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| << | < | > | >> |IndiceElogio dell 'impertinenza 7 Storia e politica 11 Intervista a Hitler 13 Siamo tutti africani 18 L'altra Grecia, quella vera 22 Nostradamus, ciarlatano 26 Memorandum per un gesuita 30 Abiura di Galileo 34 Una storia esplosiva 38 La dannata Terra Santa 43 Non siamo tutti americani 48 L'esperimento 54 Né con i clown, né con i cloni 58 Intervista a Chomsky 65 Religione 71 Intervista a Gesù 73 Do you believe in magic? 78 Una fede cerebrale 82 Parole, parole, parole 86 E venne un mito chiamato Gesù 91 La leggenda del Santo Grullo 96 Le streghe siamo noi 100 Alla corte dei miracoli 105 Che fine ha fatto Dio? 109 Siamo brillanti, non cretini! 116 Intervista al Dalai Lama 121 Lingua e letteratura 125 Intervista a Dante 127 Scrivere idee e suoni 132 Una lingua non biforcuta 137 Nàbokov, Nabòkov, Nabokòv 141 Chi rubò? 146 Il Signore degli Strani Anelli 150 I rifiuti della letteratura 154 L'invidia della penna 158 L'enciclopedia impossibile 162 Intervista a Saramago 164 Logica 171 Intervista ad Aristotele 173 Sfidare Dio a duello 178 La logica come igiene mentale 182 Paradossi del 16 giugno 185 Introduzione alla filosofia matematica 189 Il racconto della logica 193 Elementare, Watson 196 La logica a teatro 200 Intervista a Kripke 203 Matematica 209 Intervista ad Archimede 211 Tre re matemagici per un'Epifania 215 Una solida bellezza 219 La sezione aurea 223 L'invidia del pennello 227 Com'è piccolo il mondo! 230 Parole a caso 234 Formule sibilline 239 Zero, e così sia 244 Virgola, e a capo 248 Lo scacchista ideale 250 Scacco all'uomo 254 Intervista a Nash 258 Scienze 267 Intervista a Newton 269 Bei tempi 274 Il legislatore planetario 279 Introduzione alla relatività 284 Il genio buffone 288 Fisica co(s)mica 292 Le affinità deduttive 296 Il bimotore a elica della vita 301 Attacco nucleare 305 Siamo tutti scimmie 309 Il mondo è bello perché è vario 313 Alcune domande da porci 317 Intervista a Watson 321 Non abbiate paura 329 Indice dei nomi 333 |
| << | < | > | >> |Pagina 30Nel 1595 padre Matteo Ricci, il primo missionario al quale i cinesi avevano aperto le porte del Celeste Impero, li stupì con un'esibizione che egli stesso racconta orgogliosamente: Essi scrissero molti ideogrammi, io li lessi una volta sola e riuscii poi a ripeterli tutti a memoria nell'ordine esatto in cui erano stati scritti. Rimasero tutti a bocca aperta, perché parve loro una grande impresa. E allora, per aumentare il loro stupore, io presi a recitarglieli tutti allo stesso modo, ma questa volta dalla fine al principio. E tutti furono entusiasti, e parevano fuori di sé dall'emozione. Benché fosse un gesuita, Matteo Ricci non faceva miracoli: la sua memoria prodigiosa era il frutto di una tecnica precisa, che consisteva nell'associare vivaci immagini visive alle cose e alle parole da ricordare, e nel disporle e conservarle in luoghi mentali dai quali potevano essere estratte a piacere. E proprio questa tecnica che dà il titolo alla biografia Il palazzo della memoria di Matteo Ricci di Jonathan Spence (Saggiatore, 1987). Ed è ancora questa tecnica che lo stesso Ricci descrisse nel 1596 in un libretto in cinese, a beneficio degli aspiranti mandarini che dovevano memorizzare i 600.000 caratteri dei cinque classici sui quali si basavano gli esami, e che ancor oggi si vedono incisi su una foresta di steli nel cortile del Collegio Imperiale a Pechino. L'arte della memoria, alla quale Frances Yates ha dedicato un classico studio omonimo (Einaudi, 1972), era non solo ben nota in Europa ai tempi di Ricci, che l'aveva imparata da studente al Collegio Gesuitico di Roma, ma anche oggetto di critiche feroci. Da un lato, era stata messa alla berlina da Rabelais in Gargantua e Pantagruele come un futile mezzo per ricordare tutto senza imparare niente. Dall'altro lato, Francesco Bacone l'aveva attaccata come un funambolico esibizionismo di tassonomie, invece che di classificazioni. A Ricci, comunque, essa offrì la possibilità di arrivare a padroneggiare velocemente e perfettamente il complicato sistema di scrittura dei caratteri, e di registrare in memoria una biblioteca che gli sarebbe stato impossibile trasportare fisicamente in Cina. A questo proposito, ancora alla fine dei suoi giorni egli scriverà: «Io mi trovo in tanto mancamento di libri, che il più delle cose che io stampo, sono quelle che ho nella memoria». Il più, ma non tutte, perché qualche testo di matematica Ricci l'aveva portato con sé. Ma nel 1600, durante il viaggio di avvicinamento a Pechino, se li vide confiscare tutti perché, come egli stesso scrisse: «In Cina è proibito sotto pena di morte studiare matematica senza l'autorizzazione del re». I volumi gli furono restituiti per errore l'anno seguente, ed egli poté così dedicarsi fra l'altro a tradurre con il suo discepolo Xu Guangqi i primi sei libri degli Elementi di Euclide, che furono pubblicati nel 1607 con la seguente avvertenza: Riguardo a questo libro, quattro cose sono inutili: dubitare, congetturare, verificare, modificare. E quattro cose sono impossibili: rimuovere qualche passaggio, refutarlo, accorciarlo o spostarlo altrove. Questa fu soltanto la più nota delle traduzioni matematiche di Ricci, che spaziarono dalla trigonometria all'algebra, e furono tutte effettuate con la stessa tecnica: spiegando il contenuto ai collaboratori cinesi, che poi trascrivevano ciò che avevano capito. Questi libri posero fine alla fase autarchica della matematica cinese e contribuirono a procurare a Ricci una grande fama, testimoniata dal fatto che egli fu uno dei pochissimi stranieri ad avere l'onore di essere biografato nella storia ufficiale. Forse ancor più che per i suoi lavori matematici, la gloria di Ricci derivava dalla sua famosa Grande Mappa dei Diecimila Paesi del 1602, in proiezione sferica schiacciata, che mostrò per la prima volta ai cinesi l'estensione del mondo conosciuto (abbellito da un'immaginaria isola del Friesland) e la posizione della Cina in esso. Una copia gigante del mappamondo, in sei pannelli separati, finì appesa alle pareti del palazzo imperiale a Pechino. Molte altre riproduzioni circolarono liberamente, contribuendo a dare un grande impulso alla cartografia cinese. A proposito di geografia, Ricci fu il primo a credere che la Cina a cui si arrivava per mare non fosse altro che il Catai a cui era arrivato Marco Polo per terra. Per confermare l'ipotesi il gesuita Benito De Goes intraprese nel 1602 un viaggio che doveva portarlo dall'India a Pechino. Morì nel 1607 prima di completarlo, ma riuscendo comunque a raggiungere la Grande Muraglia e a comunicare per lettera a Ricci di aver finalmente dimostrato che «non vi è altro Catai, né mai vi fu se non la Cina, e la città di Pechino è Cimbalù, e il re della Cina il Gran Cane». Avendo studiato a Roma sotto la guida di Clavio, il famoso astronomo al quale si deve la riforma del calendario adottata da Gregorio XIII nel 1582, Ricci si interessava anche ovviamente di astronomia. In questo campo, però, lo scambio fu meno proficuo, in parte a causa dei fraintendimenti generati dal fatto che i sistemi europeo e cinese erano sostanzialmente ortogonali: eclittico e basato sull'osservazione delle costellazioni zodiacali il primo, equatoriale e fondato sullo studio delle stelle circumpolari il secondo. Alla base di questi fraintendimenti c'era un evidente complesso di superiorità dei gesuiti, testimoniato ad esempio da ciò che lo stesso Ricci scrisse a proposito degli impressionanti strumenti astronomici cinesi risalenti al tredicesimo secolo, che erano allora usati nei «Collegi dei Matematici» e ancor oggi si possono vedere nel Museo Nazionale di Astronomia di Pechino: «I loro strumenti sono tutti fusi in bronzo, lavorati con grande perizia e superbamente adorni, così grandi ed eleganti che padre Matteo non ne aveva mai visti di migliori in Europa. Senza essere avventati possiamo dunque supporre che fossero l'opera di qualche straniero cui le nostre scienze erano familiari». Ancora di peggio si legge nelle due lettere che «padre Matteo» scrisse il 28 ottobre e il 4 novembre 1595 a proposito delle «assurdità» dei cinesi, tra le quali elencava le seguenti: «Vi è un unico cielo (e non dieci). È vuoto (e non solido). Le stelle si muovono nel vuoto (invece di essere incastonate al firmamento). Dove noi diciamo che vi è aria (tra le sfere), affermano che vi è uno spazio vuoto», e così via. Più in generale, come riassunse Needham nella sua monumentale Scienza e civiltà in Cina (III.437), «la venuta dei gesuiti non fu affatto (come spesso si è cercato di far credere) una genuina benedizione per la scienza cinese». Non parliamo poi della religione, visto che i gesuiti erano sopra e prima di tutto dei missionari. Ricci cercò di contrabbandare il cristianesimo come il fondamento (teo)logico della scienza occidentale, e di usare i successi di questa (ad esempio, la superiore capacità predittiva delle eclissi) come prove della validità di quella: un evidente non sequitur al quale i cinesi non abboccarono, facendo giustamente rilevare che «le sue sofisticate argomentazioni erano solo intelligenti giochi di parole». Nonostante il lento progredire delle conversioni, a un certo punto Ricci sognò di poter convertire lo stesso imperatore Wanli: in realtà non riuscì mai nemmeno a vederlo di persona, e quando nel 1602 fu ricevuto a corte dovette accontentarsi di prostrarsi di fronte a un trono vuoto. In ogni caso, le reciproche percezioni religiose costituirono una vera e propria commedia degli equivoci, il cui copione si può leggere in Cina e cristianesimo di Jacques Gernet (Marietti, 1984): ad esempio, mentre i cinesi confusero i cristiani con i musulmani per la barba che portavano, i missionari scambiarono il Sovrano del Cielo confuciano per Dio e la dea buddhista Guanyi per la Madonna. Nonostante le reciproche difficoltà di comprensione, la porta di comunicazione fra le scienze e le religioni europee e cinesi si era comunque ormai aperta. La vita di Matteo Ricci si chiuse invece a Pechino nel 1610, tappa finale di un viaggio di sola andata iniziato a Lisbona nel 1578, che l'aveva condotto ad approdare in Cina nel 1583 e a raggiungere la capitale nel 1601, dopo un lento avvicinamento geografico che può essere considerato la metafora di un'altrettanto lenta scoperta culturale. | << | < | > | >> |Pagina 38Una risoluzione del Congresso degli Stati Uniti, datata 19 ottobre 1984, stabilisce: «E da considerarsi atto di terrorismo qualsiasi attività che: a) implichi un'azione violenta o pericolosa per la vita umana, che costituirebbe un crimine se commessa all'interno degli Stati Uniti; b) sia rivolta a intimidire la popolazione civile con l'uso della forza, o a influenzare in modo coercitivo la politica di un governo». Secondo questa definizione, i più efferati atti di terrorismo della storia dell'umanità sono stati dunque perpetrati dagli stessi Stati Uniti, con le più potenti armi di distruzione di massa fino ad oggi costruite, il 6 e 9 agosto 1945 in Giappone. Infatti, se la matematica non è un'opinione, il rapporto fra i trecentomila morti causati dai due attentati atomici statunitensi a Hiroshima e Nagasaki, e i tremila dei due attentati aerei di Al Qaeda alle Torri Gemelle di New York, è di cento a uno: il che attribuisce un sapore orwelliano, ironicamente sottolineato dall'anno della risoluzione citata, alla crociata contro il terrorismo e le armi di distruzione di massa intrapresa dall'amministrazione Bush. Una crociata che, a proposito di popolazione civile, ha già causato nel solo Iraq, dal 20 marzo 2003 al 30 gennaio 2005, cioè dal giorno dell'invasione statunitense a quello delle prime elezioni, tra i 16.000 e i 18.000 morti (vedi il sito www.iraqbodycount.net). Per quanto se ne sa, gli Stati Uniti non hanno più usato armi nucleari dopo la fine della seconda guerra mondiale, ma nei sessant'anni del periodo postbellico il confine tra armamenti convenzionali e atomici si è enormemente assottigliato. Lo dimostra, ad esempio, la sindrome del Golfo seguita alla guerra del 1991, che ha colpito i civili iracheni e i militari di entrambe le parti, causando a loro intossicazioni, cancri e leucemie, e alla loro prole malformazioni genetiche simili a quelle manifestatesi a Hiroshima e Nagasaki: bambini nati senza faccia, occhi, tiroide, arti o cervello, o con organi anormali, abnormi, raddoppiati o nel posto sbagliato. In parte la sindrome è stata causata dagli effetti dell'uranio impoverito, usato in enormi quantità nelle guerre dell'ultimo decennio: non solo in Iraq (dalle 300 alle 900 tonnellate), ma anche in Somalia, Bosnia, Kosovo e Afghanistan. I carri armati colpiti da questi proiettili, invece di essere semplicemente perforati, sono però spesso praticamente fusi, e rimangono radioattivi: poiché è stato sempre impedito agli osservatori di prelevare campioni da analizzare, si può facilmente immaginare che ci sia sotto qualche segreto militare. D'altronde, nel marzo del 2002 Bush ha ufficialmente autorizzato lo sviluppo di minibombe atomiche, probabilmente innescate da raggi superlaser o da compressioni magnetiche. È dunque ormai passata molta acqua del fiume del tempo sotto il ponte della tecnologia bellica, da quando gli scienziati alleati si riunirono a Los Alamos, nel deserto del New Mexico, per concepire e partorire la prima bomba atomica della storia, sotto il comando del generale Leslie Groves e la direzione del fisico Robert Oppenheimer. Tanta acqua, che diventano ormai sempre più rari i testimoni oculari, in grado di raccontare storie di prima mano sulla vicenda che fece «conoscere il peccato» ai fisici e liberò lo «splendore dei mille soli» dall'atomo, secondo due storiche espressioni dello stesso Oppenheimer. In un'appassionante inchiesta giornalistica, Stefania Maurizi è invece riuscita a scovare ben dieci disparati testimoni oculari (alleati, nazisti, stalinisti, colombe, ultrafalchi, spie, donne), alcuni dei quali ormai quasi centenari, e li ha intervistati in Una bomba, dieci storie (Bruno Mondadori, 2004): una serie di racconti in prima persona, che aggiungono particolari sempre interessanti, spesso significativi, e a volte addirittura inediti, alla percezione di una vicenda che, evidentemente, non è ancora stata tutta raccontata. [...] | << | < | > | >> |Pagina 100Tra le tante mitologie magiche che molestano l'infanzia, da Gesù Bambino a Harry Potter, le streghe hanno certamente un ruolo importante. Prima fra tutte, naturalmente, la regina cattiva di Biancaneve e i sette nani dei fratelli Grimm o di Walt Disney, che interroga lo specchio magico per sapere chi è la più bella del reame, e cerca di mettere fuori gioco la rivale con una mela avvelenata. Tra le altrettante mitologie magiche che infestano la vita adulta, dal Gesù adulto al mago Rol, le streghe ricoprono invece un ruolo secondario, principalmente nella letteratura classica: dalle streghe di Eastwick del Macbeth di Shakespeare o di Verdi, intente a preparare pozioni magiche in un calderone, a quelle della notte di Valpurga nel Faust di Goethe, scatenate in un sabba nella foresta. Nessuna di queste ha però molto a che fare con le streghe «vere»: quei nove milioni di donne, cioè, che furono uccise fra il 1484, anno della bolla Summis desiderantes di Innocenzo VIII, che scatenò il carnaio, e il 1782, anno dell'ultimo rogo a Glaris, in Svizzera, perché ritenute complici del diavolo e sovvertitrici dell'ordine religioso e morale, in quella caccia alle streghe che costituisce uno dei capitoli più perversi della pur nutrita storia delle vergogne del Cristianesimo in generale, e della Santa Inquisizione in particolare. Naturalmente, essendo orchestrati da un clero di eunuchi repressi e pervertiti, i processi che accusavano le streghe vertevano principalmente su crimini di natura sessuale: si imputava loro di causare infatuazioni illecite, impotenze e sterilità, in seguito a un patto col diavolo. Questo era sancito tramite un rapporto sessuale col Maligno, e veniva suggellato da un «marchio del diavolo» sulla pelle, attraverso il quale gli animali che questi assegnava alle streghe come servi (cani, gatti, rospi, civette, topi) potevano succhiare loro il sangue. Nèi, verruche e cicatrici erano segni sospetti, soprattutto se situati nelle parti intime. Venivano cercati sul corpo rasato e depilato, e una volta trovati erano posti alla prova mediante uno spillone: se non sanguinavano, o erano insensibili al dolore, confermavano il patto col diavolo. A volte gli specialisti, come il famigerato seicentesco dottor Hopkins, usavano aghi retrattili per raggiungere la «prova». Un tratto caratteristico delle streghe erano i loro voli notturni, che la Chiesa attribuiva al potere del demonio, e la mitologia fiabesca a una serie di diavolerie (sedie, pali, bastoni, manici di scopa) spalmate di porcherie (belladonna, aconito, cicuta, grasso bollito di bambini non battezzati). Le destinazioni di questi voli erano i sabba, nei quali avvenivano danze e orge selvagge. Per raccapezzarsi fra tante idiozie, c'era addirittura un manuale del bravo cacciatore di streghe: il Malleus maleficarum (Martello delle malefiche), pubblicato nel 1486 e scritto da due domenicani tedeschi, Jacob Sprenger e Heinrich Kramer. Tra le altre cose, i due aguzzini dichiaravano che «la stregoneria deriva dalla lussuria della carne, che nelle donne è insaziabile», e raccomandavano di estorcere le confessioni sotto tortura con promesse di clemenza, poi invariabilmente disattese. I fenomeni di stregoneria erano di due tipi, a seconda che coinvolgessero suore o altre lunatiche in calore, oppure povere donne innocenti. Queste ultime erano spesso levatrici o bambinaie, sospette per la loro vicinanza ai bambini; oppure cuoche o guaritrici, sospette per il loro uso di ricette e intrugli. In genere si trattava di donne nubili o vedove, ritenute particolarmente vulnerabili ai richiami della carne, e facili prede del demonio travestito da bel giovane. [...] | << | < | > | >> |Pagina 105Il 26 giugno 2000 a Fatima abbiamo potuto godere, in mondovisione, della migliore approssimazione moderna all'antica cerimonia dell'apoteosi imperiale, istituita in origine nel 324 p.e.V. per il divino Alessandro Magno. Quel giorno, alla propria augusta presenza, Giovanni Paolo II è stato infatti ufficialmente proclamato soggetto della terza profezia di Fatima, e oggetto delle personali attenzioni della Madonna. Già lo stesso pontefice aveva personalmente dichiarato, il 13 maggio 1994, che nell'attentato del 13 maggio 1981 «fu una mano materna a guidare la traiettoria della pallottola, e il papa agonizzante si fermò sulla soglia della morte». Ma nell'apoteosi giubilare fu istituito un esplicito parallelo tra i fatti di piazza San Pietro di fine secolo, e le profezie di Fatima di inizio secolo: in particolare, incastonando il proiettile nella corona della statua della Madonna. Il «terzo segreto» risale al 1917, e la sua tempestiva trascrizione al 1944: in essa si parla di un vescovo vestito di bianco che scala una montagna coperta di rovine, e giunto sulla cima vicino a una croce viene ucciso da soldati con pallottole e frecce [sic], insieme ad altri preti e fedeli. Come queste parole si possano adattare a un colpo di pistola sparato su una piazza in perfetto ordine, vicino a un obelisco, al solo papa, che non morì, bisogna chiederlo al cardinal Ratzinger (ora Benedetto XVI), che ne ha fornito per l'occasione un'illuminante interpretazione autentica. A dire il vero, un mistero in tutta la faccenda c'è, effettivamente, ed è cosa mai ci facesse la Madonna di Fatima a Roma. A meno di non postulare un'inedita proliferazione virginale, le varie Madonne del globo dovrebbero infatti essere tutte la stessa persona, che prende semplicemente il nome dal luogo dove appare: non si può dunque venerarne una in particolare, come dichiara invece di fare il papa con quella di Fatima, e meno che mai la Madonna di X può stare nella località Y. Questa è dunque la confusa logica che sta dietro ai miracoli, e che la Chiesa non limita affatto a eventi sporadici come quello glorioso appena descritto. A parte il rinnovarsi quotidiano del miracolo della transustanziazione, nelle chiese di ogni ordine e grado, è infatti ben noto che Giovanni Paolo II ha proclamato, in un quarto di secolo, circa 1350 beati e 500 santi, a fronte dei 1319 beati e 296 santi dei suoi 33 predecessori dal 1558, quando furono fissate le procedure: le quali richiedono un miracolo per ogni beatificazione, e un altro miracolo per ogni canonizzazione. Ma cosa sono, dunque, questi miracoli, che secondo la Chiesa avvengono a ogni piè sospinto? È proprio a rispondere a questa domanda, che è dedicato Spiegare i miracoli di Maurizio Magnani (Dedalo, 2005): un libro che dovrebbero leggere non tanto gli scettici, i quali non hanno maggior bisogno di motivazioni per non credere ai miracoli di quanto ne abbiano per non credere agli elfi o ai maghi, ma soprattutto coloro che da un lato ai miracoli ancora ci credono, e dall'altro già vivono in un mondo scientifico e tecnologico. Perché, diciamoci la verità: di fronte ai miracoli veri che la scienza e la tecnologia quotidianamente ci forniscono, dalle medicine ai viaggi intercontinentali, quelli supposti che provocano la meraviglia, la sorpresa, lo stupore che costituiscono il significato etimologico sia del greco thàuma che del latino miraculum, non sono che veri e propri «scherzi da prete». E, come diceva Totò, se le cose vere le mettiamo di qua, le supposte dove dovremmo metterle? Che qualcosa di poco convincente nei miracoli ci sia, lo sanno tutti. Non solo i provocatori come Émile Zola, il quale faceva notare che fra gli ex voto di Lourdes ci sono molte stampelle, ma nessuna gamba di legno. Ma anche gli idiots savants come Vittorio Missori, che infatti ha dedicato un intero libro a sostenere che, udite udite, una volta, nel 1640, in Spagna, una gamba sembra veramente essere ricresciuta a un contadino, al quale qualcuno l'aveva amputata dopo un incidente: con quanta attendibilità lo dimostra Magnani, fin dall'inizio del suo libro. Così come dà, in seguito, le cifre del «fenomeno Lourdes»: un business che, in centocinquant'anni, ha portato nella cittadina dei Pirenei un numero imprecisato, ma vicino ai trecento milioni, di fedeli (perché, diversamente da quella di Fatima, la Madonna di Lourdes non sembra fare servizio a domicilio). Di questi, almeno una ventina di milioni erano malati di varia gravità, ma soltanto 66 hanno ufficialmente ottenuto il miracolo della guarigione: dunque, una percentuale di uno su 300.000, nettamente inferiore a quella delle remissioni spontanee delle malattie croniche, cancro compreso, che è di circa uno su 10.000. Detto altrimenti, i malati guariscono miracolosamente, cioè inspiegabilmente, trenta volte di più se stanno a casa che se vanno a Lourdes! Guarigioni a parte, i miracoli che maggiormente sembrano attirare le attenzioni dei devoti sono fenomeni quali il sangue di san Gennaro, nonostante il CICAP (il Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sul Paranormale fondato da Piero Angela) venda ormai da anni boccette di soluzioni tissotropiche, analoghe alla salsa ketchup, che lo riproducono perfettamente, secondo un procedimento che è stato pubblicato nel 1991 nientemeno che sulla rivista Nature: quella, per intenderci, sulla quale Watson e Crick pubblicarono la scoperta della doppia elica. La cosa non deve comunque stupire: quando Paolo VI prese posizione contro la natura miracolosa del fenomeno, sembra che sui muri di Napoli sia apparsa la scritta: «San Genna', futtitenne». E se se ne fotte il santo, non possono farlo anche i fedeli? [...] | << | < | > | >> |Pagina 150Come i premi Oscar 2004 hanno definitivamente consacrato la saga cinematografica del Signore degli anelli, così l'«Oscar» Einaudi 2004 Incontri con la Sfinge definitivamente incorona Stefano Bartezzaghi «signore degli strani anelli»: di quelle figure letterarie, cioè, che Douglas Hofstadter definì in Gödel, Escher, Bach come «andirivieni per i livelli di qualche sistema gerarchico, alla fine dei quali possiamo anche inaspettatamente ritrovarci al punto di partenza». Un tipico esempio di questi andirivieni è una frase del tipo: «Per i romani sopportò troppo, sin a morire». A noi, comuni mortali ancora vivi, sembra un'innocua descrizione delle gesta di Attilio Regolo. Ma quelli che hanno i geni giusti (come evidentemente deve averli Bartezzaghi, che è figlio e fratello di due famosi cruciverbisti) si accorgono che se si prende la «p» iniziale, la si mette al fondo, e si legge il tutto al contrario, da destra a sinistra, si riottiene la stessa frase di partenza! Un altro tipico esempio è la definizione di quell'omonimo di Bartezzaghi che fu Stefano Protomartire: «Santo morto fra pietre». Di nuovo la cosa a noi sembra innocua, fino a quando l'omonimo dell'omonimo ci fa lapidariamente notare che in realtà definizione e nome usano esattamente le stesse lettere, in due diversi ordini. E poi ci fa rabbrividire, ripetendo il gioco con l'onorevole Giulio Andreotti e «un gelido Totò Riina». Di un genere abbastanza diverso è invece l'indovinello diffuso all'inizio della seconda guerra mondiale: «Mussolini, Hitler, Chamberlain, Daladier: chi vincerà?» Difficilmente una persona normale arriverà da sola alla soluzione, che consiste nell'incolonnare le sei parole su sei righe, e leggere in verticale le lettere che compaiono sulla terza colonna, dalle quali miracolosamente sorse allora, e risorge ora, l'amato nome del compianto compagno Stalin. E assolutamente eccezionale, come un indovino di corte nell'antichità, o uno psicanalista nella modernità, dev'essere chi voglia interpretare «correttamente» il sogno che Alessandro Magno avrebbe fatto durante l'assedio di Tiro: si trattava di un satiro danzante su uno scudo, che secondo le ferree e scientifiche regole dell'oniromanzia venne ridotto alla parola sátyros, poi affettata in sa e tyros, e tradotta in «Tiro è tua». Ovvero, in hoc sogno vinces. [...] | << | < | > | >> |Pagina 164José Saramago è stato il primo portoghese a vincere il premio Nobel per la letteratura. E l'ha vinto, nel 1998, perché «con parabole sostenute da immaginazione, compassione e ironia ci mette continuamente in grado di apprendere un'elusiva realtà». Una di quelle parabole, un religioso Vangelo secondo Gesù Cristo scritto da un ateo, fece stracciare nel 1992 le vesti ai farisei portoghesi e spinse lo scrittore in un esilio volontario alle Canarie, dove da allora vive.
Saramago conosce bene l'Italia, della quale ha scritto in
Manuale di calligrafia e pittura,
e che visita spesso e volentieri.
Noi l'abbiamo intervistato a Milano il 26 febbraio 2003, in occasione di una di
queste visite, e abbiamo ripercorso con lui le tappe salienti
dell'impressionante produzione letteraria di un autore straordinario non
soltanto per la sua ispirazione e il suo stile, ma anche per la sua formazione.
Lei non ha studiato lettere, ma meccanica. Anzitutto, come mai? Se «studiare lettere» significa frequentarne la facoltà, allora bisogna dire che non l'ho studiata, visto che non ho fatto l'università. Ma bisogna anche dire che non ho studiato «meccanica», nel senso profondo del termine, perché l'Istituto Tecnico (secondario, non superiore) in cui mi formai aveva un programma molto diversificato, con materie quali portoghese, francese, letteratura, matematica, fisica, chimica, scienze naturali, disegno tecnico, laboratorio (di tornitoria meccanica)... Per difficoltà economiche non proseguii gli studi che avrebbero potuto fare di me un ingegnere. Il mio primo lavoro fu dunque, di tornitore meccanico: operaio, cioè. Che influsso hanno avuto questi studi sulla sua produzione letteraria? Penso, ad esempio, alle descrizioni della costruzione dell'edificio e della macchina volante nel Memoriale del convento. Più che i miei studi, che come ho detto non meritavano di essere chiamati «scientifici», ho usato documenti dell'epoca. Naturalmente, però, senza l'immaginazione dello scrittore questa documentazione sarebbe rimasta più o meno lettera morta. Come mai ha scelto una professoressa di matematica per il ruolo della suicida in Tutti i nomi? Non c'era nessuna ragione speciale. Affinché il signor José potesse penetrare clandestinamente nella scuola, la donna sconosciuta doveva essere una professoressa. Ma invece di matematica, poteva essere di qualunque altra materia. E non pensi che a scuola io avessi la minima inclinazione, teorica o pratica, per l'aritmetica: in realtà, non sono mai stato bravo a contare... E come mai è un professore di matematica a suggerire al protagonista del romanzo L'uomo duplicato di vedere il film dal quale prende origine il conflitto narrato nella storia? Ancora una volta si tratta, probabilmente, di una casualità. A meno che si voglia vederci un'eco di Tutti i nomi, o una simmetria. Crede che sia solo un caso che, in un mondo tecnologico e scientifico, molti grandi scrittori o abbiano fatto studi scientifici (da Musil a Gadda), o abbiano mostrato un grande interesse per questioni scientifiche (da Borges a Calvino)? Non ho un'opinione al riguardo. Credo comunque che la formazione umanistica di un numero molto maggiore di scrittori, non li abbia inibiti. Quanto a me, sono nato in una famiglia di contadini, analfabeti o quasi, non ho posseduto libri fino a diciannove anni, non ho fatto altri studi che un corso tecnico elementare: e nonostante questi e altri svantaggi, che pesano su quell'autodidatta che sono, sono diventato uno scrittore. A proposito di Borges, che ruolo svolge il libro di Herbert Quain The God of the Labyrinth in L'anno della morte di Ricardo Reis? Sta forse a suggerire un 'analogia tra il rapporto Borges-Quain, e quello Pessoa-Reis? Non vedo questa analogia. Reis è uno degli alter ego di Pessoa, si può dire carne della sua carne e spirito del suo spirito, mentre Quain è solo uno dei prodotti della biblioteca immaginaria di Borges. Le opere degli eteronimi di Pessoa «dialogano» tra loro, e costituiscono la sua opera ortonima. Tra le opere che Borges ha scritto, e quelle che ha attribuito a Herbert Quain, non c'è invece nessun tipo di dialogo. La citazione di The God of the Labyrinth non sarà comunque casuale, no? Ha importanza semplicemente perché si tratta di un libro (inesistente) che Reis, per caso, prende nella biblioteca della nave che lo trasporta da Rio de Janeiro a Lisbona. Ad ogni modo, L'anno della morte di Ricardo Reis è tutto un «luogo» di inesistenze: non esiste The God of the Labyrinth, non esiste Ricardo Reis, e neppure Fernando Pessoa esiste più, al momento della narrazione. In Storia dell'assedio di Lisbona lei dice: «Il mistero della scrittura è che in essa non c 'è alcun mistero». Cosa significa questa affermazione? Le ricordo questi versi di Alberto Caeiro: «L'unico senso intimo delle cose è che non hanno nessun senso intimo». E ancora: «Il mistero delle cose? Che cosa è mai il mistero! L'unico mistero è che ci sia qualcuno che pensa al mistero». Nella medicina antica si diceva di un farmaco che aveva, ad esempio, «una virtù purgativa». Non si conoscevano, o si conoscevano male, le cause dell'effetto che produceva, ma la parola «virtù» serviva a millantare una conoscenza. Coi «misteri» è la stessa cosa. Credo che il fatto che durino, o perdurino, derivi quasi sempre dal pregiudizio di andare a cercare ciò che sta dietro alle parole: quasi sempre, infatti, non c'è nulla. E perché quell'affermazione si trova all'interno di un libro i cui tre livelli (quello di Saramago, quello dello storico e quello del revisore) si intrecciano invece molto misteriosamente? Sembra che i livelli del libro non siano soltanto tre. Qualche anno fa, un professore dell'Università di Siviglia, Adrián Huici, ha isolato «otto testi» principali che, secondo lui, si moltiplicano all'infinito con un effetto di mise en abyme. Probabilmente ho scritto che «il mistero della scrittura è che non ha nessun mistero» per proteggere la mia salute mentale... Si riconoscerebbe, almeno per quanto riguarda la sua produzione a partire da Cecità, in quella che Calvino chiamava a «letteratura deduttiva»? In una letteratura, cioè, che parte da un'idea iniziale che funge da assioma, e la sviluppa come nella dimostrazione di un teorema? Mi ci riconosco, al punto che allargherei questa definizione di Calvino in modo da coprire, praticamente, tutto l'insieme della mia opera. Tanto per citare solo tre esempi: L'anno della morte di Ricardo Reis (Reis vive, Pessoa esce dalla tomba per incontrarsi col suo eteronimo), La zattera di pietra (la penisola iberica si stacca dall'Europa), e Storia dell'assedio di Lisbona (il revisore nega la vera storia, che i crociati hanno aiutato i portoghesi nella conquista di Lisbona dai mori). Quali sono i suoi rapporti personali con la pittura, che svolge un ruolo importante nel Manuale di calligrafia e pittura, e con la musica, alla quale lei dedica le pagine su Scarlatti nel Memoriale del convento? Sono i semplici rapporti di un estimatore ragionevolmente informato e sensibile. La triste realtà è che disegno come un bambino, e che non suono nessun strumento. E quali sono i suoi rapporti personali con la religione, da ateo che ha però scritto un poetico Vangelo secondo Gesù Cristo? Un libro, cioè, che i clericali considerano blasfemo, e gli anticlericali apologetico? La contraddizione non sta a me risolverla. Ma se Matteo (II, 16) non si fosse preoccupato di raccontare l'episodio della strage degli innocenti, il mio Vangelo non esisterebbe: fu la duplice assurdità di questa carneficina, storica o leggendaria che sia, che mi spinse a scrivere il libro. In che senso il martirio degli innocenti è una «duplice assurdità»? Anzitutto, perché è assurdo chiamare «martiri» di una religione dei poveri bambini che di essa non sapevano nulla, per la semplice ragione che il fondatore di questa religione iniziò la sua predicazione trent'anni dopo. In secondo luogo, è ancora più assurdo, ammesso che l'assurdità abbia gradazioni, supporre che il bambin Gesù avrebbe potuto essere ucciso nella strage di Erode, per la semplice ragione che Dio non avrebbe mai inviato il proprio Figlio sulla terra per farlo sgozzare a pochi mesi. Benché la stupidità sia uno degli attributi divini, non credo che Jahvè (era lui, no?) sarebbe caduto tanto in basso. Qual è il suo pensiero sulla globalizzazione, alla quale è in un certo senso dedicata La caverna? Se si potesse globalizzare il pane, starei dalla parte dei globalizzatori. Ma non fino a quando ci sarà una persona al mondo condannata a morir di fame. E che difficoltà incontra a mantenere il suo impegno comunista, che ha in parte ispirato Una terra chiamata Alentejo, dopo la caduta del muro di Berlino e l'instaurazione del «nuovo ordine» americano? Nessuna difficoltà. Il comunismo, per me, è di natura ormonale. Oltre all'ipofisi, io ho nel cervello una ghiandola che secerne ragioni affinché io sia stato e continui a essere comunista. Quelle ragioni le ho trovate, un giorno, condensate in un motto de La Sacra Famiglia di Marx ed Engels: «Se l'uomo è formato dalle circostanze, bisogna formare le circostanze umanamente». Le circostanze non le ha formate umanamente il socialismo pervertito, e tanto meno le formerà mai il capitalismo, che è pervertito per definizione. Dunque, il mio cervello continua a secernere l'ormone... | << | < | > | >> |Pagina 292I lettori della rivista The New Yorker hanno potuto leggere, il 28 luglio 2003, un'esilarante gag di Woody Allen sui recenti sviluppi della fisica moderna. Il comico è finalmente sollevato dopo aver scoperto che l'universo ha una spiegazione, e che la scienza ha una risposta per ogni domanda. Ora sa che il motivo per cui ci mette sempre di più a ritrovare le cose è l'espansione dell'universo. O che se il tempo gli passa più velocemente in barca che a riva, soprattutto se ci va in compagnia di una bella donna, è a causa del rallentamento degli orologi in moto. O che se l'ascensore va sul tetto quando schiaccia il pulsante per il piano terra è perché «alto» e «basso» sono concetti relativi. Gli sculettamenti della sua nuova segretaria gli confermano che la materia ha una natura duale, di onda oltre che di particella. L'attrazione del suo campo gravitazionale gli fa immediatamente vibrare le stringhe, e i bosoni di lui vorrebbero annichilirsi contro i gluoni di lei. Non gli dispiacerebbero un bell'effetto tunnel, o una caduta nel suo buco nero, ma il principio di indeterminazione gli impedisce di sapere esattamente dove la signorina si trova e qual è la sua velocità. Mentre lui le parla, lei si chiude in se stessa come uno spazio di Calabi-Yau, e il tentativo di baciarle i neutrini provoca una rumorosa rottura dello spazio-tempo, nell'imbarazzo generale. Evidentemente Woody Allen deve aver letto, o almeno sfogliato, il bestseller di Brian Greene L'universo elegante (Einaudi, 2000), o aver visto in anteprima l'omonimo special televisivo di tre ore, mandato in onda nel novembre 2003 dalla PBS. Qualunque siano le cause, l'effetto è che ormai le ultime teorie e gli ultimi concetti della fisica incominciano a circolare fra gli uomini di spettacolo, con un immediato effetto di cascata sul pubblico. Ma anche i filosofi possono rallegrarsi, perché il modo in cui oggi queste teorie descrivono il tutto di cui facciamo parte non è più il buon vecchio «universo», ma il «multiverso» prefigurato da William James nel 1909 in Un universo pluralistico. Il modo in cui James intendeva il suo multiverso non era molto differente da quello dei fisici moderni. Non credendo all'esistenza di una realtà assoluta, egli si limitava a sostenere che ogni cosa può essere guardata e vista da una moltitudine di prospettive, tutte parziali e nessuna definitiva e completa. La sua idea era che le relazioni fra le cose non sono realisticamente date, ma pragmaticamente poste: in questo senso per lui non esisteva un universo, ma un multiverso o un pluriverso. Per dirla con le sue parole, «il mondo è più una repubblica federale che un impero o un regno, con sacche di autogoverno irriducibili all'unità». James avrebbe dunque considerato inconcepibile, illusoria o sbagliata La teoria del tutto agognata in omonimi libri da John Barrow (Adelphi, 1992) o Stephen Hawking (Rizzoli, 2003). Ma avrebbe ascoltato con interesse le teorie sui molti universi paralleli, che ormai abbondano nella fisica moderna in varie forme. Naturalmente, tutto sta a intendersi sul significato di «universo»: se viene preso come sinonimo di «tutto», allora ovviamente non ce n'è che uno; ma se si intende il termine letteralmente, come qualcosa che va «a senso unico», allora possono ben essercene tanti, che vanno in sensi diversi fra loro. Il primo a postulare seriamente l'esistenza di veri e propri universi paralleli al nostro è stato il fisico Hugh Everett, in quella che oggi viene appunto chiamata «interpretazione dei molti mondi» della meccanica quantistica. Fin dalla sua formulazione negli anni '20, da parte di Werner Heisenberg e Erwin Schrödinger, questa teoria ha infatti sempre dato del filo da torcere a coloro che hanno cercato di estrarre dalle sue equazioni matematiche, miracolosamente funzionanti in concreto, un'immagine sensata di ciò che esse descrivono in astratto. Il problema sta nel fatto che, secondo la teoria, il passaggio dal mondo microscopico delle particelle a quello macroscopico degli strumenti di osservazione sembra essere stranamente mediato dal processo di osservazione e dunque, in ultima analisi, dalla coscienza dell'osservatore. |