Copertina
Autore Stefano Leonesi
CoautoreCarlo Toffalori
Titolo Matematica, miracoli e paradossi
SottotitoloStorie di cardinali da Cantor a Gödel
EdizioneBruno Mondadori, Milano, 2007, Sintesi , pag. 184, ill., cop.fle., dim. 14,5x21x1,3 cm , Isbn 978-88-424-2093-4
LettoreCorrado Leonardo, 2008
Classe matematica
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Indice


  1 Introduzione


  3 1.  Miracoli e paradossi

    1.1 Miracoli, p. 3;
    1.2 Paradossi, p. 4;
    1.3 «Ma non è una cosa seria», p. 5;
    1.4 Degni di fede, p. 12;
    1.5 Specchi deformanti, p. 14;
    1.6 Euclide o non Euclide, p. 18

 21 2.  Matematica e infinito

    2.1 Breve storia dell'infinito matematico, p. 21;
    2.2 I paradossi di Galileo, p. 31;
    2.3 Contare o confrontare?, p. 33;
    2.4 L'albergo di Hilbert, p. 34;
    2.5 «Lo vedo ma non lo credo», p. 36;
    2.6 Il paradiso di Cantor, p. 42;
    2.7 L'inferno di Cantor, p. 47;
    2.8 Le sorprese dell'infinito, p. 49;
    2.9 Un quiz preserale, p. 53

 57 3.  Fondamenti e turbamenti

    3.1 Frege e Russell, p. 57;
    3.2 Coerenti o evidenti?, p. 60;
    3.3 Matematica e salsicce, p. 62;
    3.4 Un minimo di ordine, p. 63;
    3.5 Come evitare i paradossi, p. 67;
    3.6 I rischi di una scelta, p. 72;
    3.7 Come spiegare i miracoli, p. 76

 81 4.  Il programma di Hilbert

    4.1 «Wir müssen wissen, wir werden wissen», p. 81;
    4.2 Vero o dimostrabile?, p. 86;
    4.3 L'algebra della mente, p. 88;
    4.4 Napoleone e i numeri primi, p. 91;
    4.5 Gli assiomi di Peano, p. 96

100 5.  Gödel e la completezza

    5.1 Il Signor Perché, p. 100;
    5.2 Il Teorema di completezza, p. 102;
    5.3 Tempi di guerra, p. 106;
    5.4 Löwenheim, Skolem e Herbrand, p. 108;
    5.5 Verso nuovi mondi, p. 111

117 6.  Gödel e l'incompletezza

    6.1 La cacciata dall'Eden, p. 117;
    6.2 Matematica e pazzia, p. 127;
    6.3 Completezza e Incompletezza, p. 132;
    6.4 Il migliore dei mondi possibili, p. 133;
    6.5 L'Ipotesi del continuo, p. 135

141 7.  Computabilmente

    7.1 Calculemus!, p. 141;
    7.2 Una visita a Princeton, p. 146;
    7.3 L'impiegato diligente, p. 148;
    7.4 Uomo e macchina, p. 154;
    7.5 Problemi senza risposta, p. 159;
    7.6 Troppo tardi, p. 167;
    7.7 I mari del Sud, p. 171

173 Un po' di bibliografia

175 Indice dei nomi

 

 

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Pagina 21

2. Matematica e infinito


2.1 Breve storia dell'infinito matematico

Nel precedente capitolo abbiamo già sperimentato l'ovvio imbarazzo che sorge quando in matematica si va a trattare il tema dell'infinito. In effetti accostare infinito e matematica può sembrare un collegamento azzardato. L'infinito, come pure il suo corrispondente temporale, l'eterno, sono tema adeguato per religione o filosofia o letteratura, ma forse non per la scienza positiva, meno che mai per la più positiva delle scienze, e cioè la matematica. Del resto, l'infinito (in-definito, in-determinato) è, per sua stessa etimologia e natura, e anche per la comune opinione, ciò che sfugge a ogni possibile classificazione e misura, mentre la matematica intende (pretende?) di classificare e misurare ogni oggetto che esamina.

Abbiamo già accennato che la matematica nasceva come scienza nella Grecia classica, e per quella cultura in-finito (o, come i Greci dicevano, a-peiron) fosse sinonimo di in-definito, im-perfetto: il prefisso privativo a- stava proprio a sottolineare questa valenza negativa. Così anche secondo Platone il Bene (quello con la B maiuscola) è finito. È poi ben noto come il Numero fosse per Pitagora e per la sua scuola una sorta di divinità e una chiave di lettura dell'intero universo. Per "numero" si intendeva allora e si intende qui la collezione dei numeri naturali, quelli con cui siamo abituati a contare sin da bambini: 1, 2, 3, 4, ... (e magari anche 0). Nella visione di Pitagora «tutto è numero», ed è grazie ai naturali e alle loro proporzioni che ogni realtà riceve la sua misura e l'intero mondo svela la sua armonia. I numeri stessi avevano ciascuno un proprio significato recondito: così l'1 rappresentava la mente; il 2 l'opinione, perché infrange l'unità; il 3 la completezza, l'inizio, il mezzo e la fine; il 4 la giustizia, il quadrato, l'esatto; il 5 il matrimonio, la fusione tra pari e dispari, tra femmina e maschio; il 10 (la sacra Tetraktys) la perfezione, perché somma di 1, 2, 3, 4 e dunque del numero di punti capaci di definire i principali oggetti geometrici, rispettivamente punto, retta, piano e spazio.

Ancora nell'Ottocento, e quindi oltre due millenni dopo Pitagora, un matematico illustre come Kronecker ribadiva che «gli interi positivi sono i soli numeri creati da Dio», a significare che trattare altri contesti non standard, come quello dei reali e dei loro allineamenti decimali senza limiti e confini, era quasi sacrilego. Avremo modo di approfondire presto le idee di Kronecker e i motivi della sua affermazione. Resta comunque accertato che, così come per Pitagora, anche per Kronecker i numeri naturali formano l'oggetto e lo strumento principe della ricerca matematica. D'altra parte ciascun numero naturale, 0, 1, 2, 3, ..., è rigorosamente finito per natura e rappresentazione (a differenza, ad esempio, dei reali). Dunque l'infinito non era né per gli antichi Greci né per Kronecker argomento da matematica: nella loro opinione non c'è spazio comune ammissibile per matematica e infinito.

Eppure, se riflettiamo un attimo con maggiore profondità, dobbiamo ammettere che l'infinito non è un tema completamente e costituzionalmente estraneo alla matematica. Tanto per cominciare, gli stessi numeri naturali 0, 1, 2, ... sono sì ciascuno singolarmente finito, ma costituiscono complessivamente un insieme infinito: la loro successione si snocciola senza limitazioni in una strada interminabile. Non a caso una delle più celebrate dimostrazioni di Euclide, riguardante non la geometria piana ma l'aritmetica – e cioè la teoria dei numeri naturali – è quella, limpida ed elegante, che compare nel libro IX degli Elementi e prova l' infinità dei numeri primi.

Tuttavia, come già Aristotele osservava più o meno al tempo di Euclide, quando si parla di infinito bisogna esercitare un po' di finezza e distinguere la sua forma potenziale da quella ale: la prima è umanamente accessibile, la seconda no. In altre parole, possiamo certamente convenire che ci sono successioni senza termine di oggetti matematici, quali i numeri naturali, o quelli primi, e abbracciarne con la nostra percezione porzioni comunque grandi (l' infinito potenziale di cui sopra); ma, quanto ad afferrarne la totalità e a identificarla completamente come singolo ente (l' infinito attuale), ebbene, questo è un altro discorso, inaccessibile ai limiti della nostra mente. Per dirla in latino e dare così maggiore autorità alla citazione: Infinitum actu non datur. Questo era il pensiero di Aristotele: un'opinione autorevole non solo ai tempi dell'antica Grecia ma nei lunghi secoli successivi. Ancora nel 1831 (di nuovo, due millenni dopo Aristotele), lo stesso Gauss ribadiva i medesimi concetti del suo illustre predecessore adoperando semmai, da buon tedesco, termini ancor più perentori e, in una lettera al suo collaboratore Schumacher, scriveva: «Io devo protestare veementemente contro l'uso dell'infinito come qualcosa di definito: questo non è permesso in matematica. L'infinito è solo un modo di dire, ed intende un limite cui certi rapporti possono approssimarsi vicino quanto vogliono».

Ma nei secoli da Aristotele a Gauss, vari spunti si erano susseguiti a insinuare in matematica l'esigenza di studiare e definire l'infinito. Per rimanere all'ambito greco, pensiamo al filosofo Zenone di Elea e, tanto per accennare al titolo di questo libro, ai suoi celebri paradossi, ad esempio a quello che è detto "del corridore" e che ventila l'impossibilità di ogni reale movimento.

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Pagina 47

2.7 L'inferno di Cantor

Come si può facilmente immaginare, studiare l'infinito attuale, toccarlo, maneggiarlo, misurarlo non poteva essere un esercizio tranquillo e indolore. Intanto, la questione aveva risvolti religiosi: come accennavamo all'inizio di questo capitolo, l'infinito sembra argomento più da teologici e filosofi che da matematici. Cantor, che era credente cattolico e si occupava pure di teologia, cercò di approfondire la questione, dedicandovisi fra il 1885 e il 1888 e giungendo a distinguere due possibili infiniti attuali: nella sua visione il primo, che egli chiamò assoluto, ha la I maiuscola, si applica solo a Dio, è tema della religione e non può essere umanamente percepito e accostato per via scientifica; l'altro, che egli battezzò transfinito per sottolinearne la differenza rispetto al precedente e tenerlo alla dovuta distanza, è, appunto, l'infinito della matematica, l'oggetto delle sue ricerche, sul quale si può lavorare e disquisire senza con questo pretendere di misurare il Paradiso con i suoi angeli.

Ma, risolta per questa via (e anzi con il nulla osta delle autorità religiose di Roma) la questione teologica, Cantor doveva superare la diffidenza della comunità scientifica rispetto alle sue nuove teorie matematiche. La sua opera cozzava infatti chiaramente contro il dettato aristotelico e, quel che forse è peggio, contro il parere di matematici illustri, contemporanei o di poco precedenti. Abbiamo già citato l'opinione di Gauss sull'infinito attuale in matematica (da vietare categoricamente); e anche Kronecker, che pure era stato il maestro di Cantor durante i suoi studi universitari a Berlino, ne rifiutò le scoperte: «il lavoro di Cantor sui numeri transfiniti e sulla Teoria degli insiemi – sosteneva – non è matematica, ma misticismo»; e aggiungeva, come già ricordato, che «i numeri interi positivi sono i soli creati di Dio; tutto il resto è opera dell'uomo e quindi sospetto».

Altri grandi matematici apprezzarono invece l'opera di Cantor e la accolsero anche con entusiasmo: del resto Cantor aveva, per così dire, dischiuso all'uomo l'infinito degli angeli, un paradiso lungamente nascosto e ritenuto inaccessibile per millenni. Così Bertrand Russell scriveva nel 1910: «La soluzione delle difficoltà che in passato circondavano l'infinito matematico è probabilmente la massima conquista che la nostra epoca ha da vantare»; e David Hilbert definiva la teoria dei cardinali «un prodotto sbalorditivo del pensiero umano» e commentava: «Nessuno riuscirà mai a cacciarci dal paradiso che Cantor ha creato per noi», non serpenti, né peccati originali, né tentazioni matematiche.

Pur tuttavia, la vita di Cantor dopo la scoperta dell'infinito non fu un paradiso (neppure matematico), ma piuttosto uno di quegli inferni che gli scienzati sanno ben costruire (quando vogliono) per i loro colleghi, lastricato di invidie, polemiche, ostracismi e dispetti. Cantor ne fu così provato che smise di pubblicare dal 1886 al 1890 e, peggio ancora, vide manifestarsi sin dal 1884 i primi sintomi di un esaurimento che lo accompagnò per tutto il resto della vita. A Cantor fu preclusa ogni possibilità di carriera e ogni accesso alla prestigiosa sede di Berlino. Egli rimase confinato nella piccola Università di Halle, ebbe progressive crisi di depressione, fu quindi ricoverato in una clinica psichiatrica, dove morì nel 1918.


2.8 Le sorprese dell'infinito

Come promesso, dedichiamo gli ultimi paragrafi di questo capitolo all'addizione, alla moltiplicazione e alle potenze dei cardinali. Pare incredibile che questi numeri infiniti si possano manipolare alla stessa stregua dei loro "fratelli minori" finiti, e cioè dei numeri naturali. Eppure, come la relazione di ordine, così anche le usuali operazioni aritmetiche si possono allargare in modo ragionevole e neanche troppo complicato al loro ambito. È anche vero che queste estensioni manifestano un comportamento nuovo e sorprendente, e proprietà talora antitetiche rispetto a quelle soddisfatte dalle loro restrizioni a N. Ma d'altra parte questo è quanto già Galileo presagiva quando scriveva che «queste sono di quelle difficoltà che derivano dal discorrer che noi facciamo col nostro intelletto finito intorno all'infinito».

Ma procediamo con ordine e cominciamo a vedere come si introduce l' addizione dei cardinali. Una comune somma tra naturali, come 2 + 3 = 5, si può anche interpretare nel modo che segue: se abbiamo un insieme di 2 elementi e gli aggiungiamo 3 elementi "nuovi", l'insieme che ne risulta si compone di 5 elementi. È essenziale, ovviamente, che nessuno dei secondi 3 elementi faccia già parte dell'insieme dei primi 2, altrimenti la somma che ne deriva, e cioè la totalità degli elementi complessivi, non è più 5, ma 4 e forse anche 3. Ma se adottiamo la precauzione di mantenere i primi 2 elementi disgiunti dagli ultimi 3, il risultato rimane sempre 5, a prescindere da quali siano i primi 2 elementi e quali gli ultimi 3.

Ammettiamo allora in generale di avere due cardinali α e β, e che α sia la cardinalità di un qualche insieme A e β sia la cardinalità di un insieme B. Adottiamo la cautela di scegliere A e B privi di elementi comuni, dunque disgiunti. Definiamo allora somma α + β di α e β la cardinalità dell'unione di A e B.

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3.3 Matematica e salsicce

In realtà questa concezione fu specificata in dettaglio da Hilbert solo molti anni dopo, verso il 1925.

Comunque essa compare già almeno in germe in un'opera che Hilbert dedicò nel 1899 a una nuova e completa sistemazione della geometria elementare (Grundlagen der Geometrie, Fondamenti della geometria) e che rivedeva e adeguava l'antica teoria di Euclide.

Ad esempio, in luogo dei 5 postulati di Euclide, se ne proponevano ben 21. Ma le novità più rilevanti dell'approccio di Hilbert non si limitavano al numero complessivo degli assiomi — 21 invece di 5 —, investivano piuttosto il ruolo completamente originale che essi venivano ad assumere rispetto all'impostazione di Euclide. I 21 assiomi continuavano sì a parlare di punti, rette e piani (né potevano fare altrimenti, trattando di geometria); ma consideravano questi concetti in modo puramente formale, privo di ogni esplicito riferimento all'evidenza. Così, secondo la visione di Hilbert, punti, rette e piani non sono tali perché corrispondono all'idea intuitiva che ne abbiamo, ma piuttosto perché obbediscono alle 21 leggi che sono state fissate a loro proposito, e tutti gli oggetti che come loro soddisfano quelle condizioni hanno diritto di essere chiamati "punti", "rette" e "piani". Gli stessi teoremi di geometria erano visti da Hilbert semplicemente come passi finali di successioni finite di deduzioni razionali che partono dagli assiomi e procedono in modo rigido, privo di qualsiasi concessione all'intuizione. In questa ottica, il ruolo dei 21 assiomi è solo quello di fornire a queste dimostrazioni una base coerente, priva di ogni contraddizione e ridondanza. La geometria che ne deriva è, allora, una scienza formale puramente deduttiva. Come commentava ironicamente Poincaré, in questo modo «fare geometria è permesso anche a un cieco» e anzi, «per dimostrare un teorema, non è più necessario e nemmeno utile sapere cosa vuol dire»; la geometria — e la matematica in generale — si riducono a una «macchina in cui si introducono gli assiomi da una parte e si raccolgono i teoremi dall'altra» proprio «come nella leggendaria macchina di Chicago dove i maiali entrano vivi ed escono trasformati in prosciutti e salsicce».

Quest'ultimo riferimento a una matematica affidata al lavoro deduttivo di un calcolatore ben programmato (grazie a una sapiente scelta di assiomi) può affascinare e sconvolgere, e merita qualche serio approfondimento. Ma su questo torneremo diffusamente nei capitoli che seguono.

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7.6 Troppo tardi

La constatazione che ci sono problemi matematici senza soluzione non deve tuttavia instillarci — come nel caso dello zio Petros di Apostolos Doxiadis — il terrore che tutti i problemi matematici seri siano privi di soluzione. A fronte di qualche esempio negativo, ci sono dovizie di situazioni positive col loro bravo algoritmo (o, se preferite, con la loro brava macchina di Turing ): pensiamo ad esempio alla divisione fra gli interi, o alla questione di riconoscere i numeri primi dai composti, o a quella di decomporre i naturali nei loro fattori primi. In tutti questi casi, abbondano procedure risolutive, talora conosciute fin dall'antichità: con gli opportuni accorgimenti possiamo trasmetterle ai calcolatori e delegare completamente alle macchine il calcolo di quoziente e resto, o l'identificazione dei numeri primi, o la decomposizione in fattori primi, o altro ancora, a seconda dei casi; possiamo limitarci dunque ad attendere le loro risposte.

Ma ammettiamo che, dopo un'attesa di un'ora, o di un giorno, o di un anno, la risposta non sia arrivata. Oppure immaginiamo che essa ritardi cent'anni e oltre. In teoria abbiamo la certezza assoluta che l'algoritmo funzionerà; e pur tuttavia nella pratica sperimentiamo una situazione antipatica e imbarazzante. In effetti, dal punto della vista della vita di tutti i giorni, che differenza c'è tra non avere alcuna risposta — come nei casi senza soluzione — oppure averla solo dopo insopportabili ritardi? Il conforto astratto della teoria vale poco ad alleggerire la nostra attesa. Se poi questa si deve protrarre oltre cent'anni, ebbene... non per portare male a nessuno, ma c'è il fondato sospetto che, quando arriverà, la risposta non ci interesserà più. Oltre tutto, c'è da rilevare che nessun calcolatore ha risorse illimitate, e che comunque il lavoro di un computer costa: richiede memoria, energia e dunque denaro. Risposte rapide e immediate sono ovviamente da preferire.

Nasce così il problema di valutare non solo la possibilità teorica di una computazione, ma anche il suo costo pratico, in tempo, energia, memoria e quant'altro si vuole. Computazioni teoricamente ammissibili possono richiedere prezzi inaccessibili e dunque essere inattuabili nella pratica. Del resto, lo stesso Turing ebbe a sperimentare questa difficoltà durante gli anni della seconda guerra mondiale. In effetti un aspetto non secondario di ogni conflitto riguarda le operazioni di spionaggio e di controspionaggio: la possibilità di intercettare qualche informazione riservata del nemico – ad esempio un ordine per l'esercito, o per l'aeronautica, o per la marina – e di volgerlo a proprio vantaggio; la necessità conseguente per l'avversario di tutelarsi e di usare qualche protocollo crittografico per cifrare il testo originale di comunicazioni riservate nascondendolo sotto l'apparenza di parole senza senso, in modo tale che solo il destinatario possa recuperarlo e comprenderlo e nessun altro intruso riesca a violarlo. Il protocollo che l'esercito tedesco adoperava a quei tempi a quest'ultimo proposito consisteva in un elaborato meccanismo crittografico che aveva nome Enigma: un'opportuna chiave di cifratura e decifratura permetteva (a chi la conoscesse) di codificare e decodificare i messaggi, mentre la complessità della procedura scoraggiava i tentativi di violazione degli estranei. Turing e altri matematici e scienziati inglesi furono quindi riuniti all'inizio del conflitto nella residenza isolata di Betchley Park, vicino a Londra, con lo scopo di infrangere il codice Enigma: i singoli messaggi, ma anche il complesso del procedimento. C'è da dire che, dal punto di vista teorico, il problema non appariva poi proibitivo. Già prima dello scoppio della guerra lo spionaggio polacco era giunto in possesso di alcune informazioni cruciali per la decifrazione di Enigma, una volta che se ne conoscesse la chiave. Ma c'erano altre difficoltà pratiche da sormontare. Ad esempio la chiave di Enigma veniva rinnovata giornalmente, e dunque ogni ventiquattr'ore si rinnovava il problema anzitutto di intercettarla e poi di interpretarla per la violazione completa di tutti i messaggi. A questa prima urgenza altre se ne aggiungevano. Ammettiamo ad esempio che il comando tedesco inviasse a un sottomarino dell'Atlantico la rotta di un qualche convoglio in navigazione dagli Stati Uniti all'Europa, e l'ordine perentorio di affondarlo. Ammettiamo che, intercettata la chiave, dopo un mese Turing e gli altri crittoanalisti di Betchley Park riuscissero a decifrare questo messaggio con le teorie a loro disposizione. Ebbene è da pensare che, a quel punto, la scoperta sarebbe stata inutile: dopo un mese, o il convoglio si era salvato per altri motivi, oppure era in fondo all'oceano. Alla difficoltà teorica si univa dunque un'ovvia urgenza pratica. Turing riuscì comunque nel suo intento, e con i suoi collaboratori giunse a infrangere i segreti di Enigma, e c'è chi sostiene che questo lavoro contribuì grandemente al favorevole esito del conflitto.

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