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| << | < | > | >> |IndiceIX Introduzione paradossale C'era una volta un paradosso 3 I. Immacolate percezioni 37 II. L'arte dell'illusione 59 III. Cose dell'altro mondo 97 IV. Immacolate concezioni 131 V. Storia apocrifa di un mentitore 165 VI. La corsa nel tempo della tartaruga 205 VII. I para-doxa della democrazia 223 VIII. Sguardo paradossale al futuro 233 IX. Mucchi, smeraldi e corvi 241 X. Dai paradossi ai teoremi 291 Bibliografia 297 Indice dei nomi |
| << | < | > | >> |Pagina IXIntroduzione paradossale«C'era una volta un paradosso, ma ora il tempo l'ha risolto», dice Amleto a Ofelia. Shakespeare sta parlando dell'amore: il quale, naturalmente, è già un bel paradosso di per sé. Ma, come spesso accade, i poeti vedono piú lontano di quanto essi stessi immaginino. L'espressione paradoxon significa, infatti, «oltre l'opinione comune». E poiché gli individui possono anche essere intelligenti e colti, ma le masse sono sicuramente beote e ignoranti, l'opinione comune è quasi sempre sbagliata. Dunque, i paradossi sono quasi sempre pure e semplici verità, e il tempo si diverte a sollevare lembi del grande velo che le nasconde. Il che significa, spesso, che ambiguità, rompicapi, dilemmi, enigmi, misteri, illusioni, inganni, abbagli, sbagli, inconsistenze, contraddizioni e assurdità si risolvono. E, risolvendosi, si trasformano in curiosità e sottigliezze, quando non addirittura, come vedremo, in teoremi. E significa anche che i paradossi sono dappertutto. Dunque, nemmeno un'enciclopedia può contenerli tutti, e qualsiasi libro può solo sperare di mostrarne qualcuno. Questo, in particolare, non tratterà degli ubiqui paradossi della vita quotidiana, che investono le nostre abitudini piú inveterate e le nostre credenze piú viscerali. Ad esempio, il fatto che spendiamo fior di quattrini per mantenere i nostri locali a temperature invernali d'estate ed estive d'inverno. O corriamo ad arrostirci al mare nel periodo piú caldo dell'anno e a gelare in montagna nel periodo piú freddo. O ci illudiamo di andare all'avventura in luoghi inaccessibili, con viaggi organizzati e in villaggi turistici. O ci entusiasmiamo allo sport, seduti di fronte alla televisione. O ci esibiamo a tavola e ci nascondiamo in bagno, immemori de Il fantasma della libertà di Buñuel. O fingiamo di credere che ne uccidano piú la pistola, l'HIV e la siringa, che la bottiglia e la sigaretta, scordando che in Italia ogni anno ci sono «solo» seicento omicidi, ottocento morti di AIDS e mille di droga, ma ben trentamila per l'alcool e novantamila per il tabacco. Il che significa che il terrorismo mondiale ha fatto meno vittime, nella sua intera storia, di quante ne facciano gli osti e i tabaccai italiani in qualche chiaro di luna. O ci illudiamo di ottenere un miracolo a Lourdes, benché in centocinquant'anni la Madonna ne abbia ufficialmente concessi solo sessantacinque, a cento milioni di pellegrini. Una media, inferiore a uno su un milione, di gran lunga piú bassa della percentuale delle remissioni spontanee dei tumori, che è dell'ordine di uno su diecimila. Senza contare che, come osservava Emile Zola, fra gli ex voto si vedono molte stampelle ma nessuna gamba di legno. Enunciare paradossi, nel senso di andare contro l'opinione comune, su simili questioni equivarrebbe a dichiarare guerra ai mulini a vento. E scatenerebbe la reazione della potente armata di politici, preti, pubblicitari e giornalisti al soldo dei vari dipartimenti del Ministero della Propaganda. Il nostro tempo e il nostro spazio saranno, dunque, meglio investiti se ci interesseremo di paradossi piú istituzionali. I quali, lungi dal distruggere l'universo, come pensava il protagonista di Ritorno al futuro II, si limitano a imbarazzare il pensiero con la loro caratteristica essenziale: di essere argomenti sorprendenti, percbé poco probabili ma molto credibili, o molto probabili ma poco credibili. Poiché un argomento come Dio (o logica) comanda si compone di premesse, ragionamento e conclusione, questa definizione permette un'immediata classificazione in tre tipi: 1) Un paradosso è logico, o negativo, se riduce all'assurdo le premesse su cui si basa. L'attributo «negativo» non è da intendersi in senso denigratorio. Significa soltanto che l'argomento mostra l'inaccettabilità di assunzioni apparentemente innocue, e spesso implicite. E stimola una rifondazione delle aree del sapere che su di esse, consciamente o inconsciamente, si fondano. 2) Un paradosso è retorico, o nullo, se si limita a esibire la sottigliezza di un ragionamento, o a esaltare l'abilità di chi lo produce. Usato didatticamente o letterariamente, l'artificio può anche essere efficace. Ma come metodo filosofico rischia di ridurre la cultura al sofismo, e per questo fu severamente criticato da Platone nel Gorgia. 3) Un paradosso è ontologico, o positivo, se attraverso un ragionamento inusuale rafforza le conclusioni a cui arriva. A questo si riferiva Schopenhauer, quando diceva che «la verità nasce come paradosso e muore come ovvietà». O Quine, quando notava che «quello che per uno è contradditorio, per un altro diventa paradossale, e per un altro ancora banale». | << | < | > | >> |Pagina 59Capitolo terzo
Cose dell'altro mondo
I paradossi percettivi sono momenti di difficoltà dei sensi, smascherati dalla ragione. Ma anche la ragione incontra simmetriche difficoltà nei paradossi logici, smascherati dall'evidenza sensoriale. Anzi, si può dire che molte delle idee astratte su cui si basa la nostra cultura finiscono per rivelarsi paradossali, a un esame piú ravvicinato. Con questo capitolo abbandoniamo dunque i paradossi dei sensi e iniziamo ad affrontare quelli della ragione, seguendo il pensiero in un percorso che va dalle sue forme piú primordiali a quelle piú sofisticate. Ovvero, dalla religione alla matematica, passando attraverso la filosofia e la logica.
Iniziamo, appunto, dagli aspetti paradossali della
religione. Di quelli del Cristianesimo abbiamo già trattato
brevemente nel
Vangelo secondo la Scienza
(Einaudi, 1999), in un paragrafo che riportiamo qui per
comodità del lettore. Per
par condicio
parleremo poi, oltre che dello zen, anche di alchimia,
psicanalisi e surrealismo: tutte cose che hanno molto piú in
comune con la religione di quanto si potrebbe a prima vista
pensare.
La religione in pillole. Prima di andare avanti, volgiamo ancora all'indietro lo sguardo un'ultima volta, per notare un ulteriore paradosso sensoriale. L'imbarazzante fatto, cioè, che le esperienze religiose di tipo mistico possono essere indotte e riprodotte con mezzi elettrochimici. Il che fa pensare, ovviamente, che esse siano piú immanenti che trascendenti. O, come dicono coloro che se ne intendono, che il regno di Dio sia dentro di noi. Piú precisamente, dentro la nostra testa. La tradizione chimica del misticismo si perde nella notte dei tempi. E la connessione fra droghe e religioni è troppo diffusa per essere casuale, come dimostrano i vari «cibi e nettari degli dèi» della storia: il soma vedico, la manna ebraica, il loto omerico, il vino bacchico, la canapa indiana, il peyote messicano, la coca incaica, l' ayahuasca amazzonica, la ganja giamaicana, la kava fijiana... Non c'è comunque bisogno di andare troppo lontano, per vedere chimicamente Dio. Basta il gas, come racconta William James in Volontà di credere. O, ancora piú semplicemente, basta la vasca di deprivazione sensoriale, descritta da Richard Feynman in Sta scherzando, Mr. Feynman! O il deserto, come per sant'Antonio. O la cella (del carcere o del convento), come per san Giovanni della Croce. O i digiuni e le veglie. O le trances indotte da danze, canti o mantra ossessivi. O gli esercizi di respirazione guidata o forzata che accomunano le tecniche meditative piú disparate, dallo yoga allo za-zen. Anche se, ovviamente, piú i mezzi sono blandi e maggiore diventa la difficolt@a di raggiungere l'illuminazione. La tradizione elettrica del misticismo è, invece, piú recente e meno diffusa. Si tratta di stimolare artificialmente i lobi temporali, nei quali si situano le connessioni fra i centri sensoriali e l'amigdala, che è la parte del cervello preposta a dare significati emozionali agli avvenimenti esterni. Stimoli inusuali ai lobi temporali possono provocare disfunzioni dell'amigdala, con conseguente assegnazione di valenze cosmiche a oggetti e fatti anche banali. | << | < | > | >> |Pagina 70Altrettanto paradossali, sebbene in un'accezione diversa, sono le varie teologie che intendono farsi carico, da una prospettiva religiosa, delle problematiche di classe, razza e genere. Rivolgendosi, cioè, a Cristo come alternativa a Che Guevara, Malcolm X o Simone de Beauvoir. E dimenticando che proprio nel nome di Cristo sono state sistematicamente avversate le innovazioni scientifiche, filosofiche e politiche piú significative degli ultimi secoli: dal sistema copernicano all'evoluzionismo, dal razionalismo all'esistenzialismo, dagli stati di diritto alle rivoluzioni.Ovviamente, la paradossalità di tutti questi equilibrismi teologici sta appunto nel fatto che, evitando di trarre dalle proprie analisi la possibile conclusione che il cristianesimo è parte integrante del potere capitalista, razzista e sessista, e come tale andrebbe combattuto e abbandonato, essi offrono invece a tale potere, mediante nuove interpretazioni dottrinali, una possibilità di sopravvivenza. Possibilità che non tarda a divenire attualità. Come dimostrano, da un lato, il sostanziale fallimento delle varie lotte di liberazione. E, dall'altro, il ristabilimento dell'ortodossia da parte di Giovanni Paolo II, che ha definitivamente chiuso sia le aperture del Concilio Vaticano II, che le ingenue speranze delle teologie paradossali. | << | < | > | >> |Pagina 97Capitolo quarto
Immacolate concezioni
Occidente e Oriente hanno camminato per millenni su strade contrapposte. Indagando, il primo, il mondo esterno e la realtà mediante i sensi e la scienza. Esplorando, il secondo, il mondo interno e la coscienza mediante la meditazione e la filosofia. L'evento spazio-temporale che ha segnato la dipartita delle due strade si può localizzare con precisione: la Grecia del V secolo a.C., quando Parmenide oppose alla logica del divenire di Eraclito una logica dell'essere che, attraverso Aristotele, divenne poi egemone nella nostra cultura. Le immagini del mondo sviluppate storicamente da Occidente e Oriente sono risultate a lungo antitetiche. Da un lato, il realismo: le percezioni ci forniscono immagini di oggetti che esistono al di fuori di noi, le cui proprietà sono indipendenti dall'osservatore e quindi oggettive. Dall'altro lato, l' idealismo: i sensi ci presentano illusioni create da noi, le cui proprietà sono dipendenti dall'osservatore e quindi soggettive. Proprio per la loro opposizione radicale, ciascuna di queste immagini appare ovviamente paradossale a chi adotti l'altra come propria. È infatti impossibile distinguere dall'interno la «vera» filosofia da una sua parodia. A decidere se ci si trova nel campo della filosofia teoretica e della scienza applicata, oppure della letteratura fantastica e della matematica pura, è soltanto un giudizio esterno di plausibilità sociale dei sistemi o di adeguatezza sperimentale delle teorie. In particolare, gli occidentali hanno a lungo considerato la visione orientale del mondo come un paradossale prodotto di una cultura inferiore e superstiziosa, giudicandola fallimentare alla prova dei fatti, cioè del controllo tecnologico della natura. Inutile dire che l'argomento è, ovviamente, circolare: tale controllo fa parte degli obiettivi di una sola delle due culture, e l'altra non può quindi essere giudicata per non aver raggiunto scopi che non si prefiggeva. In ogni caso, le due divergenti strade del realismo occidentale e dell'idealismo orientale sembrano essere ritornate a convergere nel Novecento, in seguito alle scoperte della relatività e della meccanica quantistica. Le quali, proprio perché cozzavano col paradigmatico senso comune, al loro apparire sono apparse paradossali e continuano a esserlo in larga misura, a causa dell'inerzia della nostra visione ingenua del mondo. Non è dunque inappropriato, in questo libro, ripercorrere brevemente le tappe di questa storia millenaria. | << | < | > | >> |Pagina 205Capitolo settimo
I para-doxa della democrazia
Winston Churchill diceva che la democrazia è la peggior forma di governo, a parte tutte le altre che sono state provate. Ma sapeva che il miglior argomento contro la democrazia sono cinque minuti di conversazione con un elettore (o con un politico) medio. George Bernard Shaw definiva la democrazia come l'assicurazione di non essere governati meglio di quanto ci meritiamo. E aggiungeva che l'avvento della democrazia aveva sostituito la nomina di pochi corrotti con l'elezione di molti incompetenti. Gustave Flaubert identificava il sogno della democrazia nell'elevazione del proletariato allo stesso livello di stupidità raggiunto dalla borghesia. Bertrand Russell precisava che gli eletti non possono mai essere piú stupidi dei loro elettori. Sembra dunque che la democrazia abbia i suoi problemi, per risolvere i quali sono state avanzate alcune paradossali proposte letterarie. Ad esempio, Il parlamento di Jorge Luis Borges suggerisce che, per ottenere una rappresentanza veramente rappresentativa, un'elezione debba eleggere tutti gli elettori. All'estremo opposto, Diritto di voto di Isaac Asimov ritiene sufficiente che alle elezioni venga interpellato un solo votante, purché sufficientemente rappresentativo. Infine, Noi di Evgenij Zamjatin propone che si considerino come veramente democratiche soltanto le votazioni palesi e unanimi. Queste provocazioni letterarie si possono facilmente accantonare con un sorriso. Non cosí quelle logiche e matematiche, la cui rimozione è meno agevole. I paradossi della democrazia sono infatti svariati e subdoli, come sapevano già gli antichi. Ad esempio, si può instaurare una dittatura in maniera legale? Se sí, la libertà potrebbe avere i giorni contati; se no, è limitata già ora. Oppure, si può eliminare l'articolo che permette le revisioni costituzionali? Se si, il potere di revisione è in pericolo; se no, è incompleto. Forse il piú ovvio dei paradossi della democrazia è una semplice variazione sul tema del sorite, sul quale torneremo in seguito: poiché nelle elezioni con molti elettori non succede mai che il vincitore vinca per un solo voto di differenza, nessun singolo voto è determinante. Dunque, tanto vale non andare a votare. Gli ulteriori paradossi che andiamo a enunciare riguardano invece la pratica della vita democratica, una volta che si sia deciso di andare comunque a votare. Non è infatti per niente chiaro come (o addirittura se) si possano determinare gli eletti, o distribuire i seggi, in maniera logicamente soddisfacente. | << | < | > | >> |Pagina 231Non pensare troppo per la tua intelligenza.Le speranze che la logica possa essere di aiuto nel prevedere il futuro sono dunque svanite. Anzitutto, le sue risposte sono condannate ad avere una affidabilità poco piú che casuale. Inoltre, le risposte corrette non si possono in generale riconoscere come tali. Infine, le risposte che sono dimostrabilmente corrette, potrebbero esserlo in maniera inaspettata. Come se non bastasse, abbiamo poi scoperto che la logica, oltre a non essere utile, può addirittura risultare dannosa. Sapere troppo, o voler essere troppo furbi, può infatti risultare svantaggioso e paralizzare l'azione. Ovviamente, queste conclusioni sono state anticipate da fior di pensatori. Aristotele afferma, nella Metafisica (IV, 1006a), che è segno di ignoranza non sapere quando si deve smettere di ragionare. La parabola dell' asino di Buridano, già citata da Dante nel Paradiso (IV, I-3), mostra come la ragione possa creare dei nodi gordiani che si possono tagliare soltanto in modo arbitrario. Shakespeare critica, nell' Amleto (IV, 4), l'agire troppo meditato, perché nel pensiero ci sono tre parti di follia e una sola di saggezza. Voltaire conclude il Candide con un: «Lavorare senza ragionare è il solo modo di rendere la vita sopportabile». Dostoevskij inizia le Memorie dal sottosuolo sostenendo che l'intelligenza è una vera e propria malattia, e che si può essere uomini di azione soltanto se si è imbecilli. Wittgenstein ribadisce, nelle Osservazioni sopra i fondamenti della matematica (III, 56), che attraverso i paradossi gli dèi ci hanno ammonito che bisogna agire senza riflettere. Carlo Emilio Gadda osserva, in Per favore, mi lasci nell'ombra, che «non tutti sono condannati ad essere intelligenti»... Mentre, però, filosofia e letteratura possono mostrare le limitazioni della logica soltanto metaforicamente, quest'ultima è riuscita a far meglio e a dimostrarle tecnicamente, tramutando cosi in punti di forza proprio quei paradossi e teoremi che mostrano le sue debolezze. | << | < | > | >> |Pagina 241Capitolo decimo
Dai paradossi ai teoremi
Per tre volte, nella storia, i paradossi sono stati al centro dell'attenzione: nel periodo greco, nel Medioevo e a cavallo fra Ottocento e Novecento. I diversi nomi con cui vennero chiamati nei tre periodi riflettono i diversi atteggiamenti che si ebbero verso di essi. Per i Greci erano paralogismi, «oltre la logica»; per i medioevali insolubilia, «problemi insolubili»; per i moderni antinomie, «contro le regole», o, appunto, paradossi, «oltre l'opinione corrente». Ci fu dunque un progressivo cambiamento di prospettiva. Da puri e semplici errori di ragionamento, i paradossi vennero dapprima rivalutati come dilemmi inspiegabili, e poi valorizzati come indizi di problemi del senso comune. Oggi i paradossi sono appunto descritti come verità che stanno a testa in giú e gambe all'aria per attirare l'attenzione, e mostrano una discrepanza tra le credenze che rendono un'affermazione impossibile, e la logica che rende un argomento in loro difesa corretto. L'unica soluzione possibile, non indolore, richiede una revisione radicale delle credenze, della logica o di entrambe. In matematica, la revisione provoca a volte una singolare reincarnazione. Alla luce dei nuovi concetti introdotti per risolverli, i vecchi paradossi non solo cessano di essere tali, ma si trasformano addirittura in nuovi teoremi o definizioni, e appaiono finalmente come pure e semplici verità, coi piedi per terra e la testa sul collo. |
| << | < | > | >> |RiferimentiSui paradossi in generale: R. Aragona (a cura di), Enigmatica, Edizioni Scientifiche Italiane, 1996. S. Bartezzaghi, Lezioni di enigmistica, Einaudi, 2001. A. De Morgan, A budget of paradoxes, 1872. R. Genovese (a cura di), Figure del paradosso, Liguori, 1992 N. Falletta, Paradossi, Longanesi, 1993. G. Lolli, Il riso di Talete, Bollati Boringhieri, 1998. W. Poundstone, Labyrinths of reason, Doubleday, 1988. M. Sainsbury, Paradoxes, Cambridge University Press, 1995. R. Smullyan, Qual'è il titolo di questo libro?, Zanichelli, 1981. Sulla percezione: A. Frova, Luce, colore, visione, Rizzoli, 2000. R. Gregory, Occhio e cervello, Cortina, 1998. M. Luckiesh> Visualillusions, Dover, 1965. R. Pierantoni, L'occhio e l'idea, Bollati Boringhieri, 1981. J. Pierce, La scienza del suono, Zanichelli, 1988. Sull'arte: J. Baltrusaitis, Anamorfosi, Adelphi, 1978. S. Del-Prete, Illusorisms, Bentelli, 1981. S. Del-Prete, Illusoria, Bentelli, 1989. B. Ernst, Lo specchio magico di M.C. Escher, Taschen, 1978. B. Ernst, The eye beguiled, Taschen, 1986. B. Ernst, Avventura con figure impossibili, Taschen, 1990. E. Gombrich, Arte e illusione, Einaudi, 1965. M. Kemp, La scienza dell'arte, Giunti, 1994. L. Maffei e A. Fiorentini, Arte e cervello, Zanichelli, 1995 [...] | << | < | |