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| << | < | > | >> |IndicePrefazione 7 di Wang Hui Il grande disordine cinese 13 Intervista a Wang Hui L'irresistibile ascesa di una nuova potenza globale 23 I «nuovi contadini» del professor Wen Tiejun 31 Mingong, i 'paria' del miracolo economico 37 Donne migranti, la grande fuga dall'infelicità 41 La rivoluzione liquida dell'ambientalista Yu Xiaogang 47 La diga delle 'Tre Gole'. Storia di una catastrofe 55 Yunnan, l'Eden assediato 69 L'avvocato Mo Shaoping contro la giustizia kafkiana 75 Machiavelli in Cina 81 Intervista al politologo Cui Zhiyuan Yue Sai Kan, il fruscio dei soldi in un beauty case 87 La Tangentopoli che sconvolse Shanghai 93 Mi Qiu, il Tao della nuova architettura 99 Dalla censura al business, l'arte cinese secondo Liao Bang Ming 103 Il Grande Timoniere con le tette dei Gao Brothers 109 I nuovi maoisti di 'Utopia' 113 Conclusione 119 Cronologia 123 |
| << | < | > | >> |Pagina 13Grande è oggi il disordine nel «nuovo ordine» cinese. Sintetizzando un po' arbitrariamente, è così che Wang Hui, il brillante intellettuale esponente della «nuova sinistra» cinese, professore della Tsinghua University di Beijing, aggiorna la sua raccolta di scritti ( Il nuovo ordine cinese, Manifestolibri 2006) che, a partire dalla rivolta e dalla repressione di Tian 'anmen si fermava all'analisi della transizione economica, politica e sociale del 2000 e al dibattito culturale che la accompagnarono. In Italia, in occasione del Global Meeting di Venezia del 2007, di fronte a una platea appassionata, abbiamo avuto l'opportunità di ascoltare Wang Hui sulla attuale complessità, ancora tutta in divenire, della Cina e dei suoi mutamenti. Punto centrale dell'analisi è che, se gli eventi di Tian 'anmen costituiscono ancora un riferimento ineludibile nella storia delle riforme cinesi, dalla fine degli anni '90 a oggi il paese si trova ad affrontare una nuova dinamica tra l'azione dei poteri costituiti e la reazione del corpo sociale, laddove ciascuna forza in campo è stata profondamente modificata da un processo ormai trentennale che può considerarsi maturo, pur rimanendo segnato da contraddizioni che, a detta dello stesso Wang Hui, confondono non solo gli osservatori esterni ma anche gli stessi cinesi. Il primo paradosso resta quello di un sistema a partito unico che continua a definirsi comunista pur gestendo un'economia di mercato. L'origine della nuova fase consiste nell'accelerazione impressa al sistema per tutti gli anni '90 che, accentuando gli squilibri, ha generato forti reazioni di difesa e di critica nel corpo sociale e negli ambienti intellettuali. Ma, a differenza dall'89, il sistema politico-istituzionale è stato costretto, questa volta, a rispondere con un'azione di riequilibro piuttosto che con i carri armati. In questo quadro l'articolazione sociale si è fatta ancor più complessa negli ultimi cinque anni con l'ascesa al potere di una nuova leadership. L'interazione col mercato dei differenti apparati statali e delle varie correnti di governo e di partito ha messo in moto conflitti così come convergenze di interessi, sfociati, a loro volta, in orientamenti diversi e confliggenti del processo decisionale. Per questo, secondo Wang Hui, affermare oggi che lo stato costituisca un'entità omogenea è soprattutto una costruzione ideologica che volutamente ne ignora il carattere eterogeneo. Mentre è proprio su queste contraddizioni, su temi forti come la crisi delle campagne o quella del sistema sanitario messo brutalmente a nudo dall'epidemia di Sars, che si sono sviluppati il dibattito critico e le mobilitazioni sociali in Cina costringendo il regime a correre ai ripari. Ma queste azioni di resistenza e ribellione – che provocano ormai ogni anno decine di migliaia di «incidenti di massa», tra proteste e rivolte – non potrebbero esser comprese senza tenere conto del fatto che il Partito comunista ha dovuto riaffermare, come fonte della propria legittimazione, i valori della Rivoluzione cinese maoista e i valori del socialismo, sia pur continuando a condannare recisamente la Rivoluzione culturale. Ciò significa, argomenta Wang Hui, «che ogni importante decisione assunta, ogni trasformazione del sistema-stato, deve confrontarsi con questa tradizione o per lo meno deve adottare una specifica retorica che vi si richiami». Il risultato più importante è che per i lavoratori e i contadini quella tradizione è diventata una forza legittimante cui possono ricorrere per contrastare processi e decisioni percepiti come ingiusti. E sono proprio queste forze sociali che «nonostante le riforme cinesi riecheggino ampiamente la globalizzazione neoliberista, ne limitano l'espansione». Occorre tenerlo presente, raccomanda Wang Hui, per non perdere il senso della contraddizione determinata dall'azione continua di forze sociali in conflitto che negoziano questo processo. È anche per via di questo conflitto interno, spiega, che l'apparato dello stato cinese, pur ricorrendo a retoriche vecchio stile, opera secondo una logica de-ideologizzante e de-politicizzante, assai simile peraltro a quella che accompagna la crisi delle democrazie occidentali. Particolarmente rivelatore della complessità cinese è il dibattito in corso sui diritti di proprietà, acceso dalla controversa legge sulla proprietà privata approvata nel marzo 2007 dall'Assemblea del popolo. Nonostante il gran clamore fatto in occidente sul valore simbolico di leggi che dichiarano l'inviolabilità della proprietà privata, in realtà è da quel momento in poi, spiega ancora Wang Hui, che si apre la vera disputa: in primo luogo sulle acquisizioni illegali di proprietà avvenute durante il selvaggio e corrotto processo di privatizzazione; e poi sulla ridefinizione stessa dei concetti di proprietà pubblica, privata e statuale. Su quest'ultimo punto Wang Hui ci consegna una riflessione che riguarda tutti, non solo la sinistra cinese: il dilemma non è la scelta tra proprietà statuale e proprietà privata ma se si abbia o meno la capacità di immaginare forme nuove di socializzazione dei diritti di proprietà. Come pure tutti ci concerne il processo di de-politicizzazione in atto che chiede di immaginare nuove forme di riappropriazione della politica.
È su alcuni di questi temi, e sull'esperienza che li ha generati,
non solo in Cina, che abbiamo chiesto a Wang Hui di approfondire il
suo ragionamento.
Che cosa è diventato oggi in Cina lo Stato, che pure continua a essere completamente legato al Partito? E quest'ultimo, che trasformazioni ha subito negli ultimi 20 anni? Quali legami intrattiene ancora con la società? È una questione estremamente complessa. Durante la fase di riforma negli anni '80 si era lanciato lo slogan «separare il partito dal governo», ma dopo il 1989 questa parola d'ordine è decaduta. A dimostrazione del fatto che nell'ordine sociale della Cina contemporanea e nei meccanismi di mobilitazione il Partito è divenuto sempre più inscindibile dallo Stato. La creazione della politica moderna coincide con la politica dei partiti, e il partito-stato ha recato con sé un nuovo modello politico di nazione. Tuttavia, per le condizioni poste dall'evolversi della situazione interna e globale, si è verificato una sorta di rovesciamento che ha visto il partito-stato trasformarsi in stato-partito, divenuto parte integrante e organica del tessuto nazionale. Questo processo fa sì che la crisi di rappresentanza vissuta oggi dalla Cina dove domina un unico partito, sia molto simile a quella attraversata dai sistemi multipartitici occidentali, dove il dispositivo della rappresentanza democratica è in grave difficoltà. In occidente i partiti cercano di attrarre voti per occupare i livelli centrali dello stato piuttosto che per rappresentare davvero certi interessi o valori. Allo stesso tempo anche in Cina assistiamo all'integrazione profonda del Pcc nella struttura dello Stato. È questa che io chiamo la trasformazione del partito-stato in stato-partito. E ci riguarda tutti, soprattutto per gli effetti di de-politicizzazione che genera.
Anche se la Cina ha ovviamente una sua specificità. Oggi più di
70 milioni di persone aderiscono al Pcc, ma la cifra in sé non basta
ancora a spiegare le sue caratteristiche. In quanto partito unico al
potere, il Pcc ha tentato di trasformarsi da un partito di classe in un
partito di tutto il popolo. Un proposito chiaramente riscontrabile nella teoria
delle «tre rappresentanze» (secondo la quale il Pcc rappresenta «la capacità
produttiva più progredita, la cultura più avanzata e
gli interessi delle grandi masse popolari»). Il fatto che io menzioni qui
il concetto di «partito di tutto il popolo» non significa che il partito
non persegua i propri interessi di parte, anzi, data la struttura unificata
partito-stato, la parzialità delle scelte statali e i loro effetti negativi
incarnano concretamente l'orientamento e la scala di valori del partito. Proprio
per questo gli obiettivi del partito celano una contraddizione implicita: la
contraddizione esistente fra la vecchia pretesa della
rappresentanza di classe e il perseguimento dei propri interessi, attuato
attraverso lo stato. Da un lato, il partito permea di sé i meccanismi
e le organizzazioni sociali; dall'altro, però, la rigidità della sua
organizzazione si va sempre più attenuando. In pratica non sussistono quasi
più i «conflitti di linea» dell'epoca socialista e di conseguenza la politica in
quanto tale si fa vieppiù inconsistente.
Secondo la sua analisi, prima del 1989 e dei fatti di Tian 'anmen, la politica di riforme e della cosiddetta «porta aperta» decisa dalla leadership cinese nel 1978 prefigurava una situazione economica e politica che non doveva necessariamente condurre al neoliberalismo come discorso e pratica egemonica, che invece fu instaurata pienamente dalla violenta repressione. Cosa accadde davvero in quella primavera all'interno dell'apparato del Partito? E come stanno le cose oggi? La riforma cinese è partita come riforma dell'economia agricola, i cui principali contenuti risiedevano nello scioglimento delle comuni popolari, nell'accordare ai nuclei familiari le responsabilità della produzione e nella cessione dei diritti di usufrutto della terra ai singoli coltivatori. Al contempo, attraverso il riaggiustamento dei prezzi dei prodotti agricoli, si è incoraggiata la varietà delle coltivazioni, promuovendo così lo sviluppo dell'agricoltura. La riforma agraria, quindi, ha fornito le basi dell'intera riforma cinese. La manovra di apertura, d'altro canto, non iniziò affatto nel 1978, bensì al principio degli anni '70, ossia nel bel mezzo della «Grande Rivoluzione Culturale»: a partire dal 1972, infatti, il processo di riconciliazione fra Cina e Stati Uniti era già avviato, mentre i rapporti diplomatici col Giappone e con altri paesi occidentali venivano man mano ripresi o intrapresi ex novo. Dopo che Deng Xiaoping ha assunto il potere nel 1978, il processo di apertura ha chiaramente subito un'accelerazione, ma non possiamo far coincidere sviluppo economico e neoliberismo. Si può, anzi, affermare che senza il periodo di accumulazione socialista, che tra gli anni '50 e la fine degli anni '70 pone le fondamenta di un'economia nazionale indipendente attraverso il processo di industrializzazione, il processo di riforma non avrebbe avuto il successo che ha avuto in termini di straordinaria crescita economica. La mobilitazione sociale della fine degli anni '80 è il frutto del secondo periodo di riforma che si apre nel 1985 con la riforma dell'assetto economico urbano, i cui cardini furono la riforma dell'impresa statale e la costruzione dei dispositivi di mercato. Un ruolo chiave per tutti gli anni '80 lo ha avuto la riforma del sistema dei prezzi condotta con un «sistema a doppio binario»: da un lato vigevano i prezzi di mercato per í beni di uso quotidiano, dall'altro i prezzi della (precedente) pianificazione per materiali come ad esempio l'acciaio. Questo doppio sistema comportò una pesante corruzione, sotto forma di rendita. Dalla primavera del 1988 il governo decise di promuovere la «scappatoia dei prezzi»: a eccezione dei pochi prodotti sottoposti al controllo statale, il costo della maggior parte delle merci veniva regolato dal mercato. Nella prima metà del 1988 il costo delle merci sull'intero suolo nazionale aumentò del 7,3% rispetto al 1987, continuando a crescere vertiginosamente di mese in mese, sino a raggiungere a luglio il 19,3% e superando così del 10% le previsioni. Di conseguenza, non appena l'Ufficio politico centrale proclamò il piano di riforma dei prezzi, un'ondata di panico si diffuse nella popolazione urbana. Su scala nazionale si verificarono fenomeni, in precedenza rari, come gli assalti ai negozi e i prelievi massicci dai conti bancari. Nel 1988, in concomitanza con la riforma dei prezzi, fu lanciato il sistema dei contratti, una manovra che coinvolse tanto le singole imprese quanto i ministeri governativi. I salari e la loro distribuzione subirono un cambiamento di enorme portata e si sviluppò con straordinaria rapidità una nuova spartizione delle risorse. Fu l'insieme di questi fattori a dar luogo all'instabilità sociale. La morte del segretario del Pcc Hu Yaobang, nell'aprile dell'89, e le aspettative del ceto intellettuale (studenti compresi) verso la democratizzazione dello stato e del partito sono state il fattore scatenante dei movimenti sociali del 1989. Se prescindessimo da questo contesto, difficilmente potremmo comprendere i motivi di una così ampia mobilitazione politica. Ancor oggi non conosciamo tutti i passaggi che hanno portato lo stato, fra il maggio e il giugno del 1989, a decidere di far ricorso alla forza per risolvere la crisi, ma è mia opinione che per capire la repressione violenta del 1989 non si possano trascurare due elementi: la portata della mobilitazione sociale da un lato e, dall'altro, le divergenze politiche interne allo stato (e al partito), che andavano inasprendosi di giorno in giorno. Come spiego nel mio libro, la riforma dei prezzi riprese soltanto nel settembre 1989, ossia a tre mesi di distanza dal fallimento del movimento. In un contesto in cui lo scontento sociale non poteva più esprimersi, tutte le riforme riguardanti i prezzi, la valuta, i tassi di interesse, ecc., furono portate a termine creando le basi necessarie al rilancio di Deng Xiaoping nel 1992. È a partire da questa fase che la repentina divisione sociale, lo iato città-campagna, le differenze regionali, la forbice fra ricchi e poveri e la crisi ambientale si sono acutizzati fino a diventare la nuova sfida che la Cina contemporanea si trova oggi a fronteggiare. Su questa sfida il dibattito è aperto, e una delle questioni fondamentali di cui si discute è se sia legittimo usare il concetto di neoliberismo per descrivere e analizzare la riforma cinese. In realtà, è solo alla fine degli anni '90 che il neoliberismo diventa davvero dominante e si può farvi ricorso per spiegare la radicale differenziazione della società avvenuta in quel periodo. Ma anche se il neoliberismo domina il pensiero economico cinese mainstream e molte politiche statuali, esso non rappresenta l'intero spettro del dibattito in corso e l'unico orientamento dello stato, all'interno del quale si svolgono accesi dibattiti. Il mio parere è che la Cina non è l'esempio-modello del neoliberismo né il controesempio possibile. | << | < | > | >> |Pagina 37Sotto un ponte di Tongzhou, villaggio all'estrema periferia di Pechino, oltre il quinto anello, si «spaccia» lavoro. È lì che i migranti della zona si ritrovano due volte al giorno, all'alba e nel tardo pomeriggio, per incontrare i reclutatori e per conquistarsi, almeno per un giorno, l'opportunità di guadagnarsi da vivere. Funziona così anche per gli agricoltori «fluttuanti», i cosiddetti mingong, i milioni di migranti che dalle campagne giungono in città soli, senza protezione e senza identità in cerca di lavoro: non più contadini, non ancora operai (contrazione tra nongming/ contadino e gongren/ operaio). Una negazione di status, dunque, che non consente alcuna identità positiva. Infatti, sradicati dai luoghi d'origine e catapultati a centinaia, quando non a migliaia, di chilometri di distanza, i cinesi, donne e uomini, che diventano mingong non hanno diritti di alcun tipo, né riconoscimento sociale. Eppure oggi sono almeno 150 milioni e se la Cina è diventata una tale potenza è dovuto anche alla loro disumana fatica e abnegazione. Xiao Pa, nato 25 anni fa a Jilin nello Shandong, non è consapevole del suo ruolo nella Cina contemporanea, né qualcuno ha interesse a farglielo capire. Fa parte dell'esercito di 4 milioni di migranti che vivono nelle pieghe nascoste della capitale. È arrivato 5 anni fa, chiamato da un cugino già sistemato, che gli aveva trovato lavoro come operaio edile addetto alle finiture interne dei palazzi. Non certo in modo disinteressato perché, in quanto mediatore, il parente prendeva una percentuale dal suo salario, primo di una lunga catena di saprofiti. Ci sono voluti due anni, ma alla fine Xiao è riuscito a camminare con le proprie gambe e ha mandato al diavolo il cugino. Non incontra mai i veri datori di lavoro: solo sensali, che gli fanno firmare carte per impegnarlo a fare un certo lavoro in un tempo prefissato in cambio di un determinato ammontare. Nessuna copertura sanitaria o pensionistica; nessuna assicurazione contro gli eventuali, e frequenti, infortuni. Nessun rispetto delle leggi sul lavoro che impongono un tetto al numero di ore lavorate. Lo incontriamo a Tongzhou, un agglomerato che è definito un «villaggio» ma in realtà è un immenso quartiere spuntato in pochi anni nella pianta urbana a sud-est di Pechino, dopo aver spazzato via un insediamento contadino. L'appuntamento è in un minuscolo, cavernoso pub, eccentrico e scalcinato, che vende anche stravaganti vestiti. Povertà cinese e sogni d'Occidente ammassati in pochi metri saturi di assordante musica pop. È un periodo di magra e Xiao è disoccupato: dal «ponte» dei reclutatori torna a mani vuote. Ma la saltuarietà è normale in questo periodo e d'inverno si lavora sempre poco. Anche quando il lavoro c'è, si comincia tardi, alle sette del mattino, e si va avanti al massimo fino alle sei di sera. D'estate, invece, si comincia alle cinque arrivando fino alle otto di sera e oltre, con un'interruzione di mezz'ora. Capita anche che Xiao ottenga più di un contratto alla volta. Allora lavora come un pazzo e riesce a mettere insieme anche 4000 yuan al mese (circa 400 euro). Fra abbondanza e carestia, la media dei suoi introiti si aggira intorno ai 2000 yuan mensili: il doppio di quel che guadagnano i suoi genitori contadini. Il giovane ha una condizione meno infelice di tanti altri. Per 100 yuan al mese ha una stanza di 15 metri quadri, senza riscaldamento, in una vecchia casa su un piano in cui vivono altri suoi compaesani. Un paio d'anni fa la famiglia gli ha trovato una moglie al paese che adesso vive con lui a Pechino insieme alla figlia di otto mesi. I soldi per il parto in ospedale, poco più di 1000 yuan, li ha tirati fuori lui. Adesso, per una serie di misure che favoriscono i contadini, ha diritto a un'assicurazione sulla salute, ma solo nella sua città natale, a Jinan. Una prospettiva così vaga che quasi non ricorda in che consista davvero questo abbozzo di welfare. Sua figlia potrà andare a scuola gratuitamente, ma solo nella provincia d'origine dei genitori. Se vorrà studiare a Pechino dovrà pagare. È già deciso che, a tempo debito, la bambina tornerà a casa. Quando non lavora, l'unica attività di Xiao è cercare occupazione, al ponte o altrove. Il corpo stretto in una giacchetta striminzita di panno scuro, il viso giovane già rassegnato, gli occhi scuri in uno sguardo disincantato che sfiora il mondo come gli fosse estraneo, raccontano una vita che scorre su un unico, strettissimo binario: vivere è cercare lavoro incessantemente per sopravvivere; lavorare duramente senza mai alzare la testa. Tanto all'orizzonte non c'è niente. Lo dice con la consapevolezza dura di chi è legato a una catena impossibile da spezzare. Progetti di vita? Tu pensi a tempi lunghi, risponde, io non ho tutte queste aspettative. Vivo per guadagnare. Non si sente parte di una comunità più grande, quella dei migranti, afflitta dalle stesse sue difficoltà; si percepisce solo come una scheggia di Jinan per cui dice: non appartengo a questo posto. Non ha senso protestare o far casino. L'unica cosa che conta è fare quanti più soldi è possibile per continuare a vivere. Quanto al resto «chi se ne frega». Ci sono persone che guadagnano un sacco di soldi; che in una serata spendono il suo salario di un mese. Che ne pensa? Sono stati bravi, hanno trovato un buon lavoro. Io che posso fare, se non invidiarli? Di sicuro non ho i mezzi per cambiare la situazione. Non sono stato nemmeno a scuola. Ero troppo stupido. Inutile parlare di difesa di diritti, di sindacati. Noi non li abbiamo, i sindacati, dice. Xiao ignora che c'è anche di peggio, e cioè che i capi sindacali (in Cina c'è una sola confederazione ammessa, quella ufficiale) talvolta sono anche i responsabili delle ditte per cui lavorano i mingong. Ma almeno un desiderio ce l'hai?
Fare più soldi e un altro figlio maschio. Anzi, tanti figli.
Fino a qualche anno fa la grande stazione centrale di Pechino era un accampamento permanente di migranti. Oggi torna ad esserlo durante il Capodanno lunare, a febbraio, quando tutti per tornare a casa assaltano i treni. Il grande edificio dai tetti a pagoda è come un immenso cuore: immette flussi umani vitali nella grande città e altrettanti ne riprende e spinge via, verso quei margini da cui erano venuti. I mingong in arrivo sono riconoscibili perché il più delle volte sono accorpati in gruppetti che vengono caricati su pulmini in attesa. Quelli che se ne vanno, invece, partono spesso da soli. Nelle sterminate sale d'attesa della stazione si distinguono per le molte, grandi, sacche di plastica stracolme che trascinano a fatica o su cui si sdraiano per dormire. Hanno un'aria sfinita, sconfitta. Sospettosi e spaventati, rifiutano di parlare della propria esperienza. La ricchezza, il benessere della grande capitale non hanno alcun riverbero su di loro. Non certo sull'abbigliamento: maniche di maglioni slabbrate escono da cappotti lisi, le scarpe consunte sono ancora sporche di calce e cemento. Sembra che la metropoli si sia impossessata dei loro spiriti vitali per poi buttar via, svuotati, i loro corpi. Un processo evidente soprattutto negli uomini e nelle donne più anziani. Un giovane regista di 34 anni, Du Haibin, ha girato un film sui migranti: La montagna di pietra, presentato al festival internazionale del documentario di Amsterdam. Per cinque mesi ha vissuto insieme a un piccolo gruppo di mingong, seguendoli e filmandoli mentre strappavano pietre di granito dal fianco di una montagna, a 50 chilometri da Pechino. Un film ruvido, dai dialoghi scarni che descrive soprattutto fatica e isolamento. Ha voluto focalizzare l'attenzione e descrivere questo gruppo sociale, spiega, perché rappresenta il fianco più scoperto della Cina di oggi. Senza diritti né riconoscimento sono colpiti dal disprezzo sociale perché non hanno né soldi né potere, peccato mortale nella nuova società cinese che, non avendo leggi forti a tutelarla, pensa che l'unica difesa sia data dalla ricchezza o dalla connivenza coi potenti. Da sempre classe debole e oppressa, oggi i contadini fluttuanti rivelano tutta la contraddizione e l'ambiguità di una mutazione radicale ancora in transizione verso un obiettivo i cui termini politici, tiene a sottolineare Du Haibin, non ci sono stati ancora chiariti. In economia abbiamo fatto un salto che ci ha portato a emulare l'Occidente capitalista, anche se nessuno ne parla in questi termini. In politica, siamo ancora governati da un Partito comunista, anche se nessuno parla più di comunismo. Difficile capire dove andremo a finire. Nella Cina di oggi vediamo due strade, l'economia e la politica, che corrono parallele ma che prima o poi dovranno incontrarsi. Intanto, nel solco profondo fra i due percorsi, precipitano le vite; quelle dei migranti prima e più rapidamente delle altre. Hanno smesso di fare i contadini, diventando mingong, perché viene loro impedito di diventare a tutti gli effetti gongren, cioè operai, spiega ancora Du. Figure indefinite e di transizione, restano sospesi in un limbo identitario che personifica in modo estremo il conflitto oscuro fra passato e presente che appartiene oggi a tutti i cinesi. Come è di tutti i cinesi il travaglio legato a una inedita elaborazione dell'identità individuale. Una dimensione che Du definisce «umanistica» e che, afferma, è estranea tanto al confucianesimo quanto al maoismo. Questo tormento individuale, per molti inconscio, è strettamente legato all'ambiguità della narrazione elaborata dai vertici ed è solo uno dei molti conflitti che oggi lacerano la società. Il fatto che la leadership senta il bisogno di lanciare una campagna sulla «società armoniosa» dimostra, secondo il giovane regista, tutta la gravità della situazione. «Prima o poi, bisognerà che la politica parli con più chiarezza». | << | < | > | >> |Pagina 109L'ultimo Mao, di morbido velluto rosso, si affaccia tra gioielli e borsette nella vetrina di un negozietto cool di Xintiandi, una della zone più chic di Shanghai, a pochi metri dalla casa dove fu fondato il Partito comunista cinese. È un mezzo busto, alto poco più di 30 cm, che per 780 yuan (poco meno di 80 euro) potete portarvi a casa; forse l'oggetto più economico della boutique. Il primo Mao, delle stesse dimensioni, ma in gesso bianco, staziona ancora al posto d'onore, fra la vecchia radio e la televisione, nel soggiorno della casa di He Hongguang, un contadino del villaggio di Changshui, nello Yunnan. Se qualcuno gli chiede perché, alza il pollice in alto e dice sorridendo «il presidente Mao è sempre il primo». Fra le due icone, identiche ma opposte, una scia di ritratti e rappresentazioni che attraversa la Cina e i cinesi in modo così insensato e contraddittorio da far pensare a un'ossessione. Non saprei se fu geniale o perversa la decisione presa qualche anno fa dal governo cinese di stampare i ritratti del Timoniere su tutte le banconote, visto che in passato era stato riprodotto solo su uno dei tagli. Al 798, la cittadella d'arte più famosa di Pechino nel distretto di Dashanzi, dove una fabbrica dismessa di componenti elettroniche è stata occupata da gallerie e studi, appare un tripudio di sculture, dipinti, manifesti e foto. Eserciti di Mao stazionano sotto le volte che ancora recano gli slogan della vecchia fabbrica «Il Presidente Mao è il rosso sole nei nostri cuori»; «Il Presidente Mao per diecimila e diecimila anni». Nessuno però aveva mai osato ancora quanto i Gao Brothers con la loro Miss Mao, mezzobusto grottesco in fibra di vetro con il volto di Mao Zedong alterato da un naso alla Pinocchio, i dentini aguzzi e il seno di donna. A metà tra Jeff Koons e Disney, anche se molto più dirompente, Miss Mao ha varcato le frontiere per la prima volta nel settembre del 2005 per essere esposta a Londra. Un'esportazione quasi clandestina a causa della censura: l'opera ha fatto infuriare le autorità cinesi perché, naturalmente, tutti i media, Bbc in testa, ne hanno parlato. In Cina Miss Mao non può essere esposta al pubblico; ma nel grande spazio privato dello studio di Zhen e Qiang Gao al 798, la scultura è stata riprodotta in decine di copie differenti, per colore e dimensioni, dalla miniatura fino a un esemplare gigante, alto due metri, semi nascosto da un telo che la avvolge quasi integralmente, senza tuttavia alterarne la fisionomia. Nell'evoluzione creativa dell'opera la mescolanza dei tratti si moltiplica e mette insieme, condensandoli, tutti gli uomini del potere cinese. Cosicché, nell'effigie levigata di più recente produzione, dove il seno cresce a dismisura, si può cogliere anche qualcosa di Deng Xiaoping o Jiang Zemin, ultimo leader della vecchia generazione.
L'opera ha fatto peggiorare il già pessimo rapporto della polizia
con i Gao Brothers. Il governo non ha mai dimenticato la loro firma
sotto un appello del 1989 in favore del dissidente Wei Jingsheng, arrestato in
seguito alla rivolta studentesca di Tian'Anmen. La stretta iniziata allora non
si è mai allentata e la polizia li tiene costantemente sotto controllo e tenta
ripetutamente di cacciarli dal 798 con pretesti
burocratici che i Gao, fino ad ora, sono riusciti a sventare. Una persecuzione
che pende come una spada di Damocle sulla testa dei due fratelli, ma che non
impedisce loro di continuare a creare in libertà.
Anche il passaporto può essergli ritirato in qualunque momento come
avvenne nel 2001 in occasione della Biennale di Venezia, che li aveva
invitati per mettere in scena la performance dell'«Abbraccio collettivo», che
consisteva nell'invitare un centinaio di persone estranee fra
loro ad abbracciarsi per venti minuti consecutivi.
Queste peripezie ce le racconta alla 798 Gao Zhen, 50 anni, di sei anni più anziano del fratello Qiang, con il quale è unito da sempre in un sodalizio artistico cementato dalle comuni esperienze di vita. La più drammatica, quella che li ha segnati in modo indelebile, racconta Zhen, è stata la morte del padre, ucciso dalle Guardie Rosse durante la Rivoluzione culturale, anche se dissero che si era suicidato. La loro Miss però non è una ritorsione, spiega, ma un modo di riflettere sull'ideologia del potere, anche quello attuale, ancora fortemente segnato dal maoismo. Molto forte è anche la tendenza dell'arte contemporanea cinese a ritrarre Mao in modo ossessivo e stereotipato, ma rassicurante per tutti. I due aspetti sono fortemente intrecciati e mescolano insieme cultura, storia e la dimensione onnipresente del mercato. Riguardo alla storia, argomenta Zhen, nonostante sia morto ormai da più di 30 anni, Mao occupa ancora l'immaginario dei cinesi che non ne rielaborano la figura. Il defunto Presidente resta una forte presenza perché l'ideologia corrente, l'apparato di governo, ancora lo usa. Ne è prova il silenzio che tutt'ora avvolge la Rivoluzione culturale. «Nonostante le migliaia di morti e perseguitati, è un tabù linguistico, un punto della nostra storia che viene tenuto oscuro». Per saperne qualcosa bisogna sempre percorrere strade laterali, ricorrere a fonti secondarie. Di questo i fratelli Gao sono ben consapevoli. Stanno cercando infatti di riabilitare la figura del padre, ma le petizioni si arenano come quelle delle altre centinaia di contadini ai quali i Gao hanno dato voce in un libro la cui pubblicazione, tuttavia, è stata possibile solo a Hong Kong. Ma oltre al potere c'è il business. Il Grande Timoniere è molto richiesto e si vende bene. I due fratelli, invece, hanno ignorato l'icona di Mao per anni, concentrati su una produzione artistica eterogenea e straordinaria, realizzata con i più diversi materiali, che li ha resi importanti interpreti dell'arte contemporanea cinese e mondiale, lontana da quella produzione banale e trash oggi tanto di moda e di mercato. Prima di approdare alla grottesca icona di Miss Mao, hanno creato dirompenti allegorie sulla contemporaneità cinese. Con la fotografia usata come medium artistico hanno ripreso figure umane, nude e vestite, in straordinari spazi urbani. Su Mao si erano espressi solo una volta, in modo del tutto controcorrente, attraverso il famoso ritratto appeso all'ingresso della città Proibita rappresentato dal basso verso l'alto in diverse prospettive che rivelavano la lenta rovina della sua icona. La loro rappresentazione delle inquietudini cinesi allinea corpi nudi compressi in spazi claustrofobici, nei quali la prossimità non avvicina ma rende più soli e tristi; moltiplica ossessivamente neonati-bambolotti; distorce in digitale la piazza Tian'Anmen, facendola attraversare dalla moneta che i parenti dei condannati a morte devono versare per pagare la pallottola che ha ucciso il loro caro. Miss Mao rappresenta anche un salto espressivo. Nella loro raffigurazione quel che resta del leader politico è solo la sua portata di «segno», il codice semiotico, «è il Mao interiore e al tempo stesso quello elle appartiene alla memoria collettiva, ma anche quello che ancora esiste nel presente ed è preponderante nei discorsi dei cinesi. Un irrisolto. Uno spauracchio che teniamo chiuso nei nostri armadi». Una presenza inquietante e contraddittoria. Ma perché il seno, e quegli elementi infantili? «Le tette suggeriscono un che di materno. Il naso lungo indica la menzogna. Somiglia a Topolino perché deve richiamare il cartone animato» spiega Zhen. Un richiamo evidente alla Pop art americana degli anni '60 che corrodeva il potere e lo ridicolizzava, anche violentemente; che rifiutando di esprimersi come dettato dall' establishment ne distruggeva i cliché. Infatti, spiega uno dei Gao «È un gioco, serio, sullo stereotipo, riferito al contesto dell'arte contemporanea cinese e all'uso banale che fa dell'immagine di Mao». L'effetto finale turba, ma non spaventa.
«Il mondo, precisa, è pieno di cose spaventose che hanno
un'apparenza innocua. Noi non vogliamo dileggiare Mao. Vogliamo
solo confrontarci con la sua figura, o piuttosto con quello che è diventata
nell'immaginario collettivo, con gli stereotipi che su di essa sono
stati costruiti, con ciò che la contemporaneità deve ancora dire al riguardo».
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