo con delle belle venature, che mi è costata la metà della metà di quelle croci sbilenche e semiplastiche, a volte anche aerodinamiche e fluorescenti, che si trovano nei negozi di articoli cosiddetti religiosi. Ma a Novara nessuno mi conosce, e anche qualora non credo che i ciellini abbiano di che lamentarsi di me. A Parma sanno chi sono, e ho il timore che i tenutari di negozi equi e solidali non aspettino altro che di vedermi entrare nelle loro bottegucce per prendermi a pugni o a male parole. Lascio perdere, si trattasse anche soltanto di essere guardato di traverso, onde per cui continuo a perdere le chiavi in cortile, continuo a entrare in pelletterie che non hanno quello che cerco, continuo a pensare che No logo non l'abbia letto nessuno e che Naomi Klein pur non essendo di Parma sia una donna molto molto fortunata.


Calisto Tanzi peggio di Adel Smith. Il maomettano di Ofena ha cercato di togliere la croce a una classe scolastica e a una stanza d'ospedale, poche decine di persone in tutto. Il cattolico di Collecchio ha strappato la croce alla gloriosa maglia del Parma Calcio, decine di migliaia di tifosi e milioni di telespettatori. Vecchia scuola democristiana: comunione (ogni domenica mattina) e secolarizzazione (il resto della settimana). I tifosi raccolti in Settore Crociato combattono da dieci anni una battaglia per il ritorno alle origini: «La maglia crociata è stata ed è qualcosa di unico nel panorama del calcio mondiale. Spesso, molto spesso, è stata ed è ammirata e invidiata dagli appassionati di questo sport, dai collezionisti e pure dai sostenitori delle altre squadre. Facciamo fatica a comprendere le ragioni che hanno indotto l'attuale proprietà del Parma Calcio a ripudiarla». Gliele spiego io: gli uomini del marketing hanno detto a Tanzi che una croce nera in campo bianco è troppo carica di significati extra-lattieri, inoltre può dare fastidio a qualcuno da qualche parte nel mondo e che insomma un marchio planetario si vende assai meglio appiccicandolo sopra un insulso gialloblù. Detto e fatto. Consola che la giustizia non sia sempre dell'altro mondo.

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Pagina 21

MILANO



Se qualcuno è infastidito dalla parola figa lasci perdere questo capitolo, il vocabolo nauseante vi ricorre enne volte e sarebbe strano il contrario visto che tutto nasce dalla definizione che Luca Doninelli ha inserito a pagina 57 del suo ultimo libro: «Città-moglie, città-figa, città-puttana». La città è mica tanto ovviamente Milano e il libro si intitola Il crollo delle aspettative (Garzanti).

In 180 pagine non c'erano altre espressioni interessanti? Certamente sì, ma io ho notato solo questa. Tutto è immondo per gli immondi. E tutto è buio per i ciechi. Da sempre Milano mi eccita quanto una poesia di Maurizio Cucchi. Lo so bene che ci abitano poetesse da brivido come Tiziana Cera e Patrizia Valduga ma anche ad aguzzare la vista non riesco in alcun modo a identificarle con la città (a parte che Patrizia è così veneta, quando declama ha una voce tanto molle che sembra debba svenirle in bocca). Milano è una poesia di Cucchi, una qualunque. Doninelli sogna soprassalti e sottotitola il suo libro Scritti insurrezionali su Milano. Cucchi non insorgerà mai, ha esordito con una raccolta intitolata Il disperso, era il 1976, e ancora la Musa non lo ha trovato.

Doninelli viene definito scrittore visionario, e con ragione: solo una mente immaginifica e senza alcun freno inibitorio può definire il mesto bar-pasticceria dove siamo seduti (sedie di plastica, bevande seriali, cameriere ammuffito e zero clienti) come «bellissimo». Quando me ne ha parlato sembrava trattarsi di un gioiello segreto di cui stava per farmi dono, un indirizzo prezioso nascosto nel groviglietto di vie a sud di viale Argonne. Lo scarrafone che è bello a mamma sua vale anche in direzione opposta: ogni figlio guarda la madre con occhi non neutrali. E se pure Doninelli è bresciano, nato a Leno e cresciuto a Desenzano, per giunta con un rivolo di sangue fiorentino (nipote per parte di madre di Ottone Rosai), Milano è la città che lo ha adottato, più o meno la Grande Madre dai larghi fianchi e dai seni gonfi di latte. Come tutti gli amori il suo è un amore cieco. I miei tentativi di distoglierlo sono risibili. Domanda: «Se tu abitassi a Desenzano, in questo momento saremmo sulle fresche rive del Garda a sorseggiar Chiaretto. Nessun rimpianto?» Risposta: «Desenzano è un posto piccolo dove tutti sanno tutto di tutti». Conclusione: Doninelli deve avere qualcosa da nascondere. (Anch'io, certo, solo che ho scelto il metodo Poe, quello della lettera rubata: mettere in evidenza ciò che si vuole occultare. Perciò vivo in vetrina sul cardo di Parma, in un palazzo storico fotografato dai turisti. Al mattino quando in mutande apro assonnato le porte-finestre spesso c'è una straniera che ridacchia dietro l'obiettivo, ma mi fa solo piacere, e non ho messo le tende così gli impiegati che lavorano di fronte possono curiosare in casa della star di Tv Parma, se ci tengono, e la sera quando faccio le mie festine alzo la musica in modo che chi passa di sotto se ne accorga, e se ha il numero di telefono possa chiamarmi e chiedere. «Che stai facendo?» e io possa rispondergli: «Cosa vuoi che stia facendo, un'orgia»). Studente alla Cattolica, Doninelli si innamorò di una milanese. Tutto può succedere, specie a chi è predestinato a scrivere, in capo a vent'anni, di «Milano città-figa». Il raro evento produce stupore da decenni: ne compose Memo Remigí («Sapessi com'è strano / innamorarsi a Milano»), ne scrisse Massimo Lolli («Innamorarsi di una milanese»). A nessuno è mai venuto in mente di scrivere «Innamorarsi di una foggiana», esperienza troppo comune siccome a Foggia non c'è altro da fare che l'amore. A Milano un bacio è un errore, un lusso, sempre più spesso un reato, comunque mai la norma. Poi le milanesi sono quasi invisibili, travolte dall'onda fangosa delle etnie. Non chiedo la luna, rinuncio ai quattro quarti di milanesità e mi accontento che questo sia il loro luogo di nascita e pur con una soglia d'ingresso così bassa me ne vengono in mente solo due: Lidia, che in questo momento è a Nicotera (Calabria), e Stefania, che dovrebbe essere a Tavolara (Sardegna). Perché Doninelli in questo ha ragione: «Non esiste città pervasa dalla voglia di fuga come Milano». Come sia possibile che della gente che pensa solo a scappare possa impegnarsi in uno sforzo così identitario e coraggioso quale l'insurrezione, è un mistero doninelliano. Siccome è buono prova a spiegarsi: «Quando uno parla di insurrezione tutti pensano alle Cinque Giornate ma io non intendevo questo. Non penso a una rivoluzione con barricate nelle strade ma a una riscossa morale. Qualcosa che si erga dentro di noi per risollevare la nostra dignità». Ma dove li vedi, nella Milano del crollo delle aspettative, questi rivoltosi anche solo morali? «Se li avessi visti non avrei scritto il libro».


Saffo in via Lomellina. Una lunga strada periferica ma ormai neanche tanto dove abitarono Enzo Jannacci e Beppe Viola, il co-autore di Vincenzina e la fabbrica, la canzone più triste che abbia mai ascoltato, non a caso una canzone ambientata a Milano, città-sfiga, altroché. Ci abita la poetessa T., almeno quando non è a Trieste, la stupenda Trieste «imbalsamata nella sua veste d'oro» dove non riesce a tornare quanto vorrebbe perché chi volta il culo a Milano volta il culo al pane, ritornello orrendo che rende bene questa città di coatti. Stretti stretti sull'unica poltroncina del salottino butto lì: «Ci diamo un bacio?» Butto lì con l'ostentata, settecentesca, atarassia che mi ha insegnato il cattivo maestro Donato-Alfonso-Francesco o forse, senza bisogno di scomodare modelli lontani, è proprio l'aria di via Lomellina, è Jannacci e quella sua canzone per Cochi e Renato, La moto, capolavoro dell'amore come sprezzatura: «Se ci stai tu, io per me ci sto, / la mia moto quasi nuova io ti do, / in cambio tu, tu dai a me / la ragazza, quella mora che è con te». La poetessa T., che comunque è bionda, mi guarda volpina da dietro gli occhiali: «Oh, non si può, altrimenti lei fa una scenata». Lei sarebbe la ragazza di là in cucina, credevo fosse una convivenza per dividere le spese. «Non l'avevi capito?» «Oddio, no». «Ma lo hai letto il libro?» Sono duro di comprendonio, il libro della poetessa T. l'ho letto, l'ho riletto, mi è piaciuto e non ho capito, o non ho voluto capire. Sì, quella copertina. Sì, quell'epigrafe di Sandro Penna. Ma anch'io tanto Saba e Kavafis, eppure. La poetessa T. ha ragione, devo aver saltato pagina 32: «Per quel che mi riguarda / da un punto di vista morale / è assolutamente indifferente / che si trovi il proprio piacere / con un uomo o una donna». Allora non tutto è perduto, inoltre il disgusto causato dall'amoralità zozzetta viene eliso dalla successiva dichiarazione di pratica cattolica. Ti perdono, sorella T., basta che mi porti al Bar Basso. Partiamo in tre dentro un'automobilina piccina inzeppata di libri, io, T. e la famosa ragazza che finalmente è spuntata dalla cucina, magra, sorridente, non così lesbica, sbagliamo strada due o tre volte per poi capire che a piedi avremmo fatto prima. Il Bar Basso serve alle mie ricerche di archeologo urbano, essendo un reperto di epoche remote, non della Milano anni Ottanta da bere, di una civiltà ancora precedente, difficile da identificare. L'interno è arredato in stile baita, di quando i commendatori milanesi avevano il mito di Cortina, l'esterno è una stratificazione di sedie, da quelle con gli spaghetti di plastica delle gelaterie anni Sessanta fino alle metallizzate anni Novanta. Seduti ai tavolini ci sono figli di papà ultracinquantenni che staranno vendendo gli ultimi appartamenti, ex belli diroccati ma ancora con le camicie con le iniziali, e tutti, nessuno escluso, hanno quell'aria di vecchi delfini spiaggiati. Al Bar Basso ci tengono a far sapere di avere inventato, nel 1973, il Negroni sbagliato (spumantino al posto del gin). C'è da vantarsene? Fanno anche il Negroni giusto e lo servono in un bicchiere tanto grande da sembrare una barzelletta. Ovviamente è annacquato. Davanti alla distesa c'è il rumoroso viale Abruzzi col suo flusso continuo di automobili. Il Bar Basso doveva essere il non plus ultra al tempo delle fuoriserie, Bertone Zagato, quella roba lì, quando puzzare di benzina era segno di distinzione e modernità. Davanti, ma anche dietro, e sopra, e sotto, e di fianco, è un'invasione di piccioni protervi, che si avventano sulle briciole calpestandosi a vicenda, alzando nuvole di piume infestate di parassiti. Dal Bar Basso è tutto, per sempre.

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