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| << | < | > | >> |Indicevii Prefazione Capitolo 1 3 Che cos'è l'esperienza? Capitolo 2 53 Soggetto e ambiente Capitolo 3 77 Metafore, fallacie, problemi apparentemente insolubili Capitolo 4 99 L'esperienza oltre il soggetto e l'oggetto Capitolo 5 129 Dall'esperienza al soggetto Capitolo 6 149 Percezione Capitolo 7 171 Vedere senza immagini Capitolo 8 191 Esperienze insolite Capitolo 9 213 Esperienza e tempo Capitolo 10 233 Esperienza e cervello 255 Bibliografia 263 Indice dei nomi 267 Indice analitico |
| << | < | > | >> |Pagina viiPrefazione
Chi voglia varcare senza inconvenienti una porta aperta deve tener presente
il fatto che gli stipiti sono duri.
Robert Musil
Il termine «esperienza» è, a volte, riservato a quelle situazioni in cui l'esperienza è nuova, eccezionale, particolarmente significativa. Per esempio, dopo un viaggio, si può dire che «è stata una bella esperienza». Ci si dimentica che anche le attività quotidiane più comuni, come bere un bicchiere d'acqua, sono esperienze. Non le chiamiamo così semplicemente perché le abbiamo compiute migliaia di volte. In questo libro non consideriamo soltanto le esperienze straordinarie o importanti, ma ogni momento quotidiano in cui un essere umano fa esperienza di qualcosa: un odore, un sapore, un colore. Come può un organismo quale l'essere umano essere in grado di fare esperienza? E che cos'è l'esperienza? Oggi questo è uno dei problemi fondamentali che si pongono alla comunità scientifica, al pari di altri grandi problemi come la nascita della vita, l'unificazione delle forze fisiche, la natura e l'origine dell'universo. L'autorevole rivista «Science», nel luglio del 2005, in occasione del suo centoventicinquesimo anniversario, ha posto il problema della natura della coscienza (esperienza) al secondo posto, immediatamente dopo il problema dell'origine dell'universo, nell'elenco delle maggiori questioni che la comunità scientifica dovrà affrontare nei prossimi 25 anni. In questo contesto, le neuroscienze si pongono il problema di come sia possibile che l'attività neurale si trasformi in esperienza. Ma che cosa si intende per esperienza? Supponiamo di trovarci di fronte a una gardenia che emette un profumo molto intenso. Sappiamo che il profumo è in relazione con la presenza di molecole disperse nell'aria; ma sapere che esistono tali molecole non ci aiuta più di tanto a capire l'origine e la natura dell'esperienza stessa. Galileo Galilei parlava di esperienza, ossia di odori e di sapori, senza sapere dell'esistenza delle molecole. Poeti e scrittori hanno scritto per decine di secoli, per millenni, attorno alle esperienze più disparate senza conoscerne l'origine: hanno percepito odori, sapori e colori e ciò è bastato per parlarne e scriverne. I lettori hanno letto i loro libri, si sono ritrovati in quelle parole, hanno imparato a memoria poesie e canzoni che trattavano delle esperienze degli esseri umani. Scrittori, cantautori e poeti hanno posto l'accento sulle caratteristiche di tali esperienze, usando le più svariate formulazioni retoriche per descriverne gli aspetti positivi e quelli negativi: un odore spiacevolissimo per un essere umano può essere particolarmente apprezzato dai cani o dai gatti, per lo meno a giudicare dal loro comportamento. Nel nostro libro non seguiremo questo approccio per comprendere l'origine e la natura dell'esperienza. Né tanto meno porremo l'accento sulla capacità che ha l'essere umano di riconoscere i profumi o i gusti più diversi. Siamo perfettamente consapevoli che si potrebbe costruire un naso artificiale in grado di distinguere le miscele di profumi più complesse e sofisticate, oppure un palato artificiale in grado di distinguere a quale annata appartiene un rosso di Montalcino sottoposto a degustazione. Questo ipotetico palato artificiale sarebbe in grado di distinguere un vino dall'altro, meglio di un qualsiasi sommelier umano; ma sarebbe in grado di «provare l'esperienza» del sapore di un vino? L'esperienza di gustare un vino da parte di un qualsiasi bevitore, per niente raffinato, è unica, particolare, propria dell'essere umano e non ha niente a che fare con la capacità di distinguere un vino dall'altro, di riconoscere un sapore dall'altro. Quindi, che cosa è l'esperienza? Oltre ad appellarci al senso comune, vogliamo sottolineare che l'esperienza non è legata né alla piacevolezza o al disgusto, né alla capacità di riconoscere. La piacevolezza, il disgusto, la capacità di riconoscere sono accessorie rispetto al fatto primario di fare esperienza: l'ineffabile capacità di trovarci di fronte a qualche molecola o a qualche onda elettromagnetica e di percepire, noi esseri umani, un odore, un gusto, un colore. Nei libri di testo e nei manuali si racconta che il mondo esterno, attraverso i cinque sensi, trasmette al cervello opportuni segnali elettrici che vengono decodificati dall'essere umano sotto forma di percezioni: fare esperienza di un odore, di un colore, di un gusto e così via. Non si sa come avvenga questa trasformazione dai segnali elettrici e chimici all'esperienza. Dicono che occorre avere pazienza; aspettare che le neuroscienze diano la risposta. E, con questo obiettivo, le neuroscienze propongono programmi di ricerca e chiedono adeguati finanziamenti. Però potremmo trovarci nella spiacevole situazione in cui si erano trovati gli studiosi che, per la prima volta, potevano usare il cannocchiale e non erano in grado di capire quegli strani movimenti celesti che finalmente riuscivano a misurare e che non potevano essere spiegati dalla visione tolemaica del mondo con la Terra al centro dell'universo. Per comprendere l'esperienza potremmo avere bisogno di un nuovo punto di vista. Il termine «esperienza» — in un contesto riduzionista nel quale i neuroscienziati si concentrano su quello che accade all'interno della teca cranica — si è progressivamente legato a una visione del mondo di tipo dualista, secondo cui il mondo è diviso in fatti fisici e fatti mentali; il mondo come è e il mondo come appare; realtà ed esperienza. L'esperienza è spesso associata al mondo come appare e non al mondo come è. Al contrario, in questo libro intendiamo superare questa separazione tra l'esperienza e il mondo fisico.Vogliamo perseguire una direzione diversa. Cercheremo di utilizzare il termine «esperienza» in modo neutro, evitando di rimandare implicitamente a una dimensione in qualche modo contrapposta al mondo fisico; secondo noi, il termine «esperienza» non ha necessariamente questa caratterizzazione. «Fare esperienza del mondo» non impone nessun tipo di ipotesi implicita. L'esperienza non è, a priori, qualcosa di mentale. Mangiare un frutto, guardare un tramonto, correre sulla sabbia, conoscere una persona, sono tutti casi di esperienza. Tutte situazioni che si possono descrivere senza fare un riferimento esplicito al rapporto tra mente e corpo. Storicamente possiamo dire che si è parlato di esperienza assai prima che si definisse un quadro teorico di riferimento (e di confusione) per la mente. Naturalmente anche il termine «esperienza» non è stato completamente esente da contaminazioni e da utilizzi particolari. Possiamo distinguere due diverse accezioni: l'esperienza all'interno del problema mente-corpo e l'esperienza in un'accezione neutra, che sarà l'oggetto di questo libro. Nel primo caso, il termine è influenzato dalla discussione relativa al problema mente-corpo e alcuni autori, soprattutto in ambito filosofico, hanno spinto il termine «esperienza» verso una caratterizzazione di tipo mentalistico. In tali contesti spesso si usa il termine abbinandolo ad aggettivi che ne accentuano tale caratterizzazione: per esempio «esperienza fenomenica», «esperienza soggettiva», «esperienza mentale». In questo caso per «esperienza» non si intende più qualcosa di neutro, ma la controparte esclusivamente mentale del termine cui si fa riferimento nel senso comune. In questo modo il termine «esperienza» è diventato prigioniero della formulazione cartesiana del problema mente-corpo. Nel secondo caso, esiste un'accezione del termine «esperienza» che noi svilupperemo in questo testo e che è stata oggetto dei lavori di autori quali Ernst Mach, William James, Alfred North Whitehead, James J. Gibson, che hanno sviluppato una concezione neutra dell'esperienza tale da evitare di cadere nella contrapposizione tra mentale e fisico, tra apparenza e realtà. È significativo che questi autori abbiano utilizzato espressioni quali «esperienza pura» (James) ed «esperienza neutra» (Mach) per sottolineare come il loro uso del termine non dovesse dipendere da considerazioni di stampo dualista. Alcuni di loro hanno addirittura introdotto neologismi per evitare ogni connotazione mentalistisca. L'esempio più celebre in tal senso è il termine «affordance» di Gibson. Il nostro obiettivo è dimostrare che non c'è separazione tra l'esperienza e la realtà e che il soggetto e l'ambiente sono due modi diversi di descrivere lo stesso processo. Definire i termini e i meccanismi che consentono questa identità tra soggetto e ambiente è lo scopo delle prossime pagine. Se questo obiettivo fosse raggiungibile, il tema della coscienza potrebbe essere formulato su basi diverse. | << | < | > | >> |Pagina 3Capitolo 1
Che cos'è l'esperienza?
Infine, la soluzione al problema potrebbe non essere semplice ed empirica,
ma richiedere un radicale cambiamento di prospettiva [...]. Nel momento in cui
muteremo radicalmente prospettiva, forse avremo una grossa sorpresa e scopriremo
di aver avuto sempre la risposta davanti agli occhi.
Vilayanur S. Ramachandran
All'inizio della loro storia gli uomini videro che il mondo era fatto di qualità: colori, forme, suoni, odori, sapori. Gli uomini pensavano che queste proprietà fossero localizzate o identiche agli oggetti che li circondavano. Il colore verde era sulle foglie di lauro e il profumo di viola proveniva dai piccoli fiori che annunciano la primavera. Ma questa idea cominciò a creare complicazioni. Se le qualità erano negli oggetti, come era possibile che gli uomini ne facessero esperienza? Varie ipotesi vennero avanzate dai saggi della comunità. I sensi degli uomini uscivano dal corpo e toccavano gli oggetti. Si pensò che la vista fosse possibile perché dagli occhi uscivano veloci microscopiche manine. Queste ipotesi vennero gradatamente abbandonate. Allora i sapienti ritennero che esistessero dei simulacri, dei fantasmi che dagli oggetti giungevano ai corpi degli uomini; fantasmi che portavano con sé le proprietà degli oggetti. Anche questa idea venne abbandonata. I pensatori — ormai divisi in teologi, filosofi e studiosi della natura — produssero una nuova sorprendente idea, alle soglie dell'epoca moderna. Per evitare «manine» e fantasmi, le qualità del mondo non erano negli oggetti, ma dentro gli uomini. Ogni uomo aveva dentro di sé un mondo privato fatto di odori, colori, forme, sapori, suoni che non esistevano fuori di lui. Il mondo era stato privato delle qualità. Si cominciò così a studiare separatamente il mondo senza le sue qualità e le qualità come se non appartenessero al mondo, ma solo agli esseri umani che ne facevano esperienza. Quando i filosofi della natura diventarono neuroscienziati e psicologi non furono più soddisfatti. Nessuno riusciva a capire come fosse possibile conciliare il mondo delle qualità, interno alla mente, con il mondo delle cose descritto dalla fisica. Anche i corpi degli uomini erano parte del mondo fisico e, se gli oggetti non avevano qualità, non si capiva perché il corpo (e, in particolare, il cervello) degli uomini dovesse produrne. Eppure gli uomini continuavano a fare esperienza delle qualità e questo era un fatto. Per continuare nelle loro ricerche gli studiosi distinsero tra un problema «semplice» che riguardava solo i meccanismi legati al mondo fisico e un problema «difficile» che affrontava direttamente la natura e la collocazione dell'esperienza. Una nuova ipotesi venne avanzata per risolvere l'antico problema che era ormai chiamato da tutti «problema difficile» (hard problem). Gli autori del libro che avete tra le mani suggerirono che le qualità non fossero dentro i corpi degli uomini, ma nemmeno fuori, senza con questo indicare che le qualità fossero una sorta di interfaccia tra il dentro e il fuori del sacco-pelle dell'essere umano. Le qualità erano i processi fisici che terminavano dentro i corpi e che avevano inizio nell'ambiente. In questo modo le qualità ritagliavano parti del mondo esterno e non esistevano solo dentro alla mente. Allo stesso tempo, però, senza i corpi degli uomini le qualità del mondo non potevano esistere. Anche il problema dei fantasmi e delle manine era risolto. Non c'erano più due mondi, quello degli oggetti e quello delle qualità. Tale ipotesi fu talmente in contrasto con gli altri classici approcci che molti non la accettarono come proponibile. Secondo questa idea, la mente degli uomini ha inizio nel mondo fuori dai corpi ed è identica a processi estesi nel tempo e nello spazio, processi che terminano nei cervelli. Purtroppo questa idea costrinse ad abbandonare la rassicurante identità tra i corpi degli uomini e la loro mente; ciò spinse anche coloro che riconoscevano il ruolo del mondo esterno a cercare l'esperienza solo nell'attività neurale presente nel cervello.
Al di là dei miti, delle storie e delle leggende, esiste un problema
concreto. Il problema della natura dell'esperienza umana è considerato,
a ragione, uno dei principali problemi scientifici (insieme all'origine
dell'universo, all'unificazione delle forze fondamentali, alla
nascita della vita). Nel mondo della ricerca si spendono, ogni anno,
ingenti risorse in termini di ore di lavoro delle persone e di finanziamenti
privati e governativi, per trovare una risposta a questo interrogativo.
I giovani studenti di materie come bioingegneria, neuroscienze
e psicologia affrontano questi studi consapevoli che potrebbero,
un giorno, trovare la chiave per risolvere uno degli enigmi
più antichi: che cosa è l'esperienza. Eppure, questa considerevole
quantità di sforzi è incanalata secondo una ipotesi che raramente è
posta in discussione - pur non essendo fondata su risultati sperimentali
certi. Se questa ipotesi non fosse corretta, l'intero sforzo
della ricerca mondiale potrebbe rivelarsi inutile per lo meno relativamente
alla comprensione dell'esperienza. L'ipotesi è quella di ritenere
che l'attività neurale interna al cranio sia
sufficiente
a produrre l'esperienza umana. Questa ipotesi potrebbe essere falsa. Nelle
prossime pagine cercheremo di capire perché.
Box 1 Che cosa non è l'esperienza L'esperienza a cui diamo la caccia in queste pagine è l'esperienza che il soggetto fa del mondo. In ambiti diversi sono stati proposti molti altri candidati che, secondo noi, non rendono giustizia a tale intuitiva e diretta concezione di esperienza. Secondo noi, espressioni come «apprendere», «riconoscere», «distinguere», «classificare», «valutare tra buono e cattivo» non corrispondono all'esperienza in quanto tale. Fare esperienza del volto della madre non è riconoscere la madre tra altre persone. Fare esperienza del profumo della rosa non significa distinguere il suo profumo da un altro e non significa provare una sensazione piacevole o spiacevole. Fare esperienza del gusto di un vino non significa essere in grado di classificarlo. La tecnologia in generale e l'informatica in particolare hanno suggerito una serie di metafore fuorvianti circa la natura dell'esperienza. Quando un bambino, per la prima volta, percepisce un profumo, non deve necessariamente averlo classificato. Un bambino fa esperienza di un profumo: non classifica delle molecole. Ma cosa significa farne esperienza? Per rendersi conto della differenza tra l'esperienza di un vino e la sua classificazione, immaginiamo di avere un sistema artificiale in grado di effettuare il riconoscimento e la classificazione sulla base di una lunga tabella di regole a priori, del tipo: «Se un vino ha una certa percentuale della sostanza x1, un'altra percentuale della sostanza x2; se a y centimetri dalla sua superficie esistono le molecole m1, m2, a una certa temperatura ta, e altre molecole a una certa temperatura tb, allora quel vino è un barolo di una certa annata e di una particolare cantina». Anche se il sistema è in grado di riconoscere e classificare, sarebbe assurdo attribuire a tale sistema la capacità di fare esperienza. Immaginiamo di mettere a punto un sistema ancora più sofisticato, capace non soltanto di consultare una tabella compilata a priori, ma di apprendere sulla base di campioni che gli vengono assegnati: una rete neurale informatica in grado di imparare a distinguere i vini una volta che si presentino alla rete stessa i vari tipi di vino da distinguere insieme alla loro denominazione, anno di imbottigliamento, nome della cantina e altre informazioni necessarie per la loro precisa collocazione. Questo palato artificiale farebbe esperienza del vino? Ancora una volta, rispondiamo negativamente. La capacità di discriminare è diversa dal fare esperienza. Un essere umano può fare esperienza di tante cose (colori, profumi, sapori) anche senza essere in grado di discriminarle. Mentre l'essere umano deve fare esperienza per discriminare, una rete neurale artificiale può apprendere a discriminare senza fare esperienza (anche se non escludiamo che un sistema artificiale futuro, opportunamente costruito, possa fare esperienza).
In queste pagine, fare esperienza di qualcosa significa esserne coscienti;
corrisponde al fatto che il mondo si offre nelle
sue forme, qualità, essenze, caratteristiche. Faccio esperienza del
colore di un giocattolo; faccio esperienza del gusto di una fragola; faccio
esperienza dell'odore di una rosa; faccio esperienza del volto di un bambino;
faccio esperienza della forma di un girasole.
| << | < | > | >> |Pagina 9[...] Implicitamente questo punto di vista suppone che il segnale nervoso sia «portatore» o «depositario» della realtà esterna, ovvero del significato dello stimolo esterno. Sul segnale però non vi è nulla e il segnale non è altro che attività elettrica e chimica. Il mondo esterno resta qualcosa di diverso. Che cosa sia il «significato» portato dal segnale nervoso non si sa e ci si affida a interpretazioni più o meno ragionevoli. Per esempio si ipotizza che il significato sia fornito da un homunculus ( Koch, 2004 ), da un'area neurale globale opportunamente specializzata ( Baars , 1997; Edelman e Tononi, 2000; Changeux , 1983), oppure da un ipotetico «io» messo a punto durante lo sviluppo del soggetto (Benzoni, 2004). In tutte queste teorie si ritiene che esista, all'interno del cervello, un'entità in grado di decodificare, secondo un opportuno codice, il segnale stesso.Invece di dire che il segnale nervoso è «portatore» o «depositario» di un significato legato al mondo esterno, noi proponiamo una spiegazione diversa. Tra il mondo esterno e l'attività neurale si ha un processo esteso nel tempo e nello spazio. Nel 2003 il filosofo del linguaggio Peter Hacker e il neuroscienziato Max Bennett hanno denunciato in un ponderoso volume di circa 500 pagine questa acquiescente accettazione dell'identificazione tra cervello e mente chiamandola «fallacia mereologica delle neuroscienze», ovvero l'identificazione della mente (da cui deriva il termine «mereologico») soltanto con il cervello (Bennett e Hacker, 2003). Essi dimostrano come da questa fallacia nasca tutta una serie di metafore fuorvianti e inesistenti tappe intermedie nel processo di formazione dell'esperienza. Secondo Bennett e Hacker, che sono grandi ammiratori degli straordinari risultati ottenuti dalle neuroscienze in laboratorio, il problema nasce quando il neuroscienziato usa la propria autorevolezza di ricercatore per veicolare teorie e ipotesi relative a una visione della mente tutta all'interno delle strutture del cervello, ma non ancora suffragata da opportuni esperimenti. Noi non condividiamo completamente l'analisi di Bennett e Hacker, anche se siamo convinti che il loro lavoro di analisi e di ricerca su ciò che hanno scritto e teorizzato i neuroscienzati costituirà una pietra miliare nello studio della mente. Noi crediamo di fare un passo in avanti. Con gli stessi dati — a disposizione delle neuroscienze che ipotizzano che la mente si identifichi con il cervello — proponiamo un'ipotesi differente: la mente non è né nel cervello, né fuori del cervello; si identifica con un insieme enorme di processi, che si sviluppano nel tempo e nello spazio, che hanno inizio nell'ambiente esterno e terminano nelle strutture cerebrali del soggetto di esperienza. Per noi l'esperienza ha inizio nel mondo esterno e termina con l'attività neurale all'interno del cervello. Si tratta di un processo fisico con una causa e un effetto: la causa è quella parte del mondo esterno che origina il processo e l'effetto è l'attività neurale. Tutti sono concordi nel ritenere che esiste una causa esterna (fiore) che provoca l'attività neurale nel cervello. Alcuni reputano che questa attività neurale sia identica al profumo percepito del fiore. Per altri questa attività neurale è solo correlata al profumo. È necessario sottolineare la differenza che esiste tra identità e correlazione; su questo argomento discuteremo diffusamente in seguito. Per comunicare a grandi linee la nostra ipotesi, si può stabilire un'analogia tra l'esperienza e il campo magnetico: considerare separatamente la causa esterna (fiore) e l'effetto interno (attività neurale e/o profumo) equivale a commettere l'errore di considerare separatamente il polo sud e il polo nord del campo magnetico. Secondo questa analogia, il polo sud coincide con il fiore e il polo nord con l'attività neurale e/o profumo.
Naturalmente si tratta di un'analogia non del tutto perfetta: il
campo magnetico viene definito nella sua interezza in un certo
istante di tempo;
perché un processo accada è necessario un
intervallo di tempo
(durata) come in tanti altri eventi quotidiani, per esempio una
parola pronunciata, un gesto, un segnale nervoso, un'onda. Quando
la parola «precipitevolissimevolmente» è stata pronunciata? Non prima
dell'ultima sillaba «te», perché qualcuno potrebbe pronunciare
solo la prima parte della parola e interrompersi prima della fine della
parola stessa. Eppure non si può nemmeno dire che essa sia stata pronunciata
solo nell'ultimo istante quando si emette il suono «te». La
parola pronunciata si estende su un intervallo di tempo relativamente
ampio dell'ordine dei secondi: è qualcosa che non viene definito
in un certo istante. Non è che la sillaba «te» riassuma in qualche
modo il significato delle sillabe precedenti contenute in «precipitevolissimen...».
Ogni sillaba resta al suo posto, in porzioni distinte di
tempo. La parola esiste come fenomeno continuo su un intervallo di
tempo non suddivisibile dal punto di vista della parola nel suo complesso.
Quindi esistono entità che sono intrinsecamente costituite
dallo scorrere del tempo (una parola, un brano musicale, un processo
fisico), mentre altre, almeno apparentemente, potrebbero essere definite
indipendentemente dal tempo (una sedia, un disegno, un carattere tipografico).
Box 2 Quanto dura l'istante presente? Quanto è lo spessore dell'istante presente? Quanto durano l'ora e l'adesso? Apparentemente si tratta di una di quelle domande che i filosofi si sono posti per centinaia di anni senza trovare una risposta. Eppure, come vedremo, esiste un modo molto concreto di rispondere a questa domanda a partire dalla nostra esperienza quotidiana. Prima di tutto notiamo che l'esperienza - anche se ha molti riferimenti con il proprio passato e, più discutibilmente, con il proprio futuro - vive nel presente. Il soggetto è convinto di trovarsi, da un punto di vista spaziale, dove si trova il suo corpo e, da un punto di vista temporale, nell'istante presente. Ma l'istante quanto dura? Sono possibili vari approcci a questo problema. Isaac Newton ha elaborato la nozione della freccia del tempo intesa come una retta geometrica su cui scorre il presente come un puntino privo di dimensione reale, mentre autori successivi, quali Henry Bergson, hanno preferito prendere in considerazione un intervallo di tempo più grande, privo di una lunghezza definita, intervallo a volte chiamato con il termine «durata». In realtà Newton non aveva idee così precise sulla natura dell'istante presente, ma la tradizione ha affiancato il suo nome alla concezione del tempo come punto temporale privo di spessore: ci atterremo a questa tradizione. Qui seguiremo un approccio molto più concreto e pratico: prendiamo in considerazione il mondo della nostra esperienza e vediamo se è compatibile con varie lunghezze dell'istante presente. Vedremo che, per essere compatibile con quello che troviamo ogni giorno dentro la nostra esperienza, l'istante presente non può essere così istantaneo. Per mondo della nostra esperienza intendiamo semplicemente il mondo fatto da suoni, automobili, brani musicali, parole, volti, immagini pittoriche, attività neurali, movimenti, atomi, immagini televisive, segnali elettrici. Niente di strano, insomma. Supponiamo di partire dal caso più semplice: il modello newtoniano di istante presente come punto privo di spessore. Proviamo a porci una domanda: quanto del mondo che conosciamo riesce a essere contenuto in questa fettina temporalmente nulla? Poco, molto poco. Tutta la musica, le parole pronunciate, il cinema, i movimenti, la danza scomparirebbero perché, in un istante così sottile, non c'è spazio per nessuna di queste entità. Ma scomparirebbe anche l'attività neurale che è realizzata da sequenze di impulsi neurali distribuiti nel tempo. Scomparirebbero le immagini televisive costituite dallo scorrimento in un certo intervallo temporale di un fascio di elettroni su di uno schermo. Scomparirebbero anche gli atomi che sono costituiti dalle oscillazioni a diversi livelli energetici di particelle elementari in perpetuo movimento. In un istantaneo istante presente scomparirebbe quasi tutto quello che conosciamo. Chiaramente questo non può essere il nostro presente. E allora quanto è lungo l'istante presente? Visto che il caso radicale (ovvero spessore nullo) non è praticabile, dobbiamo ammettere la possibilità che il presente abbia una sua durata. Ma come definire la lunghezza della durata? Proviamo ad applicare il metodo precedente. Supponiamo che la finestra temporale sia di pochi millesimi di secondo: una scelta arbitraria. In tale finestra continuerebbero a non esistere sequenze di attivazione neurale (che richiedono almeno una decina di millisecondi). Ma comincerebbe ad aver senso parlare di atomi e molecole. E anche di immagini sullo schermo dei calcolatori. Tuttavia continuerebbero a non esistere presenze familiari come volti (che per essere riconosciuti richiedono parecchie decine di millisecondi), parole, brani musicali. Allarghiamo la finestra temporale da qualche frazione di secondo a un intero secondo. Gran parte dell'attività neurale si trova all'interno di questa finestra e anche molti fenomeni familiari: immagini, riconoscimento di volti, brevi suoni. Ma molta parte del mondo della nostra esperienza non è ancora compresa in tale intervallo: le parole richiedono più di un secondo per essere pronunciate, i movimenti spesso si estendono su un tempo maggiore, una scena cinematografica non si esaurisce in 24 fotogrammi. Molto di quello di cui facciamo esperienza richiede tempi più lunghi. E che cosa dire di eventi distribuiti nel tempo: una partita di calcio, una sinfonia, una passeggiata, una sequenza di 12 rintocchi di una campana? Sono tutti fatti che accadono in un lasso temporale ampio e che non esisterebbero dentro istanti presenti più piccoli della loro durata. Facciamo una domanda a cui daremo una risposta provocatoria: quanto tempo richiede la memoria di qualcosa accaduto diversi anni fa? Una possibile risposta è diversi anni. Si tratta di qualcosa che si estende su un intervallo molto lungo. A questo punto possiamo suggerire una soluzione alternativa al problema dell'istante presente. Non è istantaneo e nemmeno corrisponde a una finestra temporale di lunghezza fissa. Il presente di un sistema fisico è l'insieme delle relazioni di causa che giungono a compimento. Quindi nel mio presente, in questo momento, si trovano le immagini del mio monitor, le parole che una mia collega sta pronunciando, i ricordi di anni fa. Si tratta di eventi che corrispondono a processi fisici distribuiti nel tempo e corrispondenti a lunghezze temporali diverse. Il mio presente non è una finestra temporale rigida, ma questo insieme di relazioni di causa ed effetto.
Chiaramente questa concezione dell'istante presente è assai
più complessa e articolata di quella dell'istante istantaneo senza
spessore newtoniano che, come il punto euclideo, non è altro
che un'idealizzazione. Al contrario, la realtà è costituita da fenomeni fisici
con differenti lunghezze, larghezze e, come abbiamo visto, spessori temporali.
La metafora del campo magnetico è interessante perché implica l'unità tra polo sud e polo nord, ma perde in efficacia quando ci si rende conto che trascura la dimensione temporale del processo. La causa e l'effetto sono due modi parziali di guardare il processo. La metafora dei due poli del campo magnetico è particolarmente efficace proprio perché il polo sud e il polo nord sono due modi parziali di guardare il campo magnetico (nell'analogia: il processo). Purtroppo la metafora non riesce a cogliere il fatto che il processo fisico, cui noi facciamo riferimento, è definibile solo in un intervallo di tempo e non in un istante. Tuttavia non sempre una successione temporale di eventi corrisponde a un processo. Il processo è un flusso di eventi concatenati causalmente tra di loro; la successione è una serie di eventi privi di connessione causale diretta. Per esempio, supponiamo di avere tre lampadine che sono accese sequenzialmente a causa di un fotodiodo che accende la lampadina successiva solo quando viene illuminato da quella precedente. La stessa sequenza di accensione potrebbe essere ottenuta collegando le stesse lampadine ad altrettanti timer che simulano la successione temporale determinata dai fotodiodi. Nel primo caso abbiamo un processo, nel secondo caso una successione di eventi. Si può riscontrare la stessa differenza tra un torrente e la sua visione cinematografica: il torrente è un processo, la sua riproposizione attraverso una sequenza di fotogrammi non lo è. Quando Tom e Jerry compaiono sullo schermo televisivo e Jerry fugge da Tom, chi osserva ha l'erronea impressione che la causa della fuga dell'immagine di Jerry sia l'immagine di Tom, mentre sappiamo che non c'è causalità: è l'osservatore che attribuisce la causalità. L'osservatore non sta guardando un processo, ma una sequenza di eventi impressi sulla sequenza dei cartoni animati. Invece se guardassimo un vero topolino che fugge da un gatto, assisteremmo a una reale concatenazione causale, cioè a un processo. Ritornando alla metafora del campo magnetico, da un punto di vista pratico e convenzionale, è perfettamente lecito distinguere tra i due poli, tuttavia sarebbe sbagliato pensare che esistano due fenomeni separati. Il fenomeno vero è il campo magnetico nella sua interezza. In modo simile, il processo percettivo che si origina nel fiore e termina nel cervello, in quanto processo, va considerato nella sua interezza. Non è divisibile se non convenzionalmente. Secondo questa linea, il campo magnetico è un processo, così come anche il profumo è un processo. Il processo si identifica con l'esperienza olfattiva del fiore. L'esperienza presuppone un'appropriazione della proprietà del fiore, detta profumo. Secondo la tradizione greca e romana, questa appropriazione avveniva fisicamente per mezzo di «manine» che fuoriuscivano dal corpo e prendevano le qualità degli oggetti esterni. Oggi, secondo i neuroscienziati, l'appropriazione avviene attraverso una rappresentazione o riproduzione del profumo all'interno del cervello: è nell'attività neurale del cervello che bisogna andare a trovare l'esperienza del profumo. Secondo la nostra ipotesi, questa appropriazione avviene per identità, ovvero il profumo diventa parte di noi stessi: un profumo è un processo fisico e non una proprietà di un oggetto esterno al nostro corpo o una rappresentazione. Noi siamo l'insieme di questi processi fisici. È come se fossimo fatti da una molteplicità di campi magnetici; ogni campo magnetico identifica un polo esterno e un polo interno. Il polo esterno corrisponde agli oggetti o proprietà di cui facciamo esperienza. L'insieme dei poli interni corrisponde al soggetto. | << | < | > | >> |Pagina 30L'esperienza nelle neuroscienzeNoi, abitanti della Terra, siamo abituati ad aspirare il profumo dei fiori, a evitare odori fastidiosi, a orientare la nostra testa verso suoni improvvisi. Nelle lingue messe a punto dalle varie comunità di esseri umani, si riscontrano frasi del tipo: «John è andato a comprare il profumo per Evelyn», «di fronte ad Anna il tramonto esplodeva di caldi colori». La gente comune, non dedita a speculazioni filosofiche o scientifiche, ritiene che il profumo sia nella gardenia, che il colore rosso sia nei pomodori e il verde nella lattuga. Il fatto che nei negozi «tutto per la sposa» la giovane Giovanna, accompagnata dalla madre, non trovi tra le decine e decine di rotoli di stoffa bianca e preziosa il colore bianco che desidera è prova che il negozio non annovera tra i fornitori quello che produce quel particolare bianco che Giovanna vorrebbe. Ciò viene interpretato nel senso che i tessuti contengono dentro di essi un particolare tipo di bianco. Per il senso comune, il mondo è pieno di colori, sapori, odori, volumi e superfici dalle forme più disparate. Tuttavia dapprima i filosofi, già quasi 2500 anni fa, e, più recentemente, i neuroscienziati si sono posti il problema se il senso comune sia giustificabile oppure se tutto questo sia puro inganno, come nel caso dell'ipotesi Matrix delineata in precedenza: il colore non esiste nel mondo esterno, ma è una creazione dell'attività neurale interna al cervello. Questo modo di pensare si riflette nel punto di vista adottato da molti autori nel settore delle neuroscienze. Per esempio Christof Koch (Figura 4) distingue fra tre momenti separati: un mondo esterno fatto di oggetti, l'attività neurale interna al cervello e l'esperienza del soggetto relativa a tali oggetti. Tra l'attività neurale e l'esperienza si suppone che esista un legame di correlazione. Tale descrizione, apparentemente neutra e condivisa anche da libri di testo (Figura 5) per le scuole medie inferiori, è gravida di ipotesi non avallate da nessuna evidenza scientifica: - l'oggetto esterno è supposto esistente e autonomo rispetto all'interazione con il soggetto; - si suppone che l'oggetto esterno abbia proprietà definite e, in qualche modo, esperibili (forma, colore, odore); - si suppone che sulla retina vi sia un'immagine; - l'attività neurale è supposta separata dal mondo esterno; - poiché l'attività neurale e l'esperienza del soggetto sono radicalmente diverse, si suppone che esista una sorta di codifica in grado di trasformare l'attività neurale in esperienza;
- si suppone che, in qualche modo, le proprietà dell'esperienza siano
«simili» a quelle dell'oggetto originario (infatti il contenuto
dell'esperienza è sempre disegnato «simile» all'oggetto esterno).
Vi sono neuroscienziati che cercano di evitare alcune delle contraddizioni presenti nel modello appena descritto. In particolare mettono in discussione l'idea secondo cui l'oggetto fisico esterno sia «simile» all'oggetto esperito. Secondo questi studiosi, la versione fisica è molto diversa da ciò che vedono gli esseri umani: è una parte del continuum fisico costituito da onde elettromagnetiche, campi di forze, particelle. Sempre secondo questi autori, il cervello interpreta l'attività neurale causata da questi fenomeni sotto forma di oggetti e loro proprietà. Quindi, secondo questo punto di vista, gli oggetti, in quanto contenuti dell'esperienza, sono creati dal cervello al suo interno. L'oggetto mentale equivale all'attività neurale: è interno alla teca cranica e non esiste finché non è prodotto come risultato della percezione. Quello che il senso comune chiama oggetto fisico - e che ritiene goda di un'esistenza autonoma - non esiste finché il cervello di un osservatore non lo produce in quanto «interpretazione» di una parte del continuum fisico. Tuttavia tale segmento del continuum fisico al di fuori del soggetto è fisicamente separato dalla conseguente attività neurale: l'oggetto viene a esistere dentro la teca cranica come rappresentazione. L'esperienza di un oggetto è l'esperienza di una copia o rappresentazione interna al cervello del soggetto. Di conseguenza il soggetto è costituito da stati o eventi mentali o neurali interni al corpo del soggetto stesso. Secondo il senso comune e molti neuroscienziati, se si riuscisse a riprodurre la stessa attività neurale senza il concorso del mondo esterno, si riprodurrebbe la stessa esperienza che si avrebbe in presenza del mondo esterno. Ovviamente l'esperimento non è mai stato effettuato, però sogni, fosfeni e allucinazioni sono citati come ragionevoli approssimazioni. Tale posizione è basata sull'assunto che il sacco-pelle sia il confine del soggetto. Tuttavia tale ipotesi crea il mistero dell'esperienza cosciente: come si fa a passare dall'attività neurale all'esperienza? Secondo la nostra ipotesi, non è detto che a una certa attività neurale corrisponda sempre la stessa esperienza. | << | < | > | >> |Pagina 48Ritorniamo al caso dell'esperienza e proviamo ad applicare questo stesso criterio (esemplificato dalla temperatura) alla soluzione proposta dalle neuroscienze: l'esperienza è l'attività neurale. Quali sono le caratteristiche proprie dell'esperienza che tanto filo da torcere danno alla comunità scientifica? Seguendo la linea accennata prima e sulla base dei lavori di Daniel Dennett , David Chalmers , Vilayanur S. Ramachandran e Christof Koch (per indicare due filosofi e due neuroscienziati) possiamo dire che l'esperienza è caratterizzata dalle seguenti proprietà: avere qualità, rappresentare il mondo esterno, intenzionalità, unità, prospettiva in prima persona. Proviamo a confrontarle con le proprietà attribuibili all'attività neurale (Tabella 2).Uno degli aspetti più elusivi dell'esperienza è rappresentato dalla sua qualità. Provare una certa esperienza è associato a una certa qualità (visiva, uditiva, tattile, ma non solo). La qualità corrisponde al fatto che ogni esperienza è distinguibile dalle altre: un'esperienza visiva è distinguibile da una auditiva; una certa esperienza cromatica è distinguibile da un'altra. Per quanto concerne la capacità di rappresentazione, l'esperienza serve per descrivere, per rappresentare, gli eventi del mondo esterno. I colori sono attribuiti alle superfici, i suoni agli eventi sonori, i sapori ai cibi. Attraverso l'esperienza, siamo in grado di conoscere il mondo esterno. Come è possibile? Se l'esperienza non rappresentasse il mondo esterno saremmo per sempre prigionieri dell'ipotesi Matrix. La terza caratteristica da prendere in esame, spesso definita «intenzionalità», è la capacità dell'esperienza di riferirsi ad altro da sé (Brentano, 1874; Albertazzi, 2006; Albertazzi, 2007). Essa è alla base della possibilità di riferirsi semanticamente a stati o eventi del mondo esterno (Searle, 1983). Per alcuni autori la capacità di rappresentare e l'intenzionalità coincidono. L'unità o unitarietà è una caratteristica spesso attribuita a tutta la nostra esperienza: l'unità del percetto e l'unità delle percezioni. L'unità del percetto si riferisce al fatto che la nostra esperienza è costituita da unità: un volto, un sapore, un colore. Inoltre, in ogni istante, tutte le nostre esperienze sembrano comporsi in un momento di esperienza che caratterizza il nostro presente di soggetto.
Infine l'esperienza è caratterizzata da una
prospettiva in prima persona.
Quando facciamo esperienza del mondo, in ogni nostra esperienza è implicitamente
contenuto il nostro punto di vista, la nostra
prospettiva. In quello che vediamo, sentiamo, odoriamo, gustiamo è
implicitamente contenuto il punto di vista del soggetto. La fisica e le
scienze forti utilizzano una prospettiva in terza persona per spiegare
la natura. Come passare, mediante le tecniche e le metodologie della
fisica, alla prospettiva in prima persona caratteristica dell'esperienza?
Nella Tabella 2 si mette alla prova l'ipotesi dell'identità tra l'attività neurale e l'esperienza. Prendiamo in considerazione le qualità che riconosciamo all'esperienza. Per esempio il fatto che un'esperienza visiva corrisponda a un colore giallo. L'attività neurale corrispondente non condivide questa proprietà: i neuroni sono grigi, con qualche iniezione di blu, viola e rosso. In altri casi, la discrepanza tra le qualità dei neuroni e quelle dell'esperienza è ancora più drammatica: i neuroni non potranno mai avere qualità quali il suono, il gusto, l'odore. Quanto al fatto di rappresentare le proprietà del mondo esterno non è affatto ovvio come sia possibile che lo stato elettro-chimico di un'area corticale possa essere un'adeguata rappresentazione di un suono, di un sapore, di uno stato di cose esterno al cervello. Anche se oggi si comincia a capire qualcosa circa il modo in cui un'area corticale gestisce l'informazione, non sappiamo nulla circa il modo in cui si possa rappresentare il mondo esterno, se non affidandoci a un'ipotetica codifica mutuata dalla consuetudine con i calcolatori elettronici. L'intenzionalità, ovvero il fatto che qualcosa si riferisca a qualcos'altro, non è contemplato dall'attività neurale che, in quanto tale, non è altro che una serie di reazioni chimico-elettriche interne al cranio. Nessuno sa dire perché, per esempio, l'attività nel cervello ha intenzionalità, mentre quella nei reni o nel fegato non manifesta questa proprietà (Putnam, 1975; Fodor, 1976). La situazione non migliora per quanto riguarda l'unità della nostra esperienza: l'unità dei percetti e l'unità complessiva dell'esperienza soggettiva. L'attività neurale è suddivisa in molteplici reazioni chimiche ed elettriche separate temporalmente e spazialmente. Unirle equivale a quello che, nella letteratura, è definito il binding problem (Revonsuo,1999; Eagleman e Sejnowski, 2000; Bayne e Chalmers, 2003). Nessuno è finora riuscito a indicare un meccanismo soddisfacente. Francis Crick aveva proposto un meccanismo basato sulla sincronizzazione a 40 Hz (Crick, 1994), ma non si è rivelato convincente.
Infine, l'esperienza è ritenuta dotata di quello che si dice una prospettiva
in prima persona, ovvero il fatto che ogni esperienza è vissuta da un certo
punto di vista. L'attività neurale avviene e basta, non è
caratterizzata da questa proprietà. Come si vede, la colonna di verifica sulla
sinistra è quasi completamente negativa. Non ci si meraviglia
del fatto che molti studiosi abbiano definito questo problema come
«problema difficile».
Andranno meglio le cose facendo uso di un processo che inizia nel mondo esterno ed è esteso temporalmente e spazialmente, pur terminando nella corteccia cerebrale? Il risultato è nella Tabella 3. Partiamo dal fondo. I processi fisici che abbiamo suggerito come spiegazione dell'esperienza hanno una prospettiva in prima persona in quanto consistono in una relazione di causa ed effetto. Per esempio, un processo visivo non riguarda tutti i lati di un oggetto, ma soltanto quelli che possono interagire con il sistema visivo di un agente. A seconda delle caratteristiche di quel sistema visivo, il processo sarà diverso. I processi non possono fare a meno di contenere un punto di vista. I processi fisici hanno unità? Ancora una volta la risposta è affermativa. Anzi, i processi che abbiamo preso in esame accadono solo nella misura in cui producono un'unità. Una molteplicità di cause diverse produce un effetto congiunto. L'unità non è raggiunta attraverso un'artificiosa unificazione di singole parti, ma a livello di processo (grazie al fatto che il processo produce un effetto congiunto). Anche l'intenzionalità è una proprietà traducibile in un processo. Tale processo mette in relazione aspetti diversi della realtà. La causa e l'effetto, che la tradizione considera separatamente, si trovano uniti se considerati come due aspetti di un processo. Questa relazione è alla base dell'intenzionalità dell'esperienza. Per quanto riguarda la rappresentazione abbiamo una soluzione nuova: non si ha più a che fare con momenti diversi (il mondo esterno e la sua rappresentazione neurale). Il rappresentato e il rappresentante sono due modi diversi di descrivere il medesimo processo. In questo modo, lo iato apparentemente incolmabile tra rappresentazione e rappresentato trova una soluzione. Infine, eccoci arrivati al primo punto, forse il meno intuitivo. Questo processo ha le stesse qualità della nostra esperienza? Il giallo della nostra esperienza è anche il giallo del processo? Il processo corrisponde a quell'aspetto del mondo a cui ci riferiamo quando facciamo esperienza di un oggetto giallo. Infatti, quando diciamo che facciamo esperienza di un oggetto giallo non indichiamo la nostra testa (dove i neuroscienziati ritengono che abbia luogo l'esperienza), bensì proprio quell'oggetto giallo posto sul tavolo, ovvero quella parte della realtà fisica che, interagendo con il nostro corpo, dà luogo a quel tipo di processi. Il giallo del mondo fisico fa parte del processo che noi proponiamo essere identico all'esperienza.
Non abbiamo la pretesa di aver spiegato le varie problematiche,
che sono state delineate solo a grandi linee. In questo primo capitolo abbiamo
preferito anticipare i punti che verranno trattati più dettagliatamente nel
volume.
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