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| << | < | > | >> |IndiceRoma è infinito di Giancarlo Inviano D'Arcangelo 7 Prima di cominciare 19 Primo giorno: la cancellazione di Roma (Roma è un sogno) 25 Secondo giorno: 1927, il sacco di Roma 39 Terzo giorno: coltelli a Trastevere 59 Intermezzo. Il carattere dei romani: il popolo 83 Quarto giorno: flâneurs 97 Quinto giorno: un tram e un poeta 119 Intermezzo. La piazza principale dell'universo 135 Sesto giorno: bassifondi 141 Congedo 153 Nota bibliografica 161 Gli scrittori di Roma di carta 163 La mappa letteraria di Roma 165 |
| << | < | > | >> |Pagina 19Per me, torinese di nascita e, dicono, sabaudo fino al midollo - con tutto il cascame di grigiore e discrezione veri o presunti che abitualmente si associano ai piemontesi - Roma è stata davvero, fino a poco tempo fa, una "città di carta". Da via Merulana - la via dei delitti (da Gadda a Stassi) - ai Parioli fino al pratone della Casilina o allo «splendido azzurro dei colli Albani, chiazzato dal bianco delle città annidate sulle alture» ammirato da Henry James ; dalla Trinità de' Monti trasfigurata sotto la neve del Piacere - e di cui Joyce , scrivendo The Dead, l'ultimo e straordinario racconto dei Dubliners, concepito proprio durante il soggiorno romano del 1906, conserverà più di un ricordo - fino a Tivoli, oggetto supremo d'ammirazione per gli stranieri del Grand Tour, la topografia di Roma è stata per me modellata su quella dei romanzi e degli autori amati; un doppione che mi portava a vagheggiare la Roma originale e insieme la cancellava e le donava un di più di significato. Tutti gli sguardi che, nel corso dei secoli, i miei autori avevano posato su Roma agivano come una pellicola o una nebbia sulla mia attenzione e sul mio stesso sguardo, attirati più dal già noto che pronti a farsi investire da una improvvisa rivelazione delle cose. Ma era proprio questa pellicola di parole a rendere la città anche più significativa e più bella. Aveva forse ragione Henry James quando, in una lettera a H.G. Wells , scriveva che «è l'arte a creare la vita, l'interesse, il significato», ed è grazie ad essa che noi ci soffermiamo sulle cose, anche banali, che ci circondano. Ma detto così è certo troppo semplice, perché - benissimo lo sapeva James stesso - dall'arte sempre torniamo alla vita come in un cerchio, come sua origine e suo fine. E allora: si scrive perché si viaggia, ma si viaggia anche perché qualcun altro, prima di noi, ha già viaggiato e scritto, e le sue parole ci hanno fecondati, ci hanno resi vivi e curiosi. E in effetti, anche in questo tempo di sistematica distruzione (ecologica, culturale) dei luoghi; un tempo in cui dilagano quei non-luoghi di cui ha parlato Marc Augé , se vogliamo ritrovare un senso a ciò che vediamo dobbiamo ancora una volta rivolgerci all'arte e alla letteratura. Come in una vertigine metafisica degna del vescovo George Berkeley , il luogo esiste solo quando lo riconosco, ovvero lo conosco di nuovo attraverso il filtro degli sguardi altrui; quando il mio occhio vede non solo lo spazio, ma il tempo, e le parole e i sentimenti che altri uomini prima di me vi hanno depositato. Solo così, solo attraverso questa mediazione, sono in armonia con ciò che mi circonda e il luogo può diventare abitabile e, talvolta, persino felice. [...] Ma torinese o siciliano, francese o tedesco, moderno o antico, Roma è "di carta", forse, per chiunque le si avvicini; e chiunque può trovare la guida o il resoconto adatto al suo viaggio e al suo temperamento. Perché a Roma vanno tutti: pellegrini (almeno a partire dal IV secolo con l'affermazione giuridica del Cristianesimo) e mercanti, umanisti e crociati; e molti, se non tutti, lasciano testimonianza del loro passaggio. E "di carta", Roma lo è non solo per tutti ma anche da sempre. La sua eternità non rimanda forse ad una infinita prosecuzione nel futuro (cosa sopravviverà, ci chiediamo talvolta sgomenti, agli incessanti colpi di martello della società dei consumi), ma ad un passato mitico e senza tempo che sempre torna a mostrarsi e a interrogarci. Se alcuni storici ipotizzano degli "Itinerari" scritti già a partire dal IV secolo, quando inizia la migrazione verso i luoghi sacri, i primi documenti arrivati fino a noi sono i Mirabilia Urbis Romae, scritti tra il IX e l'XI secolo e poi ampiamente divulgati, e tradotti dal latino al volgare, per tutto il Medioevo. E dunque: quando ancora le grandi città europee non erano che piccoli villaggi, o non erano nemmeno state fondate, il pellegrino giungeva nella "città eterna" già attrezzato di questi baedeker d'antan, completi di itinerari di viaggio e lista dei monumenti e degli oggetti notevoli. Non si trattava - gli studiosi concordano - di strumenti affidabili, ma di veri e propri racconti che mescolavano indifferentemente elementi eruditi ed elementi fantastici. Accostando «elenchi incompleti e approssimativi di monumenti e racconti liberamente tratti dal corpus mitologico della tradizione romana», queste prime guide hanno immediatamente contribuito, secondo l'urbanista e storico Massimo Pazienti, a distorcere miticamente l'immagine di Roma. Sarà, infatti, solo a partire dalla metà del Quattrocento che inizieranno a comparire le prime descrizioni "scientifiche" della città. Eppure, saranno proprio quegli itinerari e quelle descrizioni "fantastiche" degli anonimi antichi a fornire la base per i resoconti dei grandi viaggiatori tardo settecenteschi e ottocenteschi come Goethe, Stendhal e moltissimi altri. La storia, la prossimità di elementi sacri e pagani, il clima temperato, la bellezza insieme selvaggia e dolce della campagna: tutto inclina a fare di Roma un unicum facilmente trasfigurabile. E così, anche facendo un salto fino al tardo Ottocento e alle Cavalcate romane di Henry James, possiamo trovarci di fronte a una campagna romana estremamente stilizzata, più simile al Paesaggio con veduta immaginaria di Tivoli di Claude Lorrain che ad una vera e propria descrizione dal vivo.
In primo piano un contadino con il cappello a cono e il mantello
trotterellava sul suo asino; qua e là, più oltre, tra le ondulazioni
azzurrognole appariva qualche paesino bianco, qualche torre grigia,
che contribuivano in modo amabile a comporre un tipico "paesaggio italiano",
secondo i canoni artistici tradizionali. Ad un orecchio
che capti l'ultrasensibile, esso giungeva così pieno di gioia eppure
malinconico, così tranquillo eppure angosciato, assieme al mormorio di una vita
ormai estinta [...] è con uno stupore più grande ancora e con una stretta al
cuore impossibile a dominare, che ci si sentirà nuovamente al galoppo su quei
prati ricoperti di fiori, nell'atto di passare attraverso le vaste arcate di
acquedotti che incorniciano
ora un quadro ora un altro.
La campagna romana è, qui, un susseguirsi di quadri, di vedute sentimentali. Aveva dunque ragione Emilio Cecchi quando parlava della letteratura d'impressioni romane come d'un «tritume fra rettorico, bozzettistico ed erudito» cui sfuggivano solo pochissimi giganti (Goethe, Shelley, Chateaubriand e più tardi Melville)? Sì e no, naturalmente, perché accanto ai viaggiatori come Addison che, secondo Mario Praz, arriva a Roma «incapsulato in una teca di cristallo» e «osserva dal suo scafandro cose protette da custodie di vetro e etichettate di citazioni»; accanto a viaggiatori, insomma, incapaci di immergersi nel «soffio dell'aria di Roma» e le cui descrizioni non possono che lasciarci «completamente freddi», innumerevoli altri - da Michel de Montaigne nel Seicento, a Stendhal nell'Ottocento, e fino a Silvio Negro negli anni Sessanta del secolo successivo - ci restituiscono una città viva e complessa; una città che - come spesso accade in letteratura - è più vera di quella che sperimentiamo con i nostri sensi. | << | < | > | >> |Pagina 83Ma se paragoniamo Roma ad altre capitali europee ad alta immigrazione come Parigi, Londra o anche una grande città spagnola, la differenza è che mentre Parigi può essere pensata e ricordata anche nell'assenza dei parigini, e Londra dei londinesi, e non esistono davvero differenze tra i madrileni e il resto degli spagnoli degne di essere ricordate, qualsiasi riflessione su Roma appare monca, incompleta, inautentica se la si priva dei suoi abitanti, del ritmo e della vitalità particolari, la congerie di suoni e di rumori che imprimono alla sua visione il linguaggio di una performance multimediale spontanea. Angelo Mellone, Romani. Guida immaginaria agli abitanti della capitale Molti, e illustri, sono stati e sono i detrattori di Roma, da Leopardi («la letteratura romana è così misera, vile, stolta, nulla, ch'io mi pento di averla veduta e vederla, perché questi miserabili letterati mi disgustano della letteratura») a Prezzolini (che considerava Roma, con la sua «incompetenza» e «corruzione permanente», un «errore di gioventù»); o ancora Papini («urbe di tutte le rettoriche, brigantesca e saccheggiatrice») e, oggi, tra i molti, Berardinelli (Roma «è brutta ad altezza d'uomo, quando ci si cammina dentro e non la si guarda dall'alto» e comunque «bella o no, se Roma fosse una donna direi che non è il mio tipo»). Siamo di fronte a quel «complesso sentimento di avversione e malumore nei riguardi della capitale, piuttosto diffuso in Italia» che Silvio Negro chiamava «l'antiroma»; un sentimento epitomato, nel 1975, in un volume intitolato appunto Contro Roma: «capitale della spesa improduttiva» ( La Capria ) o «cara prigione che sempre tale resta, inqualificabile e ingiusta» ( Dario Bellezza ), Roma appare comunque e sempre qualcosa di più e di diverso dal resto d'Italia. Un sentimento complesso, l'antiroma, che fa della città la capitale non solo del paese, ma anche della burocrazia e della pigrizia, della faciloneria e della maleducazione; il luogo nel quale alcuni difetti che, più a ragione che a torto, consideriamo eminentemente italiani, si esprimono al loro massimo grado. Ed è forse esattamente così: luogo di immigrazione per militari e nobili che dopo l'Unità venivano soprattutto dal nord, e poi di forza lavoro dal sud (già mentre Negro scriveva i «romani de Roma» erano la netta minoranza, non più di «un decimo»), la città è a mano a mano diventata uno specchio ingrandente nel quale il paese si riflette e ingigantisce. Secondo Galli della Loggia ,
ogni potere che si installa a Roma vi trova lo specchio e la conferma di una
propria intima e permanente vocazione: la vocazione all'assenza di regole e al
rispetto solo di chi è più forte [...]. È sui Sette Colli sempre fatali che
l'Italia dei condoni e dello "scudo", dell'abusivismo e insieme del perdonismo
universali,
si mostra con il suo volto più compiuto
[il corsivo è mio].
Roma, dunque, sì come luogo di perdizione (viene in mente il ritratto impietoso che ne fa Mario Soldati in Le due citta), ma anche «espressione dell'Italia», suo «condensato morale e fisico» (Negro). Ed è per questo che non c'è commentatore che non ne sottolinei la natura multiforme, stratificata e misteriosa:
Roma è una delle più complesse e venerabili scatole cinesi sulle
quali possa esercitarsi con frutto e godimento lo spirito umano. Ci
sono infinite Rome e, partendo da Roma, si può arrivare dove si vuole.
È uno dei privilegi che nessuno potrà mai togliere a questo magico
nome, comunque la si metta e qualsiasi cosa avvenga. E ogni Roma
ha avuto la sua Antiroma, ma, come nella scatola cinese, sono ognuna
dentro l'altra, ci sono anche se non si vedono [...]. Le molte Rome
che il nome regge sono come un viluppo solo, non distinte che per
convenzione; nella realtà si accavallano, si intersecano, si congiungono,
si compenetrano, si nutrono e influenzano a vicenda in cento modi. È
impossibile districarle... (Negro,
Roma, non basta una vita)
Eppure. Eppure da sempre il romano è apparso, nel bene e nel male, diverso dall'Italiano: talvolta una sua caricatura, talvolta una sua espressione più viva ed energica, ma sempre particolare, immediatamente riconoscibile. Perché, come scriveva il Belli , nella plebe di Roma «sta un certo tipo di originalità: e la sua lingua, i suoi concetti, l'indole, il costume, gli usi, le pratiche, i lumi, la credenza, i pregiudizi, le superstizioni, tutto ciò insomma che lo riguarda, ritiene una impronta che assai per avventura si distingue da qualunque altro carattere di popolo». E se è vero, come sosteneva il conte di Montesquieu , che lo spirito di un popolo, la sua identità, è il risultato di cause fisiche (il clima, la qualità dell'aria, etc.) e cause morali e soggettive (i costumi, gli esempi del passato, le maniere; ma anche, a livello del singolo: la professione e gli amici); se dunque è vero che esiste una certa continuità tra physique e moral, come non pensare che il sole di Roma - un sole che, diceva Corot, il maestro dei paesaggisti amatissimo da Baudelaire , non ha «niente a che fare con quello degli altri paesi» - non abbia influito almeno un po' sul carattere dei suoi abitanti? Come non pensare che il vento di scirocco, che secondo Montesquieu stesso rende i romani più «molli» dei lombardi, non abbia influito almeno un po' a rendere il romano quello che è? E poi, e soprattutto, i costumi ricevuti, l'esempio del passato e la continua contemplazione di esso. In effetti, le caratteristiche che si riconoscono al romano - e con «romano» si intende quasi sempre un romano del popolo - sono rimaste sempre le stesse, dal divino Stendhal a Carlo Levi. «Energici e oltremodo appassionati», profondamente diffidenti «del destino e degli uomini», abituati a fronteggiare il dispotismo papale («esercitato da gente appassionata, come tutto il resto del popolo»), i romani, siano essi modesti calzolai o ricchi signori, sono sempre «costretti ad inventare e volere», temprando così il loro spirito e il loro (intrigante) ingegno fino a diventare, «come individui, alla guida della loro specie»: Se avete viaggiato, seguite in buona fede questa ipotesi: prendete a caso cento Francesi ben vestiti che passano sul Ponte-Royal, cento Inglesi che passano sul Ponte di Londra, e cento Romani che passano per il Corso; scegliete in ciascuno di questi gruppi cinque uomini, i più pronti e coraggiosi. Cercate di avere i ricordi esatti; scommetto che i cinque Romani avranno la meglio sui Francesi e sugli Inglesi, dovunque li meniate, in un'isola deserta, come Robinson Crusoe, o alla corte di Luigi XIV, con l'incarico di seguire un intrigo, o nel bel mezzo di una tempestosa seduta della Camera dei Comuni. Stendhal ne è sicuro: «la pianta uomo è più robusta e più grande a Roma che in qualsiasi altra parte del mondo»; e questo è vero non certo per una maggiore raffinatezza dei costumi o per maggior cultura dei suoi abitanti. Anzi: tanto meno educati e raffinati sono, tanto più «la superiorità della razza romana sarà ancora spiccata». Il romano è dunque intelligente - o furbo - ma soprattutto è «appassionato ed energico»; e ciò, per Stendhal, è immediatamente e sfacciatamente evidente, la cosa non stupisce, nelle liaisons amoureuses: a differenza di quanto accade nel resto del mondo, nota maliziosamente il francese, la relazione amorosa di un principe con la moglie di un uomo «del secondo ceto» è sempre minacciata dalla gelosia - e dal desiderio di vendetta - del marito, tanto che il principe finisce per avere paura del marito. «Il marito, se si arrabbia, sicuramente pugnalerà a morte il principe. Ecco perché - conclude Stendhal, stupito e ammirato - Roma ha il sopravvento su tutta l'Italia». La violenza - una violenza altrove impensabile, inaudita - è quindi frutto o sintomo di uno sprezzo dell'autorità, di un immediato sentimento della sostanziale uguaglianza di tutti gli uomini. O ancor meglio: di un particolare sentimento del tempo che rende il romano fatalisticamente consapevole della fuggevolezza di ogni potere. Più di un secolo dopo, Carlo Levi parlerà di un popolo «diverso da ogni altro, per la sua natura e per la sua storia», notando esattamente lo stesso (istintivo, naturale, ma anche malinconico) sentimento di uguaglianza dell'uomo con l'uomo: «trovandosi a tu per tu con consoli, papi, cardinali, principi, reggitori, ministri e capidivisione, (il romano) prese l'abitudine di considerarli suoi pari, di misurarli come semplici uomini, e divenne impermeabile alle suggestioni della potenza». Se il romano, come notava ammirato Stendhal è sempre «profondamente occupato di qualcosa, di un nulla forse», Levi sa che questo "nulla" è, semplicemente, lo scorrere del tempo, la vita stessa nei suoi valori «più semplici e visibili»:
La salute, la forza fisica, il saper mangiare e bere, il saper parlare
secondo una certa regola di umore e efficacia, il sapersi far rispettare,
la schiettezza, l'amicizia. Per un popolo libero da complessi e moralismo, tutte
le possibili condizioni umane sono comprensibili, accettabili, normali. È una
condizione umana naturale essere povero, essere carico di debiti, avere dei
conti con la giustizia, essere tradito dalla moglie: è naturale l'ubriaco, senza
un senso di colpa, e anche il carcerato (dice il più classico degli stornelli
romani: "Dentro Regina Coeli c'è uno scalino - chi non salisce quello non è
romano - non è romano e neanche trasteverino"). Sotto a tutte queste
condizioni resta l'uomo e il suo valore più semplice e fondamentale: il coraggio
di esistere.
Ed oggi? Questo popolo romano insieme reale e mitico, e per questo rimasto pressoché identico da Stendhal a Belli a Carlo Levi, ha ancora un certo grado di verità, oppure è, e irrimediabilmente, un'affascinante cartolina del passato? Difficile negare l'impatto della società dei consumi, e con essa l'emergere di un nuovo tipo del romano, più ancora che omologato esempio e caposcuola di quello che, in un acuto e divertente libretto (e meno scanzonato di quanto nell'immediato sembri), Angelo Mellone ha chiamato «Il neo-coatto». E in effetti, il libro di Mellone parte proprio da qui, dalla consapevolezza di una frattura non più sanabile. Nelle parole di Vincenzo Cerami (riconosciuto e citato): «la plebe romana, ch'era rimasta uguale dai tempi del Belli, è scomparsa, omologata al consumismo come aveva annunciato Pasolini». Già: Pasolini ; vale a dire il cantore più appassionato, almeno dal dopoguerra, tra letteratura e film, della romanità popolare. | << | < | > | >> |Pagina 109«È necessario innamorarsi profondamente di Roma - scrive Sandra Petrignani (E in mezzo sta il fiume. A piedi nei due centri di Roma) - per ricordarsi del Tevere, per riconoscerlo come sangue nelle sue vene». Il Tevere, ancora lui, che abbiamo visto attraversare da molti personaggi dei Racconti di Moravia , e sulle cui sponde Lodoli consigliava di fermarsi a godere dell'ipnotico scorrere dell'acqua. Il Tevere, ancora biondo come ai tempi di Orazio («Così abbiamo visto il Tevere dorato...») - anzi «fangosamente biondo» - scorre placido, innocuo. Eppure, almeno fino alla costruzione dei muraglioni (finiti nel 1926), non era che una «belva addomesticata»: pescoso certo, ma anche terribile nelle sue piene, come testimonia la fontana della Barcaccia di Pietro e Gian Lorenzo Bernini, costruita proprio in ricordo di una terribile inondazione che trascinò una barca così distante dagli argini. Oggi, ci dice Sandra Petrignani, il Tevere completamente addomesticato è però ancora una linea di confine, una frontiera che divide la città in due parti distinte e inconciliabili: deqquà, dellà, ovvero Trastevere, «un posto sgangherato e meticcio, che è stato troppo povero, ed è ancora pieno di poveri» e il centro nobile, la "Città eterna". La leggenda vuole che Romolo e Remo siano stati allattati dalla lupa, «e la lupa era Roma e Rumon era il suo nume, Rumon che era il Tevere prima di chiamarsi Tiber». Mito di fondazione, fantasia? O ancora: innocua truffa per raggirare turisti in cerca di avventura e bohème? Perché Trastevere ha ancor oggi la fama e l'aria di quartiere insieme popolare e intellettuale, come Saint-Germain a Parigi. Sandra Petrignani, dopo i suoi vagabondaggi e le chiacchiere con i locali ha deciso di no: «gli indigeni e quelli di una certa età - ci dice - non sentono il quartiere come porzione di Roma. Hanno il forte orgoglio di essere altro, come se la città vera e propria cominciasse al di là del fiume». Già, perché Petrignani è una flâneuse diversissima da Lodoli, e il suo conoscere il luogo è innanzi tutto conoscere le persone che vi abitano; interrogarle più che osservarle, diventare parte della comunità piuttosto che isolarsi contemplando vanitas e bellezza come le due facce della stessa medaglia; la sua prosa, certo meno malinconica e meditativa di quella di Lodoli, camuffa il dato attraverso un andamento melodico e dialogico di chiacchierata tra amici; una chiacchierata in cui i discorsi si intrecciano naturalmente e fittamente, tanto che a un certo punto non si sa più chi abbia detto cosa, e tutto si risolve nella piacevolezza della compagnia: «"ai romani non capita mai di vedere la città dal basso, non hanno più un rapporto familiare con il fiume. Non più", l'ho detto io? Non importa, è così». Eppure, Trastevere «è il cuore di Roma, perché è la parte antica che non cede, che resta stretta all'agglomerato originario, popolano, superstizioso, paesano, bigotto. Fiumarolo». Già, perché tutto sembra nuovo e diverso se guardato costeggiando il fiume. Seguiamo, allora, Petrignani nel suo viaggio in bicicletta da ponte Sublicio, vicino a Porta Portese fino a Ponte Milvio costeggiando il fiume «sinuoso e femminile, tutto mammelloni che si insinuano nella città ad allattarla», accompagnati dal suono del sax di Roberto, un senzatetto la cui storia Petrignani racconterà in dettaglio per meglio comprendere l'anima del quartiere. Partiamo ed è lo stupore di vedere la città capovolta. | << | < | > | >> |Pagina 135Abbiamo camminato a lungo, caro lettore; abbiamo spiato Sperelli nel suo buen ritiro a Trinità de' Monti e dalla centrale via Merulana siamo arrivati, insieme al commissario-filosofo don Ciccio, fino alla campagna del Torraccio per salire ancora a Marino, sui Colli Albani; siamo entrati nelle osterie di Trastevere e ci siamo spinti persino nel carcere di Regina Coeli. E ancora: con Albinati abbiamo seguito il percorso del 19 fino al Prenestino per poi tornare ancora, con Trevi questa volta, sul luogo del delitto, in via Merulana. Non ci meritiamo forse una piccola sosta? Cullati dal «brusio pacato e familiare» delle fontane, mentre le ombre «si distendono ormai sempre più fitte anche sulle bianche tovaglie delle trattorie all'aperto», e il cielo «si punteggia di stelle e le finestre illuminate delle case cominciano a prendere rilievo», ci fermeremo quindi in un caffè o ristorante di piazza Navona; ci siederemo, naturalmente, all'aperto, ordinando un buon vino da consumare lentamente, ammirando e leggendo. È quel che si dice un lusso da Re, o ancor meglio da Papa, se è vero quel che racconta Silvio Negro (da cui ho prelevato anche la citazione precedente), vale a dire che proprio il Papa usasse affacciarsi ogni sera dalla loggia che un tempo stava sulla facciata di San Giacomo, per godersi lo spettacolo e il fresco degli spruzzi della fontana dei quattro fiumi del Bernini. Siamo affaticati e accaldati e nulla è meglio dell'acqua che stiamo pigramente ammirando: «per quanto tranquilli, quegli spruzzi d'acqua che scendono giù a lato dei colossi raffiguranti i maggiori fiumi del mondo, o che gorgogliano quietamente intorno al Nettuno e al moro berniniano, concorrono a creare l'illusione di un po' di fresco» (Negro, Roma, non basta una vita). La piazza è certo bellissima, e celeberrima; ma nessuno può dire di conoscerla davvero se non la ha ammirata dall'alto. È da questa prospettiva inedita che, ci dice Carlo Levi, l'immagine «comune e convenzionale» diventa nuova; è da qui che ogni cosa assume «altra forma e colore, altro aspetto»:
Ero in alto, su piazza Navona: quella terrazza aerea era nell'esatto
centro di uno dei lati maggiori di quella conchiglia ellittica, nell'asse
della fontana, dell'obelisco e del portale della facciata della chiesa di
Sant'Agnese. La fontana, che da terra si scompone in cento facce per
chi, lentamente, vi giri intorno, o vi porti a bere il suo cane, sorgeva
intera, solida e aguzza, nel cerchio dell'acqua verde, di un verde giovanile, e
anche esotico; un immaginario Oriente (il verde - potevo confusamente sentire,
senza formularlo - delle miniature persiane, o delle pitture delle grotte
Ajanta)[...]. Il pavimento della piazza, coi suoi selci azzurrini, era come un
immenso "opus reticulatum" sdraiato in terra [...]. La piazza era un mondo
conchiuso, immobile, fissato per sempre: il profilo dei tetti nascondeva
l'estraneo infinito. Tutto era forma, senso, storia condensata: su tutto era
posata, in cima all'obelisco, la colomba di bronzo con l'olivo nel becco, e
altre fronde d'olivo svettavano sui campanili di Sant'Agnese. In questo
oliveto-conchiglia il sole abitava, chiuso e caldo, nel cuore delle pietre.
«Bella per la sua forma stessa, anche a prescindere dagli stupendi monumenti che l'adornano», «eterna e fissata quasi in un clima senza tempo proprio», a Mario Praz piazza Navona appare come «uno squarcio di paradiso che in alto s'apre tra il diradarsi delle nuvole». E anche Elsa Morante scriverà che «fino a quando esiste una Navona, c'è ancora speranza per questo mondo» (Navona mia, in Pro o contro la bomba atomica). Ma cos'ha, dunque, piazza Navona, in più rispetto alle molte - e magnifiche - piazze della città e del mondo? Come ogni luogo felice, è uno spazio conchiuso: anche le «tragiche memorie storiche - scrive Mario Praz -, e quelle tristi immagini di crudele passato che possono insinuarsi nel suo sereno aspetto - cruente zuffe tra francesi e spagnoli, tratti di corda al cavalletto, meretrici frustate, corse di ebrei ignudi e a scherno rimpinzati di cibo - si dissolvono in quel diffuso chiarore d'eliso che, circoscritto com'è da un'ellisse, pare assumere un'eternità di pace». È una piazza-conchiglia chiusa in sé e in cui, per Levi, «tutto è architettura, in un modo analogo a quello per cui appare come una architettura la Divina Commedia a chi [...] la legga tutta di seguito, come un racconto unito, in un solo giorno». Chiusa persino in alto, dal «coperchio azzurro» del cielo, al crepuscolo si riempie «di un'ombra palpabile, e del vago rumore di un mare lontanissimo». Tutto appare qui armonico, anche le «case ombreggiate di ocra che non hanno pretese», case «in gran parte senza valore», come recita la guida, e che pure - scrive Silvio Negro - «possono stare nobilmente accanto al palazzo e alla casa del grande architetto». C'è qui la Storia, la magnificenza barocca - di un barocco, però, di «profondo e sincero sentimento» come nota il Wittkower ricordato da Praz - della fontana e della chiesa, ma anche «la cronaca» della «folla minuta che la frequenta oggi come la frequentava nel Sei e nel Settecento», e che «tiene viva» la piazza (Praz). «Nobile salotto all'aperto» in cui «il lastricato è pieno di voci e il cielo di strida di rondini», piazza Navona è poi, e soprattutto, umana e accogliente: «spira dovunque un'aria di confidenza antica e di intimità serena; ed essa si fa anche più sensibile e viva quando, crescendo l'ombra, dalle finestre aperte si cominciano a vedere gli interni illuminati». E a Negro fa eco ancor più enfaticamente Elsa Morante in Navona mia: «Navona è una vera regina, che accoglie allo stesso modo cani e gatti, ebrei e cristiani, signori e pezzenti». Navona è quindi «una santa» o «una di quelle creature miracolose, che sempre sono le più belle, pur senza possedere le sette perfezioni». Non ha l'oro di San Marco ma, «donna grande e magnifica, sa che il suo corpo maturato nell'amore è più oro dell'oro»; non ha la modernità di Times Square (ma è «situata nell'assolutezza della realtà, fuori della dimensione del tempo») né le guglie del Duomo di Milano... | << | < | |