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| << | < | > | >> |IndiceEsplorare i confini di Babele, di Noam Chomsky 7 Premessa. 1491 25 Prologo 31 I. La trama nascosta 39 1. Questioni di metodo 54 2. Un campionario di sintassi 83 3. L'arca di Babele 135 II. La lingua nel cervello 161 1. Vedere il pensiero 171 2. L'autonomia della sintassi: come ingannare il cervello con gli errori 186 3. Grammatiche possibili e grammatiche impossibili 205 4. Linguistica mendeliana (?) 226 III. La forma della grammatica 233 1. Logico o apprendibile, ovvero: perché le lingue hanno le regole? 234 2. Sulla natura lineare del segnale linguistico ovvero perché le lingue hanno proprio queste regole? 243 IV. Alla sorgente dell'ordine 271 1. La negazione nel cervello 275 2. Sequenze di azioni, sequenze di parole 285 3. Il suono del pensiero 294 Epilogo 315 Appendice. Antologia ragionata di lavori su sintassi e cervello 319 Riferimenti bibliografici 325 Indice analitico 345 Indice generale 351 |
| << | < | > | >> |Pagina 7Il moderno studio del linguaggio in contesto biologico ha cominciato a svilupparsi negli anni '50 del Novecento. Nel 1967 un lavoro divenuto adesso un classico i Fondamenti biologici del linguaggio di Eric Lenneberg ha posto la base essenziale della disciplina emergente. Fece seguito un gran numero di indagini, convegni internazionali, seminari e studi ulteriori. Ciò nonostante la «prospettiva biolinguistica», come venne presto chiamata, è rimasta fino a tempi piuttosto recenti in larga misura un ideale e una struttura di riferimento per porre problemi e per continuare a fare ricerca. Questo si è dimostrato assai produttivo, ma continua a essere difficile esplorare il cuore della disciplina. I progressi della tecnologia di imaging hanno arricchito queste indagini in modi nuovi, ma la progettazione del lavoro sperimentale destinato a collegare i processi neurali e le proprietà fondamentali del linguaggio si è rivelata, com'era prevedibile, una sfida frustrante. Andrea Moro è giunto a occupare una posizione unica nella formulazione e nell'ideazione costruttiva di progetti sperimentali utili ad affrontare questi compiti difficili e impegnativi. Θ capace di trattarli forte di una profonda conoscenza della linguistica moderna, un campo in cui ha fornito contributi personali fondamentali, con padronanza della tecnologia connessa e del suo potenziale. Il suo libro è una lucida introduzione a queste appassionanti aree di ricerca, è straordinariamente informato e presentato in modo ingegnoso, con implicazioni affascinanti che vanno ben oltre la biolinguistica e riguardano le scienze cognitive in generale, come pure la filosofia del linguaggio e della mente. Ciò che più conta, dovrebbe risultare accessibile per il lettore generalista curioso di cose linguistiche e sicuramente di grande interesse per gli studiosi e i ricercatori di professione in tutte le discipline correlate, un risultato, questo, di per sé raro. Questa nuova edizione, arricchita e aggiornata, è un'ottima cosa. Qualche riflessione sull'impresa nel suo complesso. Le domande che possiamo porre sul linguaggio sono numerose. La più fondamentale di tutte è certamente: che cos'è il linguaggio? Nella misura in cui abbiamo una qualche comprensione di ciò, possiamo procedere a studiare altre questioni. In sua assenza, la ricerca ne viene inevitabilmente limitata. Nessun biologo, per esempio, cercherebbe di studiare lo sviluppo o l'evoluzione dell'occhio senza avere un'idea sufficientemente chiara di cosa sia un occhio, della sua natura essenziale. Non basterebbe dire che serve per leggere così come per il linguaggio non basta dire che serve (fra le altre cose) per comunicare. Basandoci su una descrizione provvisoria della natura del linguaggio, tanto meglio se di vasta portata, potremo passare a chiederci come i suoi concetti, principi e risultati condizionano lo studio dell'acquisizione, dell'uso, della rappresentazione neurale, del cambiamento storico, dell'evoluzione e di altri temi. A sua volta, quel che si apprende su questi temi può condurre a riformulare la teoria del linguaggio. La gerarchia logica delle questioni, com'è ovvio, non determina l'ordine della ricerca su di esse. Qualunque ragionevole approccio al linguaggio deve riconoscere che esso è usato da individui, e che la capacità di usarlo dipende primariamente dalle proprietà del cervello umano. Di conseguenza, ogni approccio presuppone un concetto che viene chiamato a volte «linguaggio-I» o «lingua-I» (I-language): un sistema interno a un individuo, e inteso come proprietà biologica della persona. Mentre è presupposto da qualunque teoria ragionevole, che lo si riconosca o meno, il linguaggio-I non presuppone nessuna di esse. In questo senso, esso costituisce la nozione più fondamentale. Quando in queste pagine parlerò di linguaggio, intenderò la lingua-I in questo senso. | << | < | > | >> |Pagina 12Volgiamoci dunque all'acquisizione del linguaggio. Come lo sviluppo di qualunque sistema organico, essa coinvolge parecchi fattori: a) dati esterni, b) doti genetiche, c) principi più generali. Il fattore genetico include elementi specifici del linguaggio (detti grammatica universale, GU, adattando un concetto tradizionale a un contesto nuovo), insieme alla base genetica per altri sistemi cognitivi che possono entrare nell'acquisizione del linguaggio e per i vincoli imposti dalla struttura del cervello, su cui oggi non sappiamo abbastanza perché possa esserci d'aiuto.L'esistenza di questi fattori è considerata inconfutabile, con una singola eccezione, quella di GU. Ma deve trattarsi di un malinteso. Θ evidente che deve esistere una base genetica per il fatto che un neonato umano, ma nessun altro organismo, sbroglia i dati di pertinenza linguistica all'istante e senza sforzo dall'ambiente, e raggiunge rapidamente una ricca competenza linguistica, un'impresa di gran lunga al di là di altri organismi, anche nei suoi aspetti elementari. E tuttavia questa non è che la più elementare delle conclusioni che derivano dal negare l'esistenza di GU. In genere vengono sostenuti altri approcci: la memoria astronomica, l'analisi statistica, la cosiddetta teoria della mente o la cultura in un qualche senso oscuro, tutti approcci che però crollano subito alla prova dell'analisi. Sembra ben provato che il linguaggio «rappresenta una facoltà mentale con un dominio specifico, una facoltà che si basa su vincoli e principi organizzativi strutturali in larga parte non condivisi da altre facoltà mentali, e che nelle sue procedure computazionali è automatica e inderogabile» per citare Susan Curtiss, che ha fatto un lavoro pionieristico nel fissare tali conclusioni sulla base di dissociazioni e altre prove. Si noti che a essere automatiche e inderogabili sono le procedure computazionali. L'uso normale del linguaggio si estende ben al di là di questi limiti. Oggi non c'è ragione di mettere in dubbio l'intuizione fondamentale di Cartesio secondo la quale l'uso del linguaggio ha carattere creativo: è tipicamente innovativo, senza limiti, appropriato alle circostanze ma non causato da esse né, a quanto si sa, da stati interni e può produrre pensieri in altri individui tali che questi ultimi riconoscono che avrebbero potuto esprimerli loro stessi. Dovremmo tenere a mente anche che l'aforisma di Wilhelm von Humboldt secondo il quale il linguaggio comporta un uso infinito di mezzi finiti si riferisce all' uso. Si sono fatti grandi progressi nella conoscenza dei mezzi finiti che rendono possibile l'uso infinito, ma quest'ultimo resta in larga parte un mistero. Il rifiuto di GU è basato a volte sulla confusione fra GU la base genetica del linguaggio-I e universali linguistici, come quelli della importantissima lista compilata da Joseph Greenberg. Questi ultimi sono delle generalizzazioni, che vuol dire che possono ben esserci delle eccezioni. GU non ha eccezioni, tranne che dai margini. Il carattere essenzialmente ineccepibile di GU non è privo di significato. Una ragione è che questo ci dice qualcosa almeno sull'evoluzione del linguaggio, ed è ben poco aggiungere che si tratta di qualcosa di una certa sostanza. Ci dice che fondamentalmente non c'è stata alcuna evoluzione della capacità di linguaggio almeno negli ultimi 50.000 anni o più, da quando si ipotizza che i nostri antenati abbiano lasciato l'Africa. Così i neonati delle tribù amazzoniche apprendono facilmente il portoghese e, se portati a Boston o a Roma, parlerebbero i dialetti locali in modo indistinguibile dai nativi; e viceversa. Ne consegue che la loro capacità di linguaggio GU non è cambiata. L'osservazione generalizza, senza alcun limite a quanto si sa. Ciò potrebbe sorprendere quanti credono spesso, a quanto pare, per una mancata comprensione della teoria moderna dell'evoluzione che il linguaggio deve essersi evoluto a piccoli passi in un lungo arco di tempo. La teoria moderna, tuttavia, non pone barriere all'ipotesi molto più plausibile, dal mio punto di vista che le proprietà essenziali della facoltà umana del linguaggio sono emerse abbastanza all'improvviso (rispetto al tempo evolutivo) grazie a un ricablaggio probabilmente leggero del cervello. Com'è ovvio, c'è il costante mutamento storico, una cosa molto diversa. Il mutamento storico non deve essere confuso con l'evoluzione. Nel senso tecnico del termine evoluzione, le lingue non evolvono affatto, sebbene esse mutino nel tempo. Evolvono coloro che usano il linguaggio, anche se per quel che riguarda la capacità di linguaggio sembra non sia accaduto nelle ultime decine di migliaia di anni, e magari nemmeno dalla comparsa degli esseri umani cognitivamente moderni, avvenuta a quanto pare non molto prima della loro partenza dall'Africa. | << | < | > | >> |Pagina 20Queste osservazioni suggeriscono una tesi più ampia: il «progetto» fondamentale del linguaggio soddisfa condizioni semantiche/pragmatiche; l'esternalizzazione nell'una o nell'altra delle modalità sensoriali è un fenomeno secondario. In termini tradizionali, il linguaggio è fondamentalmente uno strumento di pensiero. Θ «pensiero udibile», secondo la concezione tradizionale formulata nell'Ottocento dal linguista William Dwight Whitney: è «strumentalità parlata di pensiero», un punto di vista che, fra l'altro, è stato adottato da parecchi eminenti biologi evoluzionisti, in particolare dai premi Nobel Salvador Luria e Franηois Jacob , e, come ricordavo, anche da Galileo , il quale dava per scontato che i suoni del linguaggio ci consentissero di rivelare i nostri pensieri.Se è così, allora i diversi usi di linguaggio esternalizzato sono anche fenomeni ancillari. E questo vale soprattutto per la comunicazione, che in tempi moderni è stata in genere considerata, per discutibili ragioni, la proprietà fondamentale del linguaggio. Il cambiamento di prospettiva sembra essere ben fondato da diversi punti di vista al di là del progetto del linguaggio, e ha una portata considerevolmente più ampia, problemi che non indagherò oltre in queste pagine. Il bambino che apprende il linguaggio, dunque, non si trova dinanzi a un enigma quando si confronta con dati del tipo che menzionavo: la risposta viene da GU, dal progetto del linguaggio che soddisfa il principio di computazione minima, con Salda non ordinato e la distanza strutturale minima. Questo è solo uno dei tanti esempi, che si estendono ben oltre, ai problemi di interpretazione e di uso delle espressioni linguistiche. E ciò illustra il tipo di problemi che potrebbero essere affrontati produttivamente dagli studi sull'acquisizione, come pure il tipo di contributi che possono venire a questa ricerca da approcci che pongano cura e attenzione ai principi della natura del linguaggio.
Potrebbe esserci un futuro appassionante per l'indagine che
combini studi formali, lavoro sperimentale su acquisizione e
uso, e nuove opportunità di ricerca sulle scienze del cervello via
via che la tecnologia va avanti. Spero che questi cenni possano
dare un'idea di cosa si potrebbe portare a termine, e di ciò che
rimane velato nel mistero, forse per sempre.
NOAM A. CHOMSKY
| << | < | > | >> |Pagina 31Nel 1811 si presentò all'ospedale di Bicétre, a Parigi, il signor Leborgne, un giovane di ventun anni che manifestava un disturbo linguistico insolito. Ad ogni domanda che gli veniva posta rispondeva sempre usando solo due sillabe identiche tan-tan accompagnate da una modulazione prosodica ricca di gesti e da espressioni del viso. Il paziente, che in ospedale fu soprannominato per questo «Tantan», passò tutto il resto della vita ricoverato. Le sue condizioni peggiorarono progressivamente nel corso degli anni, portando alla paralisi degli arti della parte destra del corpo. Il 12 aprile 1861 fu trasferito nel reparto di chirurgia per il trattamento di una cancrena: fu allora che incontrò Pierre-Paul Broca, un medico in servizio presso quell'ospedale. Poco più di una settimana prima, il 4 aprile, Broca aveva partecipato a un incontro della Società di Antropologia, da lui stesso fondata due anni addietro, durante il quale un altro medico, Ernest Auburtin, illustrò alcuni casi interessanti di studi sulla possibilità di localizzare la sede del linguaggio nel cervello umano. Auburtin cercava di portare dati a favore dell'ipotesi che il cervello non funzionasse come una massa omogenea, almeno per le funzioni superiori come il linguaggio, un'ipotesi che al tempo era minoritaria, difesa senza molto successo proprio dal suocero di Auburtin, Jean-Baptiste Bouillaud, allievo del fondatore della frenologia, Franz Joseph Gall. La frenologia, cioè lo studio delle caratteristiche psicologiche dell'individuo tramite la forma esterna del cranio, non aveva dato risultati accettabili, ma aveva lasciato una traccia profonda in Bouillaud che si era convinto che la capacità di parlare fosse legata a una zona specifica del cervello, i lobi frontali. Auburtin, tuttavia, non era in grado di dare prove conclusive anche se il suo impegno stava tenendo viva l'ipotesi di sedi dedicate del cervello, in contrasto con l'opinione corrente. Ci volle poco a Broca per rendersi conto che il caso che aveva davanti costituiva un indizio imperdibile per vincere quella sfida. Sebbene non fosse possibile determinarlo esattamente, Tantan era infatti in grado di comprendere praticamente tutto, sapeva contare e aveva la cognizione del tempo; inoltre, malgrado la parte destra del corpo fosse ormai paralizzata, né la lingua né i muscoli della faccia erano stati colpiti dalla malattia. Doveva dunque trattarsi di un blocco specifico del linguaggio: certamente a Tantan non mancavano le capacità intellettive o motorie per parlare, eppure l'unica parola che gli usciva dalla bocca erano quelle due sillabe. Infine altro dato cruciale , da quanto risultava dall'anamnesi per i primi anni della sua malattia, la perdita del linguaggio era per Tantan l'unico disturbo evidente: la paralisi degli arti era infatti sopraggiunta solo dopo. Il 17 aprile dello stesso anno Tantan morì. Broca condusse un'autopsia sul suo cervello e, dopo un esame attento, arrivò alla conclusione netta che una lesione nel lobo frontale sinistro doveva essere la causa della perdita del linguaggio. Broca aveva appena scoperto la prima prova anatomica della localizzazione di una funzione cerebrale specifica. Poco tempo dopo Broca presentò una relazione alla Società di Antropologia che avrebbe cambiato la concezione del funzionamento del cervello: «Perdita della parola, rammollimento cronico e distruzione parziale del lobo anteriore sinistro del cervello» (Broca 1861). Non tutti i colleghi accettarono le sue conclusioni e alcuni, come l'insigne neurologo Pierre Flourens, continuarono a sostenere che le funzioni superiori non potessero essere localizzate in nessuna zona particolare del cervello. Ma la strada per lo studio dei fondamenti biologici del linguaggio era ormai aperta. Poco meno di un secolo dopo, nel 1957, al Massachusetts Institute of Technology (MiT) di Cambridge, un giovane docente, Noam Chomsky, aveva appena pubblicato una dispensa tratta da una voluminosa tesi di dottorato che nessun editore aveva fino ad allora accettato ( Chomsky 1957 ); la tesi intera uscì solo vent'anni dopo (Chomsky 1975b). Chomsky si trovava al crocevia di una situazione culturale particolarmente favorevole. Suo padre, un famoso ebraista, l'aveva iniziato alla linguistica e affidato a un altro linguista famoso, Zelig Harris, per la formazione universitaria. In quegli anni Chomsky, oltre a occuparsi di linguistica, era riuscito ad avere accesso alla logica, alla matematica e alle teorie della computazione, venendo a contatto con il pensiero di Alan Turing , un matematico inglese al quale si doveva tra l'altro la definizione rigorosa della nozione di algoritmo. [...] Chomsky si rese subito conto che questa visione della grammatica delle lingue non era accettabile, né lo era l'assimilazione tra macchina e uomo. Il linguaggio non è rappresentabile come una semplice sequenza di simboli regolati da leggi statistiche e la linguistica è una scienza al pari delle altre scienze empiriche: per ottenere risultati occorre fare esperimenti, non è possibile che la teoria derivi immediatamente dai dati. Come su un sasso che cade non sta scritta la legge di gravitazione universale, così quando si pronuncia una frase non si pronuncia anche la regola della grammatica che la forma. Inoltre, con una serie di argomentazioni inoppugnabili ottenute grazie al rigore appreso dall'esperienza nel trattare con sistemi simbolici astratti Chomsky arrivò a mostrare non solo che la struttura della grammatica è più complessa del modello basato sulla statistica, ma che la complessità poneva immediatamente un problema fondamentale per l'apprendimento del linguaggio nei bambini: «Il fatto che tutti i bambini normali acquisiscano grammatiche praticamente comparabili di grande complessità con una notevole rapidità suggerisce che gli esseri umani siano in qualche modo progettati in modo speciale per questa attività, con una capacità di trattare con i dati e di formulare ipotesi di natura e complessità sconosciute» (Chomsky 1959, citato in Graffi 2001). Il salto era stato fatto: la linguistica non poteva più ignorare il problema dell'acquisizione del linguaggio e contemporaneamente non poteva non tener conto del «progetto» specifico, biologicamente determinato, che permette all'essere umano di sviluppare questa capacità. La strada era aperta per lo studio delle proprietà formali che caratterizzano per natura tutte e solo le lingue umane, la cosiddetta «grammatica universale». Nel gennaio 1962 nacque in Inghilterra un bambino che per convenzione chiameremo Christopher. Dopo sei settimane gli venne diagnosticato un danno cerebrale che avrebbe condizionato per sempre la sua vita. Imparò tardi a parlare e camminare, ma aveva una passione sconfinata per i libri, che manifestò fin dall'età di tre anni. Non gli piacevano però i libri illustrati o quelli di favole, che di solito attirano l'attenzione dei bambini. A Christopher piaceva leggere dizionari, guide telefoniche, cataloghi di bandiere o di monete straniere. I suoi genitori rimasero sbalorditi quando si accorsero che, sempre attorno ai tre anni, Christopher riusciva già a leggere gli annunci pubblicitari che comparivano nei giornali locali. La cosa ancor più strana è che li leggeva comunque fossero posizionati: capovolti, nella posizione normale o messi per traverso. Un salto di qualità notevole ci fu quando ebbe sotto mano degli articoli tecnici scritti in lingua straniera: l'incontro fu folgorante. Da allora, Christopher ebbe come passione assoluta proprio l'apprendimento di lingue straniere. Ogni occasione era buona per apprendere una nuova lingua, il che tra l'altro gli valse una certa popolarità nell'ambiente sociale con il quale era in contatto. Il talento di Christopher era eccezionale: il polacco, per esempio, fu sufficiente sentirlo parlare da suo cognato perché lo apprendesse. Cosa era accaduto a Christopher per spiegare il suo comportamento? Clinicamente la diagnosi della sua patologia non è mai stata data con assoluta certezza, sebbene a un'analisi dettagliata il soggetto presentasse alcuni tratti tipici dell'autismo, come l'insensibilità all'ironia, e il rendimento rispetto ai più comuni test di intelligenza mostrassero che il ragazzo fosse ben al di sotto della media. [...] Da Tantan a Christopher è passato un secolo; un secolo nel quale la conoscenza sulle strutture del linguaggio ha fatto un balzo enorme, che forse non ha pari nella storia della linguistica. Contemporaneamente, grazie a nuove tecniche che combinano la radiologia con l'informatica, siamo ora in grado di esplorare l'architettura funzionale del cervello in vivo su soggetti sani: non dobbiamo più aspettare una patologia, un guasto, né limitarci alla sola autopsia per esplorare il funzionamento di quest'organo. Da qui prende le mosse questo libro. Torneremo a Broca, armati delle conoscenze linguistiche moderne, e vedremo come la distinzione tra regole possibili e regole impossibili abbia non solo rilevanza psicologica, bensì una specifica rilevanza neuropsicologica. Arriveremo a cogliere questo risultato illustrando gli aspetti fondamentali di due esperimenti di neuroimmagine cui ho avuto la fortuna di prender parte: il primo ci darà una prova sperimentale della natura autonoma della sintassi rispetto al complesso delle attività cerebrali isolando una rete neuronale dedicata; il secondo ci mostrerà come tale rete è in grado di riconoscere solo le regole possibili, ignorando quelle impossibili. In entrambi gli esperimenti sono state utilizzate lingue immaginarie: la scoperta del reale, in questo caso, è stata guidata dalla costruzione dell'irreale. Il premio Nobel per la medicina o fisiologia nel 1969, Salvador E. Luria, soleva dire che, in ultima analisi, ogni disciplina si caratterizza per i dieci esperimenti fondanti che ne stanno alla base. Non so se gli esperimenti che descriverò qui saranno tra quelli che giustificheranno la nascita della biolinguistica, ma questo possono giudicarlo solo i lettori. | << | < | > | >> |Pagina 541. Questioni di metodoIl linguaggio umano è un universo. Non so dire se è più complicato dell'universo fisico e non credo che questa domanda abbia molto senso, anche se è vero che il linguaggio umano serve per descrivere l'universo fisico, quindi il problema della complessità relativa può portare a considerazioni non scontate. [...]
Se poi andiamo nel campo della linguistica i problemi non
son certo meno intricati. Occorre, comunque, almeno distinguere tre tipi diversi
di semplicità: la semplicità dei
dati
da osservare, la semplicità delle
domande
da porsi e la semplicità delle
teorie
che spiegano i dati. Se non distinguiamo i tre livelli
sarà difficile cogliere i limiti e i metodi che intendo illustrare
nel campo della sperimentazione tra linguistica e neuroscienze.
Iniziamo senz'altro dalla
semplicità dei dati.
1.1.1. La semplicità dei dati
Non conviene descrivere tutto. Partiamo da un paradosso, reso celebre da Jorge Luis Borges in un suo racconto. Se una carta geografica dovesse descrivere tutti i dettagli di un luogo fisico, fino al minimo particolare, finirebbe per sovrapporsi a esso diventando con ciò inutile. Allo stesso modo, quando si decide di descrivere un fenomeno occorre assumere un punto di vista parziale, cioè rinunciare alla spiegazione immediata del tutto. Naturalmente non esiste una ricetta per scegliere un punto di vista corretto: al contrario, ogni punto di vista è corretto in sé. Quello che conta è che sia funzionale allo scopo che ci si è prefissati. Tornando all'esempio della cartina, si sceglierà se indicare le quote orografiche oppure gli alberi piantati o i confini di proprietà a seconda dell'uso. I dati vanno cioè semplificati o, come si dice talvolta, «idealizzati». Anche nel caso del linguaggio ci troviamo in una condizione simile: il linguaggio è come il mondo dei fenomeni naturali, quando decidiamo di descriverlo dobbiamo scegliere una prospettiva. Ovviamente, ogni scelta, anche in questo campo, costituisce al contempo un vantaggio e un limite, tuttavia a ciò non possiamo sottrarci; ancora una volta occorrerà verificare direttamente se il vantaggio è maggiore del limite e se è adatto allo scopo che ci si è prefissati. Non solo. Può essere che ciò che viene ridotto a un fatto irrilevante per qualcuno diventi il centro dell'attenzione per qualcun altro. Nella fisica questo accade spesso. Pensiamo per esempio alla nascita della dinamica con Galileo Galilei. Una delle proposizioni più note, detta in modo discorsivo, è che un corpo in movimento procederà all'infinito secondo un moto rettilineo uniforme, se non intervengono forze. Com'è ovvio, Galilei non poté provare sperimentalmente questo fatto: l'infinito, almeno quello spazio-temporale, non è accessibile all'uomo, che vive una vita finita. Come poté dunque Galilei arrivare a proporre un'ipotesi non verificabile? L'idea fondamentale fu quella di «idealizzare» i dati: per esempio, quando imprimiamo una forza a una sfera su un piano liscio, la sfera si muoverà e a un certo punto si fermerà, tuttavia se trascuriamo l'effetto dell'attrito, possiamo ben dire che la sfera si muoverebbe di moto rettilineo uniforme all'infinito. L'idealizzazione, il fatto cioè di trascurare alcuni fattori riducendoli al minimo, diventa quindi fondamento dell'esperimento. Certo, secoli dopo, quando nella fisica si iniziò a studiare la termodinamica, ovviamente quel fenomeno che nella dinamica viene ridotto al minimo e di fatto trascurato, l'attrito appunto, diventò degno di nota. Insomma, non ci sono fenomeni che siano sempre da trascurare: lo scienziato sceglierà di volta in volta quali aspetti vanno trascurati e quali no. Nel far questo non è guidato da un algoritmo ineccepibile, ma dal suo intuito. Solo alla fine saprà se ha scelto bene o meno, quando constaterà se la sua teoria lo ha portato a spiegare cose apparentemente diverse in modo unitario, a scoprire cose nuove o a semplificare la visione del mondo. In linguistica si agisce allo stesso modo. Il linguaggio, inteso nella totalità delle sue manifestazioni, è come l'universo dei fenomeni naturali. Anche in questo caso, ciò che può e deve essere trascurato per uno studioso diventa il centro dell'attenzione per un altro. Non c'è da stupirsi. Il linguaggio può essere studiato secondo una tale quantità di prospettive diverse che non vi è certo una lettura privilegiata. Lo studia il filologo che vuole risalire ai testi originali, lo studia il linguista storico che vuole ricostruire una lingua morta, lo studia il giurista che deve capire come formulare al meglio una norma, lo studia il critico letterario che mira a scoprire le tecniche poetiche, lo studia lo psicoanalista che indaga le emozioni di una persona, lo studia il clinico che deve capire quali danni si sono manifestati dopo una lesione al cervello, lo studia il pubblicitario che vuole convincere all'acquisto, e ovviamente, tra gli altri, lo studia il linguista generale che cerca di capire quali sono le strutture di questo codice, indipendentemente dagli altri aspetti e dalle lingue specifiche. Anche noi, dunque, siamo costretti a fare una scelta, anzi a ben vedere più d'una scelta. Nel nostro caso decideremo di studiare alcuni aspetti strutturali di questo codice, quelli che comunemente si chiamano «sintassi». In parole semplici, ma torneremo più volte su questo tema, la sintassi è lo studio della combinazione delle parole: ecco, questo è il nostro limitato dominio d'interesse; cercheremo quindi di ridurre al minimo tutti i fenomeni che ci parranno non influenti sulla sintassi, di semplificare cioè il dominio. Se questo passo è utile o meno, lo deciderà ciascuno di noi alla fine. Tuttavia una domanda preliminare è d'obbligo. Θ legittimo studiare autonomamente questo aspetto? Non è forse che ciò che chiamiamo «sintassi» è invece il risultato dell'interazione di qualche altro componente? Ovvero: la sintassi può essere studiata in isolamento, è autonoma? Non esiste una risposta logica, intuitiva; occorre una volta di più ragionare sui dati in modo scientifico. Vediamo come. La sintassi, dicevamo, è lo studio delle combinazioni di parole. Certo, la combinazione delle parole non è l'unica componente della grammatica. Per esempio, esiste la semantica, cioè lo studio dei significati possibili veicolati dalla sintassi e dal lessico; esistono, come abbiamo visto, la fonologia, cioè lo studio dei suoni possibili e delle loro combinazioni nelle lingue del mondo, e la morfologia, che studia la struttura delle parole; esiste la pragmatica, che studia il ruolo del contesto nel determinare il contenuto di un atto comunicativo in situazioni concrete d'uso. Tutte queste discipline, ovviamente, sono modi di leggere un fenomeno unitario, cioè il linguaggio. Siamo in una situazione simile al mondo dei fenomeni naturali. Il mondo dei fenomeni naturali è uno; il fatto di avere fisica, chimica e le sottopartizioni in cinematica, dinamica, termodinamica e via di seguito è solo un modo di costruire delle partizioni funzionali alla ricerca. Se una torcia accesa cade da una torre come facciamo a decidere se siamo di fronte a un fenomeno fisico, chimico o termodinamico? Questo fenomeno sarà tutto ciò messo insieme. Θ lo studioso che decide se è opportuno scomporlo in aspetti diversi e studiarli autonomamente, a seconda di quello che più gli interessa. Ancora una volta, questa procedura è resa possibile dall'idealizzazione, ma ovviamente la garanzia che separare, diciamo, la termodinamica dalla chimica sia corretto dipende dalla possibilità di identificare una classe di fenomeni coerente rispetto ai due domini dove trascurare nell'uno i fenomeni pertinenti nell'altro non sia d'impaccio. Dunque, per decidere di costruire una teoria della sintassi occorre innanzitutto vedere se la sintassi è autonoma rispetto ad altri domini della grammatica: in particolare, sarà decisivo che la sintassi sia autonoma rispetto alla semantica e alla fonologia. Cosa ci convincerebbe che le cose stanno così? Scomponiamo il problema. Cosa ci convincerebbe che la sintassi è autonoma rispetto alla semantica? La semantica, per definizione, studia i significati possibili. Anche in questo caso, come per la nozione di «parola», non definiremo cosa si intende per «significato»; ammetteremo invece di avere solo un'idea intuitiva di questo termine, per il quale tra l'altro esiste una bibliografia sterminata. Una delle proprietà fondamentali della semantica, in particolare, è il cosiddetto «principio di composizionalità», per il quale il significato di una frase è il risultato della combinazione del significato delle parti che la compongono. Prendiamo per esempio il caso della negazione di frase. Così la frase Gianni non dice che Pietro parte sarà interpretata iniziando da Pietro composto con parte, poi con che e poi con dice; la frase viene poi interpretata applicando la negazione non alla congiunzione tra il soggetto (Gianni) e il predicato complesso (dice che Pietro parte). In questo caso, semplificando molto la questione, possiamo dire che il significato della frase coincide con una caratterizzazione delle condizioni in base alle quali la frase è vera o falsa. Certamente, dunque, la semantica e la sintassi non sono totalmente indipendenti. Se per esempio la negazione non precedesse immediatamente parte invece che dice, il significato sarebbe diverso, essendo diversa la sintassi anche se non sono diverse le parole: Gianni dice che Pietro non parte. La negazione si interpreterebbe applicandola questa volta alla congiunzione tra il soggetto (Pietro) e il predicato (parte). In effetti, come si diceva, non vogliamo sostenere che semantica e sintassi siano indipendenti: come potrebbero esserlo visto che sono un nostro modo di vedere un fenomeno unitario, il linguaggio umano? Quello che vogliamo mostrare è una cosa molto diversa: non che la sintassi è indipendente dalla semantica, ma che la sintassi non è totalmente riducibile alla semantica. Il che sembra essere vero: veniamo subito alla prova. | << | < | > | >> |Pagina 65La linguistica non si sottrae a questa logica di ricerca sulla base di domande semplici; anzi, offre un caso in cui il contrasto tra due fatti intuitivamente evidenti e apparentemente inconciliabili è tanto più forte in quanto l'osservazione del fenomeno è veramente alla portata di tutti. Proviamo a sintetizzare i due poli di una questione linguistica «classica» nei seguenti due enunciati: primo, le lingue variano in modo complesso e la loro struttura non è sempre accessibile all'introspezione diretta del parlante, come abbiamo visto; secondo, qualsiasi lingua viene appresa da un bambino in modo essenzialmente spontaneo, in un periodo breve e solo in un'età nella quale le capacità generali dell'intelletto appaiono meno potenti rispetto a quelle dell'adulto (di norma entro i primi quattro anni di vita). Perché? Si tratta, ovviamente, di un'enunciazione assai informale del problema, forse semplicistica, ma l'intuizione che sta alla base del contrasto dovrebbe essere evidente, così come dovrebbe essere evidente il problema teorico che tale contrasto solleva: come conciliare i due fenomeni? Come arrivare, cioè, a una teoria che derivi i due fenomeni dagli stessi principi? Anticiperò la risposta che cercherò di illustrare più avanti nella trattazione.La linguistica moderna si propone di spiegare l'apprendimento del linguaggio da parte del bambino ipotizzando una guida biologicamente determinata, una sorta di «intelaiatura» o di «griglia» che fornisce solo i gradi di libertà entro i quali l'esperienza, individuale (e di conseguenza collettiva), può muoversi. Uno degli scopi fondamentali della linguistica moderna è dunque proprio quello di scoprire questa griglia, questa «trama nascosta»: esprimendoci sinteticamente, addirittura si può pensare di considerare la linguistica moderna come una teoria dei limiti dell'esperienza. In questo libro cercherò di illustrare questo modo di vedere la teoria linguistica (basandomi sostanzialmente sulla sintassi) e la convergenza tra questa e le neuroscienze verso la decifrazione del mistero del linguaggio umano. | << | < | > | >> |Pagina 87Torniamo ora agli esseri umani. C'è un modo molto suggestivo con il quale spesso Chomsky ha definito la capacità di un bambino di acquisire la propria lingua madre: acquisire una lingua è una cosa che a un bambino succede, non una cosa che un bambino fa (cfr. Chomsky 1998). Esattamente come a un bambino succede che gli crescano il fegato o i polmoni. Per questo non può succedere che uno scimpanzé possa acquisire una lingua umana, nemmeno con ottimi insegnanti. Per riprendere una battuta, sempre di Chomsky (citata anche in Pinker 1994): un ragno non impara a costruire una ragnatela perché gliel'ha insegnato un altro ragno molto abile, ma perché ha un cervello da ragno. L'abilità nel costruire una tela è cioè un istinto, così come Darwin chiamava «istinto» la capacità di un essere umano di apprendere a camminare in posizione eretta; allo stesso modo, entro alcuni limiti che vedremo insieme, un bambino non apprende la lingua materna perché qualcuno gliel'ha insegnata, ma perché ha il cervello da essere umano.Naturalmente, come abbiamo più volte ricordato, ci limitiamo in questo caso a prendere in considerazione la sintassi. Θ chiaro che quando un bambino apprende i segni linguistici il vocabolario della sua lingua procede imitando l'associazione tra suono (il significante) e significato: non può certo sapere che al concetto di «mela» sia associato il suono corrispondente alla pronuncia di apple, mela, pomme o Apfel: l'associazione tra significato (il concetto di mela) e significante (il suono corrispondente) è del tutto arbitraria. In omaggio a Ferdinand de Saussure , lo studioso che per primo indagò il segno linguistico come composto da significato (il concetto) e significante (il suono) ed esplicitò chiaramente il loro rapporto arbitrario, i linguisti parlano proprio di «arbitrarietà saussuriana». Una volta chiarito questo punto, non ci resta che affrontare il campionario di sintassi. Non vedremo tutto, ma avremo un bagaglio teorico e terminologico sufficiente per capire gli esperimenti di neuroimmagine che verranno descritti nel prossimo capitolo. Il punto di partenza consiste nell'adottare quello stile galileiano di ricerca che fa dell'idealizzazione il suo punto chiave, come abbiamo visto nel paragrafo sul metodo a proposito della semplicità. D'ora in poi tratteremo infatti di sintassi delle lingue naturali, escludendo altri componenti della grammatica come per esempio la fonologia. Θ corretto parlare di sintassi ignorando semantica, morfologia, fonologia e pragmatica? Questa domanda, come abbiamo detto, non ha senso. Non ci si può chiedere se è corretto o meno: possiamo solo chiederci se ci conviene. Questa è una scelta metodologica che ci imponiamo basata sui dati che mostrano come la sintassi possa essere trattata autonomamente rispetto agli altri componenti di una lingua, anche se di fatto non compare mai isolata. Stiamo cioè idealizzando il campo, riducendo al minimo gli altri fattori. Solo per ricordarlo brevemente, sappiamo infatti che la sintassi è autonoma rispetto al mezzo tramite il quale viene veicolata (luce, cioè scrittura o gesto, e suono), che è autonoma anche all'interno di un dato mezzo (si ricordi la frase ho visto il re con il cannocchiale) e il fatto che le leggi che governano la sintassi non sembrano essere totalmente riducibili ad altri componenti della grammatica. In sintesi, partiamo dall'ipotesi che la sintassi sia autonoma. Detto questo, esistono almeno due aspetti della sintassi che è bene tenere a mente, per il loro impatto metodologico. Abbiamo visto che il sistema di regole che governano la sintassi delle lingue umane è per lo più inaccessibile all'introspezione diretta del parlante è cioè, per dirla in parole semplici, largamente inconsapevole e che tale sistema è molto complesso, intricato. Indagare la sintassi obbliga il linguista allo stesso sforzo di uno scienziato che studia qualsiasi altro aspetto del mondo naturale: non ci si può aspettare che la teoria venga da sé dai dati. Non basta sentir parlare per avere una teoria del linguaggio, come non basta guardare il sole per avere una teoria geocentrica: in linguistica, per avere una buona teoria, cioè una teoria che ci aiuti a capire il sistema e come esso venga acquisito, occorre procedere per tentativi, confutazioni, ipotesi, modelli, esperimenti; insomma, occorre fare quello che di solito si fa in tutte le scienze empiriche. Parleremo dunque di linearità, discretezza, ricorsività (e gerarchia), dipendenza e località: questi termini, che ovviamente risultano solo parzialmente comprensibili ora, saranno di fatto la base sulla quale capire come si è potuto indagare il cervello per scoprire qualcosa di più sul suo funzionamento rispetto al linguaggio, e alla sintassi in particolare. Come si capisce dal titolo di questo paragrafo, ci accontenteremo di un campionario di dati che però vuol dare una panoramica generale sui fondamenti della sintassi. | << | < | > | >> |Pagina 1353. L'arca di BabeleL'arca di Noè. Cos'è l'arca di Noè se non il sogno di un campionario di forme di vita possibili? La Bibbia (Genesi 7, 1) dice che Noè per preservare tutte le forme di vita da un imminente, devastante diluvio costruì un enorme vascello capace di contenere coppie di sesso diverso di ogni essere vivente, così da poter preservare tutte le forme di vita.
Cosa sarebbe successo se il diluvio universale fosse capitato
dopo il 1953? A Noè sarebbe bastata una piccola scialuppa,
grande tanto da contenere una singola provetta con il DNA di
qualsiasi essere vivente: in fondo, noi dal secolo scorso sappiamo
che tra un elefante e una farfalla, per quanto incredibile, non
c'è una differenza qualitativa, ma solo la differenza di ordine
e numero di un alfabeto di quattro lettere sulla sequenza del
codice genetico: G, A, T e C (sigle che corrispondono alle
iniziali delle basi azotate: guanina, adenina, timina e citosina)
che compongono la lunga catena del DNA di
qualsiasi
essere vivente. In teoria, dunque, un Noè moderno avrebbe potuto
prendere qualsiasi campione di DNA e permutare le quattro
lettere, e di conseguenza le quattro basi, tante volte quante
dalla loro combinazione casuale potevano nascere esseri viventi.
Qual è la differenza fondamentale con il Noè della Bibbia? Il
Noè moderno avrebbe corso il rischio di creare anche animali
che prima non esistevano. In quella provetta, il nostro Noè
moderno avrebbe infatti avuto la ricetta per
qualsiasi
animale possibile e non solo per quelli già esistenti.
3.1. I limiti della variazione
Proviamo ora a pensare la stessa situazione in termini linguistici, pensiamo cioè a un'«arca di Babele», per così dire, al sogno cioè di una raccolta di tutte le lingue possibili. Oggi, se lo si chiede a un linguista o si consulta un catalogo di lingue parlate al mondo, si dice che esistano dalle 6.000 alle 7.000 lingue. Eppure, se solo si guarda ai dialetti italiani del Nord (e un dialetto, ormai lo sanno tutti, non è affatto meno complicato di una lingua), ci sono almeno 300 varietà diverse: se l'italiano dunque vale almeno 301 (escludendo tutti gli altri dialetti della penisola che non sono certo presenti in misura minore sul territorio!), immaginiamoci quante potrebbero essere le varietà possibili di lingue al mondo, sapendo che anche in altri paesi le varietà dialettali sono innumerevoli (e spesso nemmeno catalogate); certo si tratterebbe di molto più di 7.000 lingue. Il nostro Noè linguista dovrebbe avere un'intera flotta di transatlantici dove contenere coppie di persone per ciascuna lingua o dialetto che dir si voglia. Di fatto, nella cultura linguistica contemporanea si è avviato nel secolo scorso (ed è tuttora in via di svolgimento) un processo di riduzione simile a quello che avrebbe permesso a un Noè nato dopo il 1953 di avere tutte le forme di vita esistenti (e anche di più, cioè tutte le forme di vita possibili) in una sola provetta. Oggi si ritiene infatti che, almeno per quanto riguarda la sintassi, tutte le grammatiche del mondo non siano altro che la variazione sul tema di un unico stampo universale: lo stampo contiene (pochi) punti di variazione (dei quali daremo tra breve una semplice illustrazione) ma, essendo molto complesso, il variare dei punti produce una differenza superficiale clamorosa, talmente clamorosa da essere apparentemente controintuitiva: chi direbbe mai che le sintassi dell'italiano e del giapponese possano essere ricondotte a un unico stampo universale con una variazione minima? Torniamo al nostro Noè linguista: se la teoria ammessa qui è vera, sempre non tenendo conto delle differenze nel lessico delle varie lingue, nell'arca di Babele basterebbe portare una sola persona: da una sola lingua, una volta individuati i principi combinatori, si potrebbero ricavare le sintassi di tutte le altre lingue, anche se apparentemente dissimili come dissimile è per ciascuno di noi un elefante da una farfalla. Con una sola lingua e un'adeguata teoria combinatoria, potremmo cioè ricavare la sintassi di tutte le lingue parlate e di quelle morte e andare anche oltre, come nel caso del Noè biologo: potenzialmente, infatti, da una sola lingua potremmo ricavare tutta la classe delle sintassi possibili, anche quelle che non sono state mai parlate né (forse) mai si parleranno. Il fatto, tuttavia, è che per ora questo rimane un sogno (e chissà che non lo sia anche per i biologi quello di trovare la classe delle forme di vita possibili): nessuno, a tutt'oggi, data una sola lingua è in grado di ricavare la classe di tutte le sintassi possibili, come forse nessuno è in grado di ricavare tutti gli animali a partire da un solo animale, ma ciò non è per impossibilità intrinseca; il sogno è legittimo, il fatto è che non siamo ancora in grado di fornire la ricetta per la grammatica universale, ma questa non è più un miraggio né una metafora: sia pur con molto ottimismo, iniziamo ora a intravederne la possibile architettura. In ogni caso, la linguistica e la biologia si trovano in una posizione di forte analogia: invece di ricostruire tutte le forme possibili a partire da un solo esemplare, sia il biologo che il linguista hanno scelto la strada comparativa. I biologi, sia i naturalisti che i genetisti, procedono di fatto attraverso il confronto con campioni significativi di esemplari diversi, non attraverso l'analisi, quand'anche approfondita, di un solo esemplare. In linguistica, la comparazione sistematica ha tradizioni almeno bicentenarie (sebbene gli esordi risalgano per la linguistica occidentale all'inizio del XIV secolo col De vulgari eloquentia di Dante): anzi, si può forse dire che la linguistica come dominio scientifico coincide in epoca moderna con la nascita della comparazione di lingue affini, con lo scopo cioè di costruire l'albero genealogico delle varie famiglie linguistiche. | << | < | > | >> |Pagina 143Mi pare che, in un certo senso, il valore euristico del formalismo, del quale si è parlato nel paragrafo sul metodo, emerga chiaramente in questo caso: la rappresentazione della struttura, un po' come nel caso della doppia elica, mutatis mutandis, ha dato il suggerimento per scoprire una nuova struttura, e aperto il campo a un nuovo filone di ricerca. Certo, questo è solo un esempio semplicissimo, dal sapore un po' artefatto che hanno le frasi «di laboratorio», ma la sostanza dovrebbe essere chiara: variazioni anche minime in un sistema complesso danno luogo a differenze spettacolari tanto in sintassi quanto in biologia. Una grande parte del lavoro della ricerca in sintassi negli ultimi decenni è stata proprio concentrata nell'individuazione di queste differenze minime e sistematiche. Tecnicamente, si è soliti chiamare le parti variabili tra le sintassi di lingue diverse con il termine tecnico «parametri», mentre si definiscono «principi» le parti invarianti del sistema, sicché il modello attualmente dominante nel panorama della linguistica moderna si chiama «modello a principi e parametri». In questo caso, il parametro che abbiamo visto riguardo alla struttura interna dei sintagmi si chiamerà ovviamente «parametro testa-complemento», ma ne esistono altri e il dibattito sulla natura e il formato dei parametri è tutt'altro che chiuso. L'aspetto universale di questo ambito sintattico sta nel fatto che, indipendentemente dalle variazioni d'ordine lineare, ogni sintagma è composto da specificatore, testa e complemento e che lo specificatore è prominente sulla sequenza testa-complemento.| << | < | > | >> |Pagina 1463.2. La grammatica come limite dell'esperienzaA conclusione di questo paragrafo sull'arca di Babele, cioè sull'identificazione e la raccolta di tutte le lingue attestate (o meglio possibili), vale però la pena di soffermarci un istante su almeno una delle domande poste circa i parametri, perché costituisce di fatto forse l'aspetto più rivoluzionario della linguistica moderna rispetto ai modelli precedenti. Ripetiamoci la domanda fondamentale: come si apprende la lingua materna? Esistono almeno due modelli che da sempre rappresentano i due archetipi dell'apprendimento: da una parte il modello a tabula rasa: ogni lingua specifica si costruisce a poco a poco nella mente del parlante sulla base di tentativi regolati dall'esperienza; dall'altra il modello che potremmo definire per simmetria a tabula inscripta: nel bambino ogni lingua specifica si sviluppa interamente come un progetto biologicamente determinato. La teoria della grammatica universale basata sul modello a principi e parametri costituisce un punto decisamente innovativo, e per certi versi conciliatore, di questi due estremi. Θ ovvio che la seconda ipotesi, quella della tabula inscripta, va scartata subito: come è noto e si è più volte detto, nessuno può credere che lo sviluppo di una lingua specifica sia il risultato di un progetto determinato del tutto biologicamente. Se una coppia di adulti che parlano una stessa lingua mette al mondo un bambino che per qualsiasi ragione si trova a essere allevato in un ambiente dove si parla una lingua diversa, il bambino non incontrerà certo difficoltà ad apprendere la nuova lingua, o almeno non più difficoltà di quella che trova un bambino nato da altri genitori che parlano quella nuova lingua, e la lingua dei genitori non emergerà né interferirà nella conoscenza della lingua cui il bambino è esposto né nei suoi discendenti. Tuttavia anche il modello a tabula rasa non sembra adatto a descrivere i dati. Come abbiamo visto, se ci fosse veramente una tabula rasa, ci si aspetterebbero almeno due conseguenze non banali: la prima è che il numero delle sintassi possibili sia infinito, non esistendo alcun limite predeterminato nella struttura sintattica di una lingua; la seconda è che non solo il bambino si troverebbe privo di una guida fornita dai parametri (e di fatto a un livello di complessità praticamente non accessibile in così breve tempo e senza istruzioni esplicite), ma ci si aspetterebbero anche errori che di fatto i bambini non fanno mai. Questo risvolto sperimentale della ricerca, cioè la valutazione degli errori possibili, costituisce ormai un dominio scientifico autonomo che sta dando grandi risultati alla ricerca e corrobora in modo sostanziale le proposte dei teorici. A questo proposito, Yang (2003) suggerisce un'ipotesi affascinante che porta al limite massimo l'impatto della teoria dei parametri rispetto alla valutazione degli errori. In sintesi, secondo Yang, gli errori che un bambino può compiere nell'apprendere la propria lingua non sono altro che forme possibili in altre lingue. Se questo venisse confermato dai dati, la nozione stessa di «errore» in grammatica sparirebbe o comunque dovrebbe essere profondamente ripensata, salvo, naturalmente, i lapsus o gli errori accidentali di produzione. Θ molto probabile, inoltre, che anche dal campo della patologia linguistica, e delle neuroscienze cognitive in generale, si possano in futuro avere dati a favore del modello a principi e parametri, ma di questo accenneremo nel prossimo capitolo. Riassumendo, né il modello a tabula rasa né il modello a tabula inscripta sembrano essere adatti a descrivere la classe delle lingue umane possibili e l'apprendimento della lingua madre. Ma allora quale modello adottare per l'apprendimento? L'ipotesi più probabile, conforme alla teoria dei principi e parametri, è quella di un modello preformato, parte della dotazione biologica umana (quindi, in un certo senso, analogo all'ipotesi della tabula inscripta), dotato di gradi di libertà da fissare in base all'esperienza (quindi, in questo senso, analogo all'ipotesi della tabula rasa): apprendere significa fissare secondo l'esperienza quegli aspetti strutturali lasciati liberi dallo schema biologicamente determinato. | << | < | > | >> |Pagina 158Siamo dunque arrivati alla fine della prima tappa. Dovremmo sapere a sufficienza per affrontare il secondo aspetto della storia raccontata in questo libro, cioè quello dell'incontro fra due culture diverse: le neuroscienze e la linguistica teorica. Come andrà a finire questo incontro? Produrrà risultati? Se questo fosse un romanzo giallo, l'autore si troverebbe di fronte a una scelta strategica classica: rivelare il colpevole fin dall'inizio e poi mostrare come l'indagatore risale tramite indizi; oppure percorrere la via opposta, lasciare il lettore all'oscuro dell'identità del colpevole e portarlo passo per passo a identificarlo. Ho scelto in questo caso la prima strada: svelerò subito le due domande chiave che i due esperimenti qui illustrati si pongono e la risposta che abbiamo ottenuto. La suspense dovrebbe essere garantita dalla curiosità sul metodo se non sul movente.Prima domanda: la sintassi, che i linguisti ritengono autonoma rispetto ad altri componenti della grammatica, si correla con un'attività neuronale autonoma e dedicata? Oppure l'ipotesi dell'autonomia della sintassi, elaborata dalla linguistica teorica, non è affatto compatibile con la struttura del cervello? Seconda domanda: i limiti che costituiscono la classe delle lingue umane possibili come la natura gerarchica delle regole sono in qualche senso solo epifenomeni, o peggio accidenti storici scoperti a tavolino confrontando le grammatiche tra loro, oppure a questa differenza corrisponde una reazione neuronale precisa? Non esistono ovviamente risposte a priori a queste domande: non c'è nessuna necessità logica per la quale la linguistica teorica debba aver sviluppato un modello isomorfo al funzionamento reale del cervello; dopo tutto, i dati empirici delle due discipline sono totalmente diversi: l'una si basa sulla comparazione di regolarità linguistiche, l'altra su dati di tipo biologico. Vedremo però che sorprendentemente esiste una convergenza significativa: non solo la sintassi attiva reti neuronali specifiche distinte dagli altri componenti della grammatica, ma anche il limite di variazione tra grammatiche possibili risulta essere condizionato dall'architettura neurofunzionale del cervello umano. Tutto ciò non solo aumenta la nostra conoscenza dei dati empirici sulla natura del linguaggio, ma ha anche un impatto epistemologico non trascurabile, perché mostra una sostanziale convergenza tra due teorie basate su dati empirici affatto diversi: cosa che a priori, come dicevamo, non può naturalmente essere ammessa se non ad hoc. Su questi quesiti ci concentreremo nel prossimo capitolo, cercando di illustrare due esperimenti di neuroimmagine che hanno affrontato queste due domande. Ancora una volta, prima di arrivare al confronto diretto dovremo acquisire le conoscenze indispensabili, davvero ridotte ai minimi termini, per permettere alle due culture di «parlarsi». | << | < | > | >> |Pagina 170[...] Ma il problema non è questo: il problema centrale che ci stiamo ponendo è se tutto quello che sappiamo sul funzionamento della sintassi delle lingue naturali come linguisti, cioè su base comparativa (l'autonomia, la discretezza, la ricorsività, la dipendenza e la località), costituisca un modello completamente separato rispetto a quello offerto dalle neuroscienze o se esistano punti non banali di contatto. In altre parole: le basi empiriche che hanno portato alla costruzione delle due discipline la linguistica e la neurobiologia del linguaggio sono «incommensurabili» o possono essere messe a confronto?Facciamo subito piazza pulita di un miraggio: nessuno a tutt'oggi sa come si passi dalle regole che ci fanno comporre una frase ai neuroni o alle aree corticali che sottendono a questo compito. Se ciò fosse, saremmo di fronte a un'unificazione dei due campi. Questa unificazione non è ancora nemmeno all'orizzonte oggi, né è detto che lo sarà mai: chiedersi se le regolarità scoperte dai linguisti e le attività corticali del cervello possano essere messe in relazione in modo non banale è dunque un passo preliminare obbligatorio, ma non certamente una meta finale. Questa domanda in particolare non esaurisce un'altra domanda, forse più radicale, cioè perché esistono queste regolarità linguistiche e non altre: di questo potremo solo tentare qualche ardita speculazione nel terzo capitolo. Iniziamo senz'altro il nostro breve viaggio attraverso un nuovo tipo di campionario: quello delle tecniche di neuroimmagini e di due esperimenti costruiti sulla base di tali tecniche. | << | < | > | >> |Pagina 185[...] Per giunta, nessuno ha una teoria globale del funzionamento della mente. Certo, come abbiamo insistito più e più volte, e come è chiaro a chi ha almeno per un istante riflettuto su questo tema, non è certo una tecnica, anche se molto sofisticata, né tantomeno una macchina che di per sé può darci una teoria di come funzioni la mente umana.L'illusione di «vedere il pensiero» rimane dunque a tutt'oggi un'illusione, anche se iniziamo ad accumulare dati nuovi dei quali prima non eravamo in possesso. Non sappiamo bene se un giorno questa illusione verrà sciolta in una teoria esplicita: può essere che la nostra specie non arrivi mai ad avere una completa unificazione del funzionamento materiale e psicologico dei processi cognitivi, una teoria cioè dove «mente» e «cervello» siano una sola cosa. Ma come sempre accade nella scienza, si può procedere nell'analisi anche senza avere la certezza di arrivare alla teoria del tutto. L'importante è almeno arrivare a formulare delle domande semplici che portino a un percorso sperimentale fattibile e che almeno aggiungano un passo al cammino verso una maggior comprensione dei fenomeni osservati. Questo è quello che faremo nei prossimi due paragrafi di questo capitolo. Vedremo come quello che sappiamo sulla sintassi e quello che sappiamo sul cervello possano essere confrontati in modo non banale attraverso l'utilizzo di tecniche di neuroimmagini. A priori, non esiste alcuna aspettativa circa la possibilità di un tale confronto. Le due discipline, la linguistica e la neurobiologia, sono nate e si sono sviluppate in modo indipendente: si tratta quindi di una domanda empirica, come si dice tecnicamente, cioè di una domanda la cui risposta può arrivare solo attraverso un esame sperimentale della realtà e non da una disamina logica. Deve comunque rimanere ben chiara nella nostra mente la consapevolezza che la realtà non si rivela da sé: nessuna macchina fa parlare la natura in modo spontaneo; sempre e comunque il processo di comprensione avviene adottando quello stile galileiano di ricerca del quale abbiamo parlato diffusamente nel primo capitolo. | << | < | > | >> |Pagina 225Riassumendo, siamo partiti da un dato ottenuto puramente su base linguistica: comparando un numero sufficiente di lingue, la linguistica teorica ha stabilito che vale universalmente il principio di dipendenza dalla struttura secondo il quale nessuna regola si può basare sull'ordine lineare di una sequenza di parole; ciò che conta è l'organizzazione gerarchica. Successivamente ci siamo chiesti se questa proprietà universale avesse una matrice biologicamente determinata. Sulla base del metodo sperimentale scelto (la tecnica di neuroimmagine fMRI), abbiamo costruito due compiti distinti per arrivare ad avere il confronto tra le reazioni corticali durante i due compiti. Sono state costruite delle regole che non seguono tale principio (formulato opportunamente in modo semplice), manipolando la grammatica dell'italiano e del giapponese. A loro insaputa, queste regole sono state poi inserite tra le regole che un gruppo di soggetti tedescofoni dovevano apprendere: sebbene i soggetti non facessero particolare distinzione dal punto di vista comportamentale nell'apprendere le nuove regole, il cervello automaticamente «smistava» i tipi di regole, trattando le regole che seguono il principio universale della dipendenza dalla struttura e attivando in modo specifico l'area di Broca, mentre le regole che non seguivano tale principio non attivavano tale area (per un commento critico sull'esperimento qui descritto cfr. Marcus, Vouloumanos e Sag 2003b).Come spesso accade nella scienza, forse questo risultato porta più quesiti che risposte, ma non si può negare che ancora una volta la convergenza tra modelli linguistici e l'architettura funzionale del cervello sia un fatto sorprendente: a priori, non c'era garanzia alcuna che questi dati dovessero portare a una convergenza. Si badi, parlo solo di «convergenza»: altro sarebbe parlare di «unificazione», ma a questo stadio della ricerca, per i limiti teorici e fisici della sperimentazione, parlare di unificazione sarebbe non solo prematuro ma addirittura rischioso. Non sappiamo se arriveremo a un'unificazione perché non sappiamo neppure se le due discipline così come sono non debbano cambiare radicalmente prima di poter procedere a un confronto più stretto, così come all'inizio del secolo accadde per l'unificazione della chimica e della fisica, quando la fisica classica si trasformò in fisica quantistica per poter procedere nell'unificazione. Tra il milione di miliardi di contatti sinaptici e l'osservazione dell'emodinamica di una zona corticale passa una differenza di complessità tale che è impossibile sapere ora come sarà il futuro della ricerca in questo campo, né se la linguistica potrà mai essere una branca della neurobiologia. Forse dovremo passare attraverso un radicale cambiamento del modo di vedere sia il linguaggio che il cervello per poter arrivare a un'unificazione, se questa mai sarà concepibile. Ma, ripeto, il fatto stesso di avere nuove domande è, credo, decisamente incoraggiante. | << | < | > | >> |Pagina 2264. Linguistica mendeliana (?)Il lettore si sarà certo accorto a questo punto del libro che in tutta questa discussione non ho mai parlato di genetica (se non per un breve accenno in relazione ai geni della famiglia EMX scoperti da Edoardo Boncinelli ). L'omissione non è stata casuale. Molte volte, leggendo di linguistica, si sente dire che il programma generativista è di fatto un programma di ricerca della «dotazione genetica» della nostra specie rispetto al linguaggio. Niente di più prematuro o inutile potrebbe essere detto in questo senso a meno di una precisazione (di ciò è anche testimonianza la controversa interpretazione dei dati di Gopnik 1990, che discuteremo più avanti, che tanto entusiasmo accesero al momento della pubblicazione). Credo che le parole di Medawar , premio Nobel 1969 per la medicina o fisiologia, possano esprimere questo punto delicato meglio di ogni mia parola: «Uno fra gli errori più gravi e più diffusi del geneticismo è la convinzione che, se un carattere è condiviso da tutti gli individui di una comunità, deve avere una base genetica. Così, se dovesse risultare che una certa forma linguistica di base come la forma aristotelica soggetto/predicato è un elemento di tutte le lingue del mondo, si dovrebbe pensare a una programmazione del suo uso a livello del codice genetico (alcuni degli scritti di Noam Chomsky non sono innocenti di questo peccato, che presenta affinità anche con la sociobiologia, seguendo una rotta perigliosa tra la Scilla del geneticismo e la Cariddi dello storicismo). Può essere bene ripetere in questo contesto la ragione per cui questo canone supremo del geneticismo non è soddisfacente: perché un qualche carattere possa essere giudicato ereditario o programmato geneticamente dev'esserci qualcuno che non lo possiede. La capacità di sentire il sapore della feniltiocarbammide, per esempio, ha notoriamente una base genetica proprio in quanto ci sono persone che non la possiedono» (Medawar 1967; trad. it. 1986, 161-162; corsivo mio). Θ chiaro dunque in che senso va ridimensionata la pretesa di indagare le capacità geneticamente determinate della specie umana relative al linguaggio. A questo punto della ricerca in linguistica, mi pare chiaro che non ci siano dati che ci permettano di rintracciare degli aspetti della competenza sintattica che rispondano ai requisiti di cui parlava Medawar, che siano cioè «assenti» in gruppi di individui, o almeno non tali da assumere l'andamento statistico che soddisfi i criteri mendeliani: usando un'espressione sintetica, possiamo dunque dire di essere ben lontani dall'avere una «linguistica mendeliana», anche se in linea di principio nessuno può escludere che si arrivi a questo traguardo. Le ricerche sulla sintassi hanno sì portato in luce differenze sistematiche tra gruppi, ma non solo tali differenze, come abbiamo visto, sono riconducibili (almeno potenzialmente) a pochi parametri; la cosa fondamentale è che non sono state trovate differenze tali che qualche persona di un dato gruppo non manifesti un tratto grammaticale (in particolare di tipo sintattico) trasmissibile geneticamente tra gli individui generati nella stessa famiglia. Il parametro è certamente una differenza, ma non è certo una differenza «mendelianamente» significativa; anzi, è per definizione l'opposto: è una differenza sistematica condivisa da tutto un gruppo di parlanti. Certo nessuno potrebbe sensatamente negare che le capacità di Homo sapiens di apprendere una lingua per istinto non abbiano una base genetica, perché di fatto non esiste un solo tratto dell'organismo di un individuo che non sia regolato dai suoi geni e dall'impatto che l'ambiente ha sui gradi di libertà ammessi dai geni stessi. Semplicemente quello che si può dire ora è che la situazione, per quanto riguarda la grammatica, e in particolare la sintassi, è troppo complessa per dare risultati scientifici rilevanti in senso mendelianamente pertinente. | << | < | > | >> |Pagina 231Sintetizziamo questo capitolo. Se dunque non siamo arrivati all'unificazione tra linguistica e neuroscienze, almeno siamo arrivati a una convergenza sorprendente: le teorie linguistiche, basate sulla comparazione di regolarità grammaticali tra lingue diverse, risultano compatibili, se non addirittura convergenti, con i risultati di tipo neurobiologico. Il punto centrale è che il cervello, inconsapevolmente rispetto a ogni intuizione soggettiva, mostra sensibilità nell'area di Broca rispetto a regole sintattiche solo per quelle regole che rispettano il principio di dipendenza dalla struttura, non regole di qualsiasi formato. Ciò porta a una conseguenza non banale. Spesso si è paragonato il cervello a un hardware e la grammatica a un software, come se il cervello fosse «neutrale» rispetto a un programma che possa essere appreso. Nessuno a questo punto può garantire che questa visione sia corretta, anzi i dati sembrano portare nella direzione opposta, almeno nel campo del linguaggio: la sintassi delle lingue umane (e forse, in generale, i processi cognitivi che caratterizzano la mente dell'uomo) sembra essere l'unico software che questo hardware, il cervello dell'uomo, può esprimere. In questo modo la distinzione tra hardware e software perde senso, almeno per quanto riguarda il rapporto tra grammatica e linguaggio.Certo molte sono le domande che questi risultati, se verranno confermati dalla comunità scientifica, porranno; per esempio, tra le più interessanti: se apprendiamo tutto, perché dunque non esistono lingue «impossibili»? Detto in termini più radicali: cos'è mai una lingua impossibile se il cervello riesce comunque a manipolarla? Inoltre, cosa blocca l'apprendimento spontaneo in un adulto se l'area di Broca rimane attiva anche nell'apprendimento di una seconda lingua? Forse, dunque, le domande che questi esperimenti pongono sono di più che le risposte, ma ciò non ferma la ricerca, anzi: condivido con molti l'impressione che nella scienza l'importante non sia tanto avere le risposte giuste ma le domande giuste, cioè quelle che in linea di principio ci fanno pensare a un modo per ottenere una risposta. Nel prossimo capitolo ci addentreremo con cautela in alcuni di questi campi così nuovi e controversi. | << | < | > | >> |Pagina 271Se in una stanza assolata vediamo, inaspettata, un'ombra muoversi sul muro, giriamo immediatamente la testa per vedere chi o cosa la proietta. Siamo tutti portati intuitivamente a immaginare che il mondo non contenga doppioni: se esiste qualcosa di organizzato (l'ombra) la cosa più probabile è che l'organizzazione sia ereditata da qualcos'altro (da qualunque cosa possa essere di ostacolo alla luce). Lo stesso atteggiamento permea l'osservazione del mondo naturale: quando troviamo una qualche forma organizzata, sia essa un minerale o un organismo vivente, è naturale chiedersi quanto della sua struttura derivi da un'altra struttura e quanto invece emerga in modo speciale per qualche proprietà espressione solo della forma stessa. Θ evidente che il caso del linguaggio umano costituisce il prototipo di tutte le considerazioni di questo tipo. L'esistenza di esseri parlanti pone infatti in modo naturale e diretto una domanda semplice: la struttura del linguaggio umano è determinata dalla struttura del mondo nel quale l'individuo si trova ad agire oppure sorge in modo sostanzialmente indipendente nella mente del parlante? Accanto a questa prima domanda, ovviamente, se ne affollano molte altre, come ad esempio se la struttura del linguaggio di un individuo possa incorporare anche strutture preesistenti all'individuo stesso come strutture cui furono sottoposti gli antenati dell'individuo o, addirittura, la domanda opposta, se cioè la rappresentazione del mondo esterno sia in qualche modo frutto dell'organizzazione del codice di comunicazione. Sono domande di portata enorme e non hanno a tutt'oggi avuto risposta definitiva né è chiaro se una risposta possa esserci. In un certo senso tutta la riflessione sul linguaggio può essere vista come una posizione o intermedia o radicalizzata tra questi due poli opposti: chi vede il linguaggio come totalmente determinato dall'ambiente esterno e chi invece pensa che sia frutto di istruzioni emerse da proprietà indipendenti dalla natura specifica dell'ambiente fisico, per esempio da proprietà computazionali o dall'accumulo stabile di fatti casuali incorporati nel patrimonio genetico (funzionali alla comunicazione). Come abbiamo visto nei capitoli precedenti, tutto questo è reso ancora più complicato dal fatto che l'organizzazione formale del linguaggio (le sue regole di base e i suoi elementi primitivi) e quella del cervello (i neuroni e le reti implicate) non sono (al momento) descrivibili in modo unificato né l'una può essere definita più astratta dell'altra. Abbiamo anche visto che il linguaggio di un individuo si forma sulla base di istruzioni che precedono l'esperienza, al punto che possiamo dire che la linguistica contemporanea può essere vista come una teoria dei limiti di quanto l'esperienza possa influire sulla struttura. In questo capitolo affronteremo questo problema dell'origine delle regolarità linguistiche cercando di vedere, tramite l'illustrazione e la discussione di tre casi, se e come la struttura del mondo influenza la struttura del linguaggio. Faremo ciò a partire da prospettive radicalmente «esternaliste», cioè cercando di concentrarci su fattori condizionanti che certamente provengono dall'ambiente, con l'intenzione di verificare se è ammissibile che tutte o almeno le più salienti proprietà del linguaggio possano essere ricondotte alla reazione della mente agli stimoli che provengono dal mondo esterno. Θ evidente che la risposta a questa domanda diventa fondamentale per capire la natura biologica dei confini di Babele; una volta appurato che i confini esistono e che sono inscritti nella nostra carne, la domanda non può infatti che indirizzarsi alla sorgente di queste istruzioni biologiche. Sono casuali? Sono dovute a leggi di carattere fisico o computazionale? Rispondono alle condizioni che regolano l'omeostasi tra geni? Occorrono, tuttavia, almeno due premesse per evitare fraintendimenti; con «struttura del mondo» si intenderà qui non la struttura microscopica della materia (anch'essa determinante, per altro, nel funzionamento del cervello), ma di quello che noi percepiamo in modo immediato del mondo, senza bisogno di strumenti particolari: cioè, essenzialmente, la sua organizzazione fisica, materiale e sociale. Inoltre, occorre rendersi conto che lo stato di relativa arretratezza delle nostre conoscenze sul linguaggio può non essere affatto dovuta ai sistemi primitivi con i quali stiamo indagando questa capacità umana o alle limitazioni etiche imposte alla sperimentazione: non è affatto detto che una tecnologia più potente o forme meno restrittive di indagine ci permettano di capire in un modo qualitativamente diverso il linguaggio. Può essere che la decifrazione delle cause e della struttura che sottendono questo fenomeno sia al di là delle capacità umane di comprensione. La nostra fortuna, per così dire, è che non potendo saperlo non possiamo fare altro che procedere, cercando dove possibile un appiglio per avanzare nella conoscenza di questo fenomeno, tenendo ben presente che, adottando lo stile galileiano di ricerca di husserliana memoria, la nostra conoscenza sarà sempre e comunque parziale e idealizzata. La speranza è che se si fallisce nella comprensione extensive cioè nella quantità dei fatti si riesca tuttavia a far progredire la conoscenza intensive cioè in profondità o perfezione, come Galilei faceva dire a Salviati nella seconda giornata del Dialogo. | << | < | > | >> |Pagina 313Siamo giunti alla fine del nostro viaggio tra grammatica e cervello alla ricerca dei confini di Babele, alla ricerca cioè della spiegazione di un enigma che è stato messo in luce dalla linguistica contemporanea: perché non tutte le grammatiche concepibili sono realizzate? Ho cercato di trasmettere al lettore lo stesso stupore e la stessa curiosità che ho provato io durante il percorso che mi ha portato a queste considerazioni sulle coincidenze tra teoria linguistica e architettura funzionale del cervello. Abbiamo visto che l'apprendimento di una lingua avviene sulla base dell'esperienza ma solo entro i limiti forniti da una guida biologicamente determinata; abbiamo visto che questa ipotesi, formulata in origine sulla base di dati comparativi, converge con quelli neurobiologici ottenuti con metodi di neuroimmagini; abbiamo visto che la circostanza che non tutte le lingue possibili siano realizzate può essere considerato il prezzo da pagare all'apprendibilità delle lingue da parte dei bambini; e abbiamo visto che esistono strade percorribili per mostrare come mai le lingue naturali contengano alcuni tipi di regole sintattiche legate a condizioni extragrammaticali, cioè fisiche e biologiche dell'organismo umano, come l'organizzazione lineare del segnale linguistico; infine, abbiamo visto come si possa effettuare il passaggio cruciale dall'analisi di dove avvengono le computazioni all'analisi di cosa costituisce il codice elettrico dei neuroni: un inaspettato termine di paragone tra i due ambienti nei quali vive fisicamente il linguaggio umano le onde acustiche dell'aria e le onde elettriche dentro il cervello è stato offerto dalla lettura nella mente. Ora sappiamo che, anche in assenza di suono, la produzione del linguaggio è costituita da onde elettriche la cui forma riproduce quella delle strutture sonore delle espressioni linguistiche corrispondenti.
Forse, un'unificazione tra la linguistica e i modelli neurobiologici, e più
in generale i modelli fisici e biologici, non sarà mai accessibile alla nostra
specie, ma certo quello che sappiamo finora mostra che le due discipline possono
dialogare in modo tutt'altro che poco proficuo.
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