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| << | < | > | >> |IndicePrefazione, di Vito Campanelli IX Ringraziamenti XXIII 1. Introduzione - Catturare il Web 2.0 prima che scompaia 1 1.1. Breve storia del Web 2.0 5 1.2. A che punto sono le analisi critiche sul Web 2.0? 9 1.3. La colonizzazione del tempo reale 15 1.4. Dal link al «mi piace» 19 1.5. I netizen e l'emergere delle opinioni polarizzate 23 1.6. L'ascesa dei Web nazionali 27 1.7. In attesa di una teoria della rete 30 2. Psicopatologia del sovraccarico d'informazione 37 2.1. La morbida narcosi della presenza in rete 39 2.2. La capacità di auto-controllo sull'informazione 43 2.3. La questione del canone 48 2.4. L'effetto Carr 51 3. Facebook, l'anonimato e la crisi della molteplicità dell'io 57 3.1. Celebrare la molteplicità dell'identità 58 3.2. Dall'auto-scoperta all'auto-promozione 62 3.3. La religione del positivo 63 3.4. Il trionfo dei cervelli svuotati 65 3.5. Reintrodurre l'anonimato 68 3.6. Anonymous non sta dalla tua parte 70 4. Trattato sulla cultura dei commenti 77 4.1. Rispondere al Web 78 4.2. L'archeologia dei commentari 82 4.3. Non basta domare i commentatori 86 4.4. Progettare l'ermeneutica di massa 89 5. Disquisizione sulla teoria critica di internet 97 5.1. La teoria critica nell'era della sovrabbondanza 98 5.2. Formulare una teoria critica della Rete 103 5.3. La cultura della recensione nell'epoca di internet 107 5.4. La cultura della rete come concetto e programma 110 6. Diagnosi di una fusione non riuscita 117 6.1. Quando la teoria perde mordente 118 6.2. L'esodo dai media studies 122 6.3. Un retaggio confuso 126 6.4. Tenersi al passo con i Google del mondo 131 6.5. I media studies nei Paesi Bassi 133 6.6. La svolta quantitativa 135 6.7. La svolta quantitativa verso nuovi programmi 137 7. Il blog dopo la bolla: Germania Francia, Iraq 145 7.1. Winer e il blog personale 146 7.2. I blog sono roba del 2004 151 7.3. Digressione nella blogosfera tedesca 153 7.4. La sfiducia nei numeri 154 7.5. L'ascesa dei Web anti-nazionalisti 157 7.6. Alto contro basso 159 7.7. Verso una cultura tedesca della Rete 161 7.8. Celebrare la blogosfera francese 165 7.9. La scomparsa della blogosfera irakena 171 8. La radio dopo la radio: dalle radio pirata agli esperimenti su internet 183 8.1. Le radio libere di Amsterdam 184 8.2. L'avvento dei media sovrani e indipendenti 186 8.3. La scomparsa della radiofonia libera 189 8.4. Radio online come bivacco da campo 192 8.5. La radiofonia pirata diventa globale 194 9. L'estetica del video online, ovvero l'arte di guardare i database 201 9.1. Dopo il crollo della Grande Narrativa 203 9.2. Proattività e visualizzazione sociale 205 9.3. Per una teoria critica del video online: Video Vortex 209 9.4. Il futuro del video 212 10. La vita googlizzata nella società della consultazione online 219 10.1. Le isole della ragione di Weizenbaum 221 10.2. Aggregare tutto e ogni cosa 225 10.3. Rimostranze dal cuore dell'Europa 228 10.4. Analisi dei motori di ricerca nord-americani 230 11. L'organizzazione delle reti per l'ambito culturale e politico 237 11.1. L'attivismo da salotto 240 11.2. L'attivismo offline 243 11.3. Dare uno scopo all'attivismo 245 11.4. L'attivismo delle reti organizzate 248 12. La tecno-politica di WikiLeaks 263 12.1. I pesci piccoli gonfiano i muscoli 264 12.2. Andare oltre il dibattito tra contenuto e vettore 266 12.3. Le politiche dei capoccioni 269 12.4. Le reti post-rappresentative 270 12.5. Il nuovo paradigma del whistleblower 274 |
| << | < | > | >> |Pagina 2Catturare il Web 2.0 prima che scompaia L'introduzione è finita, inizia il capitolo. Johan Sjerpstra Una volta internet cambiava il mondo, oggi è il mondo a cambiare internet. La sua integrazione nel mainstream è davvero finita, e la saga dell'effimero Web 2.0 è giunta al capolinea. Improvvisamente l'ammucchiata partecipativa si ritrova in una situazione tesa e conflittuale — un quadro piuttosto sgradevole per la classe di pragmatisti che fin dall'inizio ne monitorava lo sviluppo. Crescono le critiche sulle violazioni della privacy da parte di Google e Facebook. Le divergenze sulla neutralità della Rete e su WikiLeaks rivelano la fine dei giorni armoniosi della governance multilaterale — quella variegata coalizione di mega-imprese, organizzazioni non governative e ingegneri che tenevano a debita distanza le autorità statali e le aziende di telecomunicazioni vecchio stampo, grazie soprattutto ai Summit mondiali sulla Società dell'informazione. È scoppiata un'altra bolla, ma stavolta riguarda il collasso del modello di consenso in stile libertario. Gli amministratori di internet, pronti a favorire l'imprenditoria e a negare ogni intervento statale, vanno mettendosi sulla difensiva. Ora che la società ne ha vanificato l'etica disinvolta, va evaporando il concetto stesso di un'internet come sfera autonoma e non regolamentata. È arrivato il momento di prendere una decisione: da che parte stai? In quanto struttura di comunicazione distribuita (da molti a molti), internet viene da tempo celebrata per le sue potenzialità nel superare le asimmetrie verticali dei media tradizionali e perfino della democrazia rappresentativa in quanto tale. La forza dei molti sarebbe destinata a smontare queste arrugginite istituzioni pezzo per pezzo. Inizialmente internet sembrava in grado di colmare molte delle tipiche lacune della vecchia «sfera pubblica», e le prime analisi sulle forme del discorso pubblico che andavano emergendo online venivano ben inquadrate in questa tradizione apparentemente defunta. Piattaforme quali blog, forum di discussione e siti d'informazione partecipativa dediti al citizen journalism venivano considerati la nuova frontiera della libertà d'espressione, ambiti in cui chiunque avesse accesso a internet poteva prendere parte alla comunicazione politica. Con buona pace dell'immaginazione critica. Pur a fronte di affermazioni simili, di fatto internet non esisteva certo nel vuoto. Da allora diversi critici hanno sfatato l'idea per cui il discorso pubblico all'interno di forum online e blog possa incrementare la «partecipazione democratica». Partecipazione in cosa? Forse nelle petizioni online. Ma non certo nel processo decisionale. Tanti «utenti dei blog» non perseguono certo grandi ideali, rivelando piuttosto una cultura di «distaccato coinvolgimento». Jodi Dean sottolinea l'emergere di una nuova forma di «capitalismo comunicativo», dove il discorso prolifera ma viene completamente svuotato di un genuino impatto politico. Infine, anziché promuovere maggior impegno civico, le discussioni online tendono ad aver luogo in «camere di risonanza» in cui individui accomunati dalla stessa opinione evitano, coscientemente o meno, il dibattito con i loro avversari politici o culturali. La società ha ormai recuperato terreno nei confronti di internet, infrangendo il sogno tecnologico di un cyberspazio che operi come realtà virtuale parallela. Visitando l'edizione 2011 dell'evento artistico-tecnologico South by Southwest ad Austin, Texas, il giornalista del Guardian Oliver Burkeman appare del tutto sopraffatto, sospirando che «Internet è finita. Per i non addetti, è questo il maggior ostacolo che impedisce loro di comprendere la direzione intrapresa dalla cultura tecnologica: sempre più spesso, questa riguarda ormai ogni cosa». In altri termini: internet come progetto dotato di una specifica serie di protocolli distinti dalla vita quotidiana, animata da conflitti pre-esistenti e circostanze ambigue, ha perso senso e scopo. Oggi che i bambini vanno online prima dei quattro anni, non c'è più alcuna urgenza di spiegare come funzionano le reti informatiche. Può forse un medium così accettato e utilizzato causare delle controversie? I nuovi media hanno certamente superato la loro fase introduttiva, ma continuano a scontrarsi con le strutture sociali e politiche pre-esistenti, man mano che le multinazionali e le tradizionali istituzioni della conoscenza si trovano a fronteggiare le dirompenti implicazioni dell'attività in rete. Mentre nell'ultimo decennio l'implementazione delle reti informatiche ha alterato drasticamente l'attività quotidiana e il ritmo lavorativo, le procedure dell'iter decisionale sono rimaste aderenti ai tradizionali impianti organizzativi. Prendiamo un servizio centralizzato come Twitter: un ottimo strumento di PR per le figure politiche, incapace però di bloccare la crescente crisi della legittimità istituzionale oppure di spingere un qualsiasi politico a mostrarsi più direttamente coinvolto. Il medium si trova nella fase adolescenziale — riuscirà a uscirne fuori maturato? Oppure, come la maggior parte dei suoi operatori e responsabili decisionali maschi, rimarrà in uno stato di eterna fanciullezza? Questo studio identifica la cultura di internet come bloccata tra l'auto-referenzialità e i criteri istituzionali. Non basta più lamentarsi delle disfunzionalità della società in rete rispetto a questioni quali usabilità, accesso, privacy o infrazioni al diritto d'autore. Dovremmo invece preoccuparci di analizzare la sfuggente convergenza tra il rafforzamento delle attuali strutture di potere, veicolato da internet, e i mondi paralleli, oltre che sempre più interconnessi fra loro, in cui va affermandosi il controllo. Parimenti insufficiente è la critica ideologica, accoppiata con l'oltraggio morale relativo agli abusi commessi, dalla censura politica alla pornografia infantile, poiché resta intrappolata nello spettacolo dell'informazione ininterrotta 24 ore su 24. Fin troppo spesso i dibattiti sul Web 2.0 si concludono con attente considerazioni su quel che il giornalismo dovrebbe ma non riesce a fare, come accaduto all'apice del successo della blogosfera. Altrettanto lacunoso si è rivelato l'approccio teso alla decostruzione delle iperboli imperanti e a minimizzare i rapporti eccessivamente ottimisti. Le culture del Web 2.0 hanno dimostrato una notevole resistenza allo stile da editoriale giornalistico dell'opinione pubblica. Hanno creato degli ambienti online a tenuta stagna, che ospitano letteralmente decine di milioni di persone impegnate a lavorare, girovagare, chiacchierare e giocare, incuranti di quel che genitori, insegnanti, giornalisti, o persone famose hanno da dire sui social network. Che si trattati del Wall Street Journal, The Australian, Der Spiegel, oppure del Guardian, siamo soliti leggere quel che le testate d'informazione pensano del fenomeno internet — non quanto viene effettivamente discusso nei forum o scambiato nelle reti peer-to-peer, né le modalità di utilizzo dei motori di ricerca. Più spesso di quanto non si creda, le culture di rete non trovano spazio. Per decenni i guru delle agenzie di consulenza hanno predicato il «cambiamento», ma quando si è materializzata la «tempesta ideale» di WikiLeaks, i tecno-ottimisti sono apparsi in evidente disagio. Abbiamo assistito alla «profonda penetrazione» delle tecnologie di rete nella società, ma l'esito è stato ben diverso dalle aspettative previste nei corsi di specializzazione in business. Perché? È impossibile comprendere appieno queste complesse procedure limitandosi a leggere i segnali dell'attuale momento storico. Serve un sesto senso in grado di andare oltre lo zeitgeist per afferrare le inattese configurazioni che sbucano fuori dal nulla, sfrecciando verso l'alto come l'ultimo modello di un jet privato. Gli spazi della Rete sono eventi disimpegnati, consumati a ritmo frenetico, dopo i quali gli utenti passano immediatamente ad altro, come a negarne la dipendenza. Dobbiamo evitare di estrapolare la «visione del mondo» dei nativi digitali dall'insieme di contraddizioni presenti nella loro auto-percezione frammentata. Meglio smetterla di ripetere le altisonanti predizioni di un'infinita fiumana di start-up che schizzano su TechCrunch, per scavare invece nei conflitti concreti che emergono dalle condizioni esistenti in rete. È forse il caso di attendere invano l'arrivo di un articolo angoscioso e impeccabile su quanto sia intossicante la vita su Facebook? E se non si tratta di un romanzo, cos'altro andiamo cercando allora? | << | < | > | >> |Pagina 91.2. A che punto sono le analisi critiche sul Web 2.0?Non sono molte le indagini critiche e approfondite sul Web 2.0, ma la cosa non deve sorprenderci. Le ricerche post-universitarie non possono tenere il ritmo dei cambiamenti e si auto-condannano a investigare reti e percorsi culturali in via di estinzione. Fin dall'alba degli anni Novanta, le culture degli utenti sono emerse dal nulla e i ricercatori non possono certo anticipare o sintetizzare la velocità con cui queste ampie strutture vanno e vengono. Simili culture superano nettamente l'immaginazione dei giornalisti info-tech e la società è ben più avanti di chi ne propone la teoria (incluso il sottoscritto). Come risposta ci si fa prendere dal panico oppure si abbandona del tutto il tema dei nuovi media. L'oggetto di studio è in un permanente stato di riflusso e tra poco sarà del tutto scomparso – impossibile negare la morte di tutto. Il fatto che la teoria basata su dettagliati casi di studio è condannata a diventare un racconto storico può indurre alla depressione, trascinandoci sempre più in uno stato mentale farmacologico, come lo definisce Bernard Stiegler. Insieme alla scomparsa della scuola teorica francese, emerge la chiara mancanza di una guida. Editorialisti e comici trattano i new media come dei gadget, eppure gli smartphone non sono certo delle borsette. Vogliamo dibattiti informati, ricchi di arguzia e ironia, ma ci ritroviamo a discutere dell'attualità per come viene definita dalle testate d'informazione. Una possibile via d'uscita è la definizione di posizioni critiche capaci di migrare da una generazione di applicazioni a quella successiva, senza scivolare su teorie speculative che si limitano a celebrare le potenzialità liberatorie di termini a effetto in attesa di essere tramutati in valore di mercato. Diamo un'occhiata all'attuale quadro sulle analisi critiche del Web 2.0 (lasciando da parte quei giustificati timori sulla privacy discussi altrove da ricercatori quali danah boyd). The Cult of the Amateur di Andrew Keen (2007) viene considerato uno dei primi lavori critici del sistema di pensiero legato al Web 2.0. «Cosa succede», chiede Keen «quando l'ignoranza si sposa con l'egoismo, il cattivo gusto e le masse incontrollabili? È la scimmia a prendere il sopravvento». Quando sono tutti lì a trasmettere, non rimane nessuno ad ascoltare. In questo scenario da «Darwinismo digitale», sopravvivono soltanto le voci più forti e possenti. Il Web 2.0 «decima le truppe dei nostri custodi culturali». Laddove Keen ne esce come lo scontroso e geloso rappresentante della vecchia classe media, non così Nicholas Carr, il cui libro The Big Switch (2008) analizza l'ascesa del cloud computing. Per Carr (che incontreremo di nuovo nel capitolo 2, «Psicopatologia del sovraccarico d'informazione»), questa infrastruttura centralizzata indica la fine del PC autonomo come nodo all'interno di una rete distribuita. L'ultimo capitolo del volume di Carr segnala una «svolta neurologica» nell'analisi del Web 2.0. Muovendo dall'osservazione che l'intenzione di Google è stata sempre quella di trasformare le sue operazioni in intelligenza artificiale, cioè in un «cervello artificiale più intelligente del cervello umano» (come ebbe modo di dichiarare a Newsweek il fondatore di Google, Sergey Brin), Carr concentra l'attenzione sul futuro delle nostre capacità cognitive: «Il medium non è soltanto il messaggio, bensì anche la mente. Dà forma a quel che vediamo e a come lo vediamo». Mentre internet enfatizza la velocità, noi diventiamo i neuroni del Web: «Più link clicchiamo, più pagine visitiamo e transazioni facciamo, e più il Web diventa intelligente, raggiunge valore economico e crea profitto». Nel suo famoso saggio apparso nel 2008 su The Atlantic, «Google ci rende stupidi? Qual è l'effetto di internet sul cervello?», Carr mette a fuoco questo punto, sostenendo che in fin dei conti è il continuo passare dalle finestre ai siti e il frenetico ricorso ai motori di ricerca a renderci stupidi. Spetta forse all'utente monitorare il proprio utilizzo di internet onde prevenirne l'impatto sulla sfera cognitiva? Nell'ampio articolo sul conseguente dibattito, Wikipedia cita lo studio del 1994 di Sven Birkerts, The Gutenberg Elegies: The Fate of Reading in the Electronic Age, e il successivo lavoro della psicologa comportamentale Maryanne Wolf , la quale sottolinea la perdita della capacità di una «lettura profonda». Chi naviga parecchio online, sostiene Wolf, sembra perdere l'abilità di leggere e apprezzare racconti corposi e monografie dettagliate. Carr e altri approfittano argutamente dell'ossessione anglo-americana con qualsiasi cosa abbia a che fare con la mente, il cervello e la coscienza. Nel frattempo la letteratura scientifica non sembra averne mai abbastanza. Una rigorosa analisi economica (per non dire marxista) di Google rivela che il modello aperto e gratuito è seriamente fallace. I critici culturali devono unirsi ai tanti Daniel Dennett (scioltamente radunati su edge.org) per dar voce ai loro timori. Nel suo lungo saggio, Payback, anche Frank Schirrmacher, editorialista del Frankfurter Allgemeine Zeitung e membro di Edge, prende in esame l'impatto di internet sul cervello. Mentre la posizione di Carr sul crollo delle capacità di multitasking del maschio bianco ha il sapore di un esperto e imprenditore info-tech USA che veste i panni di un intellettuale della East Coast, Schirrmacher sposta il dibattito nel contesto dell'Europa continentale, dove il ceto medio che invecchia si ritrae sulla difensiva nei confronti del fondamentalismo islamico e dell'ipermodernità asiatica. Al pari di Carr, Schirrmacher cerca le prove di un cervello umano deteriorato che non riesce a tenere il passo con l'iPhone, Twitter e Facebook, in aggiunta al flusso d'informazione già sfornato da televisione, radio e stampa. In uno stato di allerta continua, ci pieghiamo alla logica di disponibilità e velocità ininterrotte. Schirrmacher parla di un «io esausto». La maggior parte dei blogger tedeschi ha reagito in modo negativo a Payback. A parte alcuni errori fattuali, presero di mira l'implicito pessimismo culturale anti-digitale (cosa che Schirrmacher nega) e il conflitto d'interesse esistente tra il suo ruolo come editore del quotidiano e al contempo critico dello zeitgeist. Qualunque sia l'agenda mediatica culturale, l'allarme suonato da Schirrmacher ci accompagnerà per parecchio tempo. Quale spazio dovremmo riservare agli strumenti e alle applicazioni digitali nella vita quotidiana? Internet finirà forse per sopraffare i nostri sensi e imporci una propria visione del mondo? Oppure avremo la volontà e la capacità necessarie per padroneggiare questi strumenti? In You Are Not a Gadget (2010), Jaron Lanier chiede: «Cosa succede quando smettiamo di dar forma alla tecnologia ed è invece quest'ultima a plasmarci?». Lanier è un caso particolare. Non è un giornalista né un accademico, bensì un «mega-nerd», un ricercatore informatico appartenente alla cybercultura «hippie» dell'era pre-Web. Politicamente, è arduo inquadrarlo in maniera precisa e forse l'ambito più corretto è quello della contro-cultura e anti-corporation (meglio usare cautela nell'assegnare l'etichetta di anti-capitalista alla West Coast statunitense). Quel che rende speciale Lanier è la sua posizione ben addentro al mondo di Silicon Valley, e il suo libro, assai atteso, va letto come una volta gli osservatori del Cremlino erano soliti decifrare quel sistema d'informazione centralizzato. Alla sua maniera, Lanier incarna la versione contemporanea del dissidente sovietico. Al pari di Andrew Keen, la difesa dell'individuo sostenuta da Lanier rimanda all'effetto riduttivo della «saggezza della folla», laddove le voci dei singoli vengono soppresse a favore delle norme imposte dalla massa, come avviene su Wikipedia e siti analoghi. Lanier si chiede come mai negli ultimi due decenni non siano nati nuovi stili musicali e sotto-culture, per incolparne la forte enfasi rétro presente nella cultura musicale contemporanea dominata dal remix. La cultura libera non solo riduce drasticamente i ricavi di artisti ed esecutori, ma scoraggia anche la sperimentazione di nuove sonorità musicali. La democratizzazione degli strumenti digitali non ci ha regalato nessun «super-Gershwin»; al contrario, Lanier rimarca «l'esaurimento dei modelli», fenomeno in cui la cultura non riesce più a produrre varianti dei modelli tradizionali e diventa meno creativa in generale. «Non ci troviamo in una fase temporanea di quiete prima della tempesta. Piuttosto, siamo entrati in un persistente stadio di sonnolenza e sono giunto alla conclusione che potremo uscirne fuori soltanto uccidendo l'alveare». Che si sia d'accordo o meno con Lanier, dovremmo almeno prendere in considerazione la sua analisi critica e indicare con esattezza quali forme sperimentali e inventive stanno avendo successo nell'ambito online riguardo alla musica o alla cultura hacker. Scrive Thierry Chervel, dell'aggregatore tedesco Perlentaucher: «Schirrmacher sostiene che internet tritura il cervello e quindi occorre riprendere in mano il controllo. Ma ciò è ormai impossibile. La rivoluzione inghiotte i suoi figli, i padri e quelli che la detestano». È forse questo il destino che attende la nuova ondata di critici della Rete, quali Siva Vaidhyanathan, Sherry Turkle , e perfino Evgene Morozov ? Il dibattito su internet e società non dovrebbe essere né «medicalizzato» né moralizzato, per focalizzarsi invece sulla politica e sull'estetica dell'architettura di rete. Anziché ripetere quanto sostengono Carr, Schirrmacher e altri, ritengo che l'analisi critica del Web 2.0 debba imboccare altre strade. Invece di offrire la mappatura degli impatti mentali e riflettere sull'influenza della Rete sulla nostra vita, o discutere in continuazione sul destino dell'informazione e dell'industria editoriale, proviamo a studiare le molteplici logiche culturali meno ovvie — il tempo reale, il linkare opposto al «mi piace», l'ascesa dei web nazionali — che vanno estendendosi al di là di specifiche piattaforme e corporation. È questo l'approccio critico alla Rete che adotterò nei successivi capitoli del volume. Intendo dare risalto a quegli aspetti quotidiani nell'uso di internet che spesso passano inosservati. Affronterò la transizione alquanto invisibile dall'uso di internet come strumento alla creazione di «culture degli utenti» diffuse e collaborative che iniziano a evidenziare caratteristiche tutte proprie, infondendo così la vita all'interno del mondo tecnologico. È in quest'ecologia relativamente nuova che le idee trovano terreno fertile per l'immediato processo di tentativi ed errori. Questi concetti possono essere considerati qualcosa di astratto, ma nel contesto di vivaci culture di Rete emergono dall'interno e non cadono certo dall'alto. Il mio approccio prende in esame l'adozione di specifiche idee e ne propone di nuove preposte a svolgere un ruolo produttivo. Il contesto di internet mi appare ancora assai fluido; altrimenti perché continuare a preoccuparsene e non passare piuttosto a temi più urgenti e interessanti? La battaglia per internet non è ancora chiusa. Finché c'è qualcosa in gioco, nuovi spazi autonomi produrranno nuove generazioni di fuorilegge - e posizioni critiche per portare avanti i propri progetti. C'è un'abbondanza di slogan e citazioni per chi si muove in rete: Nessun'idea? Nessun problema (inserzione) - Sentirsi di nuovo in gamba - Sì, possiamo commentare - Quando sei annoiato diventi noioso - Aspirare al bene comune - La caduta dell'egemonia digitale - La disperazione del dandismo di massa - Registrati qui per diventare un Partizan - Riempire il vuoto americano - La distanza interna in aumento - Assapora la bellezza dell'intensità indiretta(TM) - un'estasi tranquilla - Opero come uno schermo vuoto - L'osservatore è solo; è la solitudine della persona libera - Fede come scelta razionale - ... software superiore per le moltitudini perplesse... - «La Francia era il centro del mondo e oggigiorno soffre per la mancanza di grandi eventi storici. Ecco perché si crogiola in posizioni ideologiche radicali. È la lirica, nevrotica aspettativa di qualche gesto eroico tutto proprio che tuttavia non arriva e non arriverà mai» (Milan Kundera) - Ridare alla gente il bene più affidabile, la teoria (cartellone pubblicitario) - Non siamo alla disperata ricerca di investimenti - «È il cane fedele di Google. Più in basso degli animali» - Apprezziamo l'indipendenza (Chatroulette) - Il multitasking è per i poveri - Nobili menzogne per i social media - Mi piace pensare a me stesso - Collegare le rivolte involontarie - «Super-programmato, furioso, solitario» (Zadie Smith) - Colore preferito: opaco - Senza potere non ci sono responsabilità. | << | < | > | >> |Pagina 301.7. In attesa di una teoria della reteLe riflessioni e i capitoli che seguono fanno parte del progetto di «critica della Rete» che punta a definire dei concetti sostenibili. In modo separato, il capitolo 5, «Disquisizione sulla teoria critica di internet», riprende quanto già affrontato nel 2003 nel mio My First Recession, ed è dedicato all'attuale scenario di questo filone in costruzione. Tra gli esempi di concetti precedenti rientrano la sovranità dei media, le reti organizzate e l'estetica distribuita, mentre l'idea dei media tattici rimane quella più nota. Il presupposto è che usando i concetti come mattoni individuali, assemblati tramite innumerevoli dialoghi e dibattiti, questi tentativi collaborativi finiranno per integrarsi in un'articolata teoria materialista (leggasi: concentrata sull'hardware e sul software) e focalizzata sugli effetti. Finora ciò non si è concretizzato su larga scala, ma forse dovremmo rallentare, rilassarci e aver pazienza. Quando prese forma una teoria scientifica della rete, i ricercatori l'adottarono prontamente nelle varie discipline perché la sua generalizzazione interdisciplinare sembrava offrire quel che gli studiosi della società in rete aderenti alla «fisica sociale» stavano aspettando da tempo. Basato su prospettive fin troppo umane e sul disinteresse per l'aspetto tecnologico, l'approccio sociologico alla «analisi dei social network» delle dinamiche interpersonali si è rivelato inadatto per le contraddizioni della società in rete. Il risultato è la perdita d'entusiasmo per le teorie della rete generaliste che offrono un approccio da taglia unica per ogni misura, che è poi il caso della teoria dell'attore-rete. Se analizziamo l'uso delle reti da parte delle grandi istituzioni o dei bot come esempi di comportamento del software autonomo, la teoria può tornare utile. Cosa succede però se consideriamo l'estetica del web o la politica dei social media? Oppure la soggettività online? La risposta è un bel silenzio. Con i cosiddetti internet studies (organizzati sotto l'egida dell'Associazione dei ricercatori di internet) focalizzati sui metodi delle scienze sociali, va facendosi evidente l'assenza in quest'ambito di un ampio progetto basato sulle discipline umanistiche. Come sostengo nel capitolo 6, «Diagnosi di una fusione non riuscita», è ora di ricercare quegli elementi in grado di creare una teoria della rete al di fuori delle analisi culturali ossessionate dall'identità e dall'approccio delle scienze sociali. C'è bisogno di concetti critici accattivanti, capaci di sopravvivere in quanto meme robusti per poi trasformarsi in protocolli tecno-sociali. Se prendiamo in esame le specifiche teorie su internet, l'oggetto di studio è stato man mano derivato da comunità virtuali (Rheingold), spazio di flussi (Castells), masse intelligenti (Rheingold), legami deboli e punti critici (Gladwell), crowdsourcing, cultura partecipativa (Jenkins) e saggezza delle folle (Surowiecki), fino a etichette generiche come il Web 2.0 (O'Reilly) e i social media. Spesso queste teorie illustrano in maniera efficace le modalità con cui emergono e crescono le reti, oltre alle forme e alle dimensioni che assumono, rimanendo però silenziose su come queste vengano integrate nella società e quali conflitti ciò possa comportare. Perché mai, dopo due decenni buoni, non esiste ancora una «teoria di internet» generale? Forse ne siamo tutti colpevoli? C'è bisogno di una teoria della rete attuale, capace di rifletterne i rapidi cambiamenti e di prendere seriamente le dimensioni culturali e critiche dei media tecnologici. La teoria della rete enfatizza ancora la «teoria della rete unificata» focalizzata sulla scienza, per parafrasare il linguaggio di Albert-László Barabási. È impossibile limitarsi però a studiare i modelli di potenzialità e di crescita come fenomeni pseudo-naturali. C'è speranza: possiamo ribellarci contro le forme matematiche delle reti. Le discipline umanistiche dovrebbero fare ben più che descrivere l'epoca in cui viviamo. Possiamo confrontare gli aforismi inopportuni con la pianificazione di scenari futuri, le riflessioni speculative con il giornalismo dei dati, e la programmazione informatica con gli studi visuali. L'obiettivo complessivo è stimolare il futurismo speculativo e celebrare le modalità espressive individuali anziché giochi di potere istituzionale. Sono in molti a voler sapere come le reti possano garantire la «fiducia» pur rimanendo aperte, piatte e democratiche. Come controbilanciare le concentrazioni di potere che vanno rapidamente emergendo? Se le reti sono così distribuite e decentralizzate per natura, perché allora non si oppongono alle enormi economie che producono megaaziende quali Google Facebook? La risposta può trovarsi in quel concetto di reti organizzate, presentato in Zero Comments, che ci condurrà ai casi di studio illustrati nell'ultimo capitolo del libro. In ogni caso, il consenso di massima è scomparso. Siamo pronti per affrontare l'era del conflitto? | << | < | > | >> |Pagina 37La vita i così sorprendente che lascia poco tempo per altro. Emily Dickinson Tentacolare, protuberante, escrescente, ipertelico: è questo il destino inerziale di un mondo saturato. La negazione della propria fine nella finalità massima; non è forse lo stesso meccanismo del cancro? La rivincita della crescita in escrescenza. La rivincita e l'avanzata della velocità inerziale. Jean Baudrillard Il sovraccarico d'informazione è qualcosa che ci accompagna da tempo. Marshall McLuhan e Herbert Simon ne hanno discusso fin dagli anni Sessanta. Le cause della caduta d'attenzione sono passate dalla proliferazione di canali TV e titoli di giornali a enormi archivi, provocando però sintomi analoghi: l'impossibilità di gestire il flusso dei dati e la decisione di lasciar accumulare quelli in arrivo finché il sistema crolla. È soltanto all'inizio del 2000 che miliardi di persone si sono trovate a fronteggiare un'esplosione di dati — dovendo navigare e fare ricerche online 24 ore su 24, spesso mentre si è in giro, sui mini-schermi dei dispositivi mobili. Leggere e rispondere a centinaia di email al giorno non può più essere un paradosso da scegliere oppure incluso nella categoria «piccolo è bello». Qui la «tirannia delle piccole decisioni» non c'entra nulla. È un lavoro vero e proprio. Il sovraccarico d'informazione è un tema mediatico alla moda che si presenta come una sensazione relativa alla tecnologia negli ambienti della classe media. Andrebbe anzi discusso nel contesto del carico di lavoro borghese, quando si lavora di più a stipendi inferiori. Pur se l'ambito della comunicazione e dei media può rappresentare un'opportunità — e una necessità — per i poveri del pianeta, fa venire l'emicrania ai settori più abbienti della società. Dato che il malcontento non viene espresso in termini politici, traduciamo il problema in ambito medico. L'utente divenuto paziente si trova a dover compensare il sovraccarico sensoriale trascorrendo offline periodi qualitativamente importanti. Oppure, l'incapacità di un utente nel prendere parte alla società dell'informazione viene descritta come una questione generazionale. Laddove sinapsi fresche e cervelli vuoti possono succhiare gigabyte di informazioni d'ogni tipo, quelli con i vestiti grigi al potere prima o poi crolleranno. A peggiorare le cose, viste le limitate capacità di multitasking degli uomini rispetto alle donne, è probabile che i primi soffriranno di più a causa di questo sovraccarico d'informazione. I nativi digitali potenziali trascurano la dieta e vengono colpiti da un attacco di dati. Danno i numeri quando qualcuno ruba loro il BlackBerry, o se si rompe il portatile, la casella della posta elettronica trasborda oppure le richieste di amicizia restano inevase. Nel suo studio del 1901, Psicopatologia della vita quotidiana, Sigmud Freud descrive la fase in cui dimentichiamo nomi, facciamo errori grammaticali e il cervello perde colpi. Frustrati, ci interroghiamo sull'origine di simili errori e lacune. I nostri sensi ci traggono in inganno. Come per il malcontento del secolo scorso, nell'età dell'informazione incolpiamo noi stessi senza capire perché saremmo in difetto. È colpa dell'istruzione, delle strutture socio-economiche o delle limitazioni umane con cui dobbiamo ancora riconciliarci? La differenza è che l'attenzione immediata sfugge via dalla capacità di memoria umana per trasferirsi verso le architetture dei sistemi d'informazione. Un secolo dopo Freud, l'ansia passa dal fatto di dimenticare a quello di trovare qualcosa. Non ci autoaccusiamo per aver dimenticato il nome di un amico o di un famigliare, bensì rimaniamo interdetti se non riusciamo a trovare il file giusto oppure se inseriamo termini incompleti in una ricerca online.
L'utente abbraccia il mondo e inizia a creare elenchi. Siamo onorati di
ricevere un invito dalla Macchina per sottoporle opinioni e preferenze
personali. In quale categoria vogliamo essere inclusi? Deve esserci
almeno qualcosa di buono là fuori come ricompensa, dopo che abbiamo alimentato i
vari database. Non appena ci imbattiamo in qualcosa di valido, decidiamo di
inoltrarlo ad altri, parlarne sul blog, farne
un tweet e linkarlo alle nostre ultime scoperte. Finché ci sono contenuti c'è
speranza. Cediamo alla pressione di dover catalogare i dati e
ci uniamo a sciami di «intelligenza collettiva». Doniamo la nostra saggezza alle
folle. I siti web mettono in mostra i materiali più letti, visualizzati e
inviati, fornendo consigli su quello che utenti con gusti analoghi ai nostri
hanno pensato e acquistato. Quel che è affascinante non
è tanto il flusso continuo delle opinioni, come una volta Jean Baudrillard
descriveva la democrazia nell'epoca dei media, quanto piuttosto
la capacità di indulgere nella similarità altrui. Riceviamo inviti a creare
liste di testi da consultare, a valutare brani musicali e a segnalare
i libri che stiamo leggendo. Utenti-operai che lavorano per l'ape regina Google.
È davvero seducente far parte del mondo della «impollinazione» online,
riprendendo il termine coniato dall'economista francese
Yann Moulier Boutang, con miliardi di utenti che sembrano tante api
che volano da un sito all'altro solo per accrescere il valore dei proprietari
dell'alveare.
2.1. La morbida narcosi della presenza in rete Nell'aprile 2010, mi sono recato a Bologna per incontrare il teorico dei media Franco «Bifo» Berardi: aderente al movimento post-operaio del 1977 (spesso associato con Antonio Negri, Paolo Virno e altri), co-fondatore dell'emittente libera Radio Alice, coinvolto nei media tattici con il movimento delle Tele-street e curatore del forum di discussione sul web Rekombinant. Berardi, che insegna all'Accademia d'Arte di Brera e ha superato i 60 anni, rimane particolarmente attento a certe «precarie» condizioni dell'era contemporanea, quali il super-lavoro, i contratti a breve termine, gli anti-depressivi, i BlackBerry e i debiti causati dalle carte di credito. Alcuni suoi lavori sono ora disponibili in inglese, come The Soul at Work del 2009, in cui descrive la transizione degli ultimi 30-40 anni dall'alienazione all'autonomia, dalla repressione all'iper-espressività, dalle speranze e dai desideri del mediattivismo alla soggettività diffusa, per non dire depressa, del cittadino farmacologico del Web 2.0. In un'antologia di saggi del 2009 intitolata Precarious Rhapsody, Franco Berardi sottolinea: «Pur se il cyberspazio è concettualmente infinito, non così il cybertempo. Con questo termine definisco la capacità dell'organismo cosciente di elaborare l'informazione (cyberspaziale)». Aggiungendo come nella Net economy la flessibilità si sia evoluta verso la frattalizzazione del lavoro. I lavoratori vengono pagati per servizi occasionali e temporanei. Siamo tutti fin troppo coscienti della frammentazione del tempo innescata da queste attività. Come spiega Berardi: Oggi la psicopatologia si manifesta con sempre maggior chiarezza come un'epidemia sociale e, più precisamente, come un'epidemia socio-comunicativa. Se vogliamo sopravvivere dobbiamo essere competitivi, e per farlo bisogna essere connessi, ricevere ed elaborare in continuazione un'immensa e crescente quantità di dati. Ciò provoca un costante stress d'attenzione e la riduzione del tempo disponibile per l'affettività. Nel tentativo di sincronizzare i propri corpi, i lavoratori prendono medicinali quali Prozac e Viagra, o sostanze come cocaina e amfetamine. Applicando questa teoria a internet, notiamo due movimenti - l'espansione dell'accumulazione e la compressione del tempo - che rendono stressante lavorare online. Siamo di fronte a una sorta di «origine del caos contemporaneo». Un caos che si manifesta quando il mondo va troppo veloce per il nostro cervello. Secondo Berardi, dobbiamo concentrarci sui «nativi digitali» per capire appieno questo sovraccarico d'informazione. Il fatto che le vecchie generazioni soffrano di una saturazione dell'informazione non dovrebbe essere determinante per la nostra analisi. Scrive Berardi: Non chiediamoci se sapremo farvi fronte o meno. Qui non si tratta di capacità di adattamento o di fare certe scelte. Il dio greco della caccia e della musica rustica, Pan, è il simbolo della pienezza e dell'abbondanza, e non è mai stato stigmatizzato come problematico. L'umanità è sempre stata impressionata dai miliardi di stelle che brillano in cielo di notte - senza mai farsi prendere dal panico di fronte a tanta vastità. Per Berardi, dobbiamo sforzarci di immaginare il modo di crescere degli esseri umani all'interno della infosfera. Da posizioni anti-conformiste, egli mette in dubbio l'attuale enfasi che l'arte contemporanea e altri circoli estrosi pongono sul «divenire», concetto centrale nelle opere dei suoi capiscuola Gilles Deleuze e Félix Guattari , con cui Berardi ha collaborato e curato un libro. Il desiderio, da sempre elemento positivo, oggi non è più necessariamente tale. Non stiamo più «diventando» digitali. Ci troviamo nel bel mezzo del paradigma della rete - e c'è un gran daffare lì dentro. Berardi mi ha raccomandato un libro del 2009, Capitalist Realism, in cui Mark Fisher spiega cosa succede quando il postmodernismo viene naturalizzato e definisce la sua inespressa visione del mondo come «impotenza riflessiva». «Si sa che le cose vanno male, eppure, quel che è peggio, non ci si può far nulla. Ma questa "conoscenza", questa "riflessività", non è un'osservazione passiva di uno stato delle cose preesistente. È una profezia che si autorealizza». Un ostacolo all'emergere di reazioni a un simile sovraccarico d'informazione è la possibilità di ritirarsi in una posizione d'indifferenza. I giovani sperimentano un mondo che non può essere toccato. Percepiscono che la società sta andando in frantumi e niente potrà mai cambiare. Fisher lega l'impotenza alla diffusa patologizzazione, precludendo l'eventualità della politicizzazione. «Molti degli studenti adolescenti che ho incontrato» scrive Fisher «sembravano vivere in uno stato di edonismo depressivo, costituito dall'incapacità di impegnarsi in qualsiasi altra cosa che non fosse la ricerca del piacere». I giovani reagiscono alla libertà offerta loro dai sistemi post-disciplinari «non perseguendo dei progetti bensì cadendo nel lassismo edonista: la morbida narcosi, il confortevole cibo dell'oblio che include Playstation, TV e marijuana per tutta la notte». Dato il suo passato psicoanalitico, Franco Berardi collega la condizione descritta da Mark Fisher alla perdita dell'affetto materno e della voce paterna, sostituiti dal meccanico reame della televisione e del computer come fonti primari per l'acquisizione del linguaggio. L'indolenza diventa una virtù dopo che è impossibile schivare le notizie d'attualità. È questa la strategia della Rete Sovrana. Non più richiami alla moderazione o tentativi di filtrare il ciarpame nella speranza di trovare qualche vitale perla d'informazione. Ci limitiamo invece a navigare alla ricerca della serendipità perfetta con gli occhi bendati. Siamo ben connessi eppure la cosa con c'interessa. La sgargiante seduzione visiva delle agenzie di PR e degli ingegneri del software si arena su quest'atteggiamento fondamentale. I flussi dei dati non riescono più a penetrare nella nostra armatura mentale; gli scudi difensivi funzionano egregiamente. Berardi sostiene che non viviamo nell'economia dell'attenzione, concetto basato sull'idea della scelta e preferito dalle vecchie generazioni di stampo sia liberal che conservatore. Come se non esistesse nessun'altra scelta che far parte di Facebook e Twitter e avere il telefono cellulare accesso 24 ore al giorno. Per la Generation X seguita ai baby boomers, cresciuta sotto il realismo capitalista, semplicemente le cose non stanno così. Berardi: «Il problema non è la tecnologia. Occorre farsene una ragione. L'elemento distruttivo è la combinazione tra lo stress da informazione e la competizione. Dobbiamo vincere, essere i primi. Il vero effetto patogeno è la pressione neo-liberista che rende del tutto invivibile la condizione della rete — non l'abbondanza di informazioni in quanto tale». | << | < | > | >> |Pagina 97Non credo sia possibile predire il comportamento o le condizioni umane. La pianificazione economica non ha mai funzionato. La gente vi si oppone in maniera automatica. Quando Gutenberg ha inventato la macchina da stampa, ne è scaturito un diluvio di informazioni. Si poteva stampare di tutto e circolavano soprattutto libelli incendiari: appelli alla guerra civile, alle battaglie religiose, all'intolleranza. La gente reagì inventando le analisi critiche. Kant è la risposta alla superiorità della carta stampata. Oggi si può notare che quanti usano Internet sono immuni dalla saturazione dell'informazione, leggono le prime 40 parole e ignorano le successive 18.000. Un simile riduzionismo presenta lati positivi e lati negativi. Questo tipo di utenti non si siederanno di certo a leggere Anna Karenina. Ma neppure affogheranno nell'informazione. L'essere umano riesce sempre a crearsi una propria chiarezza.
Alexander Kluge
Questo capitolo solleva la questione del filone della «teoria critica di
internet» e dei suoi contorni analitici. Insieme alle pressioni per tenersi
su posizioni leggere e positive, mettere in discussione certe concezioni
mainstream di internet viene percepito come un segno di pessimismo
culturale. Niente atteggiamenti critici, per favore. Forse che per proporre
analisi critiche occorra coraggio civile? Dobbiamo tenere a mente
che esporre simili teorie è un compito necessario ma noioso; svolgere
un'argomentazione convincente basata su una serie di concetti interdipendenti
può risultare tutt'altro che sexy. L'analisi critica va costruita
un mattone alla volta, con pazienza, e pur se basata su un ricco passato, non
può essere tirata fuori da un qualsiasi cassetto. Come mettere insieme una
retorica che ricalchi le orme della critica letteraria e
teatrale, ma sia tagliata su misura per le specificità tecnologiche di internet
e dello scenario globale del XXI secolo? La teoria critica della Rete
darà forse vita a uno stile letterario
ad hoc,
simile alle recensioni o alla saggistica, i cui effetti portarono alla nascita
della cultura libraria nel XVIII secolo? Non c'è bisogno di iniziare da zero.
Esistono già dei contenuti validi, dalla mailing list «nettime» a Nicholas Carr,
ma potremmo anche includervi qualche voce dall'Africa, le critiche a Facebook
di autori indiani, e idee radicali provenienti dal Brasile. La teoria critica di
internet potrebbe assumere anche forme nuove, al di là di generi
ben noti quali gli articoli, le recensioni, i saggi e infine il libro. Rispetto
al software, si potrebbe pensare a discussioni via posta elettronica o nei
forum sul web, ai blog e ai tweet, insieme ad altre culture dei commenti. Prima
di arrivare alla fondazione di un genere emergente, dobbiamo
però attraversare il deserto della realtà e affrontare questa modalità critica
per come viene percepita in discipline affini quali le arti visive, la
cinematografia e la cultura libraria. Uniamoci dunque nella ricerca infinita
sullo scenario dell'analisi critica.
5.1. La teoria critica nell'era della sovrabbondanza In The Death of the Critic (2007), Ronan McDonald propone di storicizzare la teoria critica in quanto reliquia dell'epoca modernista. Il critico ha guidato il pubblico nella ricerca di un gusto più raffinato. Prima della rivoluzione culturale avvenuta nell'ultima parte degli anni Sessanta, si percepiva come compito del critico quello di definire il canone — non con un quadro restrittivo, bensì proponendo un'illuminazione emancipatoria. In quel periodo, i critici dovevano sforzarsi di apprendere e propagare il meglio della conoscenza e del pensiero globali. Le preferenze delle élite venivano condivise e prescritte alle masse come politiche didattiche atte a elevare le persone comuni e renderle pienamente parte della civiltà occidentale. La bellezza sposata a una giusta causa. Nel bel mezzo del XX secolo, era ancora il critico a definire il gusto del pubblico e a determinare l'autenticità degli artefatti culturali. Guardando all'indietro, l'apice della teoria critica si è avuto con la diffusione di giornali, riviste e pubblicazioni accademiche — una circolazione di massa che ha centralizzato, catturato e guidato l'attenzione collettiva, spingendo i cittadini-lettori a discutere l'ultimo romanzo o lo spettacolo teatrale della sera prima. Ci fu l'integrazione tra ragione e sentimento. Secondo Ronan McDonald, il declino dell'analisi critica iniziò con la «democratizzazione del gusto» durante gli anni Settanta. In reazione all'ascesa della cultura pop, la teoria critica si ritirò nella roccaforte del mondo accademico. Lo studio dell'estetica divenne «sempre più rivolto all'interno e non-valutativo». Nel corso degli ultimi decenni, si è ampliato il divario fra la teoria accademica e la copertura giornalistica dell'artista come nome famoso, portando così alla morte del meme della teoria critica. Michael Schreyach sostiene che di questi tempi la critica delle opere artistiche «può fare poco più che fornire un certo contesto per l'arte in oggetto e proporre qualche annotazione sul suo valore di mercato, la popolarità e il significato sociale (o la sua mancanza)». Nella migliore delle ipotesi, l'analisi critica è diventata un Flaschenpost, il classico messaggio nella bottiglia. L'intreccio di questi due fattori — la cultura pop e la chiusura dell'analisi critica letteraria nel mondo accademico — ha minato alla base l'autorevolezza del critico. La velocità delle analisi «non autorizzate» nella blogosfera e su Amazon, e la ritirata nelle università, dove gli esperti portano avanti battaglie discorsive auto-referenziali, sono le due facce della stessa medaglia. [...] | << | < | > | >> |Pagina 102Queste riflessioni possono forse tornare utili per la teoria critica della Rete? Potremmo chiederci, perché mai cercare di risvegliare un cadavere? Che senso ha reintrodurre «la teoria critica», un genere che si ritiene abbia perso ogni vitalità e sia già scomparso? Dovremmo avvicinarci oppure allontanarci dalla posizione «fatale» suggerita da Jean Baudrillard in contrapposizione alla critica? Cosa significa avanzare un'analisi critica di tipo nuovo in un'epoca caratterizzata dall'assenza di giudizio? Perché non abbracciare l'oggetto con l'intento di ucciderlo? Forse la stessa proposta di una teoria critica della Rete cade nella trappola di essere identificata con la «teoria critica» di taglio storico, laddove, ancor prima di cominciare, dobbiamo attraversare le distese ghiacciate dell'astrazione per parlare con Walter Benjamin, dopo essere stati costretti a confrontare gli appunti con Adorno, Horkheimer, Habermas e Honneth. Anzi, anziché una fonte d'ispirazione produttiva o una corrente filosofica con cui paragonare annotazioni, l'idea di una teoria critica della Rete come continuazione della Scuola di Francoforte si è rivelata una strada senza uscita. Il riferimento stesso ne blocca ogni conversazione. Si può essere critici senza fare critica, ed è forse questa la ragione principale per evitare del tutto ogni accostamento (pubblico) con la Scuola di Francoforte. Quel che ci rimane è qualche lettura clandestina, un'ammirazione silenziosa e l'interpretazione informale delle loro opere.5.2. Formulare una teoria critica della Rete Il discorso non procede in modo lineare da un concetto all'altro. Perché mai allora internet, con tutte le sue novità e le innumerevoli funzioni, dovrebbe farsi carico della pesante eredità di questa specie testuale in cattiva salute? Forse la teoria critica è un passaggio storico che torna in vita come posizione utile. E la teoria critica della Rete non dovrebbe essere niente di più che un modo di scrivere fra molti altri, una basilare forma di riflessione nota anche come stile di vita alternativo per quei ribelli che amano contestare le gerarchie. Anziché imboccare questa direzione cinica, il sottoscritto, sulle orme di Ronan McDonald, considera l'analisi critica non come un programma ideologico bensì come un'arte manuale necessaria a creare gli stili letterari e come un invito a impegnarsi in riflessioni radicali, lontano dai frivoli commentari e dal chiacchiericcio sull'ultimo tweet. Come poter esprimere tutto ciò? Nell'epoca di internet, l'antidoto per l'analisi è il gergo delle notizie d'attualità e il linguaggio delle relazioni pubbliche, che invitano a una rapida scrematura. Se il critico del futuro avrà un avversario a cui opporsi, questi è il redattore editoriale, anonimo e professionale, anzi interi eserciti clonati di costoro, intenti a ricevere, re-impacchettare e distribuire il materiale testuale e visivo per gli utenti partecipativi globali che poi procedono a linkare, inoltrare e cliccare sul «mi piace». Il critico della Rete opera in un universo parallelo di stampo kafkiano senza coinvolgersi con questi propagandisti, che dall'ambito tradizionale della televisione e del cartaceo ora sono ben determinati a conquistare il cyberspazio. Cerchiamo di rimanere sul concreto. Partiamo dall'osservazione che oggi internet è diventata una tecnologia mainstream.
[...]
La teoria critica della Rete deve andare oltre la Ideologiekritik o l'analisi del discorso. L'obiettivo della teoria critica è quello di legare strettamente l'auto-riflessione al ciclo continuo del feedback per trasformarne l'architettura. Anziché concentrarsi su una realtà sociale in rapido mutamento, come proposto da Manuel Castells , mi sono imposto di mettere a punto una migliore comprensione del ruolo svolto nella creazione della società in rete da concetti quali libero e gratuito, aperto, network, community, blog, condividere, cambiare, amici, link e mi piace. Non c'è bisogno di essere degli idealisti per riconoscere l'importanza di capire perché quei concetti che covano per anni sembrano apparire improvvisamente dal nulla, per poi trasformarsi in piccole iniziative che lievitano nottetempo in sistemi usati da centinaia di milioni di persone. Vanno riviste le modalità tramite cui la teoria viene usata e implementata. Il progetto di una teoria critica di internet è la comune ricerca di concetti direttamente legati ai media che poi possano trovare applicazione nel codice, nelle politiche operative, nella retorica e nelle culture degli utenti. Questo è un processo basato su tentativi ed errori. È sorprendente notare come alcune delle idee che mi appassionarono negli anni Novanta rivestano ancora notevole significato, come la sovranità dei media, il dandismo dei dati e soprattutto i media tattici. Un altro esempio avviato nel 1995 con Pit Schulz è la teoria critica della rete. Concetti più recenti sono le reti organizzate, l' estetica distribuita e il più ampio concetto di culture di rete. A volte è utile inventare decine di concetti per vedere se e quali vengono recepiti. Altre volte conviene investire parecchio tempo ed energie (collettive) per trasformarne uno in un meccanismo appropriato. Ovviamente una simile metafora è presa in prestito da Deleuze e Guattari, i quali hanno teorizzato questo processo come pochi prima di loro. | << | < | > | >> |Pagina 1075.3. La cultura della recensione nell'epoca di internetCome esempio di una strategia capace di stabilire una vivace serie di pratiche, la «teoria critica della Rete» potrebbe analizzare l'alterazione delle modalità di recensione quando vengono applicate al mondo digitale online. Spesso in altri contesti, quali film, letteratura e teatro, la teoria critica equivale alla recensione di opere recenti. Nell'ambito di internet, in cosa potrebbe consistere l'approfondita recensione di un sito web o di una nuova app? Come mai i criteri di «usabilità» vengono inquadrati tramite l'idioma di stile protestante e imprenditoriale di Jacob Nielsen — senza neppure metterli in discussione? È possibile rendere popolari le recensioni di taglio tecnico del software? Cos'è che rende interessante la recensione di un'app, oltre la mera descrizione delle sue funzionalità? Nel corso degli anni abbiamo assistito al costante incremento del livello intellettuale nelle recensioni sul gaming, derivate da quelle cinematografiche e culturali, ma ciò non può certo applicarsi alla variegata cultura di internet. In generale le recensioni vengono considerate una lettura lenta rispetto alla gratificazione istantanea. Si potrebbe anche dire che, grazie a una cultura delle recensioni ricca e diversificata, gran parte delle ricerche online diventerebbero inutili. La radicale democratizzazione delle recensioni provvista da siti come Amazon è un'ovvia fonte di preoccupazione per i commentatori della vecchia scuola che si sentono sommersi dal rapido accumulo di dati. Nel libro del 2007, Faint Praise, The Plight of Book Reviewing in America, Gail Pool discute la persistente diminuzione delle tradizionali recensioni librarie. «Le recensioni ci aiutano a decidere cosa leggere e a sapere quali sono i titoli in circolazione [...] Leggiamo le recensioni perché ci piace giocare con le idee o leggere sul fatto di leggere, oppure perché consideriamo le recensioni ben fatte come una forma letteraria. Ma in sostanza vogliamo avere dei consigli per gli acquisti e qualche orientamento culturale». Secondo Pool, da tempo chi segue le recensioni ha riposto piena fiducia nei critici generalisti, che rimangono comunque figure autorevoli in quanto intellettuali pubblici, in opposizione ai siti di recensioni e vendite sul Web i quali propugnano «l'idea democratica per cui ogni lettore ha qualcosa di valido da offrire». Pool considera importante la distinzione tra un approccio generalista, la lettura degli esperti e le impressioni amatoriali. La cultura della Rete deve dare maggior spazio a consumati conoscitori, capaci di comunicare complesse questioni tecniche e logiche a un pubblico di vaste proporzioni. Come fare a trascendere l'enorme ondata di recensioni di prodotti che per lo più si concentra su equivoci comunicativi, difetti di fabbrica, versioni incompatibili e contrattempi nella consegna degli ultimi prodotti di consumo? Gail Pool descrive così i classici problemi della navigazione online: Chi potrebbe aver voglia di leggere 600 recensioni di un solo libro, ciascuna con specifiche descrizioni e valutazioni, per provare a identificare quelle più affidabili? Esistono poche esperienze meno gratificanti di questa: il solo scorrerle è compito faticoso, e dopo averne lette qualche decina, si decide che non c'è più bisogno di avere o di leggere quel libro. Il problema è, come dare man forte all'antologia di Martin Amis, War Against Cliché, che propugna la fine alle banalità? Forse Amazon dovrebbe rimuovere l'opzione per le recensioni, o meglio consentire agli utenti di oscurarla? Facciamo comunque attenzione a non biasimare soltanto chi si auto-qualifica come «recensore». In ambito professionale, gli editori strumentalizzano i recensori come macchine produttrici di frasi fatte: trovate qualche battuta breve e ficcante, scritta unicamente a scopo promozionale. È la vittoria delle notizie d'attualità che spazzano via le recensioni impegnative. Secondo Pool: «Dobbiamo trovare un modo migliore per scegliere i libri da recensire. L'attuale sistema porta inevitabilmente a sottovalutare i volumi interessanti, a dare spazio ai libri cattivi, e a sminuire la stessa pagina del libro». Interessante notare come Gail Pool menzioni Virginia Woolf , che nel suo libello del 1939, Reviewing, proponeva il completo abbandono di questo genere, descrivendo il recensore come «un'etichetta pidocchiosa e distratta piazzata sulla coda dell'aquilone politico». Un apposito sito web descrive poi la sua intenzione di bramare «l'oscurità del cupo laboratorio in cui gli autori sono rispettati e non ridicolizzati in quanto ibridi "tra il pavone e la scimmia"». In quest'era dell'ipertesto è impossibile fare distinzioni tra letteratura primaria (fonte) e secondaria (interpretazione), nella definizione di George Steiner , suggerendo che le nostre preferenze vanno alla «follia sapientona di quella secondaria». Per scrittori e lettori diventa una questione di «padroneggiare internet», qualora si voglia evitare di essere distratti — e disturbati — dalla follia della massa. Quando ci si sposta in modo strategico dentro e fuori l'arena pubblica, diventa una questione di sopravvivenza. La natura pubblica di quegli anni Trenta che portarono Virginia Woolf alla pazzia, è nulla a confronto delle interviste radio e TV, delle presentazioni librarie, delle richieste via email e delle rampanti obbligazioni a essere presenti sui social media 24 ore su 24 a cui sono soggetti gli autori contemporanei. Le odierne recensioni sulle pubblicazioni cartacee, non importa quanto brevi e scadenti, sono un'oasi di soddisfazione rispetto ai messaggini invasivi e crudi dei social media. Così la questione diventa: come fanno i lettori a decidere in modo autonomo, senza farsi toccare dagli algoritmi delle raccomandazioni in stile Amazon? È troppo facile sostenere, come fa Pool, che abbiamo bisogno di «commentari che siano imparziali, informati e critici» senza menzionare però che siamo già soliti navigare, cercare e filtrare in modo collaborativo. Un altro riferimento rilevante per il nostro contesto è il saggio del 1978 Reviewer's Dues, dove L.E. Sissman propone le seguenti linee-guida: «Non fare mai la recensione dell'opera di un amico. Non fare mai la recensione dell'opera di un nemico. Non fare mai la recensione di un libro su un tema che non si conosce o non c'interessa». E infine, ma non certo per ultimo: «Non dimenticarsi di arrischiare qualche giudizio». Quali le regole obbligatorie per il cyberspazio? Suggerirei le seguenti. Non fare mai la recensione di artefatto di cui nessuno parla. Non fare mai la recensione di una cosa che non è disponibile online e che nessuno può citare in piena libertà. Non fare mai la recensione di qualcosa che non sia possibile discutere su un forum online o su una mailing list. | << | < | > | >> |Pagina 113La meta a lungo termine di una teoria critica della Rete è quella di sostenere e sviluppare un'alfabetizzazione mediatica di tipo nuovo. L'odierno «uomo di lettere» è una figura contestata. I nativi digitali leggono di meno o di più? L'alfabetizzazione digitale come concetto è rimasto appannaggio soprattutto delle industrie creative e delle ricerche dei cultural studies, i quali cercano di difendere l'utilizzo comune di internet sostenendo che i settori didattico e professionale dovrebbero «imparare» dai new media dell'intrattenimento e partecipativi come i giochi. Pur ribadendo le potenzialità progressiste di internet, l'approccio dell'Institute of Network Cultures offre un'alternativa a questo piano ben intenzionato — preoccupandosi soprattutto di neutralizzare l'ansia promuovendo al contempo gli investimenti pubblici nella digitalizzazione, con l'uso del computer in aula, tramite la revisione delle politiche operative governative e delle strutture di regolamentazione. La teoria critica della Rete non riguarda la promozione del suo utilizzo. Il punto qui è comprendere e dar forma alla forza dello sviluppo concettuale in quanto tale. Si tratta di escogitare modalità per l'implementazione di questo sviluppo concettuale sia nel codice sia nelle pratiche quotidiane, dalla cultura alle consuetudini alle nuove forme organizzative e imprenditoriali.Un ulteriore aspetto, forse anche più importante, delle culture di rete riguarda la loro dimensione geo-politica, post-post-coloniale: la iper-crescita degli utenti internet al di fuori dell'ambito occidentale – in Brasile, Cina, India, Asia sud-orientale, parti del Medio Oriente e dell'Africa. L'attività di ricerca dell'Institute of Network Cultures è assai interessata a questi sviluppi e persegue l'ambiziosa meta di ampliare il ruolo della teoria culturale globale. L'obiettivo è quello di legare le discipline artistiche e umane alla cultura di internet, trasformando l'attuale apatia del mondo accademico (che si sente forzato a «tenere il passo» con la tecnologia) in un vitale movimento internazionale di «anticipazione critica». C'è urgente bisogno di andare oltre l'interpretazione delle notizie d'attualità e di padroneggiare il flusso in tempo reale che ci circonda. Per riuscirci, dobbiamo rimanere aperti alle proposte dei «nativi digitali» e a quei metodi di ricerca che stanno emergendo dalle stesse tecnologie di rete. Cosa s'intende quando diciamo che l'analisi critica della Rete deve diventare tecnica? L'aspetto tecnico deve essere portato in primo piano, esponendone le negazioni e le falsificazioni, non affermandone la verità positiva. L'indagine non si fonda su posizioni filosofiche, da applicare poi all'oggetto specifico, in questo caso internet. Iniziamo e finiamo con un grande No. L'atto stesso di mettere in dubbio è sufficiente per portare a esiti interessanti. La gioia di andare controcorrente è reale. Ecco perché la definiamo teoria critica. | << | < | > | >> |Pagina 237Gli attrezzi del maestro non potranno mai fare a pezzi la casa del maestro. Audre Lorde La cosa importante non è avere armi più potenti ma prendere l'iniziativa. Non è il coraggio che conta, bensì avere fiducia nel coraggio. Assumere l'iniziativa aiuta. Il comitato invisibile Per Voltaire, i periodi bui della storia umana semplicemente non meritavano l'attenzione degli uomini intelligenti. La storia ha come scopo quello di impartire la verità, non di soddisfare la pigra curiosità, e ciò può essere raggiunto soltanto studiando i trionfi della ragione e dell'immaginazione, non i loro fallimenti. Isaiah Berlin Oggi si può dire non soltanto che internet è divenuta strumento primario per l'attivismo, ma anche che sta dando forma all'organizzazione dei movimenti sociali in quanto tali. Negli anni Novanta, internet veniva usata a livello interno per mettere in rete gruppi e NGO già attivi sul territorio, mentre la popolazione in generale non era ancora al corrente della sua utilità e della sua logica organizzativa. Tutto ciò è cambiato con l'avvento dei «contenuti generati dagli utenti». Ben più che un semplice meccanismo di coordinamento, oggi le sue capacità interconnettive riescono a modellare le stesse strutture dell'attivismo e dell'attività politica. La Rete è in grado di mobilitare e accelerare la consapevolezza su certi temi. Crescono al contempo le iniziative che ci richiedono tempo e risorse. Ogni giornale si trova a dover affrontare la questione se Facebook e Twitter possano davvero provocare la caduta dei regimi autoritari. Quando noti autori come Malcolm Gladwell ci avvisano che la «rivoluzione non passerà su Twitter», sappiamo di essere finiti in un vortice dialettico dove il reale e il virtuale fanno a gara per imporci il loro gioco seducente a cavallo tra attrazione e distrazione. Un attimo, però. Come siamo arrivati a questo punto? Da quand'è che l'attivismo via internet è diventato così en vogue? Un fattore cruciale è la diminuzione dei luoghi fisici dove riunirsi. La scarsità di spazi urbani dovuta all'aumento degli affitti e alle speculazioni del mercato immobiliare ha spinto online gli attivisti, dove individui sparsi nel mondo possono ritrovarsi con maggior rapidità. Un semplice fatto sociale che ci porta a prendere in esame la questione del Web 2.0. I ruderi dell'era industriale sono stati ricolonizzati e trasformati in immobili di un certo valore. Lo squatting dei tanti uffici vuoti — simboli dell'epoca post-industriale — deve ancora prendere piede e può darsi non riesca mai a concretizzarsi per via dell'attuale scenario legale e dei sistemi di sorveglianza. Si è fatto scarso perfino lo spazio abbandonato in quanto tale, se non nel deserto in continua espansione. Un quadro che non manca certo di attirare critiche. Primo, occorre essere consapevoli di una separazione sempre più stretta tra l'organizzazione interna e quella esterna. La riduzione della privacy e l'aumento della sorveglianza hanno spinto la protesta (militante) a non fare eccessivo affidamento sui dispositivi elettronici né nella fase iniziale né nei momenti decisivi di un'azione socio-estetica. Questo è un problema, perché normalmente si ricorre alla posta elettronica, per esempio, come strumento per la mobilitazione e il dibattito interno, mentre i telefoni mobili vengono usati per coordinare l'attività in piazza. Decommissionare questi strumenti al momento giusto è un'arte in se stessa, paragonabile al settimo senso necessario a localizzare le telecamere di sorveglianza. L'attivismo deve tornare a essere iper-locale e offline onde poter operare in maniera efficace, tendenza questa che presto potrebbe essere adottata dalle ONG di ampie dimensioni. Forse si nasconde un pericolo imprevisto dietro la giustificata critica mossa da Evgeny Morozov all'uso di internet in Paesi autoritari come Iran, Bielorussia, Russia e Moldavia. Pur se rimane importante sottolineare il fallimento del tecno-ottimismo e i limiti delle prospettive cyberlibertarie, questo tipo di critica può rivelarsi anche un boomerang per gli attivisti che cercano di controbattere l'apatia e l'indifferenza. Spiega Dave Winer, ideatore dei feed RSS e blogger della prima ora: «La tecnologia è importante perché conferisce autonomia e responsabilità agli individui. È da qui che si parte. Il punto cruciale non è la sua novità o l'accuratezza, né il fatto che cambi le cose perché potrebbe farlo anche demotivando la gente. Cambiare non è una ragione valida di per sé». Una simile posizione potrebbe rivelarsi vuota, poiché il cambiamento potrebbe andare in qualsiasi direzione. Lo stesso può dirsi del commento casuale che la tecnologia in quanto tale non è un motore di libertà. La critica di Morozov alla teoria della cyberutopia, con la sua puerile fiducia nella natura emancipatoria della comunicazione online, va accoppiata a dettagliate riflessioni ricavate dall'interno. | << | < | > | >> |Pagina 24511.3. Dare uno scopo all'attivismoChe non siamo tutti «amici» è un truismo dell'ultimo periodo dell'era Web 2.0, qualcosa che blocca ogni conversazione invece di accendere l'immaginazione collettiva per dare avvio a qualche altro tipo di attività in rete. Come definire allora le relazioni contemporanee? Come progettare relazioni durature e significative, che vadano oltre la distinzione amico-nemico e la rappresentazione simbolica di un'affinità affettiva? Proviamo a sognare relazioni improbabili, incontri spontanei (e come solidificarli) e tecnologie capaci di scardinare la routine quotidiana. Le smart mobs erano troppo innocenti; 4chan offre degli elementi radicali che ci mettono in contatto con utenti sconosciuti, ma dopo qualche momento di eccitazione rimaniamo bloccati in una situazione di noioso voyeurismo. Cosa vuol dire solidarietà nel contesto di 4chan o di Chat Roulette — consentire alla Macchina di trovarci l'anima gemella in qualcuno che vive nel sud del mondo, come progetto peer-to-peer di aiuto allo sviluppo nell'epoca post-ONG? Il movimento di Anonymous può insegnarci parecchio. Eppure quel che manca in questa ironica cultura del Web 2.0 è l'elemento del «dolce straniero», nel senso di quelle che Jean Baudrillard definiva strategie fatali. Là fuori possiamo fare incontri casuali con uno scopo. Per poter essere davvero aperti a possibilità radicalmente diverse, dobbiamo dire addio al paradigma della «fiducia» su cui poggiano a livello concettuale i sistemi di sicurezza e che poi culmina nei «giardini recintati». Il discorso del «rischio» non dovrebbe essere valido soltanto per gli imprenditori che vengono lodati perché si assumono dei rischi (con il denaro altrui), mentre la grande maggioranza degli utenti rimane incastrata nelle gabbie della «fiducia». Le reti non dovrebbero replicare gli antichi legacci. Il loro potenziale è ben altro. Dobbiamo abbandonare la logica degli «amici» e iniziare a giocare con la nozione del design pericoloso. In termini di strategie di attivismo, scavalchiamo la nostra stessa ombra per andare oltre l'eredità dei «media tattici» turbolenti e speculativi degli anni Novanta. Una questione primaria è se e come i movimenti sociali, i collettivi artistici e le iniziative culturali debbano ricorrere ai social media. Una cosa è renderci meno dipendenti dalla nuvola di Google e dalla definizione delle relazioni sociali targata Facebook. Ma il vero dilemma riguarda il modo con cui affrontare la questione organizzativa. Žižek , Badiou e Agamben come i prossimi Marx , Lenin e Mao (decidete voi come accoppiarli)? A prescindere dalle opere interessanti che hanno scritto, questi filosofi non possono aiutarci granché con la loro nostalgia leninista fuori moda. Il loro rifiuto collettivo di discutere (nuove) forme organizzative parla da sé. Nell'epoca degli scambi digitali in rete, il sociale è più ambivalente che mai. Non più dono divino, i protocolli per la collaborazione umana sono appannaggio di chiunque li voglia. Un compito non più ambito esclusivo della Chiesa, del villaggio, del clan o del Partito. Dovremmo forse riporre la fede cieca nelle decisioni di Palo Alto come il futuro asse Cremlino-Vaticano? Nel corso di una discussione con Clay Shirky, Evgeny Morozov afferma: «Credo che una protesta di massa necessiti di un leader carismatico come Sakharov per poter esprimere tutto il suo potenziale. Temo però che l'era Twitter non sarà in grado di produrre un Sakharov». Ovviamente l'affermazione è precedente al culto della celebrità coagulatosi intorno a Julian Assange. Eppure quel che Morozov considera una lacuna andrebbe visto come un dato di fatto: le reti promuovono leadership informale che è difficile sostituire. Una volta le masse in piazza della vecchia scuola rivelavano la voglia di un leader carismatico, ma gli attivisti odierni devono confrontarsi con la spinta dei new media tesa alla mobilitazione ma anche a decostruire, disassemblare, descolarizzare e frammentare. Il computer in rete è profondamente postmoderno, una macchina immobilizzante stile Guerra fredda. Cerchiamo invano un modo per riassemblare le masse e usare le reti per costruire sistemi formali di rappresentazione. Quanto suggerisce Morozov può anche essere letto come un nuovo punto di partenza: non avremo masse finché continueremo a sabotare la produzione di leader in primo luogo. Invece del contro-potere, abbiamo un potere del tutto smembrato. Ciò implica aver raggiunto di fatto — no, implementato — l'era di Foucault. Le strategie autonomiste sono meno «utopiche» in simili condizioni, fatto che spiega il motivo per cui vediamo miscugli di anarchici e tecno-libertari spuntar fuori un po' ovunque. Un momento chiave per ogni movimento sociale è il contatto iniziale fra due o più unità apparentemente autonome. Potremmo definirlo erotismo del tocco a pelle. Non avete mai provato la metamorfosi delle relazioni deboli che si tramutano in legami rivoluzionari? È arduo pensare che questa eccitante fase possa essere rimossa dall'equazione digitale. Nel processo politico-artistico diventa primario creare connessioni di nuovo tipo. È il momento del «cambiamento», quando il deserto dell'egemonia consensuale si tramuta in un'oasi rigogliosa. Spiegano Michael Hardt e Antonio Negri: «Il tipo di transizione con cui operiamo richiede la crescente autonomia del controllo sia a livello pubblico sia privato; la metamorfosi degli attori sociali tramite l'addestramento per la cooperazione, la comunicazione e l'organizzazione di incontri sociali; e quindi l'accumulazione progressiva dei beni comuni». Questa non è altro che la scienza della rivoluzione: l'oggetto finale degli studi sull'organizzazione e i relativi casi nascosti.
Se vogliamo raggiungere l'obiettivo, non è sufficiente leggere correttamente
lo spirito del tempo. Dobbiamo sperimentare nuove forme
organizzative. Può anche darsi che il cuore dei rivoluzionari accademici sia al
posto giusto, ma le loro interpretazioni sono decisamente retrò
e rivelano scarsa curiosità per le forme organizzative contemporanee.
Dove sono le loro storie di tentativi ed errori? Il Web 2.0 pone la questione
sul tavolo chiedendo in che modo vada organizzato il dissenso
nell'era digitale. Come si formano i movimenti sociali ai nostri giorni?
Se non c'è nulla da nascondere, dovremmo forse adottare il modello
del «complotto aperto»? Oppure i movimenti emergono dai «cristalli
di massa», riprendendo
Elias Canetti
, quei gruppi rigidi e ristretti che
sanno come radunare le folle nelle piazze? È questo il motivo per cui
ci affascina così tanto la «comunicazione virale»? Finora la curiosità si è
espressa soprattutto tramite l'atto della duplicazione e di diventare «virale».
Al di là di deboli forme di diffusione dell'informazione,
come possiamo spingere gli altri ad agire? Sono forse le reti organizzate
a incarnare i «cristalli di massa» del XXI secolo?
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