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| << | < | > | >> |IndicePrefazione. La parola del contatto di Ida Dominijanni 7 1. Maglia o uncinetto 51 Metafora e metonimia non sono sorelle gemelle 51 Loro concorrenza nella produzione simbolica 55 Pacificazione teorica 58 Il grado zero 63 La passione del significante secondo Lacan 69 Nell'orfanotrofio della ragione 77 2. Un corpo di qua, un corpo di là 83 L'esigenza di avere un'anima 83 Una molla rotta 86 La narratrice infedele 91 La divisione del lavoro nella produzione simbolica 98 Si può sempre imitare? 105 La traversata mescolatrice 111 3. Difesa dello schema povero 115 La matrice senza corpo e senza tempo 115 Letteralità ossessiva 122 Dal corpo senza legge all'ordine simbolico, ordinatamente 132 La domanda senza risposta 138 Sangue e caffè 142 4. Piacere e sapere di essere parte 151 Corpo che irrompe e corpo che tesse 151 La parola non rompe l'unità dell'esperienza 162 La complicità 173 L'amministrazione delle metafore 181 L'inversione del punto di vista 184 Il linguaggio è zoppo 189 |
| << | < | > | >> |Pagina 51METAFORA E METONIMIA NON SONO SORELLE GEMELLE Riprendendo una rinomata teoria esposta da Roman Jakobson negli anni Cinquanta, dirò che parlare è come lavorare a maglia. Per fare la maglia occorrono almeno due ferri. Quando si parla, dice Jakobson, si opera su due assi fondamentali: su uno si selezionano le unità linguistiche, sull'altro le si combina tra loro. Un testo sarebbe dunque una combinazione di segni selezionati, il suo senso essendo determinato dall'incrociarsi dei due assi. Uno, quello delle selezioni, è costituito da tutti i segni che sono associati al segno che compare e che non compaiono nel testo per il fatto che compare proprio quello. Saussure diceva: è la sfera dei rapporti in assenza, detta anche paradigma. L'altro sarebbe il sintagma, l'asse dei rapporti in presenza, dei segni che compaiono a costituire il testo combinandosi tra loro in vari modi. Fin qui niente di nuovo rispetto a Saussure. La teoria di Jakobson ha avuto risonanza per due ulteriori sviluppi. Primo, Jakobson ha avanzato l'ipotesi che i due assi corrispondano ai processi primari di ogni produzione simbolica. Secondo, egli ha ravvisato in due figure retoriche, la metafora e la metonimia, i procedimenti che caratterizzano, dal punto di vista semantico, l'asse delle selezioni e quello delle combinazioni. Ha parlato perciò di direttrice metaforica per l'asse delle selezioni e di direttrice metonimica per quello delle combinazioni. La teoria di Jakobson, oltre a suscitare un ritorno di interesse per la retorica, è stata ripresa anche fuori dalla linguistica. Lacan l'ha riconosciuta coincidente con la sua lettura di Freud, dell'inconscio che è linguaggio, assicurando così a metafora e metonimia una specie di popolarità. Ormai formano coppia fissa, non s'incontra mai l'una senza l'altra e io credo che molti non le distinguano più tanto bene - complice un meccanismo tipicamente metonimico che sbeffeggia le operazioni teoriche, come risulterà chiaro dal seguito. Una simile confusione è proprio all'opposto di quello che aveva in mente Jakobson il quale intendeva differenziare massimamente due figure retoriche tradizionalmente poste vicine. Vi ha contribuito, credo, il fatto che la sua teoria è stata amputata di una parte importante, quella in cui si dice che polo metaforico e polo metonimico si trovano in un rapporto che non è di pacifica complementarità ma di rivalità concorrente. La quale rivalità agisce nella produzione simbolica potendo manifestarsi nei prodotti con la prevalenza dell'uno o dell'altro polo. In altre parole, il modo della produzione simbolica si determina storicamente per una tensione tra due principi difformi che l'analisi teorica dichiara, quanto a sé, indecidibile. La tensione ha diverse possibili soluzioni che lo studioso rileva storicamente. La sua scienza entra nel gioco tra i due opposti principi simbolici, ma non ha il potere di deciderlo. Di questo spessore storico non c'è quasi traccia negli sviluppi avuti dalla teoria di Jakobson. E questo ha voluto dire che di fatto si è ristabilito il tradizionale primato della metafora. Infatti lo spazio simbolico si drammatizza storicamente, nel discorso di Jakobson, per la scoperta di una produzione di senso che può svilupparsi prevalentemente (e perfino esclusivamente) su quella che lui chiama la direttrice metonimica, risorsa occulta e occultata della produzione significante. Per spiegare meglio questo punto occorre riprendere l'esposizione quel tanto che serve a chiarire che cosa sono metafora e metonimia, molto semplicemente. Dunque, Jakobson chiama direttrice metaforica l'asse delle selezioni, metonimica quella delle combinazioni. La denominazione si giustifica avendo presente che cosa sono e in che cosa differiscono quelle due figure retoriche. Hanno in comune di essere espressioni che significano qualcosa di diverso dal loro senso; proprio prendendo il posto di un'espressione che sarebbe quella normale, abituale. Parlare di «rivoluzione» per dire un cambiamento radicale della società era una metafora quando l'espressione veniva usata propriamente per indicare un certo movimento dei corpi, in particolare di quelli celesti. Dire di una donna che «ragiona con l'utero» per dire che ragiona seguendo più le proprie emozioni che la logica, è una metonimia in quanto all'utero si può attribuire ed è stato attribuito il potere di turbare il pensiero razionale. In base ai due esempi è facile scorgere la differenza tra metafora e metonimia. Tra il moto dei corpi celesti e una radicale sovversione sociale, quelli che inventarono la metafora rivoluzionaria non supponevano che ci fosse un qualche collegamento materiale bensì una somiglianza internamente percepibile. La metafora rinforza la percezione di una somiglianza, anzi a volte la determina. Per questo è stata considerata la figura poetica per eccellenza, perché fa indefinitamente variare l'immagine delle realtà inventando collegamenti che una mente prosaica non avrebbe mai immaginato. Senza escludere la poesia, c'è da dire che il procedimento metaforico ha ben altre funzioni. Esso, in quanto ci fa superare il livello descrittivo dell'esistente e la particolarità dell'esperienza, sostiene ogni impresa di spiegazione, interpretazione e progettazione. Le teorie, comprese quelle politiche, si appoggiano su di esso per darci una rappresentazione unitaria e generale dei fatti che, nell'esperienza concreta, possono presentarsi scuciti, frammentari, o che intrattengono tra loro rapporti di cui la teoria riesce a dimostrare che sono irrilevanti. | << | < | > | >> |Pagina 77NELL'ORFANOTROFIO DELLA RAGIONEFinisce paradossalmente che proprio il discorso di Lacan costringa a pensare che tra l'ordine simbolico e l'ordine sociale esista una complicità non chiarita: servitù materiali che diventano esigenze logiche e, viceversa, condizioni della produzione simbolica che si traducono in imposizioni sociali. Una troppo felice coincidenza, non c'è dubbio, di cui è un po'difficile capire se sia integralmente effetto di uno straordinario exploit teorico o se non c'entri anche qualche manipolazione. I seguaci di Lacan vedono l' exploit, i critici cercano il trucco. Secondo me non si tratta esattamente né dell'una né dell'altra cosa. Quando Lacan teorizza che tutto si trova preso nelle macchinazioni del linguaggio: le istituzioni sociali come i comportamenti individuali o i rapporti sessuali fino alle più labili emozioni, nel loro svolgimento considerato normale come in quello deviante, non c'è quasi bisogno che abbia ragione in ciò che dice poiché con il suo discorso non fa che rendere vero ciò che comunque si sta verificando. Da Freud a Lacan, senza escludere gli sviluppi intermedi, la psicanalisi si è tenuta vicina, forse come nessun altro movimento o scuola di pensiero, al processo di disgregazione del corpo sociale in una somma di individui e della sua reintegrazione a forza di parole e immagini. Alcuni pensano che la frammentazione della società in atomi individuali dipenda dal modo di produzione capitalistico che comporta una socializzazione basata sullo scambio delle merci e non sul lavoro. Questa tesi si trova sviluppata da Sohn-Rethel in Lavoro manuale e lavoro intellettuale, dove si legge, tra l'altro: Come il capitalista borghese si serve della potenza sociale del suo capitale, così la mente empirica si serve della potenza del suo intelletto come di una proprietà personale, ad maiorem gloriam suam. A proposito dell'intelletto separato, Kant afferma chiaramente: "Nella ragione teoretica non vi è alcun motivo per dedurre l'esistenza di un altro essere", dove l'altro essere può significare Dio, il padre e la madre o tutti i nostri simili. La sintesi sociale unica, il cui mandatario è la "ragione teoretica", non lascia spazio alcuno ad una seconda sintesi, esattamente come l'universum non lascia spazio a un pluriversum, come la unicità dell'esistenza esclude una dualità o una pluralità. Ma dal punto di vista dello spirito individuale, la società si è così trasformata in un agglomerato di uomini singoli che non hanno alcuna necessità reciproca. Dunque fin dal Settecento un filosofo, Kant, aveva chiaro che l'esistenza di un altro essere, padre e madre compresi, è solo oggetto di fede (di qui, forse, la religione della famiglia?). Nella filosofia moderna, è noto, il problema dell'intersoggettività continuerà a ripresentarsi tormentosamente, insieme a quello - che Kant credeva risolto - della causalità naturale. In definitiva nel pensiero moderno non c'è modo di affermare, se non da chi ha una qualche fede, che tra due cose, due corpi, due fatti, esista una relazione materiale. Questo vicolo cieco della razionalità moderna trova la più concisa sanzione in una delle proposizioni iniziali del Tractatus di Wittgenstein, la 1.21: «Una cosa può accadere o non accadere e tutto l'altro restare eguale». E allora, se non possiamo dire di essere generati da una donna e da un uomo, se le cose che compriamo e usiamo non ci provano l'esistenza di chi le avrebbe prodotte, se il contatto dei corpi non ha una efficacia riconoscibile, da che cosa possiamo dire di essere fatti quello che siamo? Semplice, lo dice Lacan: dall'ordine simbolico. Il senso comune si rivolta a tale conclusione, ma poi proprio la gente ben provvista di senso comune ne offre ingenuamente le illustrazioni più patenti. In effetti la generazione fisica, i rapporti tra i corpi, la causalità naturale, come se li immagina il senso comune, sono per lo più fantasie difensive che vengono ricavate dall'immaginario collettivo. Parole che cercano di colmare il vuoto intervallo tra corpi, cose, fatti, e nelle quali c'è niente o poco niente di una materialità implicata e autonomamente produttiva di sapere. In una società la cui materializzazione va distruggendo i contenuti dello scambio sociale, la polemica tra i due principi della produzione simbolica sembra destinata a risolversi con la prevalenza del principio metaforico e la conseguente chiusura del linguaggio in una totalità fondamentalmente senza storia, così come si presenta in Lacan. È ben vero che Freud ha inventato un linguaggio e un luogo, la scena analitica, dove è possibile sapere che chi parla, oltre ad avere un corpo, è un corpo, generato da una donna e da un uomo, con una vicenda biografica rilevabile e una particolarità sessuale intrascendibile. La psicanalisi dunque ha messo alcuni individui e alcuni fatti in un rapporto che non sia l'aggregato di uno più uno più uno, ha dato un corpo e un sesso al discorso del soggetto razionale. Ed è stata, inutile dirlo, una scossa. Non bastante però a cambiare il modo della socializzazione né quello della produzione simbolica. Più che ad una intrinseca manchevolezza della psicanalisi, bisogna forse pensare ad un complesso di circostanze, per esempio il tardivo riconoscimento del materialismo psicanalitico. Ad ogni buon conto, invece della prevista sovversione dalla psicanalisi è venuto un ulteriore contributo all'immaginario collettivo circolante nel corpo sociale per la sua reintegrazione simbolica. Lacan ha voluto togliere la psicanalisi dalla funzione subordinata che la faceva fornitrice di illusioni o immaginazioni, per farne la teoria stessa della inevitabile smaterializzazione dei rapporti tra esseri umani e degli esseri umani con la natura. È chiaro che si tratta di un esito per certi aspetti distante se non opposto a quello che aveva in mente Freud. C'è però da dire che Lacan ci è arrivato in pochi passaggi. Come dice lui stesso, non ha fatto che tradurre la scoperta freudiana dell'inconscio nei concetti della linguistica strutturale, un'operazione di suo difficilmente criticabile in quanto essa si risolve nella eliminazione, dal discorso di Freud, del presupposto naturalistico di una materialità operante secondo leggi che sarebbero indipendenti dall'ordine simbolico. Il trucco, se di trucco si vuole parlare, sta nel fatto che, insieme al naturalismo dogmatico, si è persa di vista anche una produzione materiale che nella nostra società ha luogo senza sapere. Il presupposto naturalistico non poteva essere superato con esito diverso? Probabilmente sì, ma questo - di nuovo dipendeva e dipende da circostanze di cui il pensiero teorico non è padrone. L'insignificanza dei rapporti materiali, la docile rispondenza dei corpi alla parola interpretante, la mobilitazione fantomatica, queste non sono invenzioni di Lacan. Sono, praticamente, luoghi comuni della vita sociale. | << | < | > | >> |Pagina 91LA NARRATRICE INFEDELEA questo punto qualcuno verrà a dirmi che io vado fantasticando, come se potessero essere vergini, di cose corpi e fatti che invece sono da sempre già segnati dalla cultura e quindi non opponibili ai suoi schemi. Cosa vuol dire che i corpi potrebbero, dovrebbero tagliare di traverso l'espansione del metaforico? Dove sono i corpi, i piaceri, dov'è la natura estranea all'ordine simbolico? Riconosco subito che il mio discorso ha parecchie caratteristiche del linguaggio ipermetaforico, anzi di un ipermetaforico acritico, sto trascurando infatti le sue recenti versioni più sofisticate. Posso farlo perché, attraverso un linguaggio alquanto convenzionale, sto cercando di indicare. Indico delle cose e quelli che se le ritrovano nel proprio orizzonte, mi capiscono. Vuol dire allora che escludo gli altri e offendo il linguaggio nella sua più umana funzione? No, gli altri capiranno, solo un po' meno. Del resto capita sempre così, sempre la gente si dice, oltre a quello che dice, quello che ha in comune, sesso, soldi, cibo, cultura, interessi (fanno eccezione, come dirò poi, gli imitatori). Il «significabile» non è un limbo indeterminato, in esso si trova già la realtà circostanziata della nostra esistenza. Ho riproposto la teoria di Jakobson perché mi sembra che ci faccia fare un passo avanti rispetto al discorso che dice: non esiste una esperienza immediata originaria e quindi non ha senso appellarsi ai corpi, alle cose, alla vita, come istanze originali che si troverebbero oltre la realtà storicamente determinata. Giustissimo finché si tratta di confutare lo schema di una razionalità scientifica che si aggiudicava i titoli della verità superstorica postulando il carattere originario dell'esperienza. Un po' meno giusto quando la critica vuole colpire coloro che ad una realtà non traducibile in parole si richiamano perché il loro stesso parlare è per loro una traduzione mutilante. Può esserci una forzatura nell'ordine simbolico tale per cui di qualcosa in esso si rende conto imperfettamente e può esserci una forzatura nell'ordine sociale tale per cui alcuni si trovano mutilati per ciò di cui l'ordine simbolico non rende conto. La teoria di Jakobson dice che la produzione simbolica (la quale ovviamente significa tutto il significabile) si determina storicamente. Il simbolico dunque impronta di sé la realtà sociale essendone parte in causa. La sua non significabile parzialità - aggiungo io - resta inespressa ma ciò non toglie che ci sia ed abbia degli effetti. Si imprime su ciò che partecipa al processo simbolico senza potervisi significare. L'alterità, l'estraneità rispetto all'ordine simbolico è data da tutto quello che la sua forzatura lascia senza parole appropriate e che nel tentativo di esprimersi urta contro i suoi dispositivi o cade nel vuoto. Che ci sia dell'altro a me pare che si mostri - negativamente - negli appartamenti ritagliati in maniera scomoda, nelle farneticazioni del senso comune, nei trucchi della femminilità e ogni volta che il simbolico esercita in dettaglio la sua potenza macchinatrice. Perché lí, nei suoi banali trionfi quotidiani, si vede come la produzione simbolica proceda in coincidenza con precise imposizioni di ordine sociale da cui però è difficile sganciarla senza provocare un dissesto di proporzioni non calcolabili. Li si vede che sono molte le cose, del grande gioco linguistico, che non possono essere messe in gioco. | << | < | > | >> |Pagina 115LA MATRICE SENZA CORPO E SENZA TEMPO Vorrei qui rispondere ad una critica che mi è stata fatta e che per certi aspetti è contraria a quella che ho già considerato sui corpi che non sono mai vergini di parola. Per trovare se e come si dia un parlare segnato dai suoi moventi materiali e, come tale, fonte di intelligenza sul mondo, io uso uno schema - questa la critica - che è troppo povero: non comprende l'eterogeneità intrinseca e forse costitutiva del linguaggio, non sa né può sapere nulla del processo della materia che si fa significante. Secondo Kristeva lo strutturalismo avrebbe evacuato dal semiotico la pulsione. Tornerò poi su Kristeva e questa affermazione, il cui significato per altro si lascia subito intuire. Allo schema degli assi incrociati manca sicuramente qualcosa, tant'è che il suo impiego nella ricerca linguistica ha richiesto vari aggiustamenti. Secondo i linguisti della scuola di Chomsky, si è visto, mancante è la dimensione delle operazioni teoriche in quanto distinte dalla analisi del testo. Per chi muove l'obiezione che dicevo, ciò che manca allo strutturalismo è invece la dimensione della generazione materiale del segno e del testo, e quindi della costituzione del soggetto parlante in quanto anche soggetto storico. I limiti dello strutturalismo e in particolare dello schema da me adottato mi sono noti. Ma essi in definitiva mi appaiono più interessanti dei superamenti tentati anche con successo. Risponderò così, motivando una preferenza. Con una premessa. Una teoria di cui si è scoperto questo o quel limite non esige per tanto di essere sostituita né il suo eventuale superamento passa per forza attraverso un potenziamento del suo apparato teorico. Il superamento teorico è un movimento relativo. Tra i fattori che relativizzano le conquiste teoriche io metto anche le procedure di conoscenza di cui uno dispone praticamente. C'è chi lavora nei laboratori di linguistica, chi fa scuola agli analfabeti, chi cerca le parole per formulare un desiderio ecc. Tutti, si può dire, ci poniamo dei problemi linguistici e, benché sia probabile che questi problemi siano tra loro collegati, non è per niente sicuro che i concetti più rispondenti in una data situazione lo siano anche in un'altra. Io dunque ho una preferenza per lo schema strutturalistico benché sia visibilmente mutilato. Anzi, proprio perché lo è. Anche nella vita comune ho una certa inclinazione per le mutilazioni, le cicatrici, le deformità. Un corpo impedito o sminuito mi pare che prometta più di un corpo perfetto. Però deve trattarsi di un difetto sensibile, i corpi felicemente passati attraverso la cosiddetta castrazione simbolica non hanno quel fascino lí. Il passaggio dalla linguistica strutturale a quella generativa di Chomsky è paragonabile a una castrazione simbolica: ridimensionare una pretesa eccessiva e acquistare in tal modo potenza e produttività, con un'operazione che ripete, a distanza di quasi quattro secoli, il gesto inaugurale della scienza moderna. | << | < | > | >> |Pagina 189IL LINGUAGGIO È ZOPPOL'enigma è del nostro essere corpo e essere parola, insieme. Noi attenuiamo l'enigma quando diciamo di «avere» un corpo. In passato si è cercato di pensare che sia veramente così, cioè che: siamo parola (pensiero, mente, anima) e che abbiamo un corpo (con tutto quello che un corpo comporta). A pensarci bene, non sarebbe sbagliato, infatti il corpo ci risulta eterogeneo al pensiero e se uno si mette a pensare se stesso, inevitabilmente si riconosce in ciò che è trasparente al pensiero, che è il suo stesso essere pensiero. Ma è giusto solo in quanto uno ci pensa e si pensa. Non è più giusto allorché ci si accorge che uno, quando pensa e si pensa, è anche, inestricabilmente pensato da altri e da altro. Così è stato scoperto, nella nostra cultura, il nostro essere corpo. La scoperta di un paradosso non può che assumere la forma di un paradosso. Per di più la scoperta è stata fatta dall'interno di quello che chiamavo regime di ipermetaforicità - altrimenti non ci sarebbe stata... Di conseguenza la sua formulazione ha preso i termini propri di tale regime. Il nostro «essere parlati» dal corpo vi è stato concepito come l'esatto inverso del nostro essere parlanti del corpo: noi parliamo il mondo e intanto il mondo ci parla, noi ci rappresentiamo noi stessi e intanto quello che noi siamo, senza sapere di esserlo, si rappresenta nel nostro parlare. Soggetti attivi in quanto pensanti, passivi in quanto «pensati», passivi mentre ci pensiamo attivi, e viceversa. Questa specularità, di un essere corpo che opererebbe sul nostro essere parola quello che il linguaggio opera sul mondo - che è di farne materia significante per il proprio significarsi - presuppone che il linguaggio sia il principio della separazione tra essere corpo e essere parola. Ma non è così, perché il linguaggio, oltre a riprodurre in sé l'enigma nella divisione significante/significato, lo riprende ed elabora nella doppia generazione del significato. Il linguaggio conosce nella sua stessa natura il nostro essere insieme corpo e parola, e mentre asseconda ogni tentativo di risolvere l'enigma, lo accoglie, gli dà alloggio e ce lo rende, oltre che riconoscibile, praticabile.
Secondo me, abbiamo ancora da scoprire quanta intelligenza possa venire dal
nostro essere corpo e quale stretto legame ci sia tra piacere e sapere. Ma
l'idea di questa possibilità ce l'abbiamo, ce la suggerisce il linguaggio con la
sua difformità costitutiva, la sua sghemba andatura, il suo insormontabile
squilibrio.
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