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| << | < | > | >> |IndiceIntroduzione 9 Nota al testo 19 Per un'analitica del paradigma nazista dell'annientamento Capitolo primo Auschwitz e la riflessione filosofica 23 Capitolo secondo Sterminio, genocidio, olocausto o Shoah? Dai nomi dello sterminio al suo concetto critico 86 Capitolo terzo Per un'ermeneutica del male: la Shoah e il razzismo nazista 143 Capitolo quarto La cultura fascista e il razzismo: dalla voce Fascismo sull'Enciclopedia Italiana alle leggi razziali 199 Capitolo quinto Fenomenologia epistemica del testimone della Shoah 256 Appendice Contributo per una pedagogia dopo Auschwitz. Considerazioni cronachistico-storiografiche a margine di un seminario di studio presso lo Yad Vashem di Gerusalemme 283 Il treno della memoria per Auschwitz. Cronaca di un viaggio 322 Alfredo Violante: dalla Puglia a Mauthausen 330 L'epurazione della scuola fascista. Elenco degli insegnanti ebrei espulsi dalle scuole medie italiane 341 Indice dei nomi 353 |
| << | < | > | >> |Pagina 9Secondo Yehuda Bauer «the Holocaust was a genocide, but of a special and unprecedented type. In the past two decades or so, an amazing phenomenon happened: The Holocaust has become a symbol of evil in what is inaccurately known as Western civilization, and the awareness of that symbol seems to be spreading all over the world» (Rethinking the holocaust, Yale University Press, New Haven and London 2001, p. X). D'altra parte nel corso degli ultimi decenni la storiografia che si è occupata della Shoah – la storiografia della "soluzione finale" nazista – ha fornito molteplici e fondamentali contributi di conoscenza e di riflessione. Se storici come Léon Poliakov, Raul Hilberg, Lucy Dawidowicz e Saul Friedländer hanno sottoposto ad una puntuale disamina soprattutto la macchina di produzione della morte nazista, altri, come Daniel Goldhagen, hanno invece ricostruito la storia di questo "male" cercando di porsi dal punto di vista delle vittime, studiando, per quanto possibile, soprattutto la realtà fenomenologica del comportamento dei realizzatori e perpetratori del genocidio nazista, configurando una sorta di "microfisica dell'Olocausto". Ma, al di là delle vivaci discussioni suscitate dal contributo di Goldhagen, come ha suggerito Friedländer ( La Germania nazista e gli ebrei, trad. it. di Sergio Minucci, Garzanti, Milano 1992), si sta forse sempre più configurando una nuova impostazione storiografica, in grado di meglio integrare lo studio del quadro generale del fenomeno storico del nazismo con la sensibilità alla microstoria, secondo una interessante prospettiva che dovrebbe essere anche in grado di meglio valorizzare le numerose testimonianze dei sopravvissuti alla Shoah. Del resto lo stesso Hilberg, nella parte finale del suo fondamentale studio La distruzione degli Ebrei d'Europa (trad. it. di Frediano Sessi e Giuliana Guastalla, ed. it. a cura di F. Sessi, Einaudi, Torino 1999, 2 voll, vol. II, p. 1121), ha chiaramente indicato questa precisa dimensione storiografica: «I Tedeschi uccisero cinque milioni di Ebrei. Il massacro non si generò dal nulla; poté essere perpetrato in quanto ebbe un significato per coloro che ne furono gli esecutori. Non si trattò di una strategia limitata che poteva condurre ad altri fini, ma di un'impresa, di un evento sentito come una Erlebnis – una "esperienza" vissuta passo dopo passo da coloro che vi hanno preso parte. «I burocrati tedeschi, che con la loro competenza contribuirono alla distruzione degli Ebrei, furono tutti parte integrante dell' Erlebnis, gli uni si incaricarono della parte tecnica – redigere un decreto o organizzare un convoglio –, gli altri si appostarono con fermezza alla porta di una camera a gas. Potevano percepire l'enormità dell'operazione fin dai ranghi più bassi. In ogni stadio del processo, diedero prova di stupefacenti talenti da pionieri in assenza di direttive, di coerenza nelle attività, quando mancava un'organizzazione giuridica, di una comprensione fondamentale del compito che dovevano eseguire, nel momento in cui non venivano date comunicazioni esplicite. Quando Reinhard Heydrich e gli Staatssekretäre si riunirono, il mattino del 20 gennaio 1942, per discutere della "soluzione finale della questione ebraica in Europa", tutti si compresero. «Il progetto, considerato nel suo insieme, sembrava, retrospettivamente, un mosaico di piccoli frammenti, ognuno poco importante e banale. Questa successione di attività ordinarie, note, memorandum e telegrammi, azioni solidamente impiantate nell'abitudine, nella routine e nella tradizione, si trasformarono in un processo di distruzione in massa. Individui assolutamente comuni avrebbero svolto compiti straordinari. Una falange di funzionari, negli uffici dello Stato e in quelli di imprese private, lavorarono [sic!] per raggiungere il fine ultimo». Esattamente su questa precisa base il processo di distruzione nazista divenne, per sua natura intrinseca, pressoché illimitato e portò, conseguentemente, alla devastazione dell'Europa, inghiottendo nel buco nero del sistema concentrazionario dei lager tedeschi, circa dodici milioni di vittime, assassinate in vario modo. Anche la tilosotia del dopo Auschwitz ha cercato di confrontarsi con questo "simbolo del male". Ma lo ha fatto male, in modo spesso non persuasivo e, comunque, con un notevole ritardo storico, senza mai assumere, per molti decenni, Auschwitz come un'autentica lacerazione, in grado di turbare veramente la quotidiana riflessione filosofica. Ma, in realtà, pensare Auschwitz non è affatto agevole, né ci si può invero sottrarre al suo orrido buco nero. Come ha illustrato Enzo Traverso i primi che hanno iniziato a riflettere seriamente su Auschwitz erano degli esuli: «durante la guerra gli esuli furono tra i pochi a scrivere su Auschwitz perché furono i soli a potersi identificare con le vittime pur rimanendo in grado di pensare questa lacerazione della storia. La loro lungimiranza critica era acuita dal loro statuto di paria. La loro superiorità epistemologica era precisamente legata alla loro mancanza di punti di appoggio, al loro sradicamento e alla loro "acosmia", tutti elementi che, paradossalmente, li situavano al di sopra dei punti di vista ristretti, dei luoghi comuni e delle mentalità dominanti in seno ai diversi gruppi nazionali» (Enzo Traverso, Auschwitz e gli intellettuali. La Shoah nella cultura del dopoguerra, il Mulino, Bologna 2004, p. 39). Tuttavia quando i primi filosofi hanno iniziato a pensare Auschwitz lo hanno fatto sviluppando una posizione che li configura quali eredi della critica romantica della modernità, nonché dell'universalismo dell'illuminismo. In questa chiave prospettica, come ha ancora rilevato Traverso, «i campi di sterminio non potevano più essere ridotti a un incidente di percorso, per quanto grave, sulla via del miglioramento ineluttabile dell'umanità, né visti come un tentativo oscurantista di fermare la marcia in avanti della storia. Apparivano piuttosto come un prodotto legittimo e autentico della civiltà occidentale, di cui svelavano il lato cupo e distruttore, la razionalità strumentale messa al servizio del massacro» (Traverso, op. cit., p. 37). Il dopo Auschwitz è così diventato un autentico turning point. Non a caso in molti casi questa riflessione ha persino cercato di pensarsi filosoficamente proprio nel segno, decisamente epocale, di questo dopo, soprattutto con i contributi di pensatori quali Theodor Wiesengrund Adorno , Hannah Arendt , Emmanuel Lévinas e Jean-François Lyotard. Tuttavia, è anche possibile percorrere una diversa strada filosofica. Non a caso un esule come Ernst Cassirer , rappresentante dell' Aufklärung, nell'ultima fase della sua vita, con le riflessioni raccolte nel saggio The Myth of the State, ha denunciato il razzismo nazista quale forma moderna della regressione verso il mito. A suo avviso «in politica, viviamo sempre su un terreno vulcanico. Dobbiamo essere preparati a convulsioni ed eruzioni improvvise. In tutti i momenti critici della vita sociale dell'uomo, le forze razionali che si oppongono al sorgere delle vecchie concezioni mitiche non sono più sicure di se stesse. In questi momenti, diremo che è tornata l'ora del mito. Poiché il mito non è stato realmente vinto e soggiogato. È sempre là, che occhieggia nell'ombra e aspetta la sua ora e la sua possibilità di risorgere. Quell'ora verrà non appena le altre forze vincolanti della vita sociale dell'uomo, per una ragione o per l'altra, perdano la loro forza e non siano più in grado di combattere le potenze demoniache del mito» (E. Cassirer, Il mito dello stato, trad. it. di Camillo Pellizzi, Longanesi & C., Milano 1971, p. 473). Non per nulla Cassirer analizza il riemergere, nel mondo nazista, dell' homo magus che si allea con l' homo faber, dando origine ad una nuova e inquietante figura: «l'uomo politico moderno ha dovuto combinare in se stesso due funzioni interamente diverse, e persino incompatibili. Egli è costretto ad agire, al tempo stesso, come homo magus e come homo faber. Egli è il sacerdote di una nuova religione, del tutto irrazionale e misteriosa. Ma quando deve difendere e diffondere questa religione, egli procede in modo estremamente metodico. Nulla è lasciato al caso; ogni passo è ben preparato e premeditato. Questa strana combinazione è per l'appunto uno dei tratti più sorprendenti dei nostri miti politici» (p. 476). Non per nulla Cassirer analizza finemente la forza pervasiva del nazismo considerando l'impiego magico del linguaggio e la connessa nascita di un nuovo lessico: la nuova lingua tedesca, abilmente plasmata e sistematicamente creata dai nazisti che sostituisce all'impiego semantico della parola il suo uso magico. In questa chiave l'antisemitismo nazista colpiva dunque negli ebrei le radici stesse della razionalità occidentale. Tuttavia, anche se Cassirer si muoveva certamente nella giusta direzione, denunciando apertamente la moderna regressione al mito, il groviglio storico e teorico era invero assai più complesso perché il rapporto tra mito e razionalità non è mai schematico, non prevede affatto una lotta tra due contendenti che vivono in due realtà totalmente separate ed estranee. Come ha insegnato Giambattista Vico in realtà il gioco è molto più complesso e intrecciato perché anche la razionalità vive di miti. Di conseguenza anche la nostra avvertenta critica deve allora necessariamente diventare molto più sofisticata e criticamente attenta: il mito va individuato, combattuto e criticato anche all'interno della stessa razionalità. Ma un conto è percorre questa strada illuminista (che vuole anzi approfondire la difesa critica della razionalità umana, l'unico strumento che ci ha tratto dalle barbarie), un conto, ben diverso, è invece denunciare la ragione umana (con tutti i suoi limiti, i suoi abbagli e i suoi errori) quale mera "razionalità strumentale-algoritmica" messa al servizio del massacro nazista quale prodotto autentico e legittimo della stessa civiltà moderna. Un tale esito non può che apparire alquanto problematico, fuorviante e invero molto discutibile poiché finisce per mitizzare il suo stesso "pensare Auschwitz". Così, a mio avviso, l'indicazione di Cassirer, malgrado i suoi limiti, si pone comunque su un versante teorico decisamente alternativo a quello di chi ha invece iniziato a pensare Auschwitz ridando vigore alla critica romantica all'universalismo dei lumi. A mio parere occorre percorrere una strada inversa e opposta: esattamente la strada illuminista indicata da Cassirer deve essere approfondita onde poter pensare Auschwitz in modo corretto ed euristicamente convincente. Anche perché occorre tener sempre presente, per dirla con Wolfgang Sofsky, come l'ordine del terrore nazista abbia infine messo capo – nell'articolatissimo e tragico sistema dei lager che hanno variamente deturpato l'Europa – ad un sistema concentrazionario nel quale si è attuata «la distruzione sistematica per mezzo della violenza, della fame e del lavoro, l'annientamento dell'uomo condotto con freddo spirito contabile» (W. Sofsky, L'ordine del terrore, trad. it. di Nicola Antonacci con la collaborazione di Francesco Saverio Nisio, Laterza, Roma-Bari 1995, p. 8, il rilievo è riferito alla trasformazione del campo di Dachau, tuttavia può assumere anche un valore emblematico, valido per tutti i campi di sterminio nazisti). Né, di fronte a questo orrore nazista, occorre innescare, come pure si è fatto, spesso per motivi dichiaratamente ideologici o smaccatamente politici, «l'osceno gioco di numeri in una falsa aritmetica» (Sofsky), inaugurando una tragicomica contabilità dell'orrore, perché, semmai, occorre invece cercare di sviluppare una riflessione razionale e critica sulla specifica Shoah consapevolmente attuata dai nazisti. Da questo preciso punto di vista i contributi presenti in questo volume vogliono tutti costituire alcuni sondaggi critici analitici su taluni rilevanti aspetti dell'orrore nazista . Secondo Voltaire non è mai possibile scrutare veramente l'abisso della genesi del male. Tuttavia, è comunque possibile studiare criticamente la fenomenologia della sua effettiva manifestazione storica. Inoltre è possibile farlo senza rinunciare ai flessibili e sofisticati strumenti critici che la plurisecolare tradizione del razionalismo ci mette a disposizione, onde comprendere come altri uomini, per dirla à la Levi, né migliori né peggiori di noi, né più ne meno intelligenti di noi, hanno comunque potuto realizzare la "soluzione finale". L'intento di questi sondaggi, che affrontano il problema di Auschwitz da differenti angoli prospettici, senza tuttavia mai abdicare ad un uso critico della razionalità umana, è quello di contribuire ad una riflessione che non trasformi affatto Auschwitz in un fenomeno meta-storico, in un simbolo di un male metafisico intrascendibile, che non potrebbe mai essere adeguatamente compreso, studiato e analizzato dalla nostra intelligenza critica. Al contrario, Auschwitz costituisce, perlomeno a mio avviso, un male pienamente radicato nella storia umana che può e deve essere compreso con molteplici strumenti di indagine razionale. Tra questi la riflessione filosofica può fornire un contributo prezioso e invero fondamentale per capire il significato storico complessivo di questa tragedia innescata dal razzismo nazista. Si tratta infatti di una immane tragedia compiuta tuttavia da uomini, non da demoni, le cui radici vanno pertanto individuate nella storia concreta del nazismo e dell'Europa del tempo. Donde la necessità di dilatare adeguatamente la propria riflessione critica, considerando non solo la precisa memoria di questa tragedia, ma anche il suo concreto realizzarsi storico nel quadro del totalitarismo nazista e del suo stesso pensiero, della sua Weltanschauung. In particolare, nello sviluppare questi saggi mi sono riferito esplicitamente alla tradizione del razionalismo critico inaugurato da Immanuel Kant, sia perché mi sembra che l'approccio trascendentalista aiuti a meglio intendere la radicale storicità della Shoah, sia perché questa impostazione contribuisce a far emergere, con forza, il ruolo storico della responsabilità morale, individuale e collettiva. Il piano della coscienza morale permette infatti di meglio intendere la precisa responsabilità storica delle concrete azioni criminali poste in essere dal nazismo (e dai nazisti) con i campi di sterminio e consente, inoltre, di comprendere razionalmente il carattere progressivamente illimitato del processo di distruzione e annientamento perseguito dai nazisti proprio perché come ha ancora una volta rilevato Raul Hilberg, «la distruzione degli Ebrei non fu un evento isolato. Fu inserito in un contesto di azioni rivolte contro una varietà di gruppi. Come le misure anti-ebraiche, queste operazioni non erano programmate per l'annientamento delle regole sociali, delle tradizioni o istituzioni, ma per le requisizioni della proprietà, dello spazio e, in alcuni casi, per infliggere la morte. In questa ampia strategia di distruzione si possono individuare numerosi decreti che erano caratteristici del processo anti-ebraico, come la definizione scritta, le tasse sociali, la marchiatura o le restrizioni dei possibili spostamenti. Per quanto l'uccisione fosse diretta anche ai non Ebrei, il fatto fu condotto prima e durante l'annientamento degli Ebrei, con gli stessi mezzi e spesso con lo stesso personale. Tre categorie d'individui erano comprese da questa attività di distruzione: (1) persone che erano afflitte da malattie o disabili, (2) coloro che erano ritenuti una minaccia o un pericolo a causa del loro comportamento e (3) coloro che erano membri delle nazioni nemiche» (R. Hilberg, La distruzione degli Ebrei d'Europa, trad. it. cit., vol. II, p. 1127). Solo entro questo preciso perimetro dell'annientamento nazista può comprendersi il significato del suo concreto agire storico. Inoltre, come ha rilevato Simon Wiesenthal, presentando Gli schiavi di Hitler di Lazzero Ricciotti, «dopo la fine della seconda guerra mondiale è invalso nell'uso affermare che fascismo e nazismo sono equivalenti. Ma ciò significa concedere al nazismo una patina d'innocuità. Il fascismo era abbastanza brutto, ma per diversi motivi il nazismo lo era molto di più. Il nazismo si è reso responsabile di una catastrofe a livello europeo che non ha risparmiato quasi nessun paese del continente. Secondo il piano del 1942, messo a punto dai tedeschi nella conferenza del Wansee quale guida al comportamento verso gli ebrei, avrebbero dovuto esserne uccisi undici milioni. I nazisti riuscirono a sterminarne sei milioni. Dopo di loro moltissimi polacchi, russi, olandesi, belgi, cecoslovacchi, italiani e gente di altri paesi – soldati e civili, resistenti e appartenenti a Chiese diverse e a differenti ideologie – furono rinchiusi nei campi di concentramento, e molti vi trovarono la morte. Tutte queste vittime del nazismo devono continuare a vivere nella nostra memoria quale monito perenne, per non permettere che simili crudeltà possano ripetersi sotto qualsiasi regime» (Mondadori, Milano 1996, p. VIII). Proprio per questa ragione occorre allora dilatare la considerazione critica, studiando le concrete movenze storiche con cui questa tragedia della Shoah si è realizzata nel cuore dell'Europa nel corso del XX secolo. E, dal punto di vista italiano, occorre anche prendere in debita considerazione il rapporto instauratosi tra il fascismo e il nazismo, studiando le concrete movenze di questa alleanza che spesso, per i prigionieri italiani deportati nei lager tedeschi, si è trasformata prima in autentica tragedia e, successivamente, nel loro stesso cinico assassinio. Non solo: se nell'ingranaggio della distruzione sono state coinvolte pressoché tutte le professioni, tuttavia il comportamento collettivo (ed individuale!) dei tedeschi e degli italiani fu comunque differenziato, in una misura che non può essere trascurata. Nel caso italiano operarono infatti alcuni freni inibitori, autentici ostacoli, che non si registrano, invece, nel comportamento tedesco. Non per nulla Hilberg cita proprio il caso italiano per sottolineare le specificità di quello tedesco in cui non operarono queste "barriere": «a diverse riprese, i generali e i consoli italiani si rifiutarono di collaborare alle deportazioni. Il processo di distruzione in Italia e nelle zone controllate dagli Italiani si effettuò in contrasto con la loro resistenza costante. Non si troverà nessuna opposizione di questo genere da parte tedesca. Nessun ostacolo fu posto, tale da immobilizzare l'ingranaggio di distruzione tedesco. Nessun problema morale si rivelò insormontabile» (R. Hilberg, La distruzione degli Ebrei d'Europa, trad. it. cit., vol. II, p. 1142)
La riflessione filosofica non può non riflettere seriamente su
questo dato storico. Non solo: la riflessione filosofica può agevolare
notevolmente questa comprensione critica, ma può farlo purché il
«dopo
Auschwitz» non sia affatto mitizzato, pensando il dopo in
termini dichiaratamente metafisici, epocali o meta-storici. In realtà il
dopo
Auschwitz deve sempre confrontarsi con la genesi stessa di
Auschwitz, con il suo
prima,
proprio perché
prima
e
dopo
non indicano affatto cesure assolute e metafisiche nella storia dell'umanità, ma
ci devono invece aiutare a sempre ricollocare adeguatamente i diversi fenomeni
storici nel loro preciso contesto storico e di pensiero. Nella piena
consapevolezza che la riflessione filosofica
su questi tragici eventi storici costituisce anche, di per sé, una lotta
contro la cancellazione della memoria di questi stessi assassini di
massa perpetrati dal nazismo. Perché la prassi quotidiana del terrore
nazista ha veramente creato un mondo di orrore in cui «la sistematica
degradazione fisica, lo sfinimento per mezzo del lavoro e la
violenza erano intimamente connessi fra loro: le SS uccidevano per
tenere sotto controllo il sovraffollamento dei lager e per fare spazio
a prigionieri più "freschi", che tuttavia cadevano ben presto vittima
del crudele circolo lavoro-deperimento fisico-malattia-violenza»
(Sofsky, op. cit., p. 59). Questo crudele circolo nazista dello sfruttamento e
della morte spiega anche la progressiva trasformazione
storica dei lager nazisti da centri di detenzione a fini terroristici a
luoghi deputati alle esecuzioni e agli stermini di massa. La tragedia della
Shoah,
con tutte le sue molteplici movenze scaturite dal razzismo nazista, nonché dallo
sfruttamento radicale e assoluto della manodopera schiavile reclutata dai
nazisti presso tutta l'Europa caduta sotto il loro controllo, si colloca
esattamente su questo piano del mondo della prassi. Non per nulla sempre Hilberg
ha delineato la seguente, precisa struttura di un processo di distruzione da
attuarsi in una società moderna:
Esattamente entro questo preciso meccanismo – per nulla metafisico, ma ben radicato nel concreto terreno del mondo della prassi storica – si è dunque attuato il processo nazista di distruzione, tendenzialmente illimitato. Sempre su questo specifico terreno storico va allora compresa concettualmente l'organizzazione effettiva della distruzione nazista. La filosofia – per dirla con Hegel – non può rifiutare di confrontarsi con questo peculiare "banco da macellai" che contraddistingue anche la storia umana del XX secolo. L'azione nazista va pertanto compresa filosoficamente prendendo costantemente le mosse dal concreto mondo della prassi. E va compresa filosoficamente proprio per meglio contrastarla, combatterla e annichilirla, anche nelle sue inquietanti risorgenze contemporanee. Università degli Studi di Lecce, febbraio 2006 F. M. | << | < | > | >> |Pagina 2475. Il razzismo fascista e i suoi nessi con la cultura italianaSecondo Mussolini «chi dice liberalismo dice individuo, chi dice fascismo dice stato» (850, 2) e per questo motivo nella Dottrina politica e sociale del fascismo il duce sottolinea, ripetutamente, la centralità dell'autorità dello stato: «caposaldo della dottrina fascista è la concezione dello stato, della sua essenza, dei suoi compiti, delle sue finalità. Per il fascismo lo stato è un assoluto, davanti al quale individui e gruppi sono il relativo. Individui e gruppi sono "pensabili" in quanto siano nello stato. Lo stato liberale non dirige il giuoco e lo sviluppo materiale e spirituale della collettività, ma si limita a registrare i risultati; lo stato fascista ha una sua consapevolezza, una sua volontà: per questo si chiama uno stato "etico"» (850, 1). Lo stato etico fascista è tale da poter subordinare a sé, sistematicamente, gli individui, i singoli gruppi e, persino, le differenti componenti sociali di un determinato paese. Per il fascismo lo stato non è affatto assimilabile ad una realtà estrinseca e meccanica, nata da un "contratto" tra i cittadini, né può limitarsi a garantire l'ordine pubblico o la corretta applicazione delle leggi. Per il fascismo lo stato costituisce, invece, un assoluto che deve creare e guidare costantemente la vita di una nazione, infondendo, in tutte le articolazioni sociali, i suoi scopi, le sue finalità e la sua azione "politico-morale". Per questo motivo lo stato assoluto concepito dal fascismo costituisce il vero orizzonte all'interno del quale si devono collocare tutte le più diverse realtà sociali di un determinato paese, insieme a tutti gli individui. Individui i quali ultimi non possono più concepirsi come autentici cittadini, portatori di determinati diritti, perché costituiscono, invece, solo un articolazione o, se si preferisce, un "momento" di quello stesso stato che rappresenta, esso solo ed unitariamente, ad un superiore livello, il loro spirito e il loro stesso effettivo senso storico. In questa chiave prospettica lo stato finisce, insomma, per trasvalutare i singoli individui, collocandosi su un livello decisamente superiore, in nome del quale gli stessi popoli sono trasformati in meri strumenti di questo nuovo assoluto rappresentato dallo stato che diventa, pertanto, l'orizzonte intrascendibile di ogni azione politica. Ma allora lo stato fascista si trasforma, perlomeno a parole, in qualcosa di eminentemente "spirituale": «lo stato così come il fascismo lo concepisce e attua è un fatto spirituale e morale, perché concreta l'organizzazione politica, giuridica, economica della nazione e tale organizzazione è, nel suo sorgere e nel suo sviluppo, una manifestazione dello spirito. Lo stato è garante della sicurezza interna ed esterna, ma è anche il custode e il trasmettitore dello spirito del popolo così come fu nei secoli elaborato nella lingua, nel costume, nella fede. Lo stato non è soltanto presente, ma è anche passato e soprattutto futuro. È lo stato che trascendendo il limite breve delle vite individuali rappresenta la coscienza immanente della nazione» (850, 2). In questo modo Mussolini, riferendosi alla superiore natura morale e spirituale dello stato assoluto, può anche giustificare l'assorbimento dell'individuo nello stato, il suo annullamento totalitario in un organismo superiore il quale ultimo finisce per svolgere il ruolo di autentico soggetto ed artefice della storia: «l'individuo nello stato fascista non è annullato, ma piuttosto moltiplicato, così come in un reggimento un soldato non è diminuito, ma moltiplicato per il numero dei suoi camerati. Lo stato fascista organizza la nazione, ma lascia poi agli individui margini sufficienti; esso ha limitato le libertà inutili o nocive e ha conservato quelle essenziali. Chi giudica su questo terreno non può essere l'individuo, ma soltanto lo stato» (850, 2). Inutile rilevare come tra le libertà "inutili" cancellate dal fascismo si collocassero tutte le libertà democratiche affermatesi nel mondo moderno dalla rivoluzione francese in poi: questo rilievo per Mussolini è sostanzialmente irrilevante e del tutto accidentale, soprattutto se posto in relazione con la funzione storica assoluta e totalitaria svolta dagli stati, nei cui confronti gli individui potevano ben sacrificare tutti i loro diritti astratti e le loro del tutto "inutili" libertà individuali e civili. In questo stato fascista, come la storia si incaricò di documentare, l'unica libertà che rimaneva all'individuo era, in ultima analisi, quella di ubbidire disciplinatamente al suo duce e ai suoi vari gerarchi. Al di fuori di questo diritto di ubbidire ciecamente ai comandi si aveva solo la libertà di morire, giacché, come ebbe poi a dichiarare lo stesso Mussolini nel suo Discorso dell'ascensione, «in Italia non c'è posto per gli antifascisti; c'è posto solo per i fascisti e per gli afascisti, quando siano dei cittadini probi ed esemplari». E si poteva certamente credere a questa affermazione del duce, giacché i fascisti, per loro stessa esplicita dichiarazione, non erano certamente dei "probi" cittadini, bensì degli autentici criminali ed assassini impadronitisi dello stato grazie alla complicità della monarchia. Sempre su questa base Mussolini può del resto concludere i suoi rilievi sottolineando come «lo stato fascista è una volontà di potenza e d'imperio. La tradizione romana è qui un'idea di forza. Nella dottrina del fascismo l'impero non è soltanto un'espressione territoriale o militare o mercantile, ma spirituale o morale» (851, 1). Proprio prendendo le mosse da questa connotazione mussoliniana etico-spirituale dello stato (e dello stesso imperialismo fascista), successivamente si delineò quello che uno storico della scienza come Maiocchi ha giudicato costituire lo «sgangherato mosaico che sarà il razzismo italico». Naturalmente dietro questo «sgangherato mosaico» vi sono taluni emblematici fatti storici. In primo luogo la guerra d'Etiopia che, per la prima volta, pose sotto gli occhi del fascismo la necessità di emanare delle precise leggi razziste (onde evitare non tanto i rapporti sessuali tra i soldati e i coloni italiani con la donna africana, la celebre "faccetta nera", quanto, soprattutto, i ben più seri e preoccupanti rapporti sessuali tra i neri e le donne italiche). In secondo luogo, il sempre più stretto, per quanto successivo, rapporto d'alleanza e di collaborazione con la Germania nazista che indurrà infine il duce a far suo il razzismo biologico teorizzato dai nazisti. La proclamazione delle leggi razziste (e non razziali!) del 1938 rappresenta il frutto, composito, di diversi fattori ma, in ogni caso, si inserisce, a pieno titolo, entro la tradizionale cultura fascista (con la difesa dello stato etico in cui i diritti dei cittadini vengono sostanzialmente liquefatti e annichiliti) e la sua tipica mentalità gerarchico-autoritaria, ben espressa dall'articolata organizzazione della vita sociale delineata dal fascismo con l'insieme delle sue leggi, dei codici, dei regolamenti, delle varie istituzioni, etc., etc.. Del resto nel già ricordato e celebre Discorso dell'ascensione, del 26 maggio 1927, Mussolini aveva sottolineato l'importanza politica strategica del problema della razza ponendo una domanda da lui ritenuta invero decisiva: «la razza italiana, cioè il popolo italiano nella sua espressione fisica, è in periodo di splendore, o vi sono dei sintomi di decadenza? Se lo sviluppo retrocede, quali sono le possibili prospettive per il futuro?». L'interesse mussoliniano per la «razza» è squisitamente politico, giacché, a suo avviso, «dato non fondamentale, ma pregiudiziale della potenza politica, e quindi economica e morale della nazioni, è la loro potenza demografica»: «bisogna quindi vigilare seriamente sul destino della razza, bisogna curare la razza, a cominciare dalla maternità e dall'infanzia». In ultima analisi dal discorso mussoliniano dell'ascensione derivano due parole d'ordine che avranno poi larghissima circolazione nel pensiero fascista del tempo: «il numero è potenza» e la «difesa della razza». Se fu compito della scienza demologica italiana sviluppare in modo più analitico e dettagliato la teoria che «il numero è potenza», il fascismo articolò autonomamente, comunque, questa tesi in tutti i suoi molteplici aspetti politici, sanitari, militari e culturali. Con la conseguenza che il razzismo italico si sviluppò, prevalentemente, proprio lungo la pista suggerita da Mussolini, che mirava, costantemente, al potenziamento della nazione italica introducendo una nutrita serie di misure come la tutela delle madri e dei fanciulli, i premi per la fecondità, le tasse sul celibato, il rifiuto del controllo delle nascite, nonché una sistematica «ruralizzazione» del paese, onde dare quella che lo stesso Mussolini aveva presentato come un'autentica «frustata demografica alla nazione», sempre finalizzata ad incrementare, per motivi squisitamente politici e di potenza, i cosiddetti «coiti produttivi».
D'altra parte la politica nativistica fascista si intrecciava,
costantemente, con la consueta ed unanime esaltazione della «stirpe
italica», per mezzo della quale era pressoché senso comune della
cultura italiana del tempo ritenere, senza alcun problema, che
l'uomo bianco fosse nettamente ed evidentemente superiore agli altri uomini.
Questi tratti di diffuso e incontrastato razzismo si intrecciavano poi, a loro
volta, con il tradizionale e assai tenace antisemitismo cattolico e, in tal
modo, contribuirono a creare una potente
e micidiale miscela razzista entro la quale avrebbero potuto germogliare altri
virgulti razzisti, compresi quelli strettamente biologici,
nati da un darwinismo sociale quale quello difeso dai nazisti. In
ogni caso è esattamente entro questa diffusa cultura razzista che si
sono poste, storicamente, le premesse più stabili e condivise che
consentirono al fascismo di passare, quasi senza soluzione di continuità, dal
consueto e condiviso
razzismo coloniale
alla promulgazione delle
leggi razziste antisemite
del 1938, che pure, grazie al
Manifesto degli scienziati razzisti,
introducevano una svolta "biologistica" che poco o nulla aveva a che vedere con
il precedente razzismo "spiritualistico" italico.
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