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| << | < | > | >> |IndiceIl libro dei secoli 11 Introduzione 21 1. 1001-1100. L'XI secolo Lascesa della Chiesa di Roma, 28 La pace, 35 Il declino della schiavitù, 39 L'ingegneria strutturale e l'architettura, 43 Conclusioni, 48 Il principale agente del cambiamento, 50 53 2. 1101-1200. Il Millecento La crescita demografica, 55 L'espansione della rete monastica, 60 La rinascita intellettuale, 64 La medicina, 70 La nascita degli ordinamenti giuridici, 76 Conclusioni, 79 Il principale agente del cambiamento, 80 83 3. 1201-1300. Il Duecento Il commercio, 86 Cultura e istruzione, 94 Il principio di responsabilità, 98 I frati e gli ordini mendicanti, 103 I viaggi, 108 Conclusioni, 112 Il principale agente del cambiamento, 114 117 4. 1301-1400. Il Trecento La peste nera, 119 Guerra e armi d'assalto a distanza, 127 La nascita dei nazionalismi, 133 Le lingue vernacolari, 139 Conclusioni, 143 Il principale agente del cambiamento, 144 146 5. 1401-1500. Il Quattrocento L'età delle scoperte, 149 La misurazione del tempo, 157 La nascita dell'individualismo, 161 Il realismo e il naturalismo rinascimentale, 165 Conclusioni, 169 Il principale agente del cambiamento, 171 173 6. 1501-1600. Il Cinquecento Libri stampati e alfabetizzazione, 176 La Riforma protestante, 185 Armi da fuoco, 192 Il declino della violenza privata, 197 La fondazione degli imperi coloniali europei, 203 Conclusioni, 207 Il principale agente del cambiamento, 209 210 7. 1601-1700. Il Seicento La rivoluzione scientifica, 215 La rivoluzione medica, 225 La colonizzazione del mondo, 230 Il contratto sociale, 236 Lascesa del ceto medio, 238 Conclusioni, 242 Il principale agente del cambiamento, 244 245 8. 1701-1800. Il Settecento Trasporti e comunicazioni, 247 La rivoluzione agricola, 254 Illuminismo e liberalismo, 258 Il pensiero economico, z66 La Rivoluzione industriale, 273 Le rivoluzioni politiche, 280 Conclusioni, 286 Il principale agente del cambiamento, 288 291 9. 1801-1900. L'Ottocento Incremento demografico e urbanizzazione, 293 I trasporti, 299 Le comunicazioni, 306 Sanità e igiene pubblica, 311 La fotografia, 317 La riforma sociale, 322 Conclusioni, 333 Il principale agente del cambiamento, 335 338 10. 1901-2000. Il Novecento I trasporti, 341 La guerra, 351 L'aspettativa di vita, 358 I media, 361 Apparecchi elettrici ed elettronici, 366 L'invenzione del futuro, 371 Conclusioni, 376 Il principale agente del cambiamento, 378 381 Conclusioni Qual è stato il secolo di maggiori trasformazioni? Cambiamento e stabilità, 383 La scala dei bisogni, 386 I cambiamenti della società misurati secondo la scala dei bisogni, 391 È la fine della storia?, 412 Il principale agente del cambiamento, 419 423 Epilogo Cosa è cambiato, cosa cambierà 445 Appendice Stime demografiche Inghilterra, 446 Francia, 448 Italia, 449 L'Europa e il mondo, 450 455 Ringraziamenti 457 Note 477 Indice dei nomi |
| << | < | > | >> |Pagina 11IntroduzioneArte della stampa, polvere da sparo, bussola: tre scoperte che hanno rivoluzionato il volto e l'aspetto del mondo. Francesco Bacone, Novum Organum (1620) Una sera, verso il finire del 1999, ero a casa e stavo guardando il telegiornale. Dopo aver presentato gli avvenimenti principali della giornata, la conduttrice iniziò a introdurre una sintesi di quello che, pensavo, sarebbero stati gli avvenimenti degli ultimi dodici mesi, com'è tradizione negli ultimi giorni dell'anno. Quell'anno, invece, la conduttrice cominciò a riassumere gli avvenimenti del Novecento. «Questo secolo, caratterizzato da cambiamenti come nessuno dei precedenti, sta volgendo al termine...» esordì la giornalista. Le sue parole mi rimasero impresse nella mente, e su di esse cominciai a riflettere. Che ne sappiamo veramente del cambiamento?, mi domandai. Che cosa dà a questa conduttrice la sicurezza che nel Novecento siano avvenuti più cambiamenti che, per esempio, nell'Ottocento, quando le linee ferroviarie hanno trasformato il mondo? O rispetto al XVI secolo, quando Copernico stabilì che è la Terra a ruotare intorno al Sole e Lutero fu artefice dello scisma all'interno della Chiesa cristiana? Dopo pochi attimi, sullo schermo di fronte a me comparvero immagini di film in bianco e nero, una nube a forma di fungo, razzi spaziali, automobili e computer. L'affermazione della conduttrice secondo cui nel XX secolo si era assistito a cambiamenti come in nessun altro secolo era evidentemente basata sull'idea che «cambiamento» fosse sinonimo di sviluppo tecnologico, e che le innovazioni novecentesche non trovassero paragoni in altre epoche storiche. Negli anni trascorsi da quel giorno ho discusso di «cambiamento» con un gran numero di persone. Quando pongo la domanda «Qual è stato il secolo in cui sono avvenuti più cambiamenti?», quasi tutti si trovano d'accordo con la giornalista della BBC: non vi sono dubbi, il Novecento. Qualcuno trova persino ridicolo che io possa anche solo prendere in considerazione una risposta diversa. Quando insisto perché mi spieghino meglio il loro punto di vista, in genere rispondono facendo riferimento a una o più delle seguenti innovazioni novecentesche: l'aeroplano, la bomba atomica, l'atterraggio sulla Luna, internet e il telefono cellulare. Sembrano convinti che tali conquiste moderne rendano inferiore tutto ciò che è venuto prima, e che, al confronto, nei secoli precedenti il cambiamento sia stato a malapena percettibile. A mio avviso si inganna chi dà per scontato che i cambiamenti più significativi siano rappresentati dalle conquiste della contemporaneità e che l'epoca premoderna sia stata un'epoca di relativo immobilismo. Il fatto che una certa trasformazione abbia raggiunto il suo massimo sviluppo nel XX secolo non significa che i ritmi del cambiamento abbiano toccato il loro acme proprio nel Novecento. L'inganno è rafforzato ulteriormente dalla normale tendenza a dare la priorità agli avvenimenti di cui abbiamo avuto esperienza diretta, perché vissuti sulla nostra pelle o attraverso la Tv, rispetto a quelli che non hanno più testimoni in vita. Solo una piccola minoranza di persone prende subito in considerazione la potenziale candidatura di un secolo che non sia il Novecento. In genere si tratta di individui dotati di una particolare specializzazione che li rende profondamente consapevoli delle conseguenze di uno sviluppo tecnologico di un'epoca precedente, che si tratti della staffa, dell'aratro condotto dal cavallo, della pressa tipografica o del telegrafo. Non ho tenuto il conto, ma con buona approssimazione posso dire che quando ho domandato «Qual è stato il secolo segnato dai cambiamenti più epocali?», il 95% delle persone ha risposto «il XX secolo», adducendo il progresso tecnologico come motivazione; del restante 5%, la maggior parte ha menzionato un altro secolo ma sempre per questioni di sviluppo tecnologico; solo pochissimi hanno citato un avvenimento non tecnologico antecedente al 1900, come il Rinascimento o la campagna per i diritti delle donne. A quanto io ricordi, nessuno ha suggerito un secolo anteriore all'anno 1000, per quanto si potrebbe a ben ragione citare il V secolo dopo Cristo, che vide il crollo dell'Impero Romano d'Occidente. Certi replicano con una domanda: «Che cosa intendi con "cambiamento"?». All'apparenza, la risposta è ovvia. In realtà, però, si tratta anche di una risposta curiosa. Tutti sanno cosa si intende per «cambiamento»: cambiamento è la modificazione di uno stato. Eppure, quando le si chiede di dire qual è il secolo nel quale i cambiamenti sono stati più profondi, la gente sembra incerta sul significato di questa parola. L'esperienza collettiva dell'umanità in un lungo periodo ha una portata enorme, troppo grande perché noi possiamo soffermarci sulla miriade di cambiamenti che essa incorpora: considerati nel complesso, è impossibile valutare ogni diverso fattore. Siamo in grado di valutare certi cambiamenti specifici avvenuti nei secoli (aspettativa di vita alla nascita, tasso di natalità, longevità, altezza, introito calorico pro capite, salario medio dei lavoratori), e per buona parte degli ultimi mille anni possiamo quantificare aspetti come frequenza dei luoghi di culto, tassi di violenza, ricchezza relativa e alfabetizzazione; tuttavia, per misurare con esattezza ogni singolo fattore è necessario considerarlo separatamente da tutti gli altri aspetti della vita umana. È impossibile misurare le differenze negli standard di vita: è un po' come misurare l'amore. Anzi, è molto più difficile che misurare l'amore. Se non altro, l'amore può essere raffrontato secondo una scala che va, per esempio, dal pensiero di mandare un biglietto di San Valentino all'inviare mille navi per andare a riprendersi la donna amata. Gli stili di vita non possono essere valutati secondo determinate unità di misura. Ogni cambiamento quantificabile che potrebbe essere considerato il più importante può essere neutralizzato da un altro cambiamento anch'esso quantificabile. Per esempio, nel XX secolo si è registrato il massimo aumento dell'aspettativa di vita al momento della nascita: nella maggior parte dei paesi europei essa è cresciuta di oltre il 60%. Si potrebbe comunque controbattere che nei secoli precedenti la durata della vita per i singoli individui, maschi e femmine, era sostanzialmente la medesima: anche nel Medioevo c'erano uomini e donne che vivevano fino ai novanta anni e oltre. San Gilberto di Sempringham morì nel 1189 all'età di 106 anni; Sir John de Sully morì nel 1387 a 105 anni. Pochissime persone ancora oggi superano quell'età. Se è vero che, in raffronto, nel Medioevo gli ottuagenari erano una rarità (il 50% dei neonati non raggiungeva nemmeno l'età adulta), in quanto alla massima longevità possibile poco è cambiato nel corso del millennio. Non appena si trova un fattore quantificabile in base al quale rispondere alla mia domanda sul «cambiamento più significativo», ecco che se ne presentano altri a complicare la scelta. Perché scegliere l'uno piuttosto che l'altro? Come dimostra l'esempio dell'aspettativa di vita in contrapposizione agli anni potenziali di vita, è solamente una questione di preferenza individuale. Ciò potrebbe indurre a credere che porsi questa domanda non sia più che un gioco di società: niente più che una curiosità, una discussione amena, sulla falsariga di «Chi è stato il più grande re d'Inghilterra?», o «Chi è stato il papa più grande della storia?». In realtà si tratta di una cosa seria. Come ho cercato di dimostrare nei miei libri usciti per la serie Time Traveller's Guide, capire la società umana in periodi storici diversi è un modo per comprendere meglio la natura umana rispetto alle impressioni relativamente superficiali che possiamo trarre dall'osservazione del nostro modo di vivere odierno. La storia ci aiuta a vedere tutto ciò di cui la nostra specie è capace o incapace, e non significa solo lanciare uno sguardo nostalgico verso il mondo come era una volta. Non si può mettere il presente nella giusta prospettiva senza prendere in considerazione il passato. È solo guardando al Trecento, per esempio, che si può comprendere la misura della nostra resilienza di fronte a calamità devastanti come la peste nera. È solo ripensando ad avvenimenti come la seconda guerra mondiale che si capisce quanto sappiamo essere innovativi, organizzati e produttivi quando ci troviamo ad affrontare crisi di enorme portata. In maniera analoga, esaminando la storia dei governi occidentali negli ultimi cento anni si impara quanto miopi e poco lungimiranti siano le nostre odierne democrazie, in cui i politici assecondano i capricci della società e cercano sempre le soluzioni più immediate ai problemi. Solo i dittatori fanno piani millenari. È la storia a insegnarci quanto violente, sessiste e crudeli siano state finora — e possano essere ancora — le nostre società. Molti sono gli scopi della ricerca storica, dal capire come si è evoluto il mondo contemporaneo in cui viviamo a comprendere in quale modo ci piace divertirci, ma lo scopo più profondo di tutti è svelare qualcosa della natura umana, in tutti i suoi estremi. Questo libro è la mia risposta, un po' tardiva, alla domanda sottintesa da quella giornalista televisiva nel 1999. Tuttavia, devo ammettere che nel mio tentativo di stabilire quale secolo ha registrato più cambiamenti rispetto agli altri, ho dovuto fissare determinati criteri. Il primo è che mantengo volutamente la definizione vaga e ambigua di «cambiamento» in modo da poter includere l'intera gamma di possibili trasformazioni che potrebbero essere prese in considerazione per ciascun secolo. Solamente nei paragrafi conclusivi cerco di fare un discrimine tra di esse e di classificarle. Il secondo è che prendo in considerazione solo dieci secoli, il millennio che ha fatto da preludio all'anno 2000. Il mio intento non è certo quello di negare l'importanza dei periodi precedenti, ma piuttosto cercare di mantenere il focus sulla cultura occidentale. Non voglio fare di questo libro l'ennesimo elenco di «momenti di svolta» nella storia dell'umanità. Il terzo criterio è che il libro tratta dei cambiamenti avvenuti all'interno della civiltà occidentale, la quale è in gran parte il prodotto delle nazioni che sono state il fulcro del mondo cristiano nel Medioevo. Allargo il mio studio a un contesto più ampio solamente nei secoli in cui gli eredi di quel mondo che utilizzava il latino come lingua veicolare hanno attraversato gli oceani. Pertanto, in questo libro l'«Occidente» non è un'unità geografica, ma piuttosto un sistema culturale in espansione centrato alle origini nei regni cristiani dell'Europa medievale. Lungi da me, ovviamente, sminuire l'importanza delle culture medievali extraeuropee: questo libro tratta di cambiamenti, non di supremazia. Se avessi considerato la risposta alla mia domanda a partire dalla comparsa della specie Homo sapiens, l'Africa avrebbe avuto un ruolo preponderante. Se fossi partito dalla fine dell'ultima glaciazione, al Medio Oriente sarebbe andato un ruolo di maggiore preminenza. Se avessi cercato di tracciare tutti gli alti e bassi della civilizzazione umana sarebbero stati presi in considerazione fattori come l'utilizzo di strumenti, il controllo del fuoco, l'invenzione della ruota e della barca, nonché lo sviluppo del linguaggio e della religione. Ma queste sono altre storie, che esulano dai parametri di questo libro. E se questo libro non è una storia del mondo, non è neanche una storia esaustiva di un gruppo di paesi o di una certa regione geografica. Sono molti gli avvenimenti più importanti della storia delle singole nazioni che qui non compaiono, o che sono menzionati solo en passant. Se è vero che alcune invasioni hanno segnato forti cambiamenti a livello nazionale - la conquista normanna dell'Inghilterra, per esempio, o l'arrivo del commodoro americano Perry nel porto di Tokio nel 1853 -, si tratta di avvenimenti di portata perlopiù locale. Alcuni elementi geograficamente specifici possono far parte della storia principale (il Rinascimento italiano o la Rivoluzione francese, per esempio), ma nella maggior parte dei casi si tratta di componenti marginali rispetto alla domanda che sta al centro della mia ricerca. Che cosa mai importava - per dire - ai portoghesi dell'unificazione della Germania? E quale interesse potevano mai avere i siciliani per l'invasione dell'Inghilterra da parte dei normanni, quando anche loro avevano una conquista normanna con cui confrontarsi? Analogamente, l'inizio della schiavitù nelle Americhe e nei Caraibi viene menzionata soltanto in una sottosezione del capitolo dedicato al Seicento, poiché il ritorno dello schiavismo ebbe luogo in quella che allora era la periferia dell'Occidente. Gli europei del XVII secolo vivevano in maniera più diretta le ripercussioni della tratta dei bianchi, fenomeno a causa del quale centinaia di migliaia di abitanti dell'Europa occidentale furono rapiti dai pirati barbareschi e rivenduti come schiavi nel Nord Africa. Tuttavia, nemmeno questo fenomeno influenzò la civiltà occidentale quanto i cinque cambiamenti più significativi scelti per quel capitolo. La reviviscenza della schiavitù, al pari di molte lotte nazionali, dovrebbe sicuramente figurare in qualunque storia del mondo, ma non è questo il senso di questo libro. Questo libro è una sintesi di riflessioni sullo sviluppo della civiltà occidentale allo scopo di dare risposta a un interrogativo specifico. Volendo focalizzarmi su una domanda, inevitabilmente a certi personaggi e a certi temi non verrà dato lo stesso rilievo che di solito si dà nei manuali di storia generale. Colleghi e amici mi hanno rinfacciato di aver ignorato Leonardo Da Vinci, o di aver tagliato fuori la musica. Sebbene Leonardo sia stato un uomo dal talento straordinario, le sue speculazioni tecnologiche hanno avuto un impatto pressoché nullo sulla gente del suo tempo. Pochissimi lessero i suoi appunti e le sue invenzioni rimasero sulla carta. La sua unica eredità di rilievo è rappresentata dalle opere pittoriche, ma, in tutta sincerità, non vedo in quale modo la mia vita oggi sarebbe diversa se uno o due pittori rinascimentali non fossero mai esistiti. Se nessuno non avesse mai dipinto un ritratto la questione sarebbe diversa, ma l'influenza di un singolo artista è relativamente poca cosa rispetto all'impatto di un Lutero o di un Copernico, solo per fare dei nomi. In quanto alla musica, essa esiste in ogni nazione e così è da più di mille anni. Strumenti, accordi e armonie si saranno modificati dal punto di vista della forma, e bisogna riconoscere che la possibilità di registrare il suono abbia rappresentato un importante cambiamento, ma la produzione di musica è una delle grandi costanti nella vita dell'umanità, interessante più per la sua onnipervasività che per la sua capacità di modificare il nostro modo di vivere. Appare ovvio che i cambiamenti più importanti sono quelli che travalicano i confini nazionali, le forme di intrattenimento e i valori spirituali, e i più significativi hanno un impatto che va molto oltre i rispettivi settori di specializzazione. Uno scienziato che influenzi esclusivamente altri scienziati è, nel contesto di questo libro, pressoché irrilevante; lo stesso si può dire di uno storico che influenzi solo le nostre idee riguardo al passato o di un grande filosofo il cui pensiero influenzi solo altri filosofi. Un mio amico, molto più ferrato di me in filosofia, ha trovato curioso che nel mio libro si dedicasse così tanta attenzione a Voltaire e Rousseau ma quasi si ignorassero Hume e Kant, che secondo lui sono di gran lunga più importanti. Tuttavia, come lui stesso ha prontamente ammesso, questa non è una storia della filosofia. Il discorso è che i messaggi fatti circolare da Rousseau e Voltaire hanno avuto un impatto diretto sul pensiero politico del XVIII secolo. A Kant si fa un rapidissimo cenno per lo stesso motivo per cui a Mozart si dedica una menzione fugace: la sua eredità non ha avuto alcun impatto diretto su neanche uno dei cambiamenti fondamentali avvenuti negli ultimi tre secoli. I parigini insorti nel 1789 non misero a ferro e fuoco la Bastiglia spinti dalla pretesa che i nobili obbedissero all'«imperativo categorico» di Kant, ma perché i loro leader si ispiravano al contratto sociale di Rousseau. | << | < | > | >> |Pagina 28L'ascesa della Chiesa di Roma [1001-1100]Non vi sono dubbi che la maggior parte degli studiosi identificherebbe nell'ascesa della Chiesa cattolica romana l'unico grande cambiamento avvenuto nel primo secolo del secondo millennio dopo Cristo. Ciò fu — almeno in parte — la conseguenza della conversione al cattolicesimo degli stati alla periferia del mondo cristiano. L'espansione geografica rafforzò l'ascesa del papato come potenza paneuropea, dotata di una vasta autorità politica e morale. Un'altra conseguenza fu il generale rafforzamento del potere della Chiesa, determinando così una serie di cambiamenti che ebbero ripercussioni sull'intera società. Senza l'ascesa del potere del papato e della Chiesa romana la storia del Medioevo sarebbe stata completamente diversa. Fra il 955 e il 1100 il mondo cristiano raddoppiò in dimensioni. Non fu una trasformazione immediata: in molti territori la popolazione resistette per decenni alla cristianizzazione, ma nel corso di quegli anni pressoché la totalità dell'Europa occidentale finì per vivere secondo le regole e la fede nella Croce. Le ragioni di questo fenomeno sono complesse: sicuramente il fervore missionario ebbe un ruolo importante, ma un fattore ancora più rilevante fu la volontà dei sovrani o di rendere più stabile il proprio regno nei confronti dei violenti attacchi dei confinanti, o di estendere la propria autorità conquistando nuove terre. Per fare l'una o l'altra cosa avevano bisogno di stringere alleanze, e la Chiesa cattolica offriva una cornice morale entro la quale stringere legami di fiducia. E a mano a mano che sempre più principi aderivano alla fede cattolica, più cresceva l'autorità e la forza attrattiva della Chiesa — come in un effetto valanga — riducendo all'insignificanza le religioni pagane isolate nelle loro enclave. Oltre e sopra tutto c'era il fatto che i governanti capivano quali vantaggi potessero derivare dall'adottare una religione che era essenzialmente una dittatura: la Chiesa cattolica rinsaldava l'autorità del monarca e, con la sua visione gerarchizzata della realtà, lo aiutava a garantirsi la stabilità e il controllo del regno. Di riflesso, un patrimonio in così rapida espansione non faceva che accrescere il potere politico del pontefice, sebbene in questo modo si esacerbasse la sua rivalità con il patriarca di Costantinopoli. Formalmente, il papa, in quanto successore del primo vescovo di Roma, san Pietro, era un gradino sopra al suo collega d'Oriente. Il suo primato, tuttavia, di rado veniva affermato apertamente e restava pertanto discutibile. Nel tentativo di definire la questione una volta per tutte, nel 1054 papa Leone IX inviò una delegazione a Costantinopoli, incaricando i propri legati di pretendere dal patriarca, Michele Cerulario, il riconoscimento ufficiale della supremazia del pontefice di Roma. La richiesta, oltre ad alterare i delicati equilibri politici del passato, fece alterare anche Cerulario. Con toni decisi il patriarca ribatté che la Chiesa romana non aveva alcuna autorità sull'Impero Bizantino, e questo gli guadagnò la subitanea scomunica dei legati pontifici; Cerulario ricambiò scomunicandoli a sua volta. Da quel momento le strade della Chiesa cattolica romana e della Chiesa ortodossa si separarono, e questo fa del 1054 una data capitale nella storia della Chiesa. In realtà si trattò semplicemente del riconoscimento formale di una divisione che si stava accentuando da secoli. A ogni modo, andò meglio al papa romano, visto che il patriarca si ritrovò nella condizione più svantaggiata, dopo il collasso del potere bizantino in Italia negli anni sessanta del secolo e la perdita dell'Anatolia nel 1071. Il potere crescente del pontefice lo condusse presto ai ferri corti anche con l'imperatore del Sacro Romano Impero. Nel 1001 non esisteva ancora un meccanismo ufficiale per la designazione del nuovo papa. Talvolta le famiglie nobili romane sceglievano un nome al loro interno, altre volte accettavano la nomina proposta dall'imperatore. Quest'ultimo conservava il diritto di nominare l'uomo che ritenesse più adatto a ricoprire la carica, il che poteva significare una designazione diretta o un'elezione combinata. Pertanto i conflitti erano frequenti, e a volte l'imperatore deponeva il papa e lo rimpiazzava con un suo uomo di fiducia. Nel 1046, quando Enrico III salì al trono come re dei germani e giunse a Roma per essere consacrato imperatore, si trovò davanti tre papi che contemporaneamente rivendicavano il titolo di pontefice: Benedetto IX, che dopo aver venduto il titolo pontificio si rifiutava di abbandonare il soglio di Pietro; Gregorio VI, colui che da Benedetto aveva acquistato il titolo; e Silvestro III, il candidato scelto dai nobili romani. Per scongiurare che il dubbio inficiasse il suo titolo imperiale, Enrico III convocò il Concilio di Sutri, durante il quale tutti e tre i papi furono deposti. In seguito l'imperatore designò come nuovo pontefice il suo confessore, Clemente II. Ma il problema della nomina pontificia si ripresentò presto. Nel 1058 scoppiò la guerra fra due papi rivali, Benedetto X e Niccolò II. L'anno seguente Niccolò ebbe la meglio ed emanò la bolla papale In nomine Domini, la quale sanciva la regola secondo cui tutti i pontefici successivi avrebbero dovuto essere eletti dal Collegio dei Cardinali, in segreto, senza ingerenze da parte dell'imperatore. La In domine Domini fu soltanto la prima di una serie di riforme promulgate dai cardinali cattolici (fra i quali si staglia la figura di Ildebrando, il futuro papa Gregorio VII), tutte tendenti a separare i sacerdoti dal resto degli uomini. Ai membri del clero cattolico, dai semplici parroci ai vescovi, era vietato sposarsi. In quanto all'aspetto esteriore, dovevano sottoporsi a tonsura ed essere perfettamente rasati; inoltre, dovevano esprimersi in latino, lingua in cui si officiavano i riti. Non potevano né vendere né acquistare cariche ecclesiastiche, pena l'accusa di simonia. I membri del clero erano al di sopra della giurisdizione dei tribunali laici e potevano essere giudicati solamente dalle corti ecclesiastiche della propria diocesi, e comunque queste non potevano comminare loro la pena di morte. L'aspetto più importante di tutti è che le riforme promulgate con le bolle proscrivevano l'investitura laica: almeno in teoria, nessun principe laico poteva nominare un funzionario ecclesiastico, e le cariche più elevate — comprendenti tutti i vescovi e gli arcidiaconi della cristianità — dovevano essere scelte dal papa. Gregorio VII riuscì anche a estendere la sua autorità sull'imperatore: scomunicò ben due volte Enrico IV, e una volta lo costrinse ad attraversare le Alpi, in cilicio e a piedi nudi, prima di implorare il suo perdono a Canossa. Sebbene le riforme non fossero subito andate a buon fine (molti resistevano all'obbligo del celibato, e alcuni principi laici si rifiutavano di rinunciare alla facoltà di nominare vescovi e arcidiaconi), il loro impatto fu enorme. Nel 1100 la Chiesa era ormai diventata un'istituzione politica e religiosa indipendente che inglobava al suo interno tutti i regni europei, dalla Norvegia alla Sicilia e dall'Islanda alla Polonia, esercitando vari gradi di influenza su ciò che la gente cominciava a chiamare il mondo latino. [...]
L'XI secolo fu un secolo straordinario per la Chiesa cattolica.
All'inizio del secondo millennio dopo Cristo era l'imperatore a
decidere della nomina e della deposizione del papa. Quest'ultimo
poteva contare molto poco sui re e i duchi della cristianità, tutti
impegnati come erano a farsi la guerra; non poteva nemmeno
esercitare la sua autorità perché di strutture amministrative e di
comunicazione non ce n'erano, e quelle che c'erano erano distribuite in maniera
non capillare. Là dove i preti c'erano, sovente
contravvenivano alle aspettative religiose utilizzando la propria
lingua e praticando i propri costumi, comprando e vendendo
cariche ecclesiastiche, sposandosi e comportandosi sotto ogni
aspetto come dei laici. Invece, alla fine del secolo la Chiesa cattolica era
unita, centralizzata, organizzata, potente e in espansione, capace di
costringere un imperatore ad attraversare le Alpi a
piedi nudi e persino di incitare alla conquista della Terra Santa.
La Chiesa promuoveva l'alfabetizzazione, la scrittura di testi e
faceva da stimolo alle attività intellettuali in tutto il continente.
Il suo vero trionfo, tuttavia, si compì nella capacità di esercitare
la propria autorità sull'uomo comune. L'XI secolo fu l'epoca in
cui la Chiesa cattolica passò dall'essere una semplice fede nella
quale gli individui si battezzavano a un sistema vasto e organizzato che
regolava la vita e la morte della gente.
La pace
C'è un che di paradossale nel parlare della prima crociata e subito dopo sostenere che uno dei grandi cambiamenti dell'XI secolo è stato l'ampliarsi della pace. Il paradosso appare ancora più forte se si considera che una delle cause della pace — o, piuttosto, della mancanza di conflitti — è da ricercare nell'azione della Chiesa, che nel 1095 aveva esortato i propri membri alla guerra. Ciononostante, se si confronta l'Europa del 1001 con quella del 1100, la seconda appare talmente meno violenta che non possono esservi dubbi che uno dei più importanti cambiamenti dell'XI secolo sia stata proprio la pace. | << | < | > | >> |Pagina 39Il declino della schiavitùLo storico francese Marc Bloch scriveva che la scomparsa della schiavitù costituì «una delle trasformazioni più profonde che l'umanità abbia conosciuto». Indubbiamente, la fine della schiavitù fu un cambiamento di rilievo nella società europea nel periodo 900-1200. Si trattò, tuttavia, di un processo assai complesso. Tanto per cominciare, come indica l'arco temporale menzionato, non si trattò di una «abolizione» repentina e totale: nel Duecento esistevano ancora degli schiavi in Occidente, e ne sarebbero esistiti per molti secoli ancora nell'Europa orientale. Inoltre, la condizione di schiavitù non era uguale per tutti: ogni nazione aveva le sue leggi a regolare cosa un uomo potesse farne dei suoi schiavi. Soprattutto, non è sempre ben chiaro quale relazione esista fra la schiavitù e altre forme di servitù, in particolare la condizione del servo della gleba, ovvero del contadino vincolato alla terra e al suo padrone. A ogni modo, nel primo secolo del secondo millennio furono intraprese importanti iniziative che ne determinarono la graduale sparizione in Europa occidentale, ed è per questo che ne parliamo in questo contesto. [...] Di tutte queste varianti, una è la differenza fondamentale che distingue lo schiavo dal servo della gleba del sistema feudale. Il feudatario poteva imporre restrizioni all'agire dei suoi sottoposti, su chi avrebbero potuto sposare, dove potessero andare e quale terra dovessero lavorare, ma tutto questo in virtù del loro legame con il feudo. Il servo era vincolato alla terra, e i suoi doveri e i suoi servizi erano ereditati, trasferiti o alienati insieme a essa. Pertanto, si trattava di una forma di schiavitù indiretta, il che implicava altre importanti differenze. I poteri del signore erano limitati dalle consuetudini, e di conseguenza gli schiavi annessi a una tenuta godevano di certi diritti. D'altra parte, lo schiavo era un bene di proprietà, nulla di più né nulla di meno. Il servo o la serva potevano essere acquistati e venduti separatamente dal proprio consorte, oppure potevano essere trasferiti come coppia. Il servo, uomo o donna che fosse, poteva essere picchiato, mutilato, castrato, violentato, costretto a lavorare in qualsiasi momento e orario (eccezion fatta, in alcuni regni, nei giorni di domenica), e persino ucciso, senza alcuna misura di ritorsione per il padrone. Non è corretto dire che si trattava di cittadini di seconda classe: i contadini erano i cittadini di seconda classe; gli schiavi non erano affatto cittadini. [...] Furono diversi i fattori e i progressi sociali che determinarono il declino della schiavitù, a partire dall'opera di pacificazione messa in atto dalla Chiesa. Diminuendo i conflitti, diminuivano anche le occasioni di ridurre in schiavitù i prigionieri nemici. Si registrò inoltre un lungo periodo di crescita economica: le terre incolte furono bonificate, le paludi prosciugate mentre furono fondati nuovi feudi e, nel complesso, i commerci si fecero più fiorenti. È pacifico che una volta che le due principali cause della riduzione allo stato di servitù (conflitti fra civiltà ed estrema povertà) andavano riducendosi, anche la schiavitù probabilmente sarebbe andata scomparendo. Alla fine dell'XI secolo, inoltre, col crescere della prosperità crebbero anche i tassi di inurbamento in Germania, Francia e Italia: adesso gli schiavi potevano scappare in città di grandi dimensioni e offrirsi sul mercato del lavoro. A ciò si aggiungeva il fatto che i signori erano meno propensi ad accollarsi il mantenimento degli schiavi non produttivi; il contadino feudale, legato alla terra che lavorava gratuitamente per il padrone e che provvedeva da solo al proprio sostentamento, era un articolo più economico. In cima a tutti questi fattori c'erano la ricchezza e il potere crescenti della Chiesa, che un po' alla volta permisero all'istituzione petrina di rafforzare la propria posizione morale. | << | < | > | >> |Pagina 43L'ingegneria strutturale e l'architetturaIl quarto grande cambiamento avvenuto nell'XI secolo è qualcosa che caratterizza le nostre città ancora oggi. In linea di massima, nel 1001 gli edifici dell'Europa occidentale erano di dimensioni ridotte e senza alcuna pretesa a livello architettonico, secondo lo stile e le dimensioni forniti dagli esempi di costruzioni romane sopravvissute. La maggior parte delle cattedrali raggiungeva a malapena le dimensioni di una grande chiesa parrocchiale moderna, con tetti lignei alti al massimo una dozzina di metri. Già prima del 1100, tuttavia, gli architetti e gli ingegneri avevano superato i limiti dei loro progenitori romani, sviluppando lo stile che oggi conosciamo come romanico. In ogni parte di Europa erano stati costruiti centinaia di enormi edifici, alcuni dotati di soffitti a volta alti oltre venti metri e torri campanarie che sfioravano i cinquanta; altre centinaia erano in costruzione. Analogamente, se nel 1001 erano pochissimi i palazzi fortezza dall'aspetto simile a quello di un vero e proprio castello, sul finire del secolo se ne contavano ormai decine di migliaia. Nell'XI secolo gli europei impararono a costruire mura possenti e torri imponenti, mettendo in pratica le loro nuove competenze in ogni angolo dell'Occidente cristiano. [...] A questo punto potreste domandarvi: ebbene, ma che importanza ha? Dopo tutto, passare da uno stile architettonico a un altro non comporta poi un grande cambiamento nel modo in cui la gente conduce la sua vita quotidiana. L'aspetto importante, però, qui sta non nel valore simbolico legato all'erezione di chiese più maestose, bensì nel sapere tecnico che ciò rese possibile, ossia le innovazioni avvenute nel campo dell'ingegneria delle strutture. Evidentemente la costruzione di chiese di pietra di altezza elevata, dotate di volte in grado di reggere agli assalti dei feroci magiari che tutto bruciavano al loro passaggio, aveva degli scopi militari; pertanto, non ci meraviglierà sapere che lo sviluppo dell'architettura romanica in larga scala va di pari passo con quella del castello. Il castello divenne il simbolo stesso del feudalesimo. Quando un re concedeva un feudo a un signore, egli trasferiva al proprio vassallo anche la responsabilità della sicurezza delle persone che lo abitavano. Per proteggere la loro terra, i contadini a essa vincolati e i beni prodotti da questi ultimi, a partire dalla fine del X secolo i signori cominciarono a erigere delle residenze fortificate fatte di pietra e di legno. | << | < | > | >> |Pagina 106[1201-1300][...] Che cosa c'era di così rilevante nella nascita degli ordini mendicanti? I nuovi ordini si inserivano in maniera trasversale in una società dove netta era la separazione fra laici e religiosi, dando vita a un consorzio provvisorio di uomini in cui si fondevano molte virtù tipiche dei religiosi e l'assoluta flessibilità dei laici. Come i monaci, erano istruiti: sapevano leggere e scrivere e conoscevano la lingua internazionale, il latino. Come i monaci, seguivano una disciplina: si attenevano a un insieme di regole e facevano capo a una gerarchia ecclesiastica. Portavano il buon nome, l'affidabilità e l'integrità degli uomini pii. Tuttavia, diversamente dai monaci e da altri ecclesiastici regolari, erano liberi di circolare ovunque: non erano vincolati a un certo edificio, a una certa comunità o a una certa parrocchia. Vivevano nei centri urbani, in mezzo alla gente comune, e costavano poco: non pretendevano imposte o prebende per sovvenzionare le proprie preghiere o per fornirsi di tonache. Se gli ordini monastici del secolo precedente avevano costituito una rete che creava, conservava e diffondeva il sapere, i frati ora permettevano a quella rete di attecchire più in profondità e con maggiore rapidità rispetto a prima. I frati divennero i diplomatici d'elezione per i governanti laici così come per i maggiorenti ecclesiastici. Impiegati come colti messaggeri che viaggiavano ed entravano in contatto con la gente nel nome di Dio, erano ottimi amministratori e negoziatori. Si dimostrarono anche dei bravi inquisitori: pontefici e vescovi si affidarono sempre più spesso ai domenicani per interrogare gli eretici e, dopo il 1252, persino per torturarli. I frati erano la dimostrazione che la Chiesa sapeva stare al passo coi tempi — per il fatto che potevano viaggiare liberamente, predicare ai mercanti come ai signori, e affrontare i nuovi problemi della fede -, pur conservando lo spirito di umiltà e povertà che aveva caratterizzato la fede cristiana ai suoi albori. Se la Chiesa non avesse avuto a disposizione questo corpo versatile di uomini pii, sicuramente la deriva eretica sarebbe diventata incontrollabile. Forse alla crociata contro gli albigesi si sarebbero aggiunte anche crociate contro gli inglesi e contro i popoli germanici, e l'Inquisizione spagnola avrebbe visto la luce molto prima del XV secolo. E così, invece, nei tre secoli successivi al 1215 in Europa si segnalarono solamente dei focolai eretici modesti o circoscritti. A quanto pare i frati, in special modo i domenicani, ebbero un ruolo determinante nel garantire al pontefice altri trecento anni di autorità sul mondo cristiano. Che non è certo cosa di poco conto. Infine, non dobbiamo dimenticare l'impatto intellettuale prodotto da alcuni di quei frati. Il fatto che rifuggissero dalla ricchezza personale ma dessero valore all'istruzione attirava verso gli ordini mendicanti molti uomini di spirito desiderosi di dare un contributo intellettuale ai principali dibattiti del tempo. Tra i francescani si annoveravano numerosi grandi teologi: Alessandro di Hales, san Bonaventura, Giovanni Duns Scoto e Guglielmo di Ockham i più illustri. Ma il più grande intellettuale francescano del Duecento fu sicuramente Ruggero Bacone, straordinario scienziato e filosofo che tenne lezioni su Aristotele alle università di Oxford e di Parigi, studiò ottica su testi greci e arabi, sostenne l'introduzione degli insegnamenti scientifici nelle università e fu autore di una corposa antologia di scritti di scienza, filosofia, teologia, lingue, matematica, ottica e scienze sperimentali. Fu il primo in Occidente a trattare della polvere da sparo; anticipò l'invenzione degli occhiali; ipotizzò che un pallone di rame riempito di «fuoco liquido» potesse sollevarsi in aria; in aggiunta, ebbe il dono di una straordinaria apertura mentale. Era convinto, per esempio, che fosse possibile costruire delle navi enormi comandabili da un solo uomo; che si potessero inventare dei veicoli capaci di muoversi a una velocità incalcolabile senza essere trainati da animali; che gli uomini potessero spostarsi all'interno di macchine simili a «uccelli volanti»; che i ponti sospesi potessero collegare due rive assai distanti «senza piloni o sostegni»; che si potessero esplorare i fondali con delle speciali vesti sottomarine. Anche tra le file dei domenicani si contavano numerosi pezzi da novanta del pensiero: il mistico e teologo Meister Eckhart; lo scienziato, filosofo e teologo Alberto di Colonia (noto come Alberto Magno); e il maestro di tutti i teologi, Tommaso d'Aquino. Fu quest'ultimo a seguire l'esempio di Abelardo applicando la logica aristotelica alla religione e modificando la sua massima «attraverso il dubbio siamo condotti all'indagine, e attraverso l'indagine arriviamo alla verità»: l'indagine che conduce alla conoscenza è mossa dalla meraviglia. Se Abelardo era disposto ad accettare che certe questioni - per esempio la natura di Dio — fossero al di sopra e al di là dell'indagine razionale, secondo l'Aquinate ogni cosa dovrebbe essere sottoposta all'investigazione e alla razionalizzazione. Per Tommaso l'esistenza di Dio era deducibile dal fatto che siccome ogni cosa si muove perché qualcosa l'ha messa in movimento, al vertice della catena deve esistere un motore primo che ha messo in moto tutto il resto. Fra gli altri suoi ragionamenti ce n'è uno che con regolarità viene ripreso in esame ancora oggi: il fatto che nel mondo esista un ordine e che il mondo si rinnovi in continuazione è di per sé la dimostrazione del disegno dell'intelligenza di Dio. Forse Tommaso avrebbe scritto le opere che lo hanno reso il teologo più importante del Medioevo anche se non fosse stato un frate, ma è incontestabile che alla sua formazione intellettuale, come a quella di molti altri, abbiano giovato le risorse e la rete messa a disposizione dagli ordini mendicanti, e che la voglia di eccellere sia stata ispirata dal clima di curiosità intellettuale che vi si respirava. | << | < | > | >> |Pagina 108I viaggiOggi esiste la convinzione, piuttosto diffusa, che la gente non viaggiasse granché prima dell'avvento del treno e delle ferrovie nell'Ottocento. [...] Il Duecento non fu solo l'epoca in cui il viaggio cominciò a essere un'esperienza normale per la maggior parte degli individui, ma anche quella in cui i missionari cristiani raggiunsero luoghi di cui fino ad allora si era sentito parlare solo nelle antiche leggende. Nel 1300 gli estremi avamposti del mondo cristiano si trovavano a oltre 8500 chilometri l'uno dall'altro, da Gardar, in Groenlandia, a occidente, a Pechino a oriente. Nessuno dei due avamposti superò la prova del tempo: i cristiani furono espulsi da Pechino nel XIV secolo, mentre all'inizio del Quattrocento il peggiorare delle condizioni climatiche segnò la fine di Gardar. Tuttavia, il cambiamento nell'immaginario occidentale fu duraturo, come testimoniano soprattutto i viaggi di Marco Polo. Il libro di Polo, dettato in carcere a un compagno di cella, abbondava di mirabolanti descrizioni delle popolatissime e fiorenti città della Cina e dell'Indonesia. Le sue vivide descrizioni dei costumi orientali, così diversi dalle tradizioni occidentali, suscitarono nei cristiani una curiosità smaniosa. Quando le sue storie cominciarono ad accompagnare le sete e le stoffe che erano merce sempre più diffusa nei mercati e nelle fiere d'Europa, la gente iniziò a dipingersi un'immagine mentale del tutto nuova dell'Asia e del resto del mondo. Andare in Oriente credendo che fosse pieno di draghi e di mostri era da folli; andarci sapendo che pullulava di ricchezze, con un vescovo cristiano già insediato a Pechino, era una prospettiva molto più allettante. | << | < | > | >> |Pagina 119La peste nera [1301-1400]Non è facile far comprendere lo sconvolgimento causato dalla peste nera. Quando tenevo le mie lezioni sull'Inghilterra del Trecento e sottolineavo la catastrofe avvenuta nel biennio 1348-49, c'era sempre qualcuno che obiettava che non poteva essere stata sconvolgente quanto la prima guerra mondiale o terrificante quanto il periodo dei bombardamenti nazisti durante la seconda. Allora spiegavo che il tasso di mortalità in Gran Bretagna durante il primo conflitto mondiale fu pari all'1,55% nella popolazione in un periodo di quattro anni, ovvero — in media — dello 0,4% annuo. La peste nera, spazzando il paese come uno tsunami, uccise circa il 45% della popolazione inglese in sette mesi: un tasso di mortalità annuo del 77%. Insomma, il tasso di mortalità fra il 1348 e il 1349 fu circa duecento volte quello della prima guerra mondiale; ovvero, per fare un confronto con i bombardamenti della seconda guerra mondiale: per riprodurre gli effetti mortiferi della peste nera non basterebbe sganciare due bombe atomiche in Giappone (ognuna delle quali uccise 70 000 persone, circa lo 0,1% della popolazione), ma se ne dovrebbero sganciare 450, ovvero due bombe atomiche ogni giorno su una città diversa per un periodo di sette mesi. Se ciò fosse avvenuto, nessuno avrebbe dubbi nel definirla la peggiore catastrofe nella storia dell'umanità. E invece, poiché la peste nera colpì secoli e secoli fa e una distanza abissale separa la nostra civiltà da quella di chi ne fu vittima, non riusciamo a comprendere la portata di una simile tragedia. Per noi è più facile immedesimarci nel trauma dei genitori che persero i loro amatissimi figli nella prima guerra mondiale piuttosto che il destino di intere comunità spazzate via nel XIV secolo. La cosiddetta «peste nera» fu la prima ondata della seconda pandemia di una forma di enzoozia spesso denominata peste bubbonica a causa dei bubboni (linfonodi ingrossati) che si formano all'inguine e sotto le ascelle degli individui infettati. È causata da un agente patogeno, lo Yersinia pestis, un batterio trasmesso dalle pulci che normalmente vivono sui roditori, ma che può essere trasmesso anche dalle pulci dell'uomo. In certe condizioni il contagio può avvenire anche per via aerea da soggetto a soggetto. Secondo le teorie odierne, se si sviluppa una polmonite durante l'infezione, i batteri vengono emessi con l'espirato e trasmessi in maniera diretta da umano a umano. In questo caso si parla più propriamente non di peste bubbonica, bensì di peste polmonare, una forma molto più grave. La prima pandemia era scoppiata otto secoli prima, nel 541. Essa aveva mantenuto la sua virulenza per tutto il VI secolo, per poi scemare nel corso degli anni e fare la sua ultima comparsa negli anni sessanta del 700. Nel 1347 era la prima volta che la peste si riaffacciava in Europa dopo quasi seicento anni. Dunque, nessuno era preparato alle conseguenze della sua ricomparsa. I primi casi furono registrati in Cina nel 1331. Portata dai mercanti che percorrevano la Via della Seta, la peste giunse in Crimea nell'autunno del 1347. Da lì le prime vittime si imbarcarono sulle navi genovesi dirette a Costantinopoli, e da Costantinopoli la peste si diffuse in Sicilia, Grecia, Egitto e nel Nord Africa, in Siria e in Terra Santa. Sul finire dell'anno aveva già penetrato il cuore commerciale della cristianità — le città mercantili di Venezia, Pisa e Genova — nella sua forma più pericolosa, quella polmonare. Nelle città toccate dall'epidemia cominciarono a formarsi cataste di cadaveri: la norma era un tasso di mortalità dell'ordine del 40%. Le voci riguardanti l'epidemia si diffusero più rapidamente della malattia stessa. Le città, messe sull'avviso, sbarrarono l'ingresso ai forestieri. Niente, però, poteva vietare l'ingresso a una creaturina piccola come la pulce ogni volta che le porte si riaprivano per permettere il rifornimento di cibo e di merci. La peste non risparmiò nessuno, uccidendo ricchi e poveri, donne e bambini, cristiani e musulmani. A Tunisi Ibn Khaldun scriveva: «era come se la voce della vita avesse implorato per sé l'oblio, e il mondo avesse risposto al suo appello». Agnolo di Tura descriveva ciò che accadeva a Siena: La mortalità cominciò in Siena di magio, la quale fu oribile e crudel cosa, e non so da qual lato cominciare la crudeltà che era e i modi dispiatati [...] El padre abandonava el figliuolo, la moglie el marito, e l'un fratello l'altro: e ognuno fugiva e abbandonava l'uno, inperoché questo morbo s'attachava coll'alito e co' la vista pareva [...] e quelli de la casa propria li portava meglio che potea a la fossa senza prete, né uffitio alcuno, né si suonava campana [...] E io Agnolo di Tura, detto il Grasso, sotterrai 5 miei figliuoli co' le mie mani [...] e morivane tanti, che ognuno credea che fusse finemondo. Firenze fu una delle città europee più colpite: la peste sterminò oltre il 60% della popolazione. Osservava un testimone oculare: Tutta la città non avea a fare altro che a portare morti a seppellire; molti ne morirono, che non ebbono alla lor fine né confessione ed altri sacramenti; e moltissimi ne morirono che non fu chi li vedesse, e molti ne morirono di fame. [...] Fecesi a ogni chiesa fosse infino all'acqua [...] e quivi chi non era molto ricco, la notte morto, quegli a cui toccava se lo metteva sopra la spalla, o gittavalo in questa fossa, o pagava gran prezzo a chi lo facesse. La mattina se ne trovavano assai nella fossa, toglievasi della terra e gittavasi laggiuso loro addosso; e poi venivano gli altri sopr'essi, e poi la terra addosso a suolo a suolo, con poca terra, come si ministrasse lasagne a fornire di formaggio. A impressionare Giovanni Boccaccio fu il trattamento riservato ai cadaveri. Così scriveva: Era il più da' vicini una [...] maniera servata, mossi non meno da tema che la corruzione de' morti non gli offendesse, che da carità la quale avessero a' trapassati. Essi, e per se' medesimi e con l'aiuto d'alcuni portatori, quando aver ne potevano, traevano dalle lor case li corpi de' già passati, e quegli davanti alli loro usci ponevano, dove, la mattina spezialmente, n'avrebbe potuti veder senza numero chi fosse attorno andato. Anche lo scrittore fiorentino Giovanni Villani cadde vittima della peste. L'ultima frase delle sue cronache fu: «E la peste durò fino a...». La peste gli tappò la bocca con la sua nera mano prima che potesse inserire la data. | << | < | > | >> |Pagina 139Le lingue vernacolariTutti abbiamo l'impressione che da quando siamo nati a oggi il mondo sia cambiato a un ritmo vertiginoso, come mai prima nella storia dell'uomo. Ciò forse è vero per quanto riguarda l'utilizzo di strumenti elettronici e tecnologici, ma negli ultimi decenni molto poco è cambiato nel nostro modo di parlare e di scrivere. Oggi milioni di anglofoni sono ancora in grado di leggere Jane Austen e apprezzare il suo inglese, che ha subito modifiche minime negli ultimi duecento anni. A poco più di quattro secoli dalla loro stesura, le opere di Shakespeare sono in gran parte comprensibili a una persona di lingua inglese, sebbene certe parole abbiano mutato di significato e la costruzione grammaticale sia talvolta complessa. Nel Medioevo, invece, nel giro di poco tempo la lingua subì cambiamenti radicali. Un inglese è forse in grado di comprendere abbastanza bene il testo dei Racconti di Canterbury, scritti da Geoffrey Chaucer sul finire del Trecento, ma avrebbe parecchie difficoltà a leggere i versi composti in Middle English dai poeti duecenteschi. La medesima cosa si può dire del francese, che all'inizio del XIII secolo evolse rapidamente dal francese antico (o langue d'oil) al francese medio, con la scomparsa del sistema della declinazione. Un significativo sviluppo lo ebbe anche la lingua tedesca, che dal medio alto-tedesco andò man mano trasformandosi nel tedesco moderno. Se in seguito la stampa avrebbe stabilizzato il lessico e la sintassi, fissando uno standard per ogni idioma, prima che la stampa si diffondesse, nel XVI secolo, le lingue non avevano ancore che ne fissassero la norma e di conseguenza mutavano a ogni generazione. Il processo di standardizzazione fa sì che un fenomeno o un concetto - che si tratti di unità di misura o delle parole che usiamo - abbia più probabilità di durare nei secoli. [...] E infine arriviamo all'Italia, l'eccezione a quasi tutte le generalizzazioni possibili sull'Europa medievale. Soltanto qui, diversamente da quanto abbiamo constatato altrove, l'ascesa della lingua vernacolare non fu accompagnata dal nazionalismo. Gli italiani si distaccarono dal latino più tardi degli altri, sicuramente per il semplice motivo che l'Italia era stata la culla della lingua latina ed era il paese in cui più forte e diretta era l'influenza della Chiesa di Roma. I primi documenti a noi pervenuti scritti interamente in volgare italiano risalgono al 960 circa, ma prima del 1200 di testi in italiano ce ne sono molto pochi. Nel XIII secolo parecchi poeti italiani avevano scelto il provenzale, e non fu Rustichello da Pisa (colui che trascrisse Il Milione di Marco Polo) l'unico italiano a scrivere in francese: lo faceva anche Brunetto Latini, il maestro di Dante. Della varietà delle lingue romanze in uso in Italia nel 1300 parlò Dante nel suo trattato sulla dignità delle lingue vernacolari, il De Vulgari Eloquentia (scritto, paradossalmente, in latino). La sua grande opera, la Divina Commedia, fu composta nella lingua toscana parlata nella sua città, Firenze, e già poco tempo dopo la pubblicazione incuteva un tale rispetto in tutta la penisola da divenire un punto di riferimento per la cultura italiana, nonché una dimostrazione di quali livelli si potessero raggiungere nell'uso della lingua volgare. Numerosi fiorentini raccolsero la sfida di ampliare gli orizzonti culturali scrivendo nella lingua toscana utilizzata da Dante: fra questi Giovanni Villani, autore di una cronaca in lingua volgare, nella quale esalta la figura intellettuale dell'Alighieri. Poco dopo la morte del divino poeta, Boccaccio gli dedicò una biografia (la prima biografia di Dante, e scritta in italiano, naturalmente), mentre pochi anni più tardi Petrarca, con le sue liriche, fondò i canoni poetici della lingua italiana per i secoli a venire. In Italia, come in altri paesi d'Europa, nel 1400 la lingua parlata dal popolo era diventata per tutti, per i ricchi come per i poveri, per le persone istruite come per gli analfabeti, la lingua d'elezione. | << | < | > | >> |Pagina 1465.
1401-1500. Il Quattrocento
Forse ricorderete la frase di Francesco Bacone citata all'inizio di questo libro: «Arte della stampa, polvere da sparo, bussola: tre scoperte che hanno rivoluzionato il volto e l'aspetto del mondo». I tre catalizzatori del cambiamento indicati da Bacone nacquero o furono perfezionati nel corso del XV secolo. La stampa fu introdotta in Occidente in grande stile nel 1455 con la produzione da parte di Johannes Gutenberg di un'edizione completa della Bibbia. Sebbene la polvere da sparo fosse conosciuta da oltre un secolo, la tecnica di forgiatura dei cannoni fece passi da gigante. Per esempio, il cannone dei Dardanelli (detta anche «Grande bombarda turca»), prodotto in bronzo nel 1464, pesava quasi diciassette tonnellate, era lungo oltre cinque metri e poteva sparare una palla di sessanta centimetri di diametro a un miglio di distanza. Furono le armi utilizzate dai turchi per abbattere le mura di Costantinopoli nel 1453. Analogamente, la bussola dimostrò la propria utilità nel corso di questo secolo, guidando le esplorazioni dei navigatori che attraversarono l'Oceano Atlantico e quello Indiano. Infine, anche se Bacone non vi fa cenno, ci fu una cosa da nulla come il Rinascimento, un momento di profondo e vigoroso cambiamento nella consapevolezza e nel pensiero dell'umanità. Di primo acchito, l'impressione è che il Quattrocento possa concorrere a pieno diritto al titolo di secolo nel quale sono avvenuti i maggiori cambiamenti nel corso dell'ultimo millennio. La caratteristica preponderante del secolo, tuttavia, sono le guerre. L'ascesa dell'Impero Ottomano implicò una serie di duri colpi per la cristianità. Costantinopoli, capitale di quello che era stato il potente Impero Bizantino, cadde in mano ai turchi e l'ultimo imperatore trovò la morte nel disperato tentativo di difendere la città combattendo al fianco dei propri uomini. I turchi conquistarono anche Serbia, Albania, Bosnia, Bulgaria e buona parte della Grecia, occupando inoltre gli avamposti commerciali genovesi nel Mar Nero e numerosi possedimenti veneziani nel Mediterraneo. Per gli italiani tali perdite furono solo una parte delle tante preoccupazioni. Il Quattrocento fu l'età dei capitani di ventura, i condottieri mercenari - assai richiesti - che si mettevano a disposizione di qualunque città fosse disposta ad assoldarli. Padova cadde in mano veneziana nel 1405, lo stesso anno in cui Pisa cedette a Firenze. Venezia e Milano furono contrapposte in una guerra che durò ventuno anni, fino al 1454. Genova si arrese all'esercito milanese nel 1464. Il conflitto di lunga data tra Firenze e Milano si risolse finalmente nel 1440, cosicché i fiorentini poterono concentrarsi sulla guerra contro Napoli e Venezia. I napoletani saccheggiarono Roma nel 1413. Negli anni novanta del secolo l'Italia fu invasa dai francesi, i quali, dopo aver sconfitto Firenze, proseguirono verso Napoli occupando lungo la strada anche Roma. C'è quasi un che di comico nel descrivere la smania senza fine che spingeva le città italiane ad armarsi le une contro le altre. Ma non si può dire nemmeno che gli italiani fossero un caso unico: nell'Europa quattrocentesca nessun paese fu risparmiato dai conflitti armati; anzi, alcuni furono dilaniati dalla guerra civile, che tra le forme di conflitto è la meno nobile e la più disperata. | << | < | > | >> |Pagina 157La misurazione del tempoUna considerazione che viene istintivo fare è che l'invenzione dell'orologio meccanico, nei primi anni del Trecento, avrebbe potuto stimolare una riflessione sui limiti del pensiero antico molto prima dei viaggi di Colombo. L'invenzione di uno strumento per la misurazione del tempo come l'orologio fu sicuramente foriera di una svolta epocale. Eppure, quando nei decenni successivi gli orologi iniziarono a insinuarsi nella vita quotidiana della maggioranza delle persone, solo in pochi tennero a mente che era esistito un tempo in cui quegli strumenti non erano ancora stati inventati. Shakespeare nomina l'orologio o descrive il tempo come «un orologio» in Macbeth (ambientato nell'XI secolo), in Re Giovanni (inizio del Duecento), in Cimbelino (ambientato nella Britannia pre-romana) e in Troilo e Cressida (antica Grecia). Nel Giulio Cesare c'è persino un'indicazione di scena in cui un orologio batte l'ora (nell'antica Roma). Evidentemente non si rendeva conto (o non se ne curava) che nell'antichità gli orologi meccanici non erano ancora stati inventati. Il primo riferimento a uno strumento meccanico di misurazione del tempo compare in un documento del 1271, dove si legge che degli artefices horologiorum stavano tentando di costruire un ingranaggio che compisse una rivoluzione completa in un giorno, anche se senza ottenere risultati soddisfacenti. Sessant'anni dopo il problema fu risolto. Quando, nel 1332, Edoardo III andò in visita da Riccardo di Wallingford, priore di St Albans, questi stava costruendo un orologio astronomico meccanico denominato «rectangulus». Oltre a dare l'ora, l'orologio di Riccardo indicava i movimenti del Sole, della Luna e delle stelle e persino il momento dell'alta marea nei pressi del London Bridge. Un orologio meccanico che rintoccava ventiquattro volte al giorno fu installato nella chiesa di San Gottardo a Milano nel 1335. A Padova, nel 1344, Jacopo Dondi installò un orologio astronomico nella torre del Palazzo del Capitano. Quattro anni dopo il figlio di Jacopo, Giovanni, iniziò la costruzione del più celebre di tutti gli orologi di epoca medievale, il cosiddetto «Astrario» a sette facce: era formato da sette quadranti che segnavano il tempo secondo un ciclo di ventiquattro ore, rappresentando inoltre la posizione della Luna e dei cinque pianeti allora conosciuti (Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno). Quando fu portato a termine, nel 1368, in Italia ormai esistevano orologi pubblici che battevano regolarmente le ore a Genova, a Firenze, a Bologna e a Ferrara e, in Inghilterra, nei palazzi reali di Westminster, Windsor, Queenborough e Kings Langley. Carlo V di Francia era talmente entusiasta dei rintocchi dell'orologio che aveva fatto installare nel palazzo reale parigino nel 1370 che ordinò a tutte le chiese di Parigi di sincronizzarsi su di esso; inoltre, ne fece costruire altri due, all'Hôtel Saint-Paul e nel castello di Vincennes. [...]
Per tutti questi motivi, il tempo era qualcosa di più rispetto al
tempo come lo intendiamo noi: era un dono di Dio. Ed era per
questo che nel Medioevo la Chiesa non permetteva ai cristiani di
praticare interessi sul denaro concesso in prestito: farlo sarebbe
equivalso ad addebitare denaro in funzione del passaggio del
tempo, ma il tempo apparteneva a Dio e nessun cristiano aveva
il diritto di vendere una cosa che appartenesse all'Onnipotente.
Tuttavia, a mano a mano che veniva sottoposto alla misurazione
tramite macchinari costruiti dall'uomo, il tempo si liberò di
parte delle sue connotazioni religiose quasi magiche: adesso sembrava possibile
per l'uomo controllarlo; il tempo poteva essere
addomesticato dai costruttori di orologi e non costituiva più un
elemento ingovernabile della creazione. Anzi, lo strumento inventato dall'uomo
finì per dettare alla Chiesa in quali momenti
far suonare le campane e quando celebrare le funzioni religiose.
Mentre le unità di misura per calcolare la distanza, il peso e il
volume erano diverse da luogo a luogo, l'ora divenne la prima
unità di misura standardizzata internazionale, al punto da scalzare le
tradizioni locali così come l'autorità della Chiesa.
La nascita dell'individualismo
Gli specchi di metallo lucidato e di ossidiana erano noti fin dall'antichità, e per questo motivo gli storici hanno in genere sorvolato sull'introduzione dello specchio in vetro, considerandolo una semplice variante di un tema vecchio. Al contrario, l'invenzione degli specchi in vetro segna un cambiamento epocale, poiché per la prima volta le persone si potevano vedere in ogni dettaglio, con le proprie espressioni e le caratteristiche fisiche che rendono unico ogni individuo. In confronto agli specchi in vetro, quelli di rame o di bronzo lucidato erano molto meno efficaci: riflettevano appena il 20% della luce. Persino gli specchi d'argento dovevano avere una superficie levigatissima per riuscire a produrre un riflesso minimamente apprezzabile. Ma si trattava di oggetti molto costosi: la maggior parte delle persone nel Medioevo tutt'al più avrà colto di sé un'immagine fosca sbirciando il proprio riflesso in una pozza d'acqua. Lo specchio convesso in vetro è un'invenzione veneziana risalente agli anni intorno al 1300, forse da mettere in relazione con i progressi delle lenti ottiche utilizzate per i primi occhiali (inventati negli anni ottanta del Duecento). | << | < | > | >> |Pagina 1736.
1501-1600. Il Cinquecento
Secondo il calcolo moderno, il XVI secolo ebbe inizio il I gennaio 1501. Ma a quel tempo a segnare quella data sarebbero stati solo i calendari di Genova, dell'Ungheria, della Norvegia o della Polonia. A Venezia il nuovo anno iniziò il I marzo. In Inghilterra, così come a Firenze, a Napoli e a Pisa, il capodanno fu celebrato il 25 marzo. Nelle Fiandre l'inizio d'anno coincideva con la Pasqua, e dunque il capodanno cadeva ogni volta in un giorno diverso. In Russia l'anno iniziava il I settembre, mentre a Milano, Padova, Roma e in molti stati tedeschi iniziava il 25 dicembre. La confusione raggiungeva il suo picco massimo in Francia, dove l'anno poteva iniziare in quattro giorni diversi (il giorno di Natale, il I marzo, il 25 marzo o il giorno di Pasqua), a seconda della diocesi in cui si viveva. Il capodanno in Francia fu uniformato per tutti al I gennaio solamente nel 1564, con l'editto di Roussillon, con entrata in vigore nel 1567. Se eravate convinti che il passato fosse meno complicato del presente, questa faccenda del calendario forse vi farà cambiare idea. Ma non sarebbe bastato mettersi d'accordo su quando festeggiare il capodanno per risolvere definitivamente il complicato problema della misurazione del tempo. Tutte le convenzioni sopracitate si basavano sul calendario giuliano in vigore dai tempi dell'antica Roma. Secondo quel sistema di calcolo del tempo, la somma dei dodici mesi risultava in un ritardo di dieci minuti rispetto all'anno determinato dalla rivoluzione della Terra intorno al Sole. Dieci minuti in meno all'anno potrebbero non sembrare una cosa poi tanto grave, ma nel XVI secolo il 25 dicembre era slittato ormai di dieci giorni rispetto alla data presunta della nascita di Gesù. Fu così che, nel 1582, papa Gregorio XIII suggerì una soluzione drastica: saltare dieci giorni del calendario e stabilire che gli anni bisestili sono quelli con numerazione multipla di 100 che però sono divisibili anche per 400, evitando così di «perdere» tre giorni ogni 400 anni (ed è questo il sistema in vigore ancora oggi in tutto il mondo). La maggior parte dei paesi cattolici adottò il nuovo calendario gregoriano a partire da giovedì 4 ottobre 1582: l'indomani i calendari avrebbero segnato la data di venerdì 15 ottobre 1582. Ovviamente, questa scelta provocò altre complicazioni riguardo al calcolo delle date, visto che la maggior parte dei paesi protestanti mantenne il calendario giuliano fino al XVIII secolo. Anche se Firenze e l'Inghilterra festeggiarono entrambe il capodanno del 1583 il 25 marzo, le celebrazioni fiorentine si tennero dieci giorni prima di quelle inglesi. Da certi dettagli si comprende quanto variegata e complessa fosse l'Europa all'alba dell'epoca moderna, persino per aspetti della vita di tutti i giorni che ci paiono scontati. L'introduzione del calendario gregoriano è solo uno fra i migliaia di cambiamenti nella vita quotidiana che segnarono il Cinquecento. | << | < | > | >> |Pagina 176Libri stampati e alfabetizzazioneAll'inizio del XVI secolo esistevano in Europa 250 stamperie. Prese nel complesso, prima del 1500 la loro produzione stimata era di 27 000 titoli. Ammettendo che ogni titolo avesse una tiratura di 500 copie, ciò significa che forse circolavano una cosa come 13 000 000 di libri per una popolazione di appena 84 000 000 individui. Si tratta certo di cifre impressionanti, che però vanno contestualizzate. Non significava certo che il 15% della gente possedesse un libro. Se nemmeno la grande maggioranza degli individui alfabeti possedeva un libro stampato, figuriamoci poi quel 90% della popolazione che non sapeva né leggere né scrivere. Inoltre, poiché erano quasi tutti in latino e trattavano di questioni teologiche, i libri suscitavano una scarsa attrattiva nel pubblico dei lettori. Dall'altra parte, invece, c'erano i ricchi collezionisti di libri, i quali presumibilmente ne possedevano parecchi. I forse 10 000 000 di libri sopravvissuti nel 1500 con ogni probabilità erano proprietà di circa mezzo milione di possessori, e di questi molti erano istituzioni. Una stima prudente attribuisce il possesso di un libro all'1% della popolazione europea. Nel 1500 i media popolari erano ancora il pulpito e la piazza del mercato, non la parola stampata. | << | < | > | >> |Pagina 2107.
1601-1700. Il Seicento
Il XVII secolo si presenta come un enorme paradosso. Da un lato può essere considerato il periodo più tragico mai verificatosi, sin dai tempi della peste nera. Le carestie falcidiarono milioni di persone e molti paesi furono teatro di devastanti conflitti interni; alcuni territori della Germania videro salire il tasso di mortalità oltre il 50% durante la guerra dei trent'anni; la Francia, nel periodo che va dal 1648 al 1653, perse un milione di cittadini nella Fronda; l'Inghilterra fu lacerata dalle guerre civili dal 1643 al 1651, molti paesi furono coinvolti in aspre dispute per terra e per mare. Eppure, nonostante questa serie di conflitti e di devastazioni, la maggior parte delle nazioni europee guardano oggi a quel secolo come alla propria «età dell'oro». L'età dell'oro per la Spagna, che viene fatta iniziare con la fine della Reconquista nel 1492, si protrasse fino al termine della guerra dei trent'anni, nel 1648. In Inghilterra, invece, sono gli anni tra la sconfitta dell'Armata spagnola (1588) e la morte di Shakespeare (1616) a essere spesso fatti coincidere con l'«età dell'oro». L'età dello splendore in Olanda e in Francia viene considerata, grosso modo, coincidente con il XVII secolo; tutti questi paesi assistettero, in effetti, al fiorire di una produzione artistica e letteraria di altissimo valore. In Francia c'è la reggia di Versailles, l'arte di Poussin e Claude Lorrain, le commedie di Molière. La Spagna può vantare l'arte di Velàzquez, Murillo e El Greco e la produzione letteraria di Cervantes e Lope de Vega. Nei Paesi Bassi troviamo Rembrandt, Franz Hals, Vermeer e numerosi altri pittori di genere. A Roma il Barocco trova la sua più alta espressione: è il periodo in cui Caravaggio dipinge i suoi più grandi capolavori usando la tecnica del chiaroscuro. Questa improbabile combinazione di crisi globale e fioritura culturale ci riporta alla mente una famosa frase del film Il terzo uomo di Orson Welles: «In Italia, nei trent'anni sotto i Borgia, hanno avuto assassinii, guerre, terrore e massacri, ma hanno prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera, hanno avuto cinquecento anni di amore fraterno, pace e democrazia, e che cos'hanno prodotto? L'orologio a cucù». Mentre l'idea che la Svizzera abbia goduto di «cinquecento anni di pace e democrazia» è piuttosto lontana dalla verità, il concetto espresso da Welles sul fatto che guerra e sviluppo culturale procedano di pari passo, può essere in effetti considerata valida nel caso del XVII secolo. | << | < | > | >> |Pagina 242ConclusioniSe ci si basa sul fatto che gli uomini iniziarono a riporre le proprie aspettative di benessere nei propri simili piuttosto che in Dio, verrebbe spontaneo indicare il Seicento come il secolo che fece da spartiacque tra il mondo antico e quello moderno. In esso si mostra un passaggio progressivo verso il materialismo laico, che ritroviamo ovunque, dal contratto sociale di Hobbes al modo di condurre le guerre: se nei secoli precedenti l'esito di una battaglia veniva interpretato come il risultato del volere di Dio, nel Seicento si capiva che questo era semplicemente determinato dal modo in cui il comandante aveva gestito la situazione, compatibilmente con le forze a sua disposizione in quel momento. Il Seicento sembra il secolo che ha spalancato le porte al mondo moderno anche sotto altri punti di vista, attraverso la rapida diminuzione delle superstizioni, il conseguente ricorso al metodo scientifico razionale e il progressivo declino della violenza.
Detto questo, però, dobbiamo riconoscere che non tutte le
novità del secolo segnano un progressivo passaggio verso la
modernità. Il Puritanesimo in Inghilterra e in America, che avviò con molto zelo
una riforma morale e teologica, stava aprendo
il campo a terribili ingiustizie. Nel 1636 il predicatore puritano
della colonia del Massachusetts, John Cotton, redasse un codice
penale secondo il quale una coppia sposata che avesse avuto rapporti sessuali
nel periodo mestruale della donna sarebbe incorsa
nella condanna a morte. Nel mese di maggio del 1650 in Inghilterra fu approvato
l'Adultery Act che disponeva la pena di
morte per chi avesse avuto rapporti sessuali fuori dal matrimonio. È straziante
leggere la storia di Susan Bounty, una donna
del Devon che fu condannata per adulterio. Quando dette alla
luce suo figlio le fu concesso di tenerlo tra le braccia solo pochi
istanti, poi fu trascinata via e impiccata. Eppure, sei anni dopo
saliva al trono Carlo II, che era sposato ma aveva otto figli illegittimi da sei
donne diverse. Si rimane disorientati, e la perplessità aumenta quando leggiamo
dei processi del 1692-93 alle streghe di Salem, quando 19 persone furono
impiccate e una stritolata a morte perché si rifiutava di confessare. Poi
tornano alla mente tutte le guerre civili, le rivoluzioni e le rivolte causate
dalla carestia e dalle ingiustizie sociali. Nonostante il pensiero
scientifico, i diritti naturali e la raffinatezza borghese, la verità è
che la nascita del mondo moderno non fu un parto semplice. La
modernità dovette lottare per vedere la luce, scalciando e urlando come un
neonato sporco di sangue e affamato. Se pensiamo
che il risultato più notevole del XVII secolo fu il suo approccio
razionale al mondo allora è necessario ricordare che, in quello
stesso periodo, in Europa decine di migliaia di persone persero la
vita nelle «carceri delle streghe», sul rogo e sulla forca.
Il principale agente del cambiamento Sono tre i principali contendenti per il Seicento: Galileo Galilei, Isaac Newton e John Locke; ma dobbiamo tenere in considerazione anche altri concorrenti con chance minori, in particolare, William Harvey, Christian Huygens e Antonie van Leeuwenhoek. Tra questi, Newton è considerato il più importante nella transizione alla modernità. Tuttavia, abbiamo visto che ci volle un po' di tempo prima che le sue idee potessero attecchire nel sapere comune. Scegliere un agente principale di cambiamento per un secolo non significa individuare un personaggio che abbia lasciato una traccia profonda esclusivamente nei decenni a venire. Se questo fosse il criterio, allora il candidato ideale per il XII secolo sarebbe stato Aristotele, più che Pietro Abelardo. Pertanto, scelgo di mettere al primo posto Galileo. Egli non solo ebbe il merito di divulgare il metodo scientifico, ma riuscì anche ad applicarlo alla creazione di una nuova strumentazione, alla fisica di base, alla misurazione del tempo e all'astronomia. Nessuno come lui — nel suo secolo come in ogni tempo — agì in sfida alla Chiesa e alla pretesa di quest'ultima di aggrapparsi a un sapere che avrebbe mantenuto salda la sua autorità. Dimostrandosi profondamente convinto delle proprie scoperte, al punto di essere pronto a sacrificare anche la libertà, egli fece molto di più che difendere un corpo di verità scientifiche: Galileo difese il principio stesso della verità. | << | < | > | >> |Pagina 283[...] Due settimane dopo, il 14 luglio del 1789, il popolo parigino assaltò la Bastiglia, la prigione-fortezza simbolo della tirannia, uccidendone il governatore. I principali esponenti dell'aristocrazia abbandonarono il paese, mentre nella capitale scoppiavano sommosse e la rivolta si estendeva anche alle campagne. Quello che all'inizio era stato un tentativo di imporre al re e ai suoi ministri una costituzione assunse i connotati di una rivoluzione vera e propria.Nell'agosto del 1789 il conte di Mirabeau propose il testo della «Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino», un documento che - approvato dall'Assemblea Nazionale il 26 agosto - attingeva a piene mani dal contratto sociale e dalle teorie del giusnaturalismo abbracciate da Rousseau e da altri pensatori politici prima di lui, oltre che essere influenzato dal recente dibattito avvenuto in America. La Dichiarazione si componeva di diciassette articoli ed esordiva con la celebre frase: «Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti». In essa si affermava che «il fine di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali ed imprescrittibili dell'uomo [...], la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all'oppressione», e che solo la legge può fissare i limiti della libertà individuale. La legge, proseguiva poi la Dichiarazione, «deve essere uguale per tutti, sia che protegga, sia che punisca», e «tutti i cittadini essendo uguali ai suoi occhi sono ugualmente ammissibili a tutte le dignità, posti e impieghi pubblici». Il documento sosteneva inoltre diversi altri principi: che nessuno può essere arrestato a meno che non infranga la legge, che nessuno deve subire punizioni crudeli, che un individuo deve essere considerato innocente fino a che non se ne provi la colpevolezza, e ancora si sancivano la libertà di espressione religiosa, la libertà di stampa, la libertà di opinione, il principio di responsabilità degli ufficiali pubblici, l'inviolabilità del diritto alla proprietà. Fin qui non si sarebbe trattato altro che dell'apoteosi delle teorie politiche dell'Illuminismo, se non fosse per ciò che successe subito dopo. La rivoluzione virò a poco a poco verso l'espressione della violenza più estrema. Dopo il 5 ottobre 1789, quando una folla di parigini marciò verso Versailles armata dei cannoni della città per costringere la famiglia reale a rientrare nella capitale, la situazione divenne incontenibile. Nel 1790 furono aboliti i titoli nobiliari e il clero fu assoggettato all'autorità del governo secolare. In molti luoghi si piombò nell'anarchia e furono compiuti massacri — ufficiali e non — in tutti gli angoli del paese. La monarchia francese, fino a non molto tempo prima la più potente d'Europa, fu abolita e il re processato e giustiziato. Molti gli aristocratici che lo seguirono alla ghigliottina; fra questi anche la regina Maria Antonietta. Si procedette alla confisca delle terre di proprietà ecclesiastica e la grande cattedrale di Notre-Dame fu riconvertita in tempio per il culto della dea Ragione. Fu introdotto il nuovo calendario rivoluzionario. Nell'autunno del 1793 ebbe inizio il periodo del Terrore, che vide molti cittadini finire arrestati sulla base di un ampio ventaglio di disposizioni previste dalla cosiddetta «legge dei sospetti» emanata il 17 settembre di quell'anno. L'orrore dell'anarchia rivoluzionaria si propagò come un incendio. Lo stato faceva arrestare e incarcerare centinaia di migliaia di individui, giustiziandone decina di migliaia, per il solo timore che potessero contrastare la libertà del popolo. Gli abusi scatenati dalla legge dei sospetti rappresentarono una tragedia nazionale, eppure non dovrebbero distoglierci dal focalizzare il punto essenziale: la rivoluzione francese non fu una rivoluzione fra le tante, bensì la rivoluzione, la sperimentazione di uno dei principi dalle implicazioni di più vasta portata dell'intero millennio, ossia che nessun essere umano vale meno di un altro essere umano. Si trattava di un principio del tutto alieno al mondo antico e sconosciuto al primo millennio dell'era cristiana. Sebbene in origine si trattasse di un sentimento cristiano, nessun regno cristiano aveva mai tentato di metterlo in pratica. Malgrado ciò, da secoli la società occidentale stava navigando, seppur in maniera vaga, in direzione dell'eguaglianza sociale. Nei diciassette punti della «Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino» troviamo riflessi dei cambiamenti avvenuti in ognuno dei secoli di cui trattiamo in questo libro. Nella prima frase, quella che recita «Gli uomini nascono e rimangono liberi», si rimarca il declino della schiavitù avvenuto nell'XI secolo. Le riforme giuridiche del Millecento prefigurano l'affermazione che la sola restrizione alla libertà può derivare dalla legge e che quest'ultima deve essere al servizio del bene comune. L'estensione del principio della responsabilità auspicato nel XIII secolo riecheggia nel principio secondo cui ogni agente pubblico dell'amministrazione deve rendere conto del proprio operato e che lo stato non dovrebbe incarcerare nessuno senza motivo. Il rapporto di attiva interazione fra i cittadini e lo stato si era già intravisto nei nazionalismi e nella rappresentanza parlamentare nel Trecento. Della nozione di individualismo, che abbiamo incontrato per la prima volta nel Quattrocento, è permeata l'intera Dichiarazione. Alle divisioni religiose del XVI secolo si fa accenno nell'articolo che garantisce l'affrancamento dalle persecuzioni religiose. Il concetto di diritto naturale, espresso nel secondo punto della Dichiarazione, riassume le idee di John Locke, i principi sanciti dalla Bill of Rights inglese del 1689 e la teoria del contratto sociale di Jean-Jacques Rousseau. | << | < | > | >> |Pagina 2919.
1801-1900. L'Ottocento
Ovunque vi troviate mentre state leggendo questo libro, sicuramente avrete intorno a voi una delle invenzioni del XIX secolo. Se viaggiate in treno o in metropolitana, sappiate che il vostro mezzo di trasporto è un'invenzione dell'Ottocento. Lo stesso vale per gli autobus: Parigi, Berlino, New York, Londra e Manchester videro tutte nascere le loro prime linee di trasporto urbano intorno al 1830. Se siete in macchina e state ascoltando una versione audio di questo libro, ebbene, tenete a mente che sia i motori a combustione interna, sia il processo di registrazione fonografica risalgono al XIX secolo. Se siete a letto o in aeroplano leggerete questo saggio avvalendovi della luce elettrica, sperimentata per la prima volta negli anni settanta dell'Ottocento. Ve ne state belli rilassati a leggere il libro nella vasca da bagno? Allora sappiate che anche il tappo della vasca è un'idea del XIX secolo, così come, del resto, il gabinetto; il primo vaso sanitario dotato di sciacquone riproducibile in serie fu esposto per la prima volta nel 1851 alla Grande Esposizione di Londra. In effetti la stessa «stanza da bagno» come la concepiamo oggi è una conquista dell'Ottocento: il primo riferimento a un bagno all'interno di una casa inglese lo si ritrova in J.M. Barrie nel 1888: «Che fa la politica quando in bagno scoppiano le tubature?». Ma sto divagando. Mentre leggete fate caso alla carta di cui è fatto il libro: è ottenuta dalla pasta di legno, inventata nel 1870 come alternativa più economica alla carta ricavata da stracci di tessuto. Se utilizzate un computer con tastiera standard, vi accorgerete che le lettere sulla fila superiore della tastiera formano la sequenza QWERTYUIOP: è una convenzione risalente al tempo in cui, nel 1871, fu introdotto sul mercato un particolare modello di macchine da scrivere. E se indossate un orologio da polso, un paio di jeans o un reggiseno, allora portate delle invenzioni ottocentesche. Per non avere niente a che fare con ciò che risale al XIX secolo probabilmente dovreste vivere nudi in mezzo alla giungla, ma se così fosse mi meraviglierebbe sapere che state leggendo questo libro! L'Ottocento, ancor più che il Novecento, fu il secolo delle invenzioni. | << | < | > | >> |Pagina 306Le comunicazioniAbbiamo avuto modo di vedere come, nel secolo precedente, comunicazioni e trasporti fossero tra loro strettamente collegati. Chi spediva un messaggio poteva anche non partire a cavallo per consegnarlo di persona, ma doveva esserci comunque qualcuno che, fisicamente, lo consegnasse al suo posto. Nell'Ottocento non fu più così. Tuttavia, prima di lanciarci nel mondo delle telecomunicazioni, è necessario prendere in esame un'innovazione che riguardò l'invio dei messaggi «alla vecchia maniera». Nel gennaio del 1837 Rowland Hill, insegnante fallito e funzionario pubblico di umile livello, presentò al governo britannico un suo scritto, Post Office Reform. Its Importance and Practicability, in cui criticava l'inefficienza e il costo del servizio postale nazionale. Il Post Office britannico imponeva una tariffa doppia se si inviavano due pagine invece che una, praticava un ricarico sul prezzo per le distanze più lunghe e considerava il destinatario responsabile del pagamento; quando i destinatari, come spesso accadeva, si rifiutavano di pagare, il costo della consegna della lettera veniva fatto pesare sugli altri utenti. Hill proponeva di uniformare il sistema postale, applicando una tariffa di un 1 penny per le lettere con un peso fino a mezza oncia (circa 15 grammi) spedite in qualsiasi parte all'interno del regno, con il pagamento dell'affrancatura a carico del mittente. La prova del pagamento sarebbe stata l'apposizione di un francobollo postale. Grande idea, penserete voi, chi mai avrebbe potuto opporsi a un sistema organizzato in questo modo? Ci fu invece chi ebbe da ridire, e il principale avversario di questo sistema fu proprio William Leader Maberly, segretario della direzione generale delle Poste, il quale si preoccupava più dei profitti del Post Office che del fatto che gli utenti avessero la possibilità di inviare messaggi in modo semplice ed economico. Il primo round della contesa se lo aggiudicò Hill, il quale ricevette l'incarico di introdurre il sistema, che fu ribattezzato «Penny Post»; si prese la sua grande soddisfazione quando nel 1840 fu messo in vendita il Penny Black, il primo francobollo al mondo, e centinaia di migliaia di persone iniziarono a farne uso. Così, mentre nel 1839 ogni inglese spediva in media ogni anno tre lettere, nel 1860 la media annuale pro capite era salita a diciannove. Ma Maberly passò al contrattacco: nonostante l'aumento del numero di lettere consegnate, le Poste britanniche iniziarono a perdere profitti e nel 1843 Hill fu sollevato dall'incarico. Quello stesso anno, tuttavia, per un colpo di fortuna Zurigo e il Brasile decisero di adottare la sua invenzione, il francobollo adesivo. Fu così che, nel 1846, in seguito a un cambiamento di governo, Hill fu reinsediato nella sua posizione e divenne un eroe nazionale. Nello stesso periodo in cui Hill cercava di capire come rendere più efficace la comunicazione a mezzo posta, vari inventori stavano sviluppando un sistema per trasmettere messaggi istantanei a lunga distanza. Il primo sistema elettrico di telegrafia venne messo a punto da Francis Ronalds nel 1816. | << | < | > | >> |Pagina 336Pertanto, è Karl Marx che scelgo come principale fautore del cambiamento del XIX secolo, e non perché io consideri la lotta di classe come il motore della storia, o perché sia convinto che il capitalismo è destinato a fallire e il «proletariato» a prevalere — anzi, per me è vero il contrario, come dimostra l'ultima parte di questo libro. Marx, a ogni modo, concepì i lavoratori dell'industria come una forza storica e contribuì a creare un movimento di massa a favore dell'emancipazione della classe operaia che giocò un ruolo politico fondamentale a partire dalla metà del secolo. Il suo pensiero si spinse oltre la riflessione filosofica o economica: fu alla base di rivoluzioni reali. Marx portò avanti l'ideale socialista che, come disse George Orwell, racchiude in sé una componente di «misticismo», l'idea di una società senza classi per la quale la gente è disposta a combattere e morire.Il pensiero di Marx portò all'organizzazione politica del movimento operaio, a rivolte all'interno delle fabbriche e a conflitti industriali; spinse i governi ad adottare politiche di welfare, nella speranza di arginare la marea rivoluzionaria. La sua visione della storia come processo caratterizzato da un intreccio di forze economiche è convincente e, mentre possiamo non trovarci d'accordo con le sue previsioni, su questo punto in particolare egli aveva sicuramente ragione. A livello sociale ed economico siamo vincolati a regole antiche come la società stessa. E questa consapevolezza influì in maniera molto più decisiva sul modo in cui la gente, nel 1900, guardava alla società e ne affrontava il cambiamento rispetto alla questione, importante ma astratta, se le origini del genere umano fossero da attribuire alla creazione divina oppure all'evoluzione naturale. | << | < | > | >> |Pagina 351La guerra [1901-2000]Non c'è bisogno di dire che nel XX secolo il modo di fare la guerra subì una trasformazione molto profonda, tale da renderlo quasi irriconoscibile rispetto al passato. All'inizio del Novecento della guerra si sarebbe ancora potuta dare la tradizionale definizione, un fenomeno fatto di soldati che «avanzano in masse ordinate e muoiono in mucchi scomposti». Poi, però, carri armati, trincee, gas tossici e filo spinato cambiarono in fretta la forma e la dimensione di quelle masse e di quei mucchi. Ulteriori cambiamenti arrivarono nella seconda guerra mondiale, grazie al ruolo preminente degli aerei da caccia, dei bombardieri, dei sottomarini e, infine, della bomba atomica, al punto che spesso di quelle masse di uomini non restò più nulla. Nella seconda metà del secolo il timore diffuso era, nella migliore delle ipotesi, che le città venissero polverizzate o, nella peggiore, che l'intero genere umano morisse lentamente di fame e a causa degli effetti delle radiazioni causate dall'olocausto nucleare. Nel 2000, a ogni modo, fu ormai chiaro che molti aspetti tradizionali della guerra si erano preservati e che in alcuni conflitti civili essere istantaneamente polverizzati sarebbe stata una benedizione. Le atrocità commesse durante i combattimenti nella ex Yugoslavia, in special modo gli stupri e le torture sessuali inflitti ai civili e ai bambini, fecero intendere chiaramente che l'orrenda barbarie dei secoli precedenti non si era attenuata. Come si è visto quando abbiamo analizzato il declino della violenza privata nel XVI secolo, se si annulla la violenza potenziale esercitata da un'autorità suprema - quella forza che frena gli individui dall'aggredirsi a vicenda - gli istinti più aggressivi e brutali dell'essere umano tornano a prevalere. Il genere umano conserva in sé allo stato potenziale la medesima crudeltà e la medesima efferatezza che lo hanno sempre caratterizzato. Comunque sia, in tale contesto la questione non è come sia cambiata la guerra nei decenni del Novecento, ma in quale modo la guerra abbia trasformato la società. [...] L'incremento della letalità della guerra è fuor di dubbio il più grande paradosso della civiltà umana. In precedenza la fine del mondo era un'idea filtrata attraverso i racconti biblici del Diluvio e del Giorno del Giudizio. È veramente assurdo che sia stata proprio la scienza - la quale aveva gradualmente fornito spiegazioni del mondo alternative a quelle della religione e alla quale spesso ci si rivolgeva per superare gli insegnamenti della religione - a trovare dei metodi concreti per provocare lo sterminio di massa e gli orrori annunciati nella Bibbia. Ancora più assurdo è che gli scienziati abbiano ideato un potenziale Armageddon intenzionalmente, per soddisfare le richieste di leader democraticamente eletti. Nel corso dei secoli la congiunzione fra potere monarchico assoluto, stratificazione sociale e dottrina religiosa aveva provocato numerose guerre e molte atrocità, ma non aveva mai minacciato di cancellare il genere umano dalla faccia della Terra come invece ha fatto il connubio tra scienza e democrazia nel Novecento. Ma il paradosso più grande di tutti è che la maggioranza della gente in Occidente si avvantaggiò dell'escalation del fenomeno bellico, perché questo fece riconoscere all'individuo un nuovo valore. In effetti, la guerra totale - soprattutto nella prima metà del secolo - portò con sé una serie di riforme economiche e sociali che arricchì enormemente i cittadini dell'Occidente in termini di potere politico, pari opportunità e benessere. La conquista delle pari opportunità giunse particolarmente opportuna all'inizio del secolo nel caso delle donne, che ancora erano piuttosto lontane dall'avere raggiunto la parità sociale ed economica con gli uomini. L'impiego nelle manifatture belliche durante la prima guerra mondiale permise alle donne di godere di libertà molto maggiori rispetto a quelle godute sino ad allora. Alcune si ritrovarono per la prima volta a lavorare fuori casa, uniche responsabili della casa e della famiglia, in condizione di viaggiare liberamente senza essere accompagnate da un uomo. Di sicuro non si saranno contate le piccole battaglie private al ritorno dei loro mariti dalla guerra (ammesso che fossero ritornati), ma nel sentire comune era ormai penetrata l'idea che le donne avessero conquistato una maggiore libertà. La pressione sociale per l'emancipazione femminile si fece prepotente. Nel periodo immediatamente successivo ai due conflitti mondiali nelle varie nazioni si assistette a un modesto impulso legislativo che estese il diritto di voto alle donne e alle categorie di uomini che ancora erano escluse dal suffragio. Nel 1918 nel Regno Unito il suffragio fu esteso a tutti i maschi sopra i 21 anni (19, se avevano combattuto nella guerra) e alle donne ultratrentenni che fossero sposate, possidenti o laureate. Polonia, Cecoslovacchia, Austria e Ungheria concessero il voto alle proprie cittadine nello stesso anno; i Paesi Bassi lo fecero nel 1919, gli Stati Uniti e il Canada si adeguarono nel 1920. Il governo britannico parificò finalmente i criteri per l'accesso al voto di uomini e donne nel 1928. Il contributo dato dalle donne alla seconda guerra mondiale condusse, tra il 1944 e il 1945, all'introduzione del suffragio femminile in Francia, Bulgaria, Italia e Giappone; il Belgio fece altrettanto nel 1948. In Inghilterra la crescita dell'indipendenza politica ed economica delle donne preannunciò il declino della servitù intesa come classe sociale distinta. Le grandi dimore che un tempo brulicavano di schiere di domestici furono abbandonate per non essere mai più riaperte. Così come la scarsità di manodopera dopo la peste nera aveva accentuato il valore di ogni singolo lavoratore, la guerra totale ricordò in maniera molto brutale che ogni individuo adulto era utile, spingendo verso la conquista del diritto universale al lavoro e al voto e (nel caso delle donne) al diritto di vivere una vita più indipendente di quanto non avvenisse prima del 1900. Un'altra conseguenza della guerra sul piano sociale fu il declino dell'imperialismo, delle monarchie e dei sistemi ereditari in genere. All'inizio del XX secolo una mezza dozzina di imperi deteneva il controllo su gran parte dei territori del mondo. L'impero più esteso era quello Britannico, comprendente il Canada, l'Australia, la Nuova Zelanda, circa due quinti dell'Africa, l'India, la Guiana Britannica e un discreto numero di isole del Pacifico. L'Impero Russo si estendeva dall'Oceano Pacifico al Mar Nero; quello Germanico, per quanto di dimensioni molto più modeste, controllava territori in Africa e nel Pacifico. L'Impero austroungarico comprendeva non solo il cuore territoriale rappresentato dall'Austria e dall'Ungheria, ma anche Boemia, Slovenia, Bosnia e Erzegovina, Croazia, Slovacchia e porzioni della Polonia, dell'Ucraina, della Romania e della Serbia. L'Impero ottomano racchiudeva Turchia, la Terra Santa, la Macedonia, il nord della Grecia e l'Albania. In un modo o nell'altro, tutti questi imperi videro la fine dei loro giorni. L'Impero russo fu rovesciato dai rivoluzionari nel 1917; l'Impero Germanico, l'Impero austroungarico e l'Impero ottomano si dissolsero alla fine della prima guerra mondiale. Quello britannico e quello francese subirono un processo di decolonizzazione che fu accelerato dagli sforzi economici compiuti dalle due nazioni durante la seconda guerra mondiale. Per quanto riguarda le monarchie, all'inizio del secolo le uniche nazioni occidentali di una certa importanza a non essere governate da un sovrano per linea ereditaria erano la Francia, la Svizzera e gli Stati Uniti d'America. Sebbene molti stati monarchici agissero nell'ambito di un sistema costituzionale, la maggior parte dei re e delle regine esercitavano ancora un'enorme influenza sui propri governi. Nel 2000 di re ne erano rimasti pochi: a tenersi stretti i rispettivi troni c'erano le famiglie reali di Gran Bretagna, Belgio, Danimarca, Olanda, Norvegia e Svezia, mentre i sovrani spagnoli erano stati reinsediati dopo la morte del generale Franco nel 1975. Tuttavia, anche in queste nazioni i reali erano subordinati a governi democraticamente eletti. Anche il potere dell'aristocrazia aveva subito un processo pressoché totale di eradicazione: a partire dal marzo 2000 persino la Camera dei Lord britannica era quasi interamente costituita da membri di nomina elettiva. Il lungo processo dell'applicazione del principio di responsabilità ai sovrani ereditari, iniziato nel Duecento, alla fine aveva avuto come risultato l'estinzione quasi totale della specie. | << | < | > | >> |Pagina 358L'aspettativa di vitaCome quello che abbiamo appena detto ci suggerisce, il rapporto tra guerra moderna e società è gravato da un paradosso. Un esempio molto evidente ci giunge dall'impatto positivo che la guerra ebbe sulla salute delle persone. La gente che morì fucilata, gasata, bombardata, bruciata o fatta a pezzi oppure di stenti, non sarebbe d'accordo, ma la verità è che per fare la guerra c'è bisogno di una popolazione sana e in buone condizioni fisiche capace di combattere al fronte e, lontano dalle zone di guerra, di mantenere operative le manifatture belliche, i treni e le fonti di produzione alimentare. Durante il primo conflitto mondiale si assistette a un rapido incremento dell'impegno dei governi sul piano sanitario allo scopo di garantire la salute dei cittadini impiegati come forza lavoro. La salute e la sicurezza delle condizioni lavorative divennero una questione prioritaria: avvelenamento da piombo e da mercurio e carbonchio furono le prime patologie da tenere sotto controllo; in seconda battuta venivano la silicosi e i tumori della pelle. Sempre nel corso della prima guerra mondiale si registrarono progressi nelle tecniche di trasfusione, grazie alla scoperta dei primi anticoagulanti (il citrato di sodio e l'eparina) e alla produzione industriale delle compresse di cloro per la disinfezione dell'acqua. Anche la produzione industriale dell'ammoniaca ebbe inizio in quel periodo, permettendo la produzione dei fertilizzanti artificiali - inizialmente rivolta ad alimentare lo sforzo bellico della Germania, e in seguito a sfamare il mondo. La salute mentale degli uomini affetti da psicosi traumatica causata dalle esperienze della guerra costrinse i governi a investire nella ricerca nell'ambito della psichiatria e delle cure mentali. La seconda guerra mondiale, invece, portò la prima produzione in serie della sostanza antesignana tra i farmaci antibiotici, la penicillina, che fu avviata giusto in tempo per lo sbarco in Normandia avvenuto nel 1944. Oggi a noi questi progressi medici appaiono scontati, ma è importante ricordare che prima dell'introduzione degli antibiotici a volte poteva bastare un'escoriazione sul gomito o sul ginocchio per condurre alla setticemia. A partire dal 1944, tutt'a un tratto un'enorme quantità di malattie - dalla meningite alla gonorrea - divennero curabili. Il piccolo strato di muffa notato da Alexander Fieming nel settembre del 1928, dalla quale poi estrasse la penicillina, si rivelò uno dei più potenti farmaci salvavita del mondo contemporaneo. | << | < | > | >> |Pagina 371L'invenzione del futuroForse ricorderete le parole con cui aprivo il capitolo sul Trecento, quando spiegavo che la gente nel Medioevo non aveva alcuna cognizione di storia sociale. Ovviamente, ancora meno presente in loro era l'idea di futuro. Ruggero Bacone, con il suo intuito straordinario, dal chiuso del suo convento duecentesco riuscì a immaginare che sarebbe stato possibile costruire automobili, macchine volanti, ponti sospesi e vesti per andare sott'acqua, ma non aveva elaborato alcuna visione del futuro in quanto tale. Il suo era un semplice ragionamento, secondo il quale dal punto di vista ingegneristico si trattava di progetti non impossibili. Nella mentalità medievale non c'era posto per il passato e per il futuro, tutta impegnata com'era la gente a vivere in un costante presente. Un po' alla volta, invece, il Cinquecento introdusse il senso del passato. Nel Settecento l'idea che la società occidentale fosse in perenne trasformazione si era ormai mutata nel concetto di progresso, così come lo esposero Turgot e Condorcet, e questa nuova concezione fece sì che la gente iniziasse a immaginare il futuro. Hegel teorizzò che con il dominio dei valori liberali e l'adozione da parte di tutto il mondo della medesima, vantaggiosa forma di governo si sarebbe giunti alla «fine della storia». Nel caso di Karl Marx, questa forma di governo preferibile a tutte le altre era ovviamente il socialismo, ma Marx non fu certo il solo a pensare che lo stato socialista fosse l'auspicato prodotto finale del progresso dell'umanità. Alla fine del XX secolo lo storico Francis Fukuyama, guardando indietro al cammino percorso dall'Occidente fino alla caduta del muro di Berlino, giudicò che il resto del mondo avrebbe abbracciato i valori della democrazia liberale. Del futuro non si parlava nelle pagine scritte dagli analisti politici o dagli utopisti. A farlo conoscere alla gente che non era interessata alla teorie hegeliane o marxiane ci pensò la narrativa fantascientifica. Negli anni ottanta dell'Ottocento molti romanzi erano incentrati su una visione immaginifica del futuro che si sviluppava a partire dalla vicenda di un protagonista che si addormentava e si risvegliava nel futuro. Fra questi romanzi i più famosi sono Guardando indietro. 2000-1887 (1888) di Edward Bellamy, nel quale viene descritta l'America diventata uno stato socialista nell'anno 2000, e News from Nowhere (1890) di Wiliam Morris, nel quale l'autore — socialista — illustra come sarebbe stata la società del futuro. Questi romanzi erano ambientati nel mondo reale ed erano la rappresentazione in chiave idealistica di ciò che gli autori auspicavano per il futuro della loro società. Molti, attingendo all'idea di «progresso» come caratteristica dell'Occidente, dipinsero un futuro molto roseo. Un certo John Elfreth Watkins Jr, che scriveva sul «Ladies' Home Journal» nel 1900, elencò una serie di previsioni su come sarebbe stata la vita nell'anno 2000. Secondo lui i treni avrebbero viaggiato a una velocità di quasi 250 chilometri all'ora, le automobili sarebbero «costate meno di un cavallo», i contadini avrebbero avuto a disposizione dei «carri-automobile per il fieno»; sarebbe stato possibile «telegrafare» le fotografie in tutto il mondo; l'istruzione universitaria sarebbe stata accessibile a tutti, uomini e donne; ci sarebbe stata la «guerra aerea» e «fortezze su ruote»; la gente avrebbe comprato «pasti già pronti» nei negozi così come si comprava il pane nelle panetterie; infine, il cibo in vendita non sarebbe stato esposto all'aria. Ebbe meno intuito nel pronosticare che per gli usi domestici l'energia idroelettrica avrebbe soppiantato l'uso del carbone, che mosche e zanzare sarebbero state sterminate; che non sarebbero più esistite belve feroci; che i farmaci non si sarebbero più presi per bocca; che sarebbe stato possibile coltivare fragole grosse come mele. Anche i politici che si avventuravano nelle incerte lande della previsione del futuro tendevano all'ottimismo. Nel 1930 il conte di Birkenhead, riferendosi ai successivi cento anni, scriveva: «la guerra non diventerà più brutale. Il mondo civilizzato si sta trasformando rapidamente in un unico corpo economico [...] e il disastro per una nazione significa disastro per tutte le nazioni». Per quanto all'inizio del Novecento fra i letterati, gli storici, i filosofi, i politici e i loro tanti lettori circolassero varie idee di futuro — di ciò che forse sarebbe accaduto — il concetto di previsione del futuro — che cosa sarebbe davvero accaduto — era ancora di là da venire. L'idea che la società avrebbe continuato a progredire, secondo un processo che si sarebbe fermato al momento in cui fosse stato raggiunto uno stato di felicità, era molto diffusa. In effetti, nella maggior parte dei casi le visioni del futuro erano di carattere ottimistico. Ma poi scoppiò il primo conflitto mondiale. Fu un trauma enorme, che costrinse molti convinti assertori del progresso ad abbandonare ogni roseo pensiero. Com'era possibile che nazioni e imperi illuminati decidessero di cagionarsi l'un l'altro tanti dolori e distruzioni? Dopo la Grande Guerra procurava un forte turbamento rileggere i testi degli storici delle precedenti generazioni e la loro apologia delle rivoluzioni che avevano contribuito all'ordine mondiale del presente, quando l'era contemporanea, che si riteneva superiore a tutte le altre, mostrava nei confronti della vita umana un volto persino più feroce di tutti gli orribili regimi dei cinque secoli passati, con il loro contorno di superstizione e stratificazione sociale. Nel contempo si cominciava a fare i conti con il fatto che le rivoluzioni socialiste non portavano necessariamente alla fondazione di quei paradisi in terra auspicati da Bellamy e da Morris, per non parlare poi dell'idea marxiana di una società comunista. Negli anni successivi furono scritti molti romanzi distopici, in particolare le celebri opere di Aldous Huxley (Il mondo nuovo, 1932), H.G. Wells (The Shape of Things to Come, 1933) e George Orwell (1984, 1949). Probabilmente il testo più profetico di tutti (soprattutto perché antecedente allo scoppio della prima guerra mondiale) fu un racconto di E.M. Forster intitolato La macchina si ferma (1909), in cui si descrive una Terra sconvolta dall'inquinamento al punto che, divenuta impossibile la vita sulla sua superficie, gli uomini sono costretti a vivere in celle sotterranee controllati in ogni aspetto della propria esistenza da una tecnologia simile a quella di internet che permette loro di comunicare attraverso dei collegamenti video e fornisce loro tutto ciò di cui hanno bisogno. Pian piano gli umani sviluppano una dipendenza nei confronti della «Macchina» che li induce a perdere ogni contatto con il mondo naturale e il senso della vita; e quando la Macchina smette di funzionare, essendo privi di risorse e di capacità su cui poter ripiegare, per loro sarà la fine. La fantasia degli uomini, degli ottimisti come dei pessimisti, si scatenò quando, nel 1957, fu lanciato nell'orbita terrestre il primo satellite, lo Sputnik 1, dando così il via alla corsa allo spazio. L'atterraggio sulla Luna di due membri dell'equipaggio dell'Apollo 11 nel luglio del 1969 non fece che stimolare la fantascienza ambientata nello spazio a superare gli orizzonti. A ogni modo, all'epoca in cui fu compiuto quel piccolo ma grande passo per l'umanità si stava già delineando una riflessione molto più profonda riguardo al futuro del genere umano. Nel 1956 il geologo M. King Hubbert aveva formulato delle previsioni, sostenendo che la produzione petrolifera avrebbe seguito un andamento secondo una curva matematica a campana: dopo un graduale aumento iniziale, per un periodo ci sarebbe stato un rapido incremento, fino al raggiungimento del picco produttivo; quindi, a causa del continuo sfruttamento delle riserve, si sarebbe assistito a un rapido decremento, fino a raggiungere una certa stabilizzazione con il prosieguo dello sfruttamento per un periodo di tempo più lungo. Basandosi sulle sue proiezioni matematiche, Hubbert prediceva che le riserve mondiali di petrolio si sarebbero esaurite nel 1970. Per nostra fortuna, negli anni seguenti furono scoperti nuovi giacimenti petroliferi. Il suo schema, tuttavia, era facilmente applicabile ad altre risorse, come per esempio il gas naturale, il carbone e il rame. Poiché i modelli di sfruttamento potevano essere predetti ed era possibile fare una stima delle riserve disponibili, si potevano prendere dei provvedimenti per scongiurare l'esaurimento delle scorte — almeno in teoria. Va detto che negli ultimi anni del XX secolo i governi non parvero affatto determinati a porre un limite allo sfruttamento delle risorse minerali del mondo; apparentemente, a guidarli era la convinzione che eventuali carenze di disponibilità non avrebbero fatto altro che provocare un aumento dei prezzi il quale, a sua volta, avrebbe stimolato la ricerca di alternative. Malgrado ciò, in molti casi la consapevolezza che il mondo disponeva di risorse limitate era motivo di forte preoccupazione per la gente comune. Quando fu pubblicata la foto intitolata Earthrise, la prima fotografia della Terra dallo Spazio scattata da uno degli astronauti dell'Apollo 8 in orbita intorno alla Luna il 24 dicembre 1968, molta gente rimase a bocca aperta. Osservando quell'immagine del nostro pianeta risultava evidente in tutta la sua lampante chiarezza che, a dispetto delle convinzioni religiose o delle capacità tecnologiche del genere umano, tutto quello che avevamo a disposizione era ciò che ci offriva quel piccolo globo blu. Qualche mese prima Paul Ehrlich, nel suo The Population Bomb, aveva predetto che negli anni settanta milioni di persone sarebbero morte di fame a causa dell'instaurarsi di una serie di limiti maltusiani sulla crescita demografica esponenziale verificatasi nei decenni precedenti. Più attendibile si dimostrò il Rapporto sui limiti dello sviluppo pubblicato nel 1972 dal Club di Roma, un'associazione formata da un'ottantina fra economisti e intellettuali, il quale provò che le stime delle risorse ancora disponibili basate sui ritmi di sfruttamento attuali non erano precise, visto che l'uso di quelle risorse continuava ad aumentare ogni anno. Insomma, le risorse della Terra venivano consumate molto più velocemente di quanto la gente si rendesse conto. | << | < | > | >> |Pagina 378Il principale agente del cambiamentoI principali candidati nel caso del XX secolo sono - con un'unica eccezione - scontati. I fratelli Wright, con i loro ostinati tentativi di volare con gli alianti a motore, non soltanto mostrarono al mondo che era possibile volare, ma diedero un impulso tale allo sviluppo dell'aeronautica che in breve tempo il mondo scoprì le tecnologie per farlo in sicurezza. Il lavoro di Albert Einstein sulla relatività, oltre a distinguerlo come una delle icone più illustri del secolo, fa di lui uno dei personaggi chiave nelle scienze che hanno reso tanto pericolose le guerre e tanto preziosi i metalli radioattivi. Einstein contribuì a convincere il presidente americano Roosevelt ad autorizzare il cosiddetto Progetto Manhattan, grazie al quale videro la luce le prime bombe atomiche. Un altro candidato da prendere in considerazione è Iosif Stalin, che perseguitò e terrorizzò milioni di suoi compatrioti, fondò il vasto impero dell'Unione Sovietica, industrializzò il paese, dotò l'impero sovietico di testate nucleari ed ebbe un ruolo di primo piano sia nella sconfitta di Hitler, sia nell'inizio della Guerra Fredda. C'è poi un altro candidato, meno prevedibile, al quale pertanto va dedicata qualche parola di presentazione: Fritz Haber. Haber era uno scienziato ebreo tedesco che, inventando insieme al cognato Carl Bosch il cosiddetto «processo Haber-Bosch» per la produzione dell'ammoniaca, contribuì alla ricchezza del mondo. Le stime ci dicono che il numero delle persone che oggi sono vive grazie alla sua invenzione è dell'ordine delle centinaia di milioni, se non addirittura miliardi. Che gran benefattore, quante vite ha salvato!, direte voi. Ma Haber è stato anche responsabile dell'invenzione della guerra chimica: non solo fu l'inventore del gas clorino, ma ne supervisionò personalmente l'utilizzo contro le truppe inglesi e francesi a Ypres nel 1915. Secondo Max Planck l'invenzione dell'acido nitrico per gli esplosivi e dei fertilizzanti a base di ammoniaca, entrambi ascrivibili a Haber, prolungarono la durata della prima guerra mondiale di almeno un anno. La storia di vita di Fritz Haber, pertanto, è una delle più contraddittorie con le quali ci si possa confrontare. Collaborando allo sforzo bellico Haber, anche se ebreo, sperava di dimostrare il suo spirito patriottico; dall'altra parte sua moglie, anche lei scienziata, visse con tale angoscia l'impegno del marito nell'ambito della guerra chimica (oltre al disinteresse di lui per la sua carriera) che si sparò il giorno in cui lo promossero capitano. Ma il peggio doveva ancora venire. Dopo la fine della guerra Haber fu a capo del team che inventò lo Zyclon B, un insetticida a base di cianuro, che fu poi utilizzato per uccidere un enorme numero di ebrei nei lager nazisti durante il secondo conflitto mondiale. Giustamente, concludiamo questo capitolo con un altro paradosso novecentesco legato alla guerra: colui che ha salvato più vite umane di chiunque altro fu lo stesso individuo che si rese responsabile della morte di milioni di persone. Un po' come Lavoisier riassume in sé il Settecento, Haber incarna il Novecento, con tutte le sue contraddizioni e le sue tragedie. In definitiva, tuttavia, bisogna ammettere che non fu lui in prima persona il responsabile dell'applicazione delle sue invenzioni a scopi tanto distruttivi. Haber era solo uno scienziato che cercava di compiacere i suoi governanti. Furono i politici a dare il via al genocidio e alla guerra. Di conseguenza, il titolo di principale agente del cambiamento nel corso del XX secolo deve essere riconosciuto ad Adolf Hitler. A lui va la responsabilità dello scoppio della seconda guerra mondiale. La sua politica interna aggressiva basata sulla supremazia della razza e le feroci conseguenze che essa scatenò causarono un grosso danno al nazionalismo deprivandolo della sua forza politica, anche se in Europa era stato dominante da secoli. Hitler pianificò e mise in atto l'olocausto degli ebrei e provocò direttamente un enorme numero di perdite di vite umane sui campi di battaglia, ma anche massicce distruzioni in Europa, in Africa, in Russia, nel Medio Oriente e nell'Estremo Oriente. La sua minaccia di voler costruire una bomba atomica spinse Einstein a far pressioni sul governo americano perché desse il via libera al progetto Manhattan. Ma poiché c'è sempre un aspetto positivo in tutte le cose, dalla guerra che Hitler aveva iniziato derivò un numero esorbitante di progressi medici e tecnologici che ebbero positive ripercussioni nella seconda metà del secolo, dall'esplorazione dello spazio alla penicillina. Sicuramente il mondo oggi sarebbe un posto molto diverso se Hitler non fosse mai esistito. | << | < | > | >> |Pagina 386La scala dei bisogniChe cos'è che provoca un progresso sociale di un certo rilievo? Un individuo ha una grande idea e tutti gli altri gli vanno dietro? No, non funziona così; le cose non sono mai così semplici. Perché una buona idea prenda piede è necessario il contesto sociale giusto. La bussola era già nota da secoli prima che venisse utilizzata abitualmente durante le traversate oceaniche; molti avevano messo in discussione le pratiche della Chiesa cattolica romana parecchio tempo prima di Martin Lutero; il sistema di telegrafia di Francis Ronalds ricevette un rifiuto da parte del ministero della Marina britannico; e via discorrendo. Come abbiamo visto più di una volta nelle pagine di questo libro, non è l'invenzione in sé che genera un importante cambiamento, quanto il fatto che quell'invenzione venga adottata da una porzione significativa della popolazione. [...] Fatta questa premessa sulla variabilità della posizione occupata dall'ideologia nella gerarchia, possiamo fissare una scala dei bisogni storicamente più rappresentativa sulla base della quale valutare il cambiamento all'interno della società: 1. Bisogni fisiologici: i membri di una comunità avevano abbastanza cibo, calore e riparo per sopravvivere? 2. Sicurezza: la comunità viveva libera dalla guerra oppure no? 3. Ordine pubblico: in tempo di pace i membri della comunità vivevano sicuri? 4. Salute: la gente era al riparo da malattie debilitanti? 5. Ideologia: i membri della comunità erano liberi da pretese di ordine morale e da pregiudizi sociali e religiosi che impedissero loro di soddisfare i bisogni elencati più oltre o li costringessero a rinunciare a quelli elencati sin qui? 6. Sostegno della comunità: gli individui partecipavano alla vita comunitaria, trovavano accoglienza e sostegno emotivo nella comunità? 7. Arricchimento personale: la gente aveva sufficienti ricchezze per poter realizzare le proprie ambizioni o per autorealizzarsi in altro modo?
8. Arricchimento collettivo: la gente era in grado di aiutare
gli altri membri della comunità negli aspetti elencati sopra?
In generale, la progressione nella scala si ferma se la risposta a uno dei quesiti sopra elencati è negativa per un individuo o per una porzione della comunità (sempre tenendo a mente la premessa che la posizione occupata dall'ideologia è variabile). | << | < | > | >> |Pagina 409Riepilogo
Se si prendono in esame i bisogni essenziali della società e li si
valuta alla luce di criteri che siano il quanto più possibile di ordine
quantitativo, i risultati finali sono indubbiamente a favore del
mondo contemporaneo.
Il XX secolo risulta al primo posto in cinque delle otto categorie da me definite come i bisogni più importanti. In effetti, se si attribuisce un punteggio (cinque punti alla prima posizione, quattro alla seconda, tre alla terza) lo schema che si ottiene è lampante. Secondo la nostra scala dei bisogni, il secolo nel quale si sono registrati maggiori cambiamenti è il Novecento. Per quanto io non nutra dubbi sul fatto che sia stata l'epidemia di peste nera l'evento singolo più traumatico che l'umanità abbia mai vissuto, la nostra adattabilità ci permise di ripristinare gli aspetti più pratici della nostra esistenza in un tempo relativamente breve. Nel corso del XX secolo, sempre grazie all'adattabilità tipica della nostra specie, abbiamo accolto di buon grado modelli alternativi di comportamento, allontanandoci sempre di più dai nostri antenati. [...] Abbiamo visto che non tutti i cambiamenti sono riconducibili alla sfera tecnologica: nel cambiamento vanno compresi il linguaggio, l'individualismo, il pensiero filosofico, i conflitti religiosi, il fenomeno della secolarizzazione, le scoperte geografiche, le riforme sociali e persino il clima. In effetti, prima del 1800 i progressi fondamentali solo in pochi casi coincisero con delle innovazioni tecnologiche. Ma dalla metà del XIX secolo per noi occidentali è stato praticamente come vivere su un altro pianeta. La nostra vita e il nostro sostentamento ora dipendono dall'economia, non dalla terra, e questo implica un mondo di differenze. | << | < | > | >> |Pagina 416C'è ancora chi è convinto che le risorse di cui disponiamo non si esauriranno mai. Dopo che la Reconquista fu portata a termine, nel 1492, e che il mondo cristiano aveva raggiunto il punto limite della sua massima espansione, ecco che Colombo si avventurò al di là dell'oceano e scoprì Hispaniola. Cinque anni più tardi Caboto raggiunse Terranova. Lo spirito di avventura dell'umanità non è morto, sostengono gli ottimisti, e ci condurrà sulle stelle. Sfortunatamente, il XX secolo ha messo la parola fine anche a quel sogno. Come abbiamo spiegato in questo libro, quello che chiamiamo «spirito di avventura» in realtà non è che un eufemismo per riferirsi alla sete di ricchezze, ovvero la ricerca del profitto. Il sogno che ispirava Colombo e Caboto era un sogno di ricchezze, ed era sempre l'avidità il motore che muoveva i governi che finanziarono le loro spedizioni. L'esplorazione della costa africana si era fermata a Capo Bojador perché Gil Eanes là aveva trovato oro e schiavi. Nel Settecento la gente non si mise a fare esperimenti nel campo delle tecniche agrarie perché voleva sfamare il mondo, ma perché voleva aumentare i profitti. Ma nel XX secolo abbiamo capito che la nostra espansione non è illimitata: abbiamo scoperto, infatti, che non sarebbe mai stato remunerativo uscire dal sistema solare. Forse un giorno varrà la pena sfruttare i depositi di minerali di Marte alla ricerca di metalli che sulla Terra sono rari. Tuttavia, io ho il forte sospetto che i molti miliardi di dollari che occorrerebbero per inviare missioni su un pianeta spoglio, gelido e senza atmosfera come Marte spingerà i governi a scegliere soluzioni meno dispendiose, come per esempio allearsi con uno stato ricco di risorse o assalirne uno più debole dal punto di vista economico o militare. Oltre Marte non vi sono speranze di espandersi commercialmente. Gli altri pianeti del nostro sistema solare non sono basi adatte all'insediamento umano e allo sfruttamento minerario. Il sistema solare più vicino al nostro, Epsilon Eridani, dista 10,5 anni luce dalla Terra e i pianeti che lo formano non orbitano in una zona che li renda abitabili. Dopo Marte, il pianeta più vicino su cui forse potremmo insediarci è Gliese 667Cc, che dista 22 anni luce. Solo arrivarci sarebbe un problema enorme. La velocità massima raggiunta da un veicolo spaziale con equipaggio umano è di circa 40 000 chilometri all'ora, il che significa che impiegheremmo 589 248 anni per portare a termine il viaggio. E poi bisognerebbe tornare indietro: tra andata e ritorno, un viaggetto di oltre un milione di anni. Un periodo di tempo così abissalmente lungo non susciterà mai l'entusiasmo di qualche investitore, quale che sia il ritorno promesso. E che ci sia un ritorno, in senso proprio o in senso economico, non è garantito.| << | < | > | >> |Pagina 423Epilogo
Cosa è cambiato, cosa cambierà
Le conclusioni cui siamo giunti in questo libro lasciano sospesi alcuni interrogativi. Se la foto Earthrise ci fornisce la prova che la Terra dispone di risorse limitate, che cosa implica questo fatto per il genere umano nel prossimo millennio? È possibile stabilire quale dei cinquanta cambiamenti storici descritti nei capitoli precedenti andranno incontro a un rafforzamento o a un arretramento? Se non siamo destinati a vivere in uno stato di capitalismo liberale permanente e a restare sulla vetta delle nostre curve di civilizzazione per i secoli nei secoli che verranno, come sarà allora il mondo che lasceremo in eredità ai nostri discendenti? Su un primo punto vorrei essere chiaro: non credo che noi esseri umani abbiamo la capacità, anche volendolo, di cambiare la nostra indole che ci spinge a fare ciò che più ci torna comodo. Mi potrei anche sbagliare: magari riusciremo a trasformarci tutti quanti in creature mansuete e modeste dotate di ego e appetiti microscopici che se ne staranno tranquille a zappare il proprio angolo di terra e si lasceranno dissuadere senza sforzi dal mettere al mondo troppi figli. Nel suo romanzo Galapagos (1985) Kurt Vonnegut ipotizzava che potessimo evolverci in mammiferi acquatici pelosi golosi di pesce e dotati di teste affusolate contenenti cervelli più piccoli e meno complessi. Io, però, non sono convinto che le cose andranno così. | << | < | > | >> |Pagina 428Il caso qui esaminato prendendo come riferimento l'Inghilterra costituisce una previsione per i prossimi 86 anni, appena 86 anni. Ma noi stiamo facendo ipotesi sull'intero millennio a venire, sperando che dopo ci siano altri mille anni ancora di salute e felicità per l'umanità. Di conseguenza, non ho dubbi nel sostenere che l'argomento della «fine della storia» di cui parlava Fukuyama - ovvero della teoria secondo cui un giorno per il mondo intero si inaugurerà una stagione del capitalismo liberale che diventerà perenne - è totalmente infondato. Semplicemente, non esistono le risorse necessarie perché la sua visione possa diventare realtà. Al contrario, il capitalismo eroderà il nucleo stesso del liberalismo. Man mano che la domanda di terra continuerà a crescere, dovremo decidere se utilizzarla per produrre cibo, energia o alloggi improduttivi. Di conseguenza, produrremo un po' di cibo, un po' di biocombustibili, una limitata quantità di elettricità e un numero sempre minore di case. Ma poiché la disponibilità di questi beni non sarà sufficiente a coprire la domanda di cibo, trasporti e alloggi secondo gli standard attuali, chi ci rimetterà saranno i settori più poveri di ciascuna comunità, comprese le categorie più svantaggiate nei paesi relativamente ricchi, e di conseguenza nell'era post-industriale riemergerà la stratificazione tipica della società preindustriale.Quando le risorse sono limitate la stratificazione sembra essere l'impostazione strutturale di base della società. Come abbiamo visto nei vari capitoli di questo libro, i desideri dei ricchi hanno sempre la precedenza rispetto ai bisogni del resto della popolazione. Le terribili condizioni di miseria in cui versano i più sfortunati nei periodi di crisi si traduce in un ulteriore incremento del divario tra poveri e ricchi. Viceversa, quando è disponibile un surplus di risorse queste possono essere lasciate ai poveri e la ricchezza relativa dei più abbienti è meno accentuata. Nel corso dell'Ottocento e del Novecento abbiamo operato uno sfruttamento smodato delle riserve di petrolio, carbone e gas naturale, e ciò è servito a ridurre in maniera drastica il rischio di carestie e malattie e ad alleviare le disuguaglianze su base economica. Adesso che la disponibilità di tali insostituibili risorse comincia a calare, la struttura della società inizia a regredire verso la condizione in cui si trovava prima che si cominciasse a sfruttare l'energia fornita dai combustibili fossili. In una società il fenomeno della stratificazione non è dovuto solamente a un ciclo economico di insostenibilità che giunge al tramonto: alla stratificazione sociale concorre anche la tendenza delle classi più abbienti della società ad adottare dei modelli di comportamenti escludenti — tanto più escludenti quanto maggiore è la loro ricchezza. Ciò spiega come mai nel XX secolo la crescita economica non abbia potuto eliminare del tutto le diseguaglianze sociali: in definitiva le risorse fondamentali sono rimaste nelle mani dei ricchi che si sono sposati con altri ricchi e sono riusciti a mantenere il controllo di buona parte del capitale. Simili modelli di esclusività sono particolarmente rilevanti nei periodi di espansione demografica. Se — per esempio — la popolazione di un paese nel giro di un secolo raddoppiasse, i ricchi diventerebbero più ricchi (perché di norma si sposano con altri individui facoltosi e i loro beni vengono distribuiti più o meno tra lo stesso numero di famiglie), mentre il reddito pro capite dei poveri subirebbe una significativa contrazione (perché lo stesso esiguo quantitativo di capitale dovrebbe servire a un numero doppio di persone). La conseguenza di questo fenomeno è una dilatazione ai due estremi della scala della ricchezza: i ricchi diventano più ricchi e i poveri diventano più poveri. Non è il matrimonio l'unica forma di comportamento escludente derivante dalla concentrazione delle ricchezze. I confini di classe, di condizione economica e di status sono rafforzati da una combinazione attiva di privilegio e meritocrazia. Chi è stato capace di raggiungere ottimi risultati in una generazione non solo trasmette la sua intelligenza per via genetica a quella successiva, ma mette a disposizione il proprio denaro per offrire ai propri figli la migliore istruzione, preparandoli a vivere scambi sociali con altri individui ricchi e di successo e incoraggiandoli a porsi come obiettivo della vita adulta il conseguimento di importanti risultati di ordine finanziario. Il risultato è che la nuova generazione, senza traumi né scossoni, va a occupare la stessa posizione occupata dai suoi predecessori. Un'altra forma di comportamento che tende a escludere i non ricchi è quella che porta le persone facoltose ad aggregarsi con membri della loro stessa élite: le posizioni di potere vengono affidate a individui scelti tra quelli che hanno un background similare. La verità, nuda e cruda, è che nella vita il simile si accoppia con il simile. Portato all'eccesso, questo tipo di atteggiamento sconfina nella corruzione e nel favoritismo politico. Basti pensare alla Russia post-comunista per vedere come un leader possa introdurre una forma di gerarchizzazione sociale a forza di gratificare la cerchia degli amici. Di recente è stato calcolato che il 35% delle ricchezze della Russia è concentrato nelle mani di appena 110 individui, la maggior parte dei quali ha una connessione di qualche genere con Vladimir Putin. Tutto questo mentre mezzo milione di russi vive in condizioni di schiavitù.
Recentemente al problema della stratificazione sociale e della
concentrazione della ricchezza ha dato rilievo dal punto di vista
extraeconomico Thomas Piketty in un saggio intitolato
Il capitale nel XXI secolo.
Una delle innovazioni introdotte da Piketty è un
metodo per confrontare la disuguaglianza nella distribuzione del
capitale in differenti periodi storici, consistente nel paragonare il
rapporto tra la ricchezza totale di una nazione e il suo reddito
nella valuta del tempo.
Nell'Europa del XVIII secolo questo rapporto superava il 650%; dopo un
decremento al 250% a metà del XX causato dai due conflitti mondiali, la
proporzione ha ripreso a
crescere a partire dal 1950, per raggiungere il valore odierno che
si aggira intorno al 550%. Ciò significa che al momento attuale,
come nell'Ottocento, il potere di guadagno relativamente maggiore è nelle mani
di chi già possiede delle ingenti ricchezze e, di
conseguenza, meno nelle mani di chi per vivere deve lavorare.
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